AURIGEMMA, Salvatore
Nacque a Monteforte Irpino il 10 febbr. 1885 da Martino, agiato commerciante, e da Francesca Ortulio. Dopo aver trascorso l'infanzia con la sua numerosa famiglia nel paese natale, all'età di otto anni fu portato a Roma da uno zio sacerdote. Qui frequentò per un decennio un collegio religioso; a diciotto anni, però, decise di abbandonare l'ambiente ecclesiastico pur rimanendo per tutta la vita un cattolico osservante e praticante. Frequentò l'ultimo anno del liceo classico presso un istituto statale dove ebbe come compagno di classe G. Pasquali, con cui strinse una duratura amicizia. Si iscrisse quindi alla facoltà di lettere dell'università di Napoli dove frequentò i primi due anni di corso; trasferitosi poi a Roma, conseguì il diploma di laurea con E. De Ruggiero nel 1906. Nello stesso anno vinse una borsa di studio per la Scuola archeologica italiana di Atene e si recò in Grecia; qui si ritrovò con il Pasquali e conobbe F. Halbherr, che allora dirigeva la missione archeologica italiana di Creta, con cui l'A. visitò l'isola. Proprio in quegli anni lo Halbherr stava cercando di ottenere dal governo imperiale ottomano il permesso di visitare la Cirenaica per ragioni di studio; il permesso per una prima visita venne nel 1910. In quel momento l'A. si trovava impegnato da un anno nel ruolo di ispettore archeologico al Museo archeologico nazionale di Napoli alle dipendenze di V. Spinazzola. Ma l'anno seguente, in procinto di partire per una seconda spedizione in Libia insieme con il berberista F. Beguinot, Halbherr volle portare con sé l'A.: i tre studiosi si recarono in un primo tempo a Bengasi, ma non ottennero il permesso di scavare a Ptolemais (Tolméta) e quindi, in aprile, lasciarono la Cirenaica per la Tripolitania. Qui l'A. rimase fino all'agosto dello stesso anno quando, per evitare di trovarsi coinvolto nell'occupazione del paese da parte dell'esercito italiano, rientrò in patria. Durante questa prima visita in Libia l'A. si mise subito in luce segnalando la presenza del sepolcreto cristiano di Ain Zara e conducendovi nel corso di alcuni mesi dei brevi sondaggi (L'area cemeteriale cristiana di Ain Zara, Roma 1932). Richiamato alle armi poco dopo il suo rientro in patria, tornò in Tripolitania come militare, e vi rimase poi come ispettore alle antichità. Durante la sua permanenza nel territorio occupato l'A. si trovò spesso in situazioni logistiche complesse, con una Tripoli quasi assediata: pertanto dovette limitare il raggio d'azione del suo intervento.
Tra il 1912 e il 1913 fece i primi lavori di isolamento e consolidamento dell'arco di Marco Aurelio a Tripoli che si trovava nel quartiere arabo della città, nascosto da un altro edificio; quasi contemporaneamente (1913-194) terminò lo scavo ad Ain Zara, rilevando oltre sessanta tombe, difese le zone archeologiche di Leptis Magna e Sabratha, individuò la necropoli punico-cristiana del forte nord-ovest di Tripoli e la villa romana di Dar Buc Ammèra nella regione di Zliten: qui, nel corso di uno scavo effettuato nel 1914, mise in luce i mosaici e le pitture parietali (L'Italia in Africa. Le scoperte archeologiche [a. 1911-a. 1943]. Tripolitania, I, I monumenti dell'arte decorativa, 1, I mosaici, Roma 1960; 2, Le pitture d'età romana, ibid. 1962). Durante tutto il periodo della sua permanenza in Libia, l'A. organizzò inoltre un primo nucleo di collezioni antiquariali per il museo di Tripoli che, allestito nell'ex corpo di guardia addossato al castello, fu inaugurato nel 1919.Frattanto, negli anni della prima guerra mondiale, l'A. venne richiamato alle armi, ma rimase in Tripolitania dove si adoperò per evitare danni ingenti alla zona archeologica. Nel 1919 chiese di rientrare in Italia per poter elaborare i dati raccolti durante la sua permanenza in Africa. Tornò quindi, per pochi mesi, a Napoli dove, nel luglio del 1919, sposò la figlia di V. Spinazzola, Maria Giulia (del suocero avrebbe curato in seguito l'edizione postuma di Pompei alla luce degli scavi nuovi di via dell'Abbondanza, Roma 1953). Nel 1920 fuaggregato alla direzione del Foro romano e del Palatino per alcuni mesi, ma alla fine dello stesso anno Spinazzola, che stava conducendo gli scavi di via dell'Abbondanza, lo volle come ispettore a Pompei.
Nel 1923 l'A. ebbe a risentire dell'allontanamento dal servizio dello Spinazzola. Subito dopo, infatti, sempre nel 1923, anche l'A. venne improvvisamente allontanato da Napoli e trasferito alla Soprintendenza alle antichità di Palermo; ma in Sicilia rimase solo per tre o quattro mesi. Nello stesso periodo, frattanto, era stata costituita la Soprintendenza dell'Emilia Romagna, e qui fu insediato l'A. come soprintendente con il compito di creare il nuovo istituto. La destinazione bolognese, che era da intendersi forse come un esilio, si rivelò invece ricca di interessi: si trattava infatti di creare ex novo un organismo complesso quale una soprintendenza alle indagini archeologiche, tra le quali particolare importanza avrebbe avuto quella della necropoli di Spina, i cui scavi erano stati iniziati nella primavera del 1922 e avevano già portato alla scoperta di più di 200 tombe.
Fu proprio questa città emporio, centro di confluenza delle civiltà etrusca, greca e venetica, che vide l'impegno più massiccio dell'A. durante i sedici anni della sua permanenza in Emilia e Romagna. Iniziò a lavorare a Spina nel 1925 e continuò adindagare la Val Trebbia e le paludi di Comacchio per oltre un decennio; contemporaneamente si preoccupò di trovare uno spazio in cui allestire un museo di Spina: con l'appoggio di I. Balbo e con la collaborazione di C. Calzecchi Onesti, allora soprintendente all'arte medievale e moderna per le province dell'Emilia, riuscì a restaurare e organizzare i locali del palazzo di Ludovico il Moro a Ferrara. Il Museo di Spina fu inaugurato nel 1935 e contemporaneamente l'A. pubblicò una guida delle sale di esposizione con riferimento alle sopravvivenze sul terreno e alle fonti antiche (Il Regio Museo di Spina, Ferrara 1935, con una relazione di C. Calzecchi sul restauro).Negli anni della sua permanenza bolognese l'A. effettuò numerosi altri interventi sul campo: scoprì e studiò i monumenti funerari a cuspide della necropoli di Sarsina e ne individuò la cronologia, lavorò al monumento dei Concordii di Boretto, nei centri urbani di Claterna, Velleia e Forum Popili, alla villa teodoriciana di Galeata e realizzò il passaggio in proprietà statale della zona archeologica di Marzabotto; fu particolarmente attento all'attuazione di un piano museografico regionale.
Egli riteneva che fosse più utile creare dei musei locali che servissero a mantenere il contatto diretto tra le antichità e il loro ambiente piuttosto che centralizzare l'esposizione in un unico museo regionale. Pertanto potenziò il museo di Sarsina che perse così il suo carattere di piccola raccolta locale e sistemò quelli di Rimini, Parma, Forlì, Imola, Reggio Emilia e Piacenza. Nella attuazione di questo piano di apertura al pubblico, l'A. si occupò soprattutto di permettere la fruibilità dei reperti e delle scoperte archeologiche anche prima della loro edizione scientifica e di garantire una sicura custodia degli oggetti; tralasciò invece di studiare dei criteri espositivi originali e di maggiore validità.
Un intervento particolarmente significativo compiuto in questi anni dall'A. fu quello che mise in luce le torri tardo-antiche adiacenti all'arco di Rimini: l'A., interpretando il complesso come una porta urbica, fece restaurare le torri. Ma nel 1938, dopo una controversia che aveva visto intervenire studiosi di varia estrazione, la cittadinanza riminese e lo stesso Mussolini, l'allora ministro dell'Educazione Nazionale, G. Bottai, ne ordinò la demolizione. Il fallimento dei suoi tentativi di salvare il monumento amareggiò molto l'A. che, l'anno seguente, chiese il trasferimento a Roma. Nella capitale, nel frattempo, in seguito a una ristrutturazione della vecchia soprintendenza unica, erano stati creati dei nuovi istituti. La destinazione dell'A. fu la Soprintendenza di villa Giulia, dove prese servizio il 1º sett. 1939; vi rimase per circa due anni lavorando soprattutto alla preservazione della necropoli ceretana dai danni dovuti al conflitto mondiale. Nel 1942 gli fu offerta la Soprintendenza di Roma I, quella cioè che si occupava di Roma e del Lazio. Dopo lunga indecisione risolse infine di accettare e si trasferì con la famiglia nella casa demaniale presso il Museo nazionale romano. Nei primi anni l'A. dovette limitarsi ancora una volta a salvaguardare i monumenti dai danni derivanti dagli avvenimenti bellici; non riuscì tuttavia ad evitare che, alla fine del maggio 1944, durante il passaggio delle truppe tedesche, fossero bruciate le navi di Nemi.
Dopo la guerra si adoperò per rimettere in sesto gli uffici e i monumenti che da lui dipendevano: riuscì a riaprire il Museo nazionale romano, ideando una nuova sistemazione delle collezioni e ampliando il numero di sale disponibili per l'esposizione, ottenendo inoltre che le opere per il restauro fossero in gran parte attuate dal Genio civile.
Lavorò poi a Minturno e Terracina e si occupò del restauro del tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina dopo averlo liberato dalle macerie delle case distrutte durante la guerra. Fece acquistare allo Stato il mosaico Barberini, lo trasportò a Roma, e ne curò il restauro.
Per alcune delle sue operazioni più consistenti, l'A. si avvalse dell'aiuto finanziario o di potenziale umano e di macchine di ditte private o enti: si occupò della villa Adriana di Tivoli dando, soprattutto con la collaborazione della Pirelli, un notevole impulso agli scavi del Canopo e alla sistemazione di questo e del Pecile; riuscì a far consolidare la basilica neopitagorica di porta Maggiore, che rischiava un deterioramento irreversibile a causa della ferrovia che la sovrastava, a spese delle Ferrovie dello Stato. Sempre nella stessa zona fu fondamentale il suo intervento al momento della costruzione della stazione Termini il cui progetto prevedeva l'abbattimento o la rimozione di un tratto delle mura serviane: l'opposizione dell'A. fu determinante per la salvaguardia di quel tratto di cinta muraria.
Nei decenni della sua attività scientifica l'A. divenne socio dell'Accademia nazionale di S. Luca, della Pontificia Accademia romana di archeologia e dell'Istituto archeologico germanico; fu anche membro corrispondente dell'Istituto di studi romani.
Il 10 febbr. 1950 l'A. avrebbe dovuto essere messo a riposo, ma il ministero preferì permettergli di reggere la Soprintendenza fino all'estate del 1952. Da questo momento, ancora per qualche tempo, ebbe il titolo di conservatore di villa Adriana, carica che gli consentì di continuare a occuparsi del monumento e di mantenere, fino al 1956, la residenza nella casa demaniale.
L'A. morì a Roma il 1º aprile 1969.
Negli ultimi anni l'A. lavorò alacremente alla pubblicazione di tutti quegli studi che aveva tralasciato mentre era soprintendente: durante quegli anni, infatti, aveva preferito occuparsi a tempo pieno del lavoro sul campo, dimostrandosi più uomo d'azione che studioso da biblioteca. Sono, pertanto, degli anni seguenti il pensionamento alcune tra le sue opere più ponderose, come l'edizione degli scavi di Spina (La necropoli di Spina in Val Trebbia, Roma 1960-1965), dei monumenti di Sarsina (Imonumenti della necropoli romana di Sarsina, ibid. 1963) e di parte delle sue ricerche africane pubblicate nelle citate Le scoperte archeologiche d'Italia in Africa.
Alla sua morte la moglie e il figlio Marcello curarono la pubblicazione di alcune opere ancora inedite (tra queste, L'arco quadrifronte di Marco Aurelio e di Lucio Vero in Tripoli, in Libya antiqua, Suppl., III, Tripoli 1970).
Fonti e Bibl.: Per una bibliografia completa dell'A. si veda Bibliografia scientifica di S. A., a cura di G. Susini, in Studi romagnoli, XV (1964), pp. 227-231, di interesse emiliano e romagnolo, e P. Romanelli, Commemorazione di R. Bartoccini e S. A., in Rend. della Pont. Accad. rom. di archeologia, XXXVII (1964-1965), pp. 29-42.
Sulle attività dell'A. si veda inoltre: G. A. Mansuelli, S. A., in Atti e mem. della Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna, XV-XVI (1963-65), pp. 313-323; N. Finamore, Ricordo di S. A., in Studi romagnoli, V (1964), pp. 223-226; P. Romanelli, R. A., in Boll. d'arte, s. 4, XLIX (1964), pp. 191-192; Id., S. A., in Studi romani, XII (1964), pp. 196-197; G. Caputo, S. A. (1885-1964), in Studi etruschi, XXXIII (1965), pp. 656-657. Notizie biografiche ci sono state fornite anche dal figlio dell'A., Marcello.