CADANA, Salvatore
Originario di Ceva (ignota è la data di nascita), entrò giovanissimo nell'Ordine dei minori conventuali segnalandosi nel 1636 con la pubblicazione a Mondovì di un quaresimale (Sermones quadragesimales), ristampato a Venezia nel 1638, 1641 e 1644. Maestro di eloquenza sacra e buon predicatore, disputato da parecchie corti italiane, il C. acquistò nel 1638 la cittadinanza torinese e fissò la sua residenza nella capitale subalpina presso il convento di S. Tommaso. Da allora raccolse sistematicamente i risultati della sua versatile attività oratoria e di studio in numerose opere di edificazione e devozione religiosa: dal Mariale (Torino 1639; Napoli 1640; Venezia 1642) ai Sermones de Sanctis (Torino 1641), ai Sermones pro Adventu (Torino 1641 e Venezia nello stesso anno), al Regnum hmninum et Angelorum pro reprobatione, et praedestinatione (Torino 1643).
La solida fortuna riscossa fuori dagli Stati sabaudi - altre due opere, il Santuario Commune e l'Octava Sacramentalis videro la luce a Venezia rispettivamente nel 1642 (con un'edizione anche a Bologna nello stesso anno) e nel 1645 - consentì al C. una rapida carriera all'interno del suo Ordine. Da guardiano del convento di S. Tommaso (1642), salì nel 1646 alla carica di ministro provinciale per il Piemonte. Ma già del 1639 era entrato nelle grazie di Madama Reale che lo aveva ammesso al suo servizio prima come teologo di corte, quindi come consigliere del giovane duca Carlo Emanuele II. Da quel momento il C., pur non abbandonando i suoi interessi di apologeta e controversista religioso, si dedicò soprattutto ad opere di trattatistica e divulgazione politica: sono del 1640 i suoi Saggi politici, pubblicati a Torino e dedicati al primo segretario di Stato G. T. Pasero.
Come in altri scritti della prima metà del Seicento, anche nei manuali del C. traspaiono abbastanza chiaramente i criteri ispiratori del più vieto tacitismo: l'intento di conciliare in qualche modo etica e politica, il ricorso all'autorità dei classici per suffragare e garantire decoro e dignità a una casistica quanto mai prolissa e pedante di minuti "insegnamenti morali", il principio della storia ammaestratrice.
Ripartito in venti "dilemmi", Il Principe regnante (Torino 1649), dedicato a Carlo Emanuele II, ripercorre, infatti, l'itinerario classico della letteratura politica della Controriforma, intendendo offrire una serie di "massime politiche, ch'introdur deve il principe cattolico coll'indirizzo della pietà, e d'un christiano reggimento, a ben governare que' popoli che le sono dal Sovrano Monarca Divino commessi".
Scontato il richiamo al principe perché "non permetta nel suo Stato diversità di religione, professi la divina legge, viva catholicamente", alquanto supefficiali, e certamente contraddittori rispetto al clima della reggenza, di rivalsa e di predominio aristocratico, risultano gli appelli del C. affinché il sovrano "non ingrandisca i favoriti a dismisura" e "non ammetta nelle carighe la continuatione ne ministri, ne senatori longo governo, e facci l'ufficij temporanei, e li governi subannali".
Assai più interessanti, e meglio intonati agli incipienti programmi di ripresa dell'assolutismo burocratico e del mercantilismo, sono gli orientamenti che emergono da un'opera successiva del C., Il Principe avvisato, pubblicata a Torino nel 1652 e dedicata alla duchessa Maria Cristina. Se parecchi dei diciotto "avvisi" di cui si compone il trattato risentono di una pedagogia politica alquanto spiccia e sommaria, appena orecchiata, non mancano tuttavia per un buon terzo dell'opera osservazioni realistiche e puntuali sulla gestione dello Stato, specialmente sotto il profilo amministrativo e finanziario.
Lo stesso esordio del Principe avvisato, con un richiamo senza infingimenti morali al denaro quale nerbo e forza dello Stato, dimostra del resto la singolare evoluzione compiuta dal C., quando ancora qualche anno prima, come egli stesso scriveva, aveva avuto per unico "indirizzo il Vangelo, e per tramontana la Scrittura". Nel primo "avviso" egli affermava esplicitamente che "la salvezza del principato e la sicurezza del principe, sono l'adunanze de tesori, l'acumulanze d'argento, ed oro, l'haver ne gl'erarij più sicuro albergo l'oro, coniato più col marco de principi, che non fu effigiato in un Dio su l'altare".
Il C. intendeva dimostrare, sulla scorta di molteplici esempi derivati dall'antichità classica, che "non solo è lecito a Principi il cumular tesori, ma di più è debito, mentre per sicurezza de' suoi stati sono obbligati di farlo; li bisogni straordinarij, che da un'hora all'altra arrivano a chi governa, l'obbligano ad aver sempre alle mani una grossa provisione d'argento ed oro, con cui ad ogn'altro mancamento supplendo, trovi sempre che dare agl'amici, e che opporre a' nemici".
Da queste premesse il C. traeva la convinzione che ammassar moneta e ricercare nuove fonti di ricchezza fossero compito fondamentale di ogni "buon governo". Lo imponevano non soltanto le crescenti necessità dell'esercito e dell'amministrazione, ma i principi più elementari della ragion di Stato: dal momento che - egli osservava - "penetra l'oro il penetrabile della libertà, investendo corruttore le più secrete, e le più recondite, parti del seno dell'humanità" e "alla veliemenza dello strepito di grave massa d'oro cadente dall'erario di gran Principe, sviscerate cadono le cime delle rocche più superbe, e si spalancano i petti impenetrabili de' Grandi, per altro incorruttibili e fedeli". Né la dottrina della Chiesa era contraria, in via pregiudiziale, a che il sovrano si prodigasse per accrescere il suo patrimonio quando avesse di mira, con "l'utile e il comodo proprio", anche il bene comune dei sudditi.
Il riconoscimento del legame sempre più stretto fra economia e politica si innestava peraltro in un discorso di ordine più generale sulla gestione del potere e sui rapporti fra le classi sociali assai schematico e, in ogni caso, estremamente arretrato sotto il profilo politico. Nelle concezioni del C. non trovarono posto infatti né l'incentivo allo sviluppo di nuove forze economiche (per sicurezza del principato - egli scriveva nel quattordicesimo "avviso" - non si devono permettere in sudditi ricchezze eccedenti, né facoltadi straordinarie né posse torreggianti… ma li contenga in una ricchezza ordinaria, in facoltadi, e forze proporzionate; vi sia tra il potere del principe ed il vassallo disuguaglianza infinita e vasto intervallo), né il consenso alla promozione di una fresca borghesia di toga: sicché egli consigliava il principe ad esser "cautelato nello stabilimento de' giudici, e magistrati, elega mai sempre nelle carighe d'alti affari e governi grandi, persone di Sangue illustre, di natali ragguardevoli, e di qualità conosciute; non ammettendo mai a simili fonctioni di governi e giudicature persone vili e basse, né di prosapie sconosciute e neglette, sordide e vili". L'ideale del C. era piuttosto uno Stato retto attraverso la mediazione di un'aristocrazia meritevole di fiducia più che per autentiche capacità politiche per la saggezza e la prudenza della sua canizie ("la vecchiaia è tutela dello scettro"), fedele e devoto alla "santa dottrina della Chiesa", sufficientemente provvisto di mezzi, parsimonioso e morigerato (in cui non "signoreggino i lussi e trionfino le libidini"), di "moderata grandezza" quanto a dimensioni territoriali: onde il principe si sarebbe dovuto quindi accontentare di possedere tanti paesi "quanti - scriveva - un buon pastore li possa vedere con l'occhio, governarli colla verga, e regerli col fischio".
Ciò non toglie - come osserva il Bulferetti - che l'opera del C. ebbe ad esercitare nella formazione del giovane duca Carlo Emanuele II, almeno per gli indirizzi di sapore più decisamente mercantilistico, un'influenza ben più durevole di quella del precettore ufficiale di corte, il gesuita Giuglaris, e che le sue osservazioni in materia finanziaria finissero per rafforzare gli orientamenti espressi negli anni immediatamente successivi, sia pur sulla scorta del più convincente modello colbertista, da esponenti politici come il Truchi, intesi a consolidare il demanio della corona e a migliorare con ogni mezzo l'assetto delle finanze statali.
Il C., che fu accademico degli Incogniti di Venezia e conservò a Torino sino al 1649 l'incarico di ministro provinciale dei minori osservanti, continuò a occuparsi anche di teologia e di diritto canonico. Fra le sue ultime opere ricordiamo le Collectiones Bullarum et Sacrae Congregationis Decreta (Torino 1649) e gli Arcana Coelestia de tribus operationibus intellectus (Torino 1650). Ma assai maggiore notorietà, per quanto postuma e del tutto estranea ad ogni giudizio di merito, ebbero due suoi lavori precedenti: il quaresimale del 1636, già ricordato, e i Dubia spiritualia (in quattro tomi, pubblicati a Torino nel 1642 e ristampati a Venezia nel 1643), posti entrambi all'Indice rispettivamente nel 1658 e nel 1662, non tanto perché propugnassero tesi eterodosse in materia dottrinaria, quanto piuttosto per le audaci licenze del C. nell'utilizzazione delle sentenze di alcuni antichi padri e dottori della Chiesa. Delle sue opere politiche, solo IlPrincipe regnante ebbe una seconda edizione, a Torino nel 1652. Morì a Chambéry nel 1654, quando era già stato designato per un vescovado, reduce da una missione diplomatica presso la corte portoghese cui era stato inviato dalla reggente in compagnia di un altro francescano, padre Bernardino da Vigone.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Sezione I, Lettere Particolari, C, mazzo 1; G. F. Loredano, Le glorie de gli Incogniti o vero gli huomini dell'Academia de' signori Incogniti di Venezia, Venezia 1647, pp. 393-95; A. Rossotti, Sillabus scriptorum Pedemontis, Montisregali 1667, ad vocem;O.De Rossi, Scrittori piemontesi savoiardi nizzardi, Torino 1790, pp. 101, 170; Sigismondo da Venezia, Biografia serafica…, Venezia 1846, p. 699; G. Olivero, Memorie storiche della città e marchesato di Ceva, Ceva 1858, pp. 119-21; F. Cavalli, La scienza politica in Italia, II, Venezia 1881, pp. 428-29; L. Wadding, Scriptores Ordinis Minorum, Roma 1906, p. 208; G. G. Sbaraglia, Suppl…. ad scriptores trium ordinum S. Francisci a Waddingo… descriptos, III, Romae 1906, p. 78; F. Maccono, La parrocchia e il convento francescano di S. Tommaso in Torino, Casale Monferrato 1931, pp. 146-47, 150-51; T. Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma 1949, pp. 184-85, 195, 197; L. Bufferetti, Assolutismo e mercantilismo nel Piemonte di Carlo Emanuele II (1663-1675), in Mem. dell'Acc. delle scienze di Torino, s.3, II (1953-1954), 2, pp. 2 ss.