CONTARINI, Salvatore
Nato a Palermo il 6 agosto del 1867 da Giuseppe e da Chiara Ras, vi si laureò in legge il 10 luglio 1889, ed entrò come volontario al ministero degli Esteri in seguito a concorso il 15 febbr. 1889. Le sue prime esperienze, come segretario particolare del conterraneo marchese Antonio di Rudinì, parteciparono del clima antiespansionista ed anticoloniale di quel ministero (1891-92).
Si vuole che la sua conversione all'"africanismo" avvenisse in occasione di una visita del Rudinì a Palermo e nascesse dalla constatazione che la sua Sicilia ora in testa alle province italiane nel rappresentare le istanze di espansione sulla "sponda libica". Incaricato in quella occasione di collazionare il discorso che il Rudinì doveva pronunciare a Palermo, consigliò di inserire chiari accenni alle aspirazioni italiane in Africa: suggerimenti che, in parte accolti, diedero al discorso ampia risonanza in Italia e all'estero.
La direttiva africanista che veniva prendendo consistenza in quegli anni lo rese bene accetto ai crispini e lo confermò al gabinetto degli Esteri nei ministeri che seguirono, sotto la direzione dell'ammiraglio Benedetto Brin e del marchese Alberto Blanc, entrambi fiancheggiatori della linea crispina in Africa.
Rinunziando volentieri alle missioni all'estero, si legò al piccolo ufficio africano, "semi-clandestino ospite" dei mezzanino della Consulta, appunto nel periodo in cui questo ufficio "salì al primo piano, invase il gabinetto, assediò la direzione generale, fu intrigante e onnipresente, torturò i ministrì, diventò motore di politica nuova" (Legatus). Vi fu alle dipendenze di G. Agnesa, vecchio e autorevole funzionario tenace assertore del colonialismo con lo esclusivismo tipico degli africanisti di allora. Dopo il tracollo di Adua il C. fu impiegato nella sistemazione dei famosi "malintesi" fra l'Italia e il regno d'Etiopia per l'interpretazione dei trattato di Uccialli e divenne il redattore di fiducia dei documenti che dovevano condurre alla chiarificazione nel trattato di Addis Abeba (ottobre 1896).
Negli sviluppi della politica estera italiana durante i tre lustri che intercorrono tra Adua e Tripoli e che vedono l'Italia gradualmente liberarsi dai pesanti vincoli triplicisti per collegarsi con l'organizzazione della Intesa, lo ufficio coloniale di Agnesa e dei C. ebbe un ruolo tutt'altro che secondario: tenendo ad obbiettivo l'accrescimento della potenza internazionale italiana, il consolidamento e lo sviluppo delle posizioni africane in Eritrea e verso l'Etiopia furono perseguiti in un clima d'intesa e di cordialità europea; mentre reciprocamente il potenziamento della politica africana e l'aumentato prestigio che ne derivava assicuravano all'Italia un accrescimento delle amicizie europee ("Da Adua a Tripoli facemmo politica europea in Africa e politica africana in Europa... Tutto quello che davamo in Africa di danaro, di sangue e di rischi, essa ce lo rendeva in Europa in influenza, amicizie e solidarietà. Circolo vizioso, sembra: ma che bel vizio l'Africa, nella politica estera del Paese che cresceva..." (Legatus). Fu la politica che preparò la campagna di Libia e che nel 1914 aveva riacquistato all'Italia la sua piena libertà di azione internazionale.
Capo di gabinetto del sottosegretario di Stato agli Esteri principe Pietro Lanza di Scalea - a cui faceva capo il gruppo dei siciliani della Consulta - si vuole che la preparazione diplomatica dell'impresa fosse condotta sotto l'impulso da lui dato: "Credo di non esagerare - ha scritto il Varè - nel dire ch'egli forzò la mano a Giolitti e creò una situazione tale da rendere inevitabile, per parte nostra, l'occupazione di Tripoli, della Cirenaica e del Dodecanneso". Ebbe poi opportunità di manifestare la sua qualità di diplomatico "di razza" in quella delicata fase in cui, alla fine della guerra, si trattò di ottenere il riconoscimento internazionale al decreto di sovranità sulla Tripolitania. Poiché Berlino e Vienna tardavano a dare il riconoscimento, il C. fu l'anima di un'azione diplomatica svolta presso Pietroburgo: il riconoscimento russo arrivò primo ed ebbe l'effetto auspicato di provocare immediatamente quello dei partners centroeuropei dell'Italia. Al riconoscimento degli alleati della Triplice il C. ottenne poi che fosse data la precedenza nella pubblicazione, facendo leva sull'amicizia italo-russa.
Dopo la breve esperienza di segretario di legazione ad Atene tra il giugno e lo ottobre del 1895 - si dice che in quella occasione il C. conoscesse D'Annunzio e Scarfoglio in crociera nell'Egeo e solidarizzasse con quest'ultimo sulle direttive della politica coloniale - il C. tornava in missione all'estero nel 1912 a seguito di un incidente con Giolitti e delle vivaci lagnanze di questo al ministro degli Esteri. Antonino di San Giuliano decideva allora la sua promozione ut amoveatur alla direzione della missione italiana di Lisbona che il C. avrebbe tenuto fino alla caduta del gabinetto Giofitti nel 1914.
Richiamato a Roma dal San Giuliano, il C. mantenne la direzione degli Affari generali durante tutto il corso della guerra; gli affari politici veri e propri restavano però affidati al gabinetto, altra essendo la équipe del Sonnino, la quale faceva capo a Giacomo De Martino. Né il C. parteciperà alla contrattazione e alla conferenza della pace. Manterrà anzi un atteggiamento assai critico verso la politica sonniniana, della quale rilevava la troppo accentuata tensione attorno alla "questione adriatica" a costo di un gravissimo isolamento internazionale e con sacrificio di altri interessi nazionali che a lui parevano non meno essenziali.
Sensibile ai grandi vantaggi conseguiti dall'Italia per effetto della vittoria con la demolizione dei grande nemico storico della nostra unità, con il conseguimento delle frontiere nazionali, con l'accrescimento del ruolo di potenza accanto alle maggiori alleate dell'Intesa, il C. lamentava piuttosto che la diplomazia italiana non avesse saputo trarre dalla vittoria il vantaggio di stringere più efficaci legami di collaborazione e di costruttiva azione comune con l'Inghilterra e con la Francia in Europa, da cui potesse prendere le mosse un nuovo cielo di sviluppo nazionale, in specie coloniale, accanto a quelle potenze.
Dal 29 maggio 1919 presidente della Commissione interministeriale e del Comitato permanente per l'azione economica all'estero, fu incaricato dal 1° genn. 1920 della funzione di segretario generale agli Esteri essendo capo del governo F.S. Nitti e succedendosi agli Esteri T. Tittoni e V. Scialoja, in un momento di grande instabilità interna. Nel nuovo ed importante ruolo di segretario generale si impegnò a sottrarre l'Italia dall'isolamento riallacciando migliori rapporti con l'Inghilterra e con la Francia, ma ponendo la massima cura anche nei confronti di quegli Stati di seconda grandezza, in specie i successori danubiano-balcanici del dissolto Impero asburgico, con cui più aspre erano le tensioni. Il Nitti (giugno 1919-giugno '20) lo nominò consigliere di Stato consolidando la sua posizione di indipendenza personale dal ministro degli Esteri; appoggiò, inoltre, la sua tesi che i rapporti economici con le altre potenze dovessero essere sempre rappresentati dal ministero degli Esteri e non dai dicasteri economici, in modo da realizzare un più organico collegamento con i rapporti politici.
Nei confronti dell'impresa fiumana e dei modi dell'azione di D'Annunzio il C. fu critico più per il modo che non per la sostanza dell'azione, ritenendo che solo per suo effetto la questione della città adriatica giungeva ancora impregiudicata al convegno di Rapallo. Bonomi, allora ministro della Guerra, che condivideva in larga misura tale giudizio, fu da lui invitato ad esporlo pubblicamente, ciò che il ministro fece in una intervista al Giornale d'Italia.
Nutriva - è stato detto - idee vicine a quelle dei nazionalisti, in specie alla corrente moderata che aveva il maggior rappresentante in Luigi Federzoni e che si richiamava alla diplomazia del San Giuliano, il quale aveva assegnato all'espansionismo italiano una direttrice mediterranea e africana (Carocci). Per questi imperialisti moderati il luogo naturale dello espansionismo italiano era nel Mediterraneo orientale, mentre assegnavano - così il C. e così più tardi e con ottica alquanto diversa Dino Grandi - alla politica danubiano-balcanica il compito precipuo di provvedere alla stabilizzazione e alla sicurezza continentale dell'Italia. Questa linea si inquadrava negli schemi del colonialismo classico e, come quello, presupponeva una relativa solidarietà europea.
Dal giugno del '20 al giugno del '21 il C. collaborò all'ultimo governo di Giolitti da giolittiano convinto, come esponente di quella direzione politica liberale che vedeva in Giolitti il proprio leader e che non mancava di una omogeneità di riferimenti. Il suo pensiero politico, generico ed empirico, era quello di un alto funzionario dello Stato: uomo d'ordine, alquanto conservatore, rispettoso dei valori religiosi - e tuttavia significativamente contrario al concordato secondo la tradizionale linea laica dei liberali ancora rappresentata dal Giolitti -, tradizionalista "da autentico siciliano" e monarchico irremovibile. Fedele servitore dello Stato nella sua continuità essenziale al di sopra di partiti ed ideologie, "non conobbe e non sentì mai rancori di parte, avversioni personali, incompatibilità umane derivanti dalla politica. Il suo ufficio di segretario generale accoglieva senza epurazioni arbitrarie socialisti e nazionalisti, liberali e cattolici, clero e massoneria" (Legatus).
La collaborazione con il conte Carlo Sforza, prima sottosegretario nel gabinetto Nitti poi ministro degli Esteri con Giolitti, fu piena e proficua: impegnato a !ondo nella pacificazione adriatica che si sarebbe conchiusa con il trattato di Rapallo (12 nov. 1920) e presidente nella commissione addetta ai lavori per la stipulazione del trattato, Sforza avrà a ringraziarlo per la collaborazione in quella politica ottenendogli la nomina a senatore del Regno (8 giugno 1921). Dal 2 febbr. 1921 è incaricato di dirigere e coordinare le cinque commissioni previste dal trattato; e il 2 marzo 1923, essendo ora ministro degli Esteri Mussolini, sarà incaricato di dirigere e coordinare i lavori della delegazione italiana alla commissione mista per le questioni relative a Fiume.
Tuttavia anche la collaborazione con lo Sforza richiese al C. un certo adeguamento: il metodo seguito dallo Sforza di "inquadrare ogni problema italiano in un panorama europeo", di non impegnarsi su un problema o su un interesse italiano se non dopo aver trovato la maniera di presentarlo, tutelarlo e affermarlo come parte di un più vasto interesse europeo non era il metodo della diplomazia classica, che operava secondo il criterio di negoziare ogni cosa a sé e per sé; era l'insegnamento nuovo scaturito dalla diplomazia della guerra, dal trattato dì Versailles e dalla scuola democratica. Né può dirsi che il C. lo abbia mai veramente assimilato: proverbiale la sua osticità ai nuovi metodi della Società delle nazioni. Il trattato di Rapallo fu, comunque, frutto di una intima e brillante collaborazione tra le due personalità, peraltro assai differenti.
Dal luglio dei '21 al febbraio del '22 era ministro degli Esteri, nel gabinetto Bonomi, Pietro Tomasi della Torretta, come il C. siciliano, e legati entrambi da comuni precedenti e riferimenti al San Giuliano, altro siciliano illustre.
Nell'autunno dei '21 si era acutizzata la "questione albanese" a seguito di pressioni irredentiste iugoslave e greche che minacciavano l'integrità di quel paese nei cui confronti l'Italia era la potenza più direttamente interessata. La posizione italiana era resa difficoltosa dalla esigenza di contemperare la salvaguardia degli interessi in Albania con le buone relazioni appena avviate con la Iugoslavia e con la Francia, la quale sarebbe indubbiamente intervenuta a favore di Belgrado. Incaricato dal della Torretta di sollevare la questione alla Conferenza degli ambasciatori che si riuniva a Parigi in conseguenza dei trattato di Versailles, il C. riuscì ad ottenere dalla Lega delle nazionì che l'indipendenza albanese fosse posta sotto garanzia ìnternazionale. La Lega avrebbe quindi affidato all'Italia il mandato di difendere l'Albania in caso di attentato alla sua integrità territoriale, ciò che equivaleva al riconoscimento del preminente ìnteresse italiano, strategico ed economico, ad esclusione di ogni ingerenza iugoslava e greca; e ad esclusione, beninteso, anche di una politica italiana di sbarchi e occupazioni che avrebbe provocato un focolaio permanente di conflitto con i vicini balcanici. Era il successo della linea che il della Torretta e il C. avevano a suo tempo mutuato dal San Giuliano, intesa a che l'Albania non divenisse né base italiana contro i Balcanici né base balcanica contro l'Italia, bensi base per una nostra pacifica penetrazione economica nei Balcani. La questione sarebbe divenuta nel giro di qualche anno pietra di paragone della compatibilità per il C. a mantenere un ruolo di responsabilità nella politica estera fascista.
Al momento del trapasso di regime, la figura del C. all'interno della Consulta è quasi mitica, circondata da fama di non comune energia e di straordinaria abilità. A lui faceva capo un gruppo di intelligenti esponenti della "carriera": De Martino, Attolico, Medici del Vascello, Aldrovandi Marescotti, Orsini Baroni, Cerruti, Galli, Arlotta, Guariglia, Lojacono, Paulucci de Calboli, Rosso, Chiaramonte Bordonaro; dominava di fatto la politica estera italiana. Noto per alcuni tratti peculiari della personalità ed abitudini: gli orari di lavoro quasi impossibili, il cattivo carattere, la natura schiva, casalinga, sedentaria e provinciale, il precoce invecchiamento, le poche parole, viene al tempo stesso ricordato come una sorta di invisibile e silenzioso nume, potentissimo direttore e supervisore di ogni cosa, grande negoziatore politico: "lottatore di non comune vigoria..., versatile nel negoziare, avviare, sollecitare, rallentare, concludere e sconcludere negoziati" (Legatus). Nota poi la sua irriducibile avversione per la carta scritta o stampata - si può dire che nel corso della sua carriera abbia redatto sì e no una decina di documenti preferiva in genere rivedere telegrammi, rapporti e memorie redatti da altri, e le modifiche che egli vi apportava erano essenziali. Lo si ricorda dotato di straordinaria sensibilità politica e diplomatica, e sempre capace di trovare le formule più adatte e opportune per affrontare ogni circostanza dalla prospettiva più vantaggiosa. Al C. interessava che la posizione internazionale dell'Italia fosse rinforzata, ma che ciò avvenisse senza provocare brusche scosse in quel sistema europeo nei cui equilibri il C. era abituato a visualizzare la dinamica italiana secondo gli schemi della diplomazia tradizionale. L'Italia era dalla parte dei paesi vincitori e partecipava ai vantaggi di tale posizione. L'obbiettivo era di farvela partecipare in misura maggiore operando nell'ambito delle alleanze ed intese esistenti: finché tali linee sembrarono salvaguardate, il C. non avanzò pregiudiziali alla collaborazione con Mussolini.
Il 31 ott. 1922 Mussolini prendeva possesso dei portafogli degli Esteri. L'atteggiamento del C. nei confronti del nuovo governo che si insediava è stato fatto oggetto di attenzione particolare per il ruolo importante che la politica estera del periodo cosidetto "contariniano" avrà nell'accreditamento internazionale del regime. Tale atteggiamento ripropone in ambito specifico le note ambiguità addebitate alla vecchia classe dirigente liberale, la cui disponibilità a collaborare si fondò sull'ipotesi della transitorietà del fenomeno, della propria capacità a contenerlo e riassorbirlo; e in tale prospettiva "valutando positivamente la funzione di un governo forte".
Il giudizio più favorevole è quello che vuole il C. attivo resistente dall'interno agli umori del nuovo regime ("Assunse in nome di tutto il vecchio mondo liberale, tramortito o impecorito o entusiasta del fascismo, o andatosene fuori dei Paese, la direzione della resistenza attiva contro la cosidetta politica nuova, e trasformò la Consulta in una valorosa fortezza..."; Legatus).
È possibile che sul principio alla Consulta prendesse vento l'ottimistica ipotesi della felice combinazione tra un Mussolini che seguiva volentieri gli avveduti consigli del C., utilizzandoli per i suoi propositi, e un C. lieto di avere nelle mani uno strumento vigoroso e assai più efficace e incisivo in politica internazionale di quanto non si fossero dimostrati i deboli e precari governi che lo avevano preceduto. Mussolini lasciò, finché gli convenne, al C. e ai suoi burocrati il ruolo di copertura e di accreditamento internazionale durante il delicato periodo del consolidamento del regime, e consenti in questo periodo che gli elementi di continuità dessero l'impronta, impedendo la immediata affermazione delle correnti estremiste del partito.
Un raro documento dei segretario generale al conte Sforza, ambasciatore a Parigi dimissionario alla fine dell'ottobre del 1922 per dichiarata incompatibilità politica con Mussolini, testimonia della sensibilità del C. ai problemi dei trapasso di governo e della risposta che ad essi egli diede: "Sarebbe un errore - scriveva allo Sforza, cercando di stornarne le dimissioni - abbandonare [Mussolini] preventivamente di fronte a forze che lo spingerebbero in senso opposto. Il tuo atto crea da un lato maggiori complicazioni a Belgrado [cioè nei rapporti italo-iugoslavi: un perno essenziale della politica estera avviata da Sforza] e dall'altro renderà più difficile in Italia condurre il fascismo in una via di moderazione" (I docum. diplom. italiani..., s. 7, I, doc. 1). Secondo il biografo del C., appena inseritosi al governo, Mussolini avrebbe offerto al segretario generale il portafogli degli Esteri, ma l'esattezza dì tale affermazione è stata contestata (Moscati). Consta tuttavia che Mussolini si accontentò inizialmente di essere allievo al C. secondandone, sia pure con le impennate caratteristiche dell'uomo, la linea.
Nonostante i limiti rilevati alla sua azione, resta incontestabile che il C. sì assunse e sostenne nei primi anni del fascismo l'onere non lieve di garantire alla politica estera italiana una sostanziale continuità con la linea tracciata dai governi tardo-liberali ed in specie dallo Sforza nel settore balcanico: è stato riconosciuto da autorevoli contemporanei di parte diversa quali il Salvatorelli e il Salvemini; si riscontra nella memorialistica di alti diplomatici che in quegli anni furono vicini al segretario generale, quali il Cantalupo e il Guariglia; risulta, d'altro canto, per essere stato polemicamente rinfacciato al Mussolini dall'ala estremista slavofoba dei partito, la quale per bocca del deputato Giunta avrà a dichiarare alla Camera che l'unione di Porto Baros alla Iugoslavia in esecuzione degli accordi intercorsi era "la politica di Sforza applicata al fascismo, cioè da Contarini" (Attiparlamentari. Camera dei deputati, Discussioni, tornata del 18 giugno 1925, p. 4264; cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, II, Torino 1968, p. 52).
La politica estera dei "periodo contariniano" (1922-1926) può riassumersi in tre punti: prosecuzione e svolgimento dell'accordo italo-iugoslavo; rassodamento delle ristabilite buone relazioni con l'Inghilterra e sviluppi pratici di queste; partecipazione alla politica franco-inglese di pacificazione e di equilibrio europeo. E stato però osservato che in ognuno di questi tre punti l'indifizzo, contariniano, ed ufficialmente mussoliniano, si trovò ad essere contrastato e deviato dalla politica personale di Mussolini, la quale pur accettando la lettera contariana ne svuotava o, almeno, tendeva a svuotarne lo spirito, e procedeva anche segretamente per suo conto. È anche da rilevare che la direttiva contariniana si distaccava alquanto dalla impostazione dello Sforza circa lo spazio fatto alla intesa con la Francia nella spartizione dei ruoli nella politica continentale: la ricerca da parte del C. di una salda intesa con l'Inghilterra - già patrocinata dal della Torretta e da Carlo Schanzer - conteneva una punta antifrancese che Mussolini avrebbe nel tempo accentuato con implicazioni generali eversive.L'influenza del C. appare evidente in uno dei primi atti compiuti da Mussolini come ministro degli Esteri: il 31 ott. 1922 ordinò ai fascisti di Fiume di mantenersi calmi e di non creare complicazioni., deludendo le speranze di quelle frange ultranazionaliste che speravano in una crociata per la Dalmazia. Il 16 novembre Mussolini assicurò al Parlamento che i trattati di pace sarebbero stati rispettati, di conseguenza accettando le convenzioni per l'applicazione del trattato di Rapallo stipulate a Santa Margherita dallo Schanzer. La conferenza di Losanna per la pace con la Turchia (luglio 1923) fu un altro grande successo della politica contariniana che aveva fatto perno sull'intesa italo-inglese e che aveva trovato Mussolini in tutto docile: il trattato maturava all'Italia la definitiva attribuzione del Dodecanneso. Mussofini intendeva dare risalto al successo con l'invio di una squadra navale a prendere solenne possesso delle isole, ma ne fu dissuaso dagli alti funzionari della Consulta, che intanto si era trasferita a palazzo Chigi. Ciò che il C. era riuscito ad evitare in quella occasione non riuscirà'ad evitare subito dopo, in occasione dei massacro della missione militare italiana inviata dalla Conferenza degli ambasciatori al comando del gen. Tellini, a delimitare il confine greco-albanese: senza consultarsi con il ministero, Mussolini diresse il 29 agosto un ultimatum al governo greco con una serie di umilianti richieste, e in mancanza di una piena immediata soddisfazione inviò una squadra navale ad occupare Corfù: questa bombardò l'isola provocando numerosi morti e feriti. Il C., che era stato tenuto completamente estraneo all'azione militare, rese vigorosamente nota al governo la sua indisponibilità a partecipare oltre ad una tale politica di colpi di testa, e si allontanò da Roma. Sollecitato quindi dall'Inghilterra e dalla Francia ad impedire che la crisi precipitasse dopo l'invio della squadra navale britannica nelle acque elleniche e l'ingiunzione al ritiro della squadra italiana, pose come condizione che Mussofini gli lasciasse ogni ulteriore iniziativa e responsabilità, accettando la soluzione che egli avrebbe concordato. Mussolini era completamente isolato e disposto ad ogni via d'uscita che non comportasse una catastrofe: il C. guidò dunque a soluzione la crisi internazionalizzando la vertenza italo-greca e trovandole una soluzione soddisfacente per entrambe le parti nella conferenza degli ambasciatori. Ma l'incidente di Corfù, oltreché tradursi in una grave incrinatura del buon accordo con l'Inghilterra, delineava le crescenti difficoltà di una collaborazione in cui il C. era sospetto di prestarsi ad un preordinato "gioco delle parti" nel quale era Mussolini ad avvantaggiarsi.
Gli accordi italo-iugosiavi firmati a Roma il 27 gennaio del 1924 tra Mussolini, il presidente del Consiglio N. Pasic ed il ministro degli Esteri M. Nincic si componevano di un accordo per Fiume e di un patto di amicizia che nelle intenzioni dell'esperto C. avrebbe dovuto rappresentare la continuazione della migliore politica di pacificazione con la Iugoslavia, aprendo vaste prospettive ad una penetrazione pacifica della influenza e dell'attività italiana nei Balcani. Tutto stava che l'accordo venisse applicato in uno spirito sincero, ed a ciò Mussolini si mostrava disposto nel corso del cruciale 1924 contraddicendo ai propri precedenti slavofobi e fiuniani, incorrendo nelle aspre critiche dell'ala "dalmata" del partito e mettendo il freno alle aspirazioni revisionistiche dei nazionalisti i quali proprio allora, entrando nel partito fascista, stavano diventando gli ispiratori della sua politica estera. Ma la politica di intesa italo-iugoslava patrocinata dal C., favorendo il consolidarsi dello status quo internazionale e la stabilizzazione della Iugoslavia, perseguiva obbiettivi alla lunga inconciliabili con le enunciazioni e con le forze che avevano portato Mussolini al potere. Dalla fine del 1924 il C. apprese che fuori del ministero degli Esteri andava occultamente determinandosi nel campo balcanico un'azione antagonista alla politica da lui perseguita: accertò che si lavorava segretamente ai danni della Iugoslavia per tramite della organizzazione separatista croata nell'intento di indebolire la compagine generale ed attrarre verso l'Italia le popolazioni cattoliche e colte della Croazia occidentale.
Un ruolo particolare ebbero gli sviluppi della questione albanese: il presidente della Repubblica Zogu, non soddisfatto dei vantaggi economici concessigli dall'Italia, miráva ad ottenere garanzie politiche che rischiavano di coinvolgere la politica italiana nell: mene balcaniche dell'ambizioso presidente albanese. Il parere del C. era che l'Albania non dovesse diventare il pomo della discordia tra l'Italia e la Iugoslavia, né causa di rottura dell'equilibrio adriatico, e, per conseguenza, mediterraneo. Se l'Italia avesse forzato la sua posizione a Tirana, avrebbe portato la Iugoslavia a reagire: pertanto doveva praticare una politica albanese che si inquadrasse nella politica con la Iugoslavia; se forzava quella, rompeva questa (Legatus, Pastorelli, Di Nolfo).
I consiglieri estremisti di Mussolini erano invece ipnotizzati dalla prospettiva della assoluta padronanza italiana dell'Adriatico - tale il concetto a cui si ispirava ad es. l'opera di A. Lessona -, ed attribuivano una importanza esagerata al dominio politico sull'Albania. Delle trattative segretissime che, mediatore il Lessona, si vennero svolgendo nei primi mesi dei '25 palazzo Chigi fu tenuto dei tutto estraneo. Il C. conobbe le clausole militari dell'accordo quando Mussolini aveva già apposto la sua firma al testo dei trattato che Lessona gli aveva recato da Tirana e riuscì ad annullarne la stipulazione. Ma fu l'ultimo successo della linea contariniana. Quando, poco ternpo dopo, Mussolini tornò ad occuparsi dell'Albania il C. coglierà il primo pretesto per dimettersi; ed a seguito dell'accordo di Tirana (27 nov. 1926) si dimetterà lo stesso Nintiè che al pari del C. aveva legato la propria politica alla buona intesa di Rapallo. L'imbocco della politica di espansione in Albania e nei Balcani avrà l'effetto di acuire la tensione italo-francese in quello scacchiere e l'antagonismo al livello europeo generale.
Con il 1925 la crisi di stabilizzazione del regime era superata ed aumentarono le pressioni degli estremisti del partito perché anche l'amministrazione degli Affari Esteri non si sottraesse alla completa fascistizzazione dello Stato. La chiamata di Dino Grandi a sottosegretario degli Esteri sembrerebbe una risposta a quelle pressioni dell'ala farinacciana e coincide con il rovesciamento, nel corso del 1926, della politica di amicizia e di collaborazione con la Iugoslavia. L'ultimo atto della politica estera contariniana, ed il più brillante, si realizzò nell'indirizzo imposto alla partecipazione italiana alle trattative di Locarno (febbraio-ottobre 1925) in forte tensione con l'orientamento di Mussolini.
Il patto renano tra Parigi e Berlino manifestava la tender= delle Potenze occidentali a scaricare la tensione tedesca verso il SudEst europeo. La prima reazione di Mussolini, nel discorso del 20 maggio 1925. era stata violenta e conteneva la richiesta di irrealizzabili garanzie della indipendenza austriaca e della frontiera al Brennero, escludendo virtualmente la diplomazia italiana dalla trattativa. Il C. per contro visualizzò una formula tutta positiva di partecipazione italiana a quegli accordi, idonea a promuovere una successione italiana, nel riflusso evidente della potenza e delle garanzie francesi nella regione danubiano-balcanica: fare dell'Italia la potenza che estendesse i principl di Locarno al Danubio ed all'Adriatico era il disegno contariniano che portò alla nostra partecipazione al patto renano (Carocci). Ad una tale "Locarno danubiana" si prospettava in quelle circostanze l'adesione della Cecoslovacchia, della Iugoslavia e della stessa Austria, sul presupposto di una chiara disposizione italiana ad allinearsi allo "spirito di Locarno", che invece mancò per il confermarsi dei non più contenibili umori antilocarniani del regime. Il C., prendendo spunto dalla risposta di Mussolini alle proteste dei presidente dei Consiglio bavarese Held contro la politica fascista di snazionalizzazione dell'Alto Adige, nel marzo del '26 confermò come irrevocabili le dimissioni già date il 23 gennaio.
Nessuna consistenza può darsi alle voci che circolarono negli ultimi mesi dei '26 circa i suoi contatti con l'ambasciatore sovietico a Roma Kergenzev per la stipulazione di un trattato italo-sovietico che avrebbe dovuto riportarlo a palazzo Chigi; come pure all'ipotesì che l'allontanamento di Chiaramonte Bordonaro da segretario generale nel febbraio 1927 preludesse alla riassunzione in carica dei Contarini. Hanno invece consistenza più certa le notizie di colloqui da lui avuti con il sottosegretario agli Esteri G. Bastianini nella primavera del 1943, nel quadro di un movimento diplomatico includente Ungheria e Romania ed inteso ad affrettare la pace, ma ad esso Mussolini non ebbe la forza di dare esito abbandonando Hitler, come il C. vigorosamente consigliava. Altri contatti egli ebbe nel breve e tragico periodo dal 25 luglio all'8 settembre, essendo R. Guariglia e C. Galli entrati nel governo Badoglio rispettivamente agli Esteri ed alla Cultura Popolare.
Il C. morì a Roma il 17 sett. 1945 e il conte Sforza, allora ministro degli Esteri, gli ottenne i funerali di Stato.
Fonti e Bibl.: R. Guariglia, Ricordi 1922-1946, Napoli 1950, pp. 12-27, 39-50, 493, 701 ss.; I documenti diplomatici italiani, s. 7. 1922-1935, I-IV (31 ott. 1922-6 febbr. 1927), Roma 1953-1962; Ministero per gli Affari Esteri, Annuario diplomatico del Regno d'Italia Per l'anno 1926, Roma 1926, pp. 244 s.; A. Lessona, Memorie, Firenze 1958, ad Indicem;G. Salvemini, Mussolini diplomatico, in Opere, III, 3, Preludio alla seconda guerra mondiale, Milano 1967, ad Indicem;Legatus [R. Cantalupo], Vita diplomatica di S. C. (Italia fra Inghilterra e Russia), Roma 1947; L. Salvatorelli-G. Mira, Storia di Italia nel periodo fascista, Torino 1956, ad Indicem;D. Varè, Il diplomatico sorridente (1900-1940), Milano 1956, ad Indicem;E. Di Nolfo, Mussolini e la Politica estera fascista, Pad0va 1960, ad Indicem (a cui sirimanda per ulter. indicaz. di fonti e bibliografia); R. Moscati, Gli esordi della Politica estera fascista. Il periodo Contarini..., e Il revisionismo fascista. Il periodo Grandi..., in La politica estera ital. dal 1914 al 1943, Roma 1963, ad Indicem;P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927. Origini diplom. del trattato di Tirana.- Firenze 1967, ad Indicem; G. Carocci, La Politica estera dell'Italia fascista (1925-1928), Bari 1969. ad Indicom;R. De Felice, Mussolini il duce, I, Gli anni del consenso, Torino 1974, ad Indicem.