Salvatore Giuliano
(Italia 1961, 1962, bianco e nero, 107m); regia: Francesco Rosi; produzione: Franco Cristaldi, Lionello Santi per Lux/Vides/Galatea; sceneggiatura: Francesco Rosi, Suso Cecchi d'Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas; fotografia: Gianni Di Venanzo; montaggio: Mario Serandrei; scenografia: Sergio Canevari, Carlo Egidi;costumi: Marilù Carteny; musica: Piero Piccioni.
Luglio 1950, Castelvetrano, Sicilia. Nel cortile di una casa viene trovato il cadavere del bandito Salvatore Giuliano, apparentemente ucciso in uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine. Mentre i carabinieri diffondono la versione ufficiale, i giornalisti, insoddisfatti, raccolgono testimonianze nel paese. Negli anni immediatamente successivi alla Liberazione, si afferma in Sicilia il movimento separatista. La banda Giuliano viene coinvolta nella lotta contro lo Stato italiano, i banditi assaltano le caserme e sparano sui carabinieri. L'esercito, giunto a Montelepre, non riesce a catturare Giuliano. Nel 1946, dopo la conquista dell'autonomia regionale, viene promulgata un'amnistia per i reati politici. Giuliano e i suoi, responsabili di reati comuni, restano alla macchia tornando ai sequestri e alle estorsioni sotto la protezione della mafia. A Portella della Ginestra, il primo maggio 1947, alla vigilia delle elezioni e della riforma agraria, la banda Giuliano apre il fuoco su una pacifica manifestazione di contadini comunisti, uccidendo undici persone: è il prezzo da pagare per guadagnarsi un'improbabile salvezza. Tra il 1948 e il 1950 la banda viene decimata, ma Giuliano resta inafferrabile. Nel processo per la strage di Portella, successivo alla sua morte, il braccio destro e cugino di Giuliano Gaspare Pisciotta si accusa del suo omicidio, mentre il vero memoriale del bandito, che si annuncia pieno di rivelazioni scottanti, resta introvabile. Giuliano era ormai diventato scomodo per tutti. Lo stesso Pisciotta, catturato, aveva accettato di collaborare consegnandolo ai carabinieri dopo averlo ucciso; lo scontro a fuoco era stato solo una messinscena a uso dell'opinione pubblica. Il processo si conclude con un verdetto di condanna; Pisciotta annuncia che presto dirà tutta la verità, ma viene avvelenato nel carcere palermitano dell'Ucciardone. Infine, nel 1960, viene ucciso il mafioso che aveva favorito la liquidazione della banda Giuliano.
Salvatore Giuliano è, per molti versi, un film-paradigma. Nei primi anni Sessanta le trame oscure e le verità occulte non erano ancora materia pubblicistica diffusa. Francesco Rosi esplorò con anticipo e indubbio rigore un fenomeno allora incompreso e sottovalutato come l'intreccio tra mafia e politica. Non a caso Salvatore Giuliano fu sin dall'inizio un progetto difficile. Alla produzione venne negato il prestito pubblico, sul set Rosi dovette affrontare le resistenze della famiglia Giuliano e della popolazione (il ciak recava scritto un prudente "Sicilia 1943-1960"), il film fu ignorato dalla commissione selezionatrice della Mostra di Venezia.
Scontri tra polizia e manifestanti nel luglio 1960, il procedere del centrosinistra: il clima politico del paese era caldo. Il cinema italiano, che viveva una stagione di grande vitalità, cominciava a guardare in termini critici al passato recente, dal fascismo al dopoguerra. Nel preparare il film Rosi affrontò un lungo e complesso lavoro di documentazione; nella fase successiva, abbandonate le carte, rielaborò la materia e, da attento conoscitore della letteratura meridionalista, analizzò e interpretò i fatti. Ma Salvatore Giuliano è l'opera di un autore che si è formato negli anni del neorealismo e dunque il film nacque anche sul set, dall'incontro con gli abitanti di Montelepre e Castelvetrano. Rosi ha parlato di psicodramma: a chi visse i rastrellamenti dell'esercito o la strage di Portella della Ginestra il regista chiese, a pochi anni di distanza, non di recitare ma di rivivere, traendo così forza da un'autentica partecipazione emotiva. La verità storica che il film riesce a produrre è testimoniata, tra gli altri, dallo storico Francesco Renda, giovane oratore a Portella in quel primo maggio 1947.
Fino a Salvatore Giuliano la mafia era stata soprattutto oggetto di colore locale per il cinema italiano, ingrediente per melodrammi 'esotici' o per variazioni western come In nome della legge (1949) di Pietro Germi. In ogni caso era affrontata come un fenomeno circoscritto a una terra di frontiera, inospitale, lontana, estranea. Salvatore Giuliano abolisce il luogo comune ricucendo le vicende siciliane con quelle italiane. Il film riparte dalla cronaca (il cadavere del bandito), allarga alla Storia (le vicende del separatismo siciliano) e giunge infine allo scenario politico contemporaneo. Questa analisi, che ha presente "la sostanza della Storia e il linguaggio del buon giornalismo", non cede a semplificazioni drammaturgiche; pur offrendo chiavi di lettura esplicite, il film non dà risposte ma si limita a porre gli interrogativi. Il finale aperto si trasformerà purtroppo in stereotipo nei più modesti epigoni del cosiddetto cinema politico italiano a cui il film di Rosi ha aperto la strada. In Salvatore Giuliano è messo da parte con decisione anche il più classico e usurato degli espedienti narrativi: il personaggio con cui il pubblico dovrebbe identificarsi, che sia giornalista, poliziotto o avvocato, scompare. In un certo senso Rosi chiede al pubblico di condividere, sia pur criticamente, il punto di vista di chi ha effettuato il lavoro di documentazione, di sintesi e infine di interpretazione. È dunque sintomatico che il personaggio eponimo resti sullo sfondo se non come cadavere ingombrante da cui ripartire alla ricerca di un'altra verità (scelta criticata da Leonardo Sciascia che, pur apprezzando il film, segnalava il rischio di perpetuare la mitizzazione del bandito). Giuliano resta un nome, una comparsa, uno strumento di ben altre forze; il suo è letteralmente il 'corpo del reato' e come tale deve essere 'rimesso in scena' per la pubblica opinione. Rosi sceglie di raccontare il contesto: le responsabilità dell'intrigo non vengono attribuite a personaggi sinistri e romanzeschi ma a una perversa dinamica di interessi politico-economici che si fa sistema, metodo, regola.
L'accoglienza critica fu positiva, con qualche riserva espressa da una parte della sinistra che, pur riconoscendo il valore del film, ne rilevò i limiti di approfondimento. La risposta del pubblico fu invece sorprendente. Nella stagione 1961-62 Salvatore Giuliano registrò un incasso di 737.084.000 milioni dell'epoca, il decimo posto nella classifica dei film italiani di maggior successo. Nello stesso anno vinse il Premio per la miglior regia al Festival di Berlino.
Sui luoghi di Salvatore Giuliano è tornato nel 1987 Michael Cimino con The Sicilian (Il siciliano), mediocre biografia ispirata a un romanzo di Mario Puzo. Ma che la materia sia ancora calda è testimoniato soprattutto dall'interesse recente di registi diversi come Pasquale Scimeca e Paolo Benvenuti.
Interpreti e personaggi: Frank Wolff (Gaspare Pisciotta), Salvo Randone (presidente della Corte d'Assise), Federico Zardi (avvocato di Pisciotta), Pietro Cammarata (Salvatore Giuliano), Giuseppe Teti (giovane pastore), Cosimo Torino (Frank Mannino), Giuseppe Calandra (sottufficiale dei carabinieri in borghese), Pietro Franzone (declamatore dell'inno separatista).
'Salvatore Giuliano'. Il film di Francesco Rosi, a cura di T. Kezich, Roma 1961.
L. Sciascia, Salvatore Giuliano, in "Il contemporaneo", n. 46-47, 1962.
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S. Zambetti, Salvatore Giuliano, in "Cineforum", n. 15, maggio 1962.
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