QUASIMODO, Salvatore
QUASIMODO, Salvatore. – Nacque a Modica il 20 agosto 1901, secondogenito di Gaetano Quasimòdo, capostazione, e di Clotilde Ragusa. Ebbe tre fratelli: Enzo, Ettore e Rosina.
L’accentazione del cognome fu mutata in sdrucciola dallo stesso Quasìmodo al suo trasferimento in continente. È, inoltre, ben nota la dichiarazione mendace (cfr. Salvatore Quasimodo, in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Venezia 1960, p. 349) che indicava in Siracusa la città natale del poeta, ad alimentare un’identità di «siculo greco» (S. Quasimodo, Micene, in Id., Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con un’introduzione di G. Finzi, prefazione di C. Bo, Milano 1996, p. 216) e, più in generale, una mitobiografia tanto più accattivante di una più affidabile cronologia. Vero è che la nonna paterna era figlia di profughi greci che provenivano da Patrasso.
I primi anni trascorsero in continui spostamenti lungo le linee ferroviarie siciliane al seguito del padre, tuttavia Messina fu la città che più contò per la formazione di Quasimodo. Il padre vi era stato trasferito subito dopo il catastrofico terremoto del 28 dicembre 1908 e la famiglia visse per qualche tempo in un carro merci: le immagini di quei giorni e «la scienza / del dolore» rivissero poi in una bella poesia (Al padre, ibid., p. 201).
Quasimodo compì studi tecnici a Palermo e a Messina, dove conseguì la licenza fisico-matematica presso l’istituto tecnico A.M. Jaci. Qui strinse importanti amicizie intellettuali con Salvatore Pugliatti, Giorgio La Pira e altri. Le prime prove poetiche risalirebbero al 1915; nel 1917 apparvero le prime pubblicazioni in periodici di provincia, fra cui la rivista Nuovo giornale letterario fondata da Quasimodo e dalla sua brigata. L’apprendistato in versi fu sostanzialmente simbolista, ma caratterizzato da un certo eclettismo.
Ottenuta la licenza tecnica, nel 1919 Quasimodo si trasferì a Roma, per iscriversi alla facoltà di agraria (e non di ingegneria, com’era solito dire). Tuttavia, abbandonò presto gli studi universitari, svolgendo i più svariati lavori: disegnatore tecnico, commesso in un negozio di ferramenta, impiegato della Rinascente. Nei primi anni Venti, secondo le ipotesi più attendibili, mise insieme il primo dei due ‘manoscritti giovanili’, Bacia la soglia della tua casa (Siracusa 1981). Studiò greco e latino con monsignor Rampolla Del Tindaro. Visse con Bice Donetti, che sposò nel 1927 dopo essere stato assunto, nel 1926, come geometra straordinario dal ministero dei Lavori pubblici e assegnato all’ufficio del genio civile di Reggio Calabria.
Fra il 1929 e il 1930 mise insieme il manoscritto Notturni del re silenzioso (Messina 1989). Quasi ogni domenica attraversava lo Stretto per ritrovare gli amici di un tempo: nacque così Vento a Tindari, con l’evocazione del promontorio che sporge sul golfo di Patti, proprio di fronte alle Eolie, e la fissazione del mito dell’esilio, che più tardi Luciano Anceschi interpretò come sublimazione di un «acre furore sensuale […] in un rimpianto estenuato di luce edenica» (introduzione ai Lirici greci, in La critica e Quasimodo, 1976, p. 65).
Quasimodo si trasferì a Firenze nel 1929 su invito di Elio Vittorini, che aveva sposato sua sorella Rosina ed era deciso a introdurre il cognato nell’ambiente letterario. L’anno successivo le Edizioni di Solaria stamparono Acque e terre (Firenze 1930).
Eugenio Montale sottolineò subito l’eterogeneità della raccolta, in cui non sempre si passa «dall’abilità alla poesia, dall’artificio […] alla espressione» (recensione ad Acque e terre, in Quasimodo e la critica, 1969, p. 281), e individuò nel misticismo del gesto poetico una copertura di vuoti stilistici e sentimentali, ottenuta a prezzo della chiusura ermeneutica. Vittorini parlò di «una poesia per eliminazione», che «si forma parola per parola levandosi di dosso la materia» (recensione ad Acque e terre, in La critica e Quasimodo, cit., p. 30).
Nel 1931 Quasimodo fu trasferito al genio civile di Imperia. Si recava spesso a Genova, dove cominciò a collaborare con Circoli, nelle cui edizioni uscì Òboe sommerso (Genova 1932). Il giudizio di Giuseppe De Robertis fu molto duro: «Quasimodo è capace di esercitare a vuoto la sua destrezza verbale, con una finzione di profondi sensi, che diventano nonsensi» (recensione a Òboe sommerso, poi in Id., Scrittori del Novecento, Firenze 1940, p. 271). Vittorini contestò la nozione già corrente di ermetismo, ormai applicata allo stesso Quasimodo, ma inventata a suo dire da chi «non sa spiegare Ungaretti o Montale, perché non saprebbe spiegare Leopardi» (recensione a Òboe sommerso, in Quasimodo e la critica, 1969, p. 286).
Il libro, in realtà, fissa, insieme al coevo Isola di Alfonso Gatto, la più ardita grammatica dell’ermetismo: una serie di procedimenti indeterminativi che portano la poesia a un livello di astrazione tale da impedirne la parafrasi. Un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo (Il linguaggio della poesia ermetica, in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino 1991, pp. 131-157) ha rintracciato i fenomeni linguistici e stilistici che consentono di escludere, una volta per tutte, Ungaretti e Montale dall’ermetismo e di articolare la scuola non tanto o non soltanto in ermetismo fiorentino ed ermetismo meridionale, quanto in ermetismo forte, con Quasimodo, Gatto, Mario Luzi, Libero De Libero e Piero Bigongiari, e debole, con Leonardo Sinisgalli, Alessandro Parronchi, Carlo Betocchi e Luigi Fallacara. Tra le caratteristiche dell’ermetismo forte spiccano l’uso di sostantivi assoluti, che trasforma i referenti in emblemi, eternizzandoli; la preferenza per i plurali, che moltiplica gli effetti suggestivi; l’impiego polivalente della preposizione «a» e, più in generale, la soppressione e lo stravolgimento dei connettivi, che convertono i rapporti logici in rapporti analogici. L’analogismo spinto crea, del resto, una rete di relazioni arbitrarie, incentrate sulla parola; la predilezione per la sintassi nominale procura una sensazione d’immobilismo e di estraneità all’azione; prevalgono gli attanti astratti e le sintesi qualificative, come nel più tipico costrutto ermetico, costituito da sostantivo e complemento di specificazione con valore aggettivale, quasi un’etichetta.
Nel 1932 Quasimodo vinse il premio dell’Antico Fattore con Odore di eucalyptus, riproposta, insieme con altri versi, nell’omonima plaquette (Firenze 1932). Fu Montale, che l’anno prima aveva vinto con La casa dei doganieri (Quasimodo si era classificato secondo con Vento a Tindari), ad adoperarsi affinché il riconoscimento andasse al poeta siciliano.
Dopo una breve permanenza in Sardegna, Quasimodo fu trasferito all’ufficio del genio civile di Milano, forse nel 1934, e distaccato a Sondrio. Nel 1935, da una relazione con Amelia Spezialetti, nacque la figlia Orietta. Nello stesso anno il poeta intrecciò una breve relazione con Sibilla Aleramo, mentre nel 1936 conobbe Carlo Bo e si innamorò della danzatrice Maria Cumani, dalla relazione con la quale ebbe nel 1939 il figlio Alessandro. Erato e Apòllion (Milano 1936) uscì presso Scheiwiller, con una prefazione di Sergio Solmi che parlò di una poesia in cui «più che l’immagine, più che il verso, l’organismo costitutivo, la cellula elementare, è la parola» (prefazione a Ed è subito sera, in Quasimodo e la critica, cit., p. 121).
Nell’ansia di «espressioni totali», il poeta finisce per dire «insieme troppo e troppo poco, ricorrendo a dure torsioni, a oscurità abbacinanti» (p. 122). Tema esclusivo è la separazione da «un ideale “luogo” di primitività incorrotta, mito insieme di vita e di cultura» (p. 132), che a tratti è l’isola siciliana a tratti l’infanzia con essa perduta, tendenti a confondersi in un unico sogno.
Nel 1938 Quasimodo si dimise dal genio civile, per accettare, su proposta di Cesare Zavattini, un impiego presso Mondadori, come redattore di un periodico, da cui sostenne di essere stato poi licenziato per attività antifascista. Nello stesso anno cominciò a collaborare con Letteratura e, per le Edizioni Primi Piani, uscì il volume antologico Poesie (Milano 1938), accompagnato da un saggio di Oreste Macrì che definiva la poetica della parola, espressione ormai divenuta formulare, come «uno sforzo immane di trapassare la cerchia delle rappresentazioni e delle immagini in quanto dati» per cogliere «la parola unica e assoluta […], che sorge non come commento e spiegazione, ma mito essa stessa, valore in sé» (La poetica della parola e Salvatore Quasimodo, in Quasimodo e la critica, cit., p. 50).
La memorabile traduzione dei Lirici greci (Milano 1940) fu pubblicata per le Edizioni di Corrente, con una prefazione di Anceschi, suscitando entusiasmi e polemiche, anche in ambito accademico. Dopo aver suggerito una più generale omologia fra lirici greci e poeti contemporanei (i lirici nuovi dell’antologia da lui curata nel 1943), Anceschi promosse l’equivalenza tutta quasimodiana fra sicilianità e grecità trascendentale e fra traduzione e poesia. L’esperienza di Erato e Apòllion avrebbe fatto affiorare, attraverso l’evocazione di una Sicilia originaria e favolosa, «il musicale ricordo di una Grecia piuttosto dionisiaca che pitagorica, di una Grecia del sesso e degli elementi» (v. L. Anceschi, introduzione ai Lirici greci, cit., p. 66).
Anceschi sostenne, inoltre, che le traduzioni dai lirici greci erano, a tutti gli effetti, poesie di Quasimodo e che, anzi, costituivano il secondo tempo della sua vicenda poetica: un punto di svolta e non soltanto il compimento della stagione ermetica. Gianfranco Contini, in seguito, affermò che le precedenti poesie di Quasimodo erano ideali traduzioni dal greco. Da queste involontarie premesse si arrivò al giudizio di Edoardo Sanguineti su Quasimodo poeta e traduttore: «Il suo più vero contributo originale alla poesia del nostro secolo non è da riconoscersi nella produzione creativa, ma nelle traduzioni dai Lirici greci, che sono uno dei documenti più significativi dell’intiera stagione ermetica» (Poesia italiana del Novecento, Torino 1969, p. 947). Antologizzando due poesie e tredici traduzioni, Sanguineti avrebbe così trasformato il poeta-traduttore in un traduttore-poeta.
Nel 1941 Quasimodo fu nominato «per chiara fama» professore di letteratura italiana presso il conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove insegnò fino al 1968.
Nel 1942 uscì per Mondadori Ed è subito sera (Milano 1942), vero e proprio compendio della stagione ermetica, con una severa selezione di Acque e terre e l’aggiunta delle Nuove poesie, in cui si avverte, a livello denotativo, un progressivo passaggio dall’astrazione alla realtà. Nello stesso anno Quasimodo pubblicò Il fiore delle Georgiche (Milano 1942) che, dal punto di vista metrico, prepara le misure lunghe della stagione civile. Più tardi il poeta scrisse: «La lezione di Virgilio mi condusse al discorso, a una misura di oggettivazione, alla quale forse non sarei arrivato che con la privazione del canto» (S. Quasimodo, Traduzioni dai classici (1945), in Id., Il poeta e il politico e altri saggi, Milano 1960, p. 109).
Benché antifascista, Quasimodo non partecipò alla Resistenza. In quegli anni, era impegnato a tradurre Il vangelo secondo Giovanni (Milano 1946), alcuni Canti di Catullo (Milano 1945 e 1955) e brani Dall’Odissea (Milano 1945). Nonostante la sua estraneità alla politica attiva, nel 1942 fu aggredito da una squadra d’azione e nel 1944 fu denunciato da una spia fascista ne La Voce repubblicana. Nel 1945 si iscrisse al Partito comunista italiano, cui aderì per breve tempo, e cominciò a collaborare con Milano Sera.
Con il piede straniero sopra il cuore (Milano 1946) uscì per i Quaderni di Costume, diretti da Giancarlo Vigorelli; con il titolo Giorno dopo giorno (Milano 1947), l’aggiunta di testi e un’introduzione di Bo, fu poi ripubblicato da Mondadori, presto editore di tutto Quasimodo.
La raccolta si apre con Alle fronde dei salici, che annuncia la rinuncia al canto per un recitativo drammatico ed eloquente. In questo e nei testi successivi, nati a Milano negli anni dell’occupazione tedesca e della guerra civile, i morti senza tempo, gli antenati, che costellavano le poesie della stagione ermetica, diventano improvvisamente i caduti, le vittime della storia. Bo insistette sulla continuità anziché sulla discontinuità fra il poeta ermetico e quello civile, scrivendo di una «crisi nell’interno della parola» (introduzione a Giorno dopo giorno, in Quasimodo e la critica, cit., p. 145) e di un coerente approdo al discorso, che non obbedisce a convenienze esteriori: valutò la cosiddetta svolta quasimodiana in termini di opportunità anziché di opportunismo e non mancò di inserirla nella più generale «crisi della poesia europea» (pp. 147 s.). Giorno dopo giorno, del resto, apparve mentre in Italia si accendeva il dibattito fra postermetici e neorealisti. Quasimodo vi si inserì con il primo dei suoi ‘discorsi sulla poesia’, in cui, dopo aver negato il valore consolatorio della poesia e dopo essersi confrontato con la parallela crisi di Paul Éluard (più tardi tradotto), affermò: «Il tempo delle ‘speculazioni’ è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno» (S. Quasimodo, Poesia contemporanea, in Id., Poesie e discorsi sulla poesia, cit., p. 273).
Scomparsa nel 1946 Bice Donetti, nel 1948 Quasimodo sposò Maria Cumani. Come titolare della rubrica teatrale, collaborò per due anni con Omnibus. All’Edipo re di Sofocle (Milano 1946) e a Romeo e Giulietta (Milano 1948) seguirono altre traduzioni dai tragici greci, per lo più su commissione, e da William Shakespeare.
In La vita non è sogno (Milano 1949), il cui titolo suona già come una ritrattazione della stagione ermetica, le poesie sono accompagnate, in modo quasi compensativo, da alcuni episodi ‘siciliani’ tratti Dalle Metamorfosi di Ovidio (apparse a stampa solo un decennio più tardi: Milano 1959). La traduzione di autori antichi consentì a Quasimodo di continuare il corteggiamento dei miti che non si concedeva più in proprio, mentre la traduzione dei contemporanei segnò poi l’apertura internazionale di un poeta che cominciava anche a interrogarsi sulla propria traducibilità. Nel 1950 gli fu assegnato il premio San Babila. Da Omnibus passò a scrivere su Tempo, con cui collaborò fino al 1959 come critico teatrale. Tradusse inoltre le Poesie di Pablo Neruda (Torino 1952) e, nel 1953, vinse, ex aequo con Dylan Thomas, il premio Etna-Taormina.
Il falso e vero verde ebbe due edizioni (Milano 1954 e 1956). La seconda comprendeva anche il Discorso sulla poesia, in cui Quasimodo sostenne l’esigenza di una «poesia civile», individuando nel 1945 una sorta di spartiacque letterario: «La poesia italiana, dopo il ’45, è di natura corale […]; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni» (S. Quasimodo, Discorso sulla poesia, in Id., Poesie e discorsi sulla poesia, cit., pp. 283-293).
Il poeta era cosciente che la storia della poesia passava ormai attraverso la poesia della storia e che in Europa si tornava a leggere la poesia italiana: non quella ermetica, ma quella civile. Mentre anni addietro, in polemica con T.S. Eliot, Dante era ancora rigettato in nome di Petrarca e di Leopardi, all’epoca Quasimodo scrisse: «possiamo leggere Dante per dimenticare Petrarca» (p. 291). Il falso e vero verde intendeva interpretare l’aspirazione al dialogo, anziché al monologo, che caratterizzava la nuova generazione poetica: una generazione apparentemente priva di maestri, cui Quasimodo si proponeva implicitamente per la copertura della cattedra vacante. Pochi anni dopo, tuttavia, Giovanni Raboni affermò, a nome dei giovani poeti, che «l’essenza della personalità e della poesia di Quasimodo è qualcosa che non ci appartiene e non ci compete, qualcosa che sfugge, che risulta imprendibile rispetto alle intenzioni e alle possibilità del nostro lavoro» (Quasimodo e la giovane poesia, in Quasimodo e la critica, cit., pp. 274 s.).
La terra impareggiabile (Milano 1958; premio Viareggio) è una summa dei miti e delle realtà del poeta: alla Sicilia, omaggiato luogo d’origine, e a Milano, infernale città della storia e della cronaca, si aggiunge la Grecia, con la testimonianza del viaggio compiuto nel 1956. Contemporaneamente uscirono le Poesie scelte di Edward Estlin Cummings (Milano 1958), il Fiore dell’Antologia Palatina (Parma 1958) e l’antologia Poesia italiana del dopoguerra (Milano 1958). Nello stesso anno Quasimodo ottenne la prima candidatura al premio Nobel, avanzata da Francesco Flora e Carlo Bo. Sul finire del 1958 compì un viaggio in Unione Sovietica, durante il quale fu colpito da un infarto che lo costrinse a una degenza di sei mesi in un ospedale di Mosca.
Il 10 dicembre 1959 fu insignito del premio Nobel per la letteratura, ma già la notizia del conferimento era stata accompagnata da aspre polemiche («A caval donato non si guarda in bocca», scrisse Emilio Cecchi: v. I “Nobel” italiani, in Corriere della sera, 25 ottobre 1959). Nel 1960 ebbe la laurea honoris causa dall’Università di Messina e inaugurò una rubrica di corrispondenza con i lettori, dapprima su Le Ore e poi su Tempo. Separatosi da Maria Cumani, cominciò una lunga serie di viaggi all’estero. In questi anni uscì nella collana Lo Specchio di Mondadori, per cura di Carlo Bo e Sergio Solmi, l’edizione di Tutte le poesie (Milano 1960), cui seguirono gli Scritti sul teatro (Milano 1961), Mutevoli pensieri di Conrad Aiken (Milano 1963), e infine Dare e avere (Milano 1966), il cui titolo suona già come un bilancio, e le Poesie di Tudor Arghezi (Milano 1966). Nel 1967 ricevette la laurea honoris causa anche dall’Università di Oxford.
Colpito da una emorragia cerebrale ad Amalfi, fu trasportato nella clinica Mergellina di Napoli, dove morì il 14 giugno 1968. È sepolto presso il cimitero Monumentale di Milano.
L’attualità e persino la tipicità di Quasimodo rendono la sua opera una cartina di tornasole di ciò che, a livello di tendenze maggioritarie più che di grandi individualità, è stata la poesia italiana del pieno Novecento. Ormai non sono in pochi a pensare che Quasimodo debba essere considerato un ‘minore’, ma i fatti letterari ci dicono che è stato un ‘maggiore’ e non lo è più, avendo forse esaurito il suo tempo insieme con la sua attualità. L’importanza storica che ha avuto prescinde, tuttavia, dalla sua grandezza poetica e non può essere sottovalutata.
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