RANDONE, Salvatore
RANDONE, Salvatore (Salvo). – Nacque a Siracusa il 25 settembre 1906, secondogenito di Pasquale, funzionario statale di una famiglia della buona borghesia isolana, e di Maria Betagh, siciliana di origini irlandesi. Ebbe due sorelle: Lucia e Aurora.
Conseguì la maturità classica a Caltanissetta, dove il padre era stato nominato viceprefetto del Regno. Dopo una breve esperienza come cadetto presso l’Accademia navale di Livorno, si iscrisse alla facoltà di legge di Catania senza però portare a compimento gli studi. Nella città etnea recitò con i filodrammatici del teatro Coppola e fu notato da Annibale Ninchi, con cui poco più che ventenne debuttò tra i professionisti in Edipo re di Sofocle nella città del Cairo.
Trasferitosi a Roma, dopo una parentesi lavorativa a fianco di Maria Melato, l’attore restò privo di scritture e a causa del temperamento irrequieto fu costretto a ripiegare per alcuni anni su formazioni di guitti con cui recitò nelle piazze minori della provincia italiana. Il rientro in pianta stabile nei ranghi delle compagnie regolari coincise con il cabotaggio professionale alla scuola di importanti maestri e capocomici: Ermete Zacconi (1931), Amedeo Chiantoni (1934), Ruggero Ruggeri (1935), Lamberto Picasso (1937), Gualtiero Tumiati (1938), Annibale Betrone (1938), Sergio Tofano (1939), Luigi Almirante (1939), Memo Benassi (1939). L’apprendistato poté dirsi concluso alla fine degli anni Trenta quando Randone, che nel frattempo aveva ottenuto i primi successi personali con Metropoli di Alessandro De Stefani, l’Adelchi di Alessandro Manzoni e L’uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello, fu annunciato sulle colonne del Corriere della Sera dalla prestigiosa firma di Renato Simoni come «un nuovo importante attore del nostro teatro» (S. R. Le parole del silenzio, a cura di E. Giliberti, testi di A. Bisicchia - C. Vatteroni, con un docufilm a cura di E. De Dominicis, Siracusa 1991, p. 75). Durante gli anni più duri del fascismo e del conflitto bellico Randone completò la sua formazione nella Compagnia del teatro delle Arti diretta da Anton Giulio Bragaglia (fu il comico Capitano della Cintia di Giovan Battista Della Porta, 1940), in quella dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), dove ebbe una storia d’amore con Paola Borboni, negli spettacoli dannunziani La fiaccola sotto il moggio e La figlia di Iorio allestiti con Sarah Ferrati e Renzo Ricci nella Milano occupata.
Nel dopoguerra partecipò alla ricostruzione del teatro italiano – dai cui organizzatori fu insistentemente ricercato per la sua sobrietà espressiva capace di rendere l’angoscia esistenziale della modernità – conservando tuttavia una marcata autonomia artistica e professionale. Se ne accorse Giorgio Strehler, con cui aveva inaugurato la prima del Piccolo Teatro di Milano (L’albergo dei poveri di Maksim Gor´kij, 1947) e da cui si allontanò improvvisamente nel bel mezzo di una pausa delle prove di Le notti dell’ira (1947) di Armand Salacrou infastidito dal clima imposto in scena dal regista triestino.
Eppure Randone ebbe un forte senso della disciplina, palesato in special modo nell’ostinata e scrupolosa ricerca del personaggio di cui riusciva a suggerire in scena l’universo interiore con i tempi del vivere quotidiano – disse di lui Vito Pandolfi: «lo si guarda recitare come lo si guardasse vivere» (Faraci, 2006, p. 80) – in un continuo e calcolato contrappunto tra le intonazioni di una voce scura ma squillante, contraddistinta da leggera velatura dialettale, e le sfumature di uno sguardo beffardo e mobilissimo.
Gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono il periodo di maggior vitalità produttiva di Randone. Le incursioni nel genere radiofonico, per il quale prestò la voce a numerose prime nazionali di radiodrammi (tra cui Barabba di Michel de Ghelderode, nel 1952, e Ceneri di Samuel Beckett, nel 1960), e le apparizioni sul piccolo schermo in registrazioni teatrali e sceneggiati (fu l’Innominato nella riduzione dei Promessi sposi, 1967) contribuirono ad ampliare la sua popolarità. A teatro si costruì un repertorio sterminato alternando partecipazioni straordinarie in compagnie stabili a tournées in formazioni capocomicali talvolta da lui dirette.
L’afflato lirico con cui scandagliò l’animo degli eroi della drammaturgia antica (da Oreste a Edipo, da Creonte a Filottete e Tiresia) fu anche la cifra stilistica che lo consegnò alla storia delle interpretazioni shakespeariane: i risvolti tragici del comico di Malvolio della Dodicesima notte (regia di Orazio Costa, 1950), i tratti quasi paternali del perfido Jago o l’alone di rassegnazione con cui disegnò il moro di Venezia nella memorabile edizione di Otello (1956) inscenata a vicenda nei due ruoli principali con Vittorio Gassman, furono tra i più alti esempi dell’abilità dell’attore a cogliere di ogni personaggio le ombre dei sentimenti, il trascolorare delle intenzioni.
Randone guardò con particolare attenzione alla drammaturgia e alla letteratura otto-novecentesca, da Henrik Ibsen (padre Rosmer in Rosmersholm, 1953) a Thomas Eliot (il suo Beckett di Assassinio nella cattedrale vinse il premio San Genesio nel 1958), da Fëdor Dostoevskij (Pavlovic in Eterno marito, 1966) a Friedrich Dürrenmatt (Florestan in Il matrimonio del signor Mississipi, 1968), passando attraverso la messinscena di capolavori del verismo: per Luchino Visconti fu il padre in Come le foglie (1954) di Giuseppe Giacosa, mentre il suo Raimondo di Navarra di Dal tuo al mio (1956) di Giovanni Verga sancì la riappacificazione con Strehler. Dal forte legame con la drammaturgia italiana del suo tempo nacque invece la decennale collaborazione con Ugo Betti, alla cui opera Randone restituì una forza espressiva inedita, diretto talvolta da Guido Salvini e Luigi Squarzina. Mise in scena anche opere di Pier Maria Rosso di San Secondo, Stefano Landi, Diego Fabbri, Cesare Vico Lodovici, Curzio Malaparte, Ezio D’Errico, Cesare Giulio Viola, Franco Brusati.
Ma Randone fu soprattutto l’interprete per eccellenza di Pirandello, della cui opera realizzò in scena un’antologia critica privilegiando quei testi che più evidenziavano la crisi dell’ideologia borghese e perbenista (Il piacere dell’onestà, 1948, 1949, 1961, 1966, 1973; Tutto per bene, 1958, 1978; Il berretto a sonagli, 1970; Pensaci Giacomino, 1975, 1980, 1984; recitò anche le novelle La giara per la versione radiofonica del 1951 e La cattura nell’edizione televisiva del 1968). Maggior prova in assoluto della sua carriera fu Enrico IV che rappresentò in numerose edizioni, l’ultima, ottantenne, nel 1986, e in cui rilesse in chiave di una più intima profondità l’interpretazione ironica e cerebrale che del protagonista aveva invece dato Ruggero Ruggeri.
Al cinema, genere che considerò secondario e per il quale fu quasi sempre chiamato in ruoli minori, realizzò le interpretazioni più importanti in un fazzoletto di anni, tra il 1960 e il 1965, lavorando soprattutto nel filone civile e impegnato per registi come Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, 1962; Le mani sulla città, 1963), Valerio Zurlini (Cronaca familiare, 1962), Luigi Zampa (Gli anni ruggenti, 1962), Carlo Lizzani (Il processo di Verona, 1963). Diretto da Elio Petri rese al meglio l’emarginazione e l’alienazione dell’uomo comune ottenendo la Grolla d’oro per l’unica parte principale della sua carriera, il dolente stagnaro Cesare di I giorni contati (1962), e due Nastri d’argento come attore non protagonista per il subdolo commissario Palumbo de L’assassino (1961) e per il visionario Militina di La classe operaia va in paradiso (1972). Meno soddisfacente fu invece per lui l’esperienza con Federico Fellini (Tre passi nel delirio, 1968, e Satyricon, 1969) di cui non apprezzò i metodi registici. L’ultima apparizione sul grande schermo avvenne nel 1977 nei panni del rigoroso generale gesuita della pellicola In nome del papa re di Luigi Magni.
Tormentato da problemi sia economici sia di salute, negli anni Ottanta Randone continuò a recitare a teatro i suoi cavalli di battaglia soprattutto per garantire le cure alla moglie, l’attrice Neda Naldi, che aveva sposato nel 1970 adottandone il nipote Giuseppe Volpiana. Dopo il congedo dalla professione, annunciato nel 1989 con una commovente conferenza stampa trasmessa in televisione, lo Stato italiano gli garantì un vitalizio. Pochi anni prima lo aveva insignito dell’onorificenza di Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica.
Capace di rielaborare in maniera del tutto personale la tradizione attorica del teatro italiano, fu un interprete ‘implasmabile’ che riuscì a dosare in maniera ineccepibile il distacco critico dal personaggio con le risorse esteriori del mestiere. Non rinunciò mai al contatto diretto con il pubblico delle sale teatrali, di cui fu beniamino nonostante l’atteggiamento antidivistico.
Morì il 6 marzo 1991 a Roma.
Fonti e Bibl.: Tra le voci biografiche è tuttora valida per notizie sulla prima parte della carriera di Randone quella di F. Bollini nell’Enciclopedia dello Spettacolo, VIII, Roma 1961, coll. 727 s.; per un inquadramento dell’attività sul piccolo e grande schermo si vedano la voce nell’Enciclopedia della televisione, a cura di A. Grasso, Milano 2002, p. 599, quella nel Dizionario del cinema italiano. Gli attori: dal 1930 ai giorni nostri, a cura di E. Lancia - R. Poppi, Roma 2003, p. 408, e quella nell’Enciclopedia del cinema, IV, Roma 2004, p. 567. Per l’attività radiofonica si rimanda al lemma nell’Enciclopedia della radio, a cura di P. Ortoleva - B. Scaramucci, Milano 2003, p. 709.
Si vedano inoltre: E. Miscia, Trent’anni a teatro con S. R., Roma 1957; S. R., Roma 1984; Omaggio a S. R.. Mostra documentaria al Teatro Eliseo, a cura di R. Tian, Roma 1985; G. Saglimbeni, S. R. una vita a teatro, presentazione di O. Bertani, Messina 1991; S. R. tra scena e schermo, a cura di A. Viganò, Genova 1995; L. Faraci, S. R. la follia della ragione, Caltanissetta 2006 (con lo scritto di S. Randone, Noterelle sull’attore, pp. 93-96).