SATTA, Salvatore
(Giovanni Salvatore). – Nacque a Nuoro il 9 agosto 1902 da Salvatore, notaio, e da Valentina Galfrè, di origini piemontesi, conosciuta con il nome di Antonietta.
Fu l’ultimo di sette fratelli, alcuni dei quali destinati a intraprendere con successo diverse professioni liberali. Nel 1918 si iscrisse al liceo Domenico A. Azuni di Sassari, dove nel luglio del 1920 conseguì il diploma. Le fonti consentono di accertare i successivi percorsi universitari (da studente e da professore), spesso riportati con errori nella storiografia: immatricolatosi il 1° dicembre 1920 nella facoltà di giurisprudenza di Pavia, sostenne nel giugno successivo due esami per poi trasferirsi a Pisa (1921-22), chiedendo di iscriversi al secondo anno di lettere, salvo rinunciare immediatamente al cambio di facoltà e continuare gli studi di diritto (in quell’anno superò sei esami). Nell’agosto del 1922 passò a Sassari, dove diede i dieci esami restanti e si laureò l’11 ottobre 1924 con il massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi sulla revocatoria fallimentare con Lorenzo Mossa, l’incontro con il quale condizionò le sue scelte future.
L’esperienza come avvocato penalista, subito intrapresa a Nuoro sotto la guida del fratello Filippo, si rivelò deludente; scoraggiato, nel 1925 si trasferì a Milano, dove svolse il tirocinio presso lo studio di Marco Tullio Zanzucchi, processualcivilista dell’Università Cattolica, al quale rimase poi sempre legato. Tramite Mossa, collaborò con la Rivista di diritto commerciale, ma nel 1926 si ammalò di tisi e dovette trascorrere due anni nel sanatorio di Merano. Si ispirò a quell’episodio di vita il romanzo La veranda, il cui manoscritto, presentato al premio Viareggio nel 1928, fu apprezzato da Marino Moretti, ma non dagli altri membri della giuria, che lo considerarono troppo forte e crudo per la sensibilità dei lettori. Ciò indusse l’autore a rinunciare alla pubblicazione del lavoro, che rimase inedito fino al 1981, quando, ritrovato fra le sue carte, vide la luce per i tipi di Adelphi. La vicenda fu ricordata nel Corriere d’informazione (19-20 gennaio 1948) vent’anni più tardi dallo stesso Moretti, convinto ormai che l’autore del libro fosse morto; Satta poté invece rispondergli sullo stesso giornale.
La delusione lo riportò agli studi giuridici e riprese a pubblicare con continuità. Dopo aver ottenuto l’incarico di diritto processuale civile a Camerino (1931-32, rinnovato l’anno seguente), nel gennaio del 1933 conseguì la libera docenza (presidente della commissione Giuseppe Chiovenda), per vincere quasi immediatamente il concorso per professore straordinario bandito a Messina, con voti unanimi e primo dei ternati.
La commissione, presieduta da Giuseppe Messina, ne sottolineò le capacità di sistemazione, la chiarezza espositiva, la cultura giuridica non ristretta alla procedura, l’indipendenza dei giudizi, salvo rilevare come talvolta le costruzioni fossero «difficilmente conciliabili col diritto positivo»: da subito, dunque, si colse la peculiarità del pensiero del giurista sardo, tutt’altro che disposto a farsi omologare entro il dettato della legge o delle dottrine dei pur autorevoli maestri (ancor giovane ebbe il coraggio di rilevare il difetto di originalità degli epigoni della scuola chiovendiana: L’esecuzione forzata, Milano 1937, pp. V s.).
Chiamato a Macerata (decreto del 30 dicembre 1933, con effetto dal 1° gennaio 1934), vi insegnò tre anni e poté incontrare Giuseppe Capograssi, con il quale instaurò un rapporto di profondo e proficuo confronto, che incise nell’animo di Satta anche dopo la scomparsa del filosofo di Sulmona (1956) arricchendosi attraverso la frequentazione di Riccardo Orestano, al pari partecipe dello stesso ideario.
In particolare il giovane giurista rimase affascinato dalle riflessioni sul concetto di esperienza giuridica su cui insisteva Capograssi: il diritto era forma del vissuto e propriamente conoscere la forma significava conoscere la vita (cfr. Il formalismo nel processo, 1958, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro 2004, p. 72). Applicato al campo processuale quel concetto consentiva sia di rendere dinamica e concreta la costruzione del rapporto tra individuo e Stato e tra legge e interpretazione, sia di ripensare la funzione della giurisdizione (non più intesa come mera attuazione della legge). L’interesse del filosofo per gli aspetti del processo era d’altra parte vivissimo. Da qui l’incontro, umano e scientifico, tra i due intellettuali cattolici seppur diversi nel modo di accostarsi alla fede.
Alla fine del 1936 Satta assunse la cattedra padovana in sostituzione del ‘nume’ della disciplina Francesco Carnelutti, con il quale ebbe sempre un rapporto conflittuale, caratterizzato da acri polemiche che riguardavano soprattutto il metodo. Può darsi che, inizialmente, il suo arrivo venisse visto come una ‘intrusione’ ai danni dell’allievo Giovanni Cristofolini; a disturbare il professore udinese (che trinciava i suoi giudizi nell’autorevolissima Rivista di diritto processuale civile) e in generale l’establishment della disciplina era però soprattutto la mente critica e fuori dal coro del giurista sardo (segni di simpatia giunsero invece da Piero Calamandrei). Negli anni Trenta imperversavano infatti i progetti del nuovo codice di rito imperniati sull’interesse dello Stato e quindi con una forte caratterizzazione pubblicistica del processo, mentre l’impostazione di Satta, bilanciando privato e pubblico, appariva controcorrente, come già trapelava dalla prima monografia (Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano 1931) e come veniva conclamato nella prolusione patavina del 1936. Facile, ma fuorviante, attribuirgli la fama di nostalgico passatista, legato agli schemi individualistici. Fatto sta che Carnelutti, se consentì di pubblicare la prolusione nella rivista, le affiancò una dura recensione di Cristofolini (cui Satta rispose); ed egli stesso ne stroncò la successiva monografia (L’esecuzione forzata).
In realtà la polemica non verteva tanto sulla banale contrapposizione tra la direttrice pubblicistica o privatistica del processo, bensì su come intendere il rapporto tra l’azione (la sua autonomia era la novità dottrinale portata all’inizio del secolo da Chiovenda) e il diritto soggettivo sul cui accertamento il processo verteva. Nello sforzo di riaccostare diritto e tessuto sociale, Satta non si acconciava né al positivismo ottocentesco (il giudizio come rivelazione della legge nel caso concreto attraverso l’interpretazione), né all’astratta teorizzazione chiovendiana. Era l’inizio del travaglio che accompagnò poi il giurista, infaticabile nel suo continuo ripensamento, sempre imperniato sul citato concetto di «esperienza giuridica» e sulla pluralità degli ordinamenti entro un sistema unitario (quest’ultimo punto derivava creativamente da Santi Romano).
Nell’Ateneo veneto, per due anni (1936-37 e 1937-38) ebbe anche l’incarico di storia e dottrina del fascismo, materia obbligatoria nei corsi di scienze politiche. In proposito non gli è stata risparmiata l’accusa di aver coscientemente prestato man forte al regime, tanto più che due colleghi avevano in precedenza trovato il modo di esimersi da quell’insegnamento. Certo Satta era un solitario, ma non un eroe: prese la tessera del Partito nazionale fascista (PNF) il 16 novembre 1932 dopo che, mentre pendeva la candidatura alla libera docenza, il ministero dell’Educazione nazionale aveva assunto informazioni presso il prefetto di Milano per conoscere se la domanda fosse ‘fascisticamente’ ammissibile. Con ottimi argomenti la critica recente ha comunque messo in luce come l’assegnazione di tale incarico fosse un’ingiunzione da parte del rettore, talmente sgradita da indurlo a cercare immediatamente il trasferimento – nel 1938 ottenne la chiamata nella meno prestigiosa Genova –: d’altra parte è certo che Satta proseguì la sua battaglia ideale contro le direttrici governative in tema di processo. È sua, infatti, a nome della facoltà patavina, la relazione fortemente critica contro il progetto Solmi (Parere della facoltà di giurisprudenza della R. Università di Padova sul progetto preliminare di codice di procedura civile, Padova 1937).
A Padova, nel 1937, conobbe la triestina Laura Boschian (1913-2001), allora assistente volontaria alla cattedra di letteratura russa, con cui si unì in matrimonio il 3 maggio 1939; a Genova, il 2 febbraio 1940, nacque il primogenito Filippo, specializzatosi poi negli studi amministrativistici. I bombardamenti sulla città lo costrinsero a trasferirsi con la famiglia dapprima a Fontanellato, nel Parmense, dove il 4 giugno 1943 venne alla luce il secondo figlio Gino (poi dedito alla fisica), quindi in Friuli, a Pieris d’Isonzo. Non dismise tuttavia l’attività pratico-scientifica.
Partecipò ai lavori che portarono alla legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942 n. 267) e anzi in materia divenne un’autorità grazie alle Istituzioni di diritto fallimentare (Roma 1943), prima edizione di un fortunatissimo manuale. La disciplina di questa branca del diritto, sostanzialmente afferente all’attività commerciale, veniva così attratta nell’orbita del processo, a riprova di come la materia procedurale fosse diritto vivo. D’altronde nel pensiero di Satta gli specialismi non potevano contraddire all’unitarietà della scienza giuridica, secondo un ideale condiviso con i grandi giuristi del tempo; e ne sono un segno non solo i diversi incarichi di insegnamento a lui affidati, ma soprattutto la capacità di muoversi sull’intero terreno processuale (anche penale) e su quello costituzionale e commerciale (nel 1963 divenne condirettore della Rivista di diritto commerciale).
Sullo scorcio della guerra Satta si mise a disposizione dell’Ateneo triestino, dove tenne in via temporanea l’insegnamento di diritto industriale (presso la facoltà di economia) in qualità di professore aggiunto. Nel luglio del 1945 venne eletto democraticamente (ma in contrasto con il diritto positivo, come avrebbe detto argutamente nel 1968) commissario straordinario dell’Università, titolo poi convertito dalle autorità anglo-americane in quello di pro-rettore ad interim. Il discorso di inaugurazione dell’anno accademico, tenuto il 25 novembre, è un esempio di alta retorica, ma pieno di forza nella critica alla dittatura e nell’anelito a ricostruire, attraverso il recupero dei valori classici, l’abbandono dei nazionalismi e il superamento della democrazia formale a favore di quella sostanziale. Satta parlava in veste pubblica, senza però sentirsi un politico; come uomo era allora nel suo momento di speranza dopo la distruzione immane e con la nostalgia per i prediletti studi umanistici, da cui era stato distolto, ma che non aveva mai dismesso. Su nomina del Comitato di liberazione nazionale (CNL) triestino, fece parte della delegazione deputata a far valere l’italianità di Trieste e dell’Istria nella Conferenza tenutasi a Parigi nell’estate del 1946 (la vicenda è rievocata dal penalista Giuseppe Bettiol, pure provvisoriamente ‘triestino’ e già compagno di Satta nella frequentazione milanese di Zanzucchi).
La tragica esperienza della dittatura e della guerra gli ispirò il De profundis, composto tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945: un dolente affresco del dramma che tutti aveva coinvolto e che aveva portato alla situazione da lui definita come «morte della patria» (Milano 1980, p. 16).
Satta descriveva un’Italia senza virtù e si scagliava particolarmente contro ‘l’uomo tradizionale’, falso e sempre pronto a giustificare il proprio egoismo persino facendo uso dell’armamentario giuridico nell’immaginario giudizio di fronte a Dio (il libro è intriso di sarcastiche allusioni al formalismo giuridico, alla statolatria, ai «professori e professoruncoli» impegnati a costruire dogmi e ad ammantare con sublimi concetti la politica della forza). Satta rilevava che secondo la moralità imperante l’esame sulle responsabilità (avvento della dittatura e sostegno a essa prestato) era agevole da superare, giacché consisteva in un’autoassoluzione generale. Con una pennellata d’autore, dipingeva il quadro di una gerarchia fascista rapace e però dedita a nobilitare le proprie malefatte impiantando «un sistema filosofico giuridico, alla cui base stava la crociata contro l’individuo»: quello stesso individuo che, tutto teso a «salvare la sua ricchezza e se stesso», aveva finito per affidarsi al regime e «per servirsene lo serv[ì]» (p. 44).
Nemmeno questo secondo lavoro letterario fu però compreso dalla critica: rifiutato da Einaudi nel 1946 con la motivazione che l’autore, rimasto al di fuori dell’ambiente antifascista, non poteva comprendere le spinte ideali sottese alla Resistenza (la lettera, firmata da Massimo Mila, ebbe una piccata risposta di Satta), fu poi respinto da Sansoni (nonostante i buoni uffici di Ugo Spirito, su richiesta di Capograssi) e da La Nuova Italia (si attivarono Francesco Calasso ed Ernesto Codignola). Il libro fu infine edito da Cedam nel 1948, ma rimase pressoché ignoto al largo pubblico e ai giuristi fino al 1980, quando, accolto da Adelphi, ebbe una notevole fortuna sulla scia del successivo romanzo.
Intanto nel 1946 Satta aveva ripreso la vecchia cattedra a Genova, dove svolse anche le funzioni di preside. Era l’inizio di una nuova vita, perché, come egli stesso affermava, chi aveva attraversato la drammatica cesura degli anni Quaranta poteva ritenere d’aver vissuto due volte. Mentre esercitava senza entusiasmo l’attività di consulente e avvocato, il suo centro restava l’impegno accademico, teorico e pratico insieme: in questa simbiosi poteva esprimersi l’uomo – quell’uomo che, come Satta ebbe a dire, non è solitamente possibile cogliere nelle opere scientifiche – e poteva ovviarsi all’astrattezza delle teorie. Con uno stile personalissimo usò strumenti antichi (il manuale, le relazioni congressuali, addirittura la vecchia forma del commentario al codice, più avanti la rivista) e reinventò la funzione delle prefazioni, succosissime e provocatorie, spesso munite di uno sguardo storico, sempre illuminanti nell’esprimere la tensione alla ricerca, senza timore di estendere la scoperta fino al paradosso e magari di dare scandalo. E al centro della ricerca pose il processo: luogo appunto in cui la teoria e la pratica si fondevano facendo emergere il diritto vivente nel complesso gioco della dialettica tra le parti, del dettato della legge e dell’attività del giudice. L’enigma della vita si rifletteva ne Il mistero del processo, che era anche il titolo di una relazione presentata nel 1949 e più volte ripubblicata.
Elogio della giurisprudenza (ma non quella racchiusa nelle massime, considerate fuorvianti), o piuttosto esaltazione del diritto come «l’essere del rapporto umano» (La vita della legge e la sentenza del giudice, 1952, in Soliloqui..., cit., p. 53), accertabile di volta in volta. Diritto come forma di conoscenza della vita e dunque da ritrovare attraverso il giudizio (jus dicere). Sotto questo punto di vista, il diritto è sempre in crisi, perché questa esprime la storicità dell’uomo e pertanto delle regole del vivere civile; ma in Satta andò prevalendo una condizione esistenziale della crisi, priva delle prospettive nutrite sul crinale del 1945. Così la Costituzione era un semplice castello di promesse (Il mistero del processo, in Soliloqui..., cit., p. 40) e sostanzialmente un testo legislativo come tanti altri (v. Il giudice e la legge, in Quaderni del diritto e del processo civile, IV (1970), p. 17), usato a sproposito come grimaldello per erodere l’ordinamento giuridico (La tutela del diritto nel processo, 1950, in Soliloqui..., cit., p. 67). E si assiste al ripiegamento verso uno storicismo passatista che diventava chiusura nei confronti del presente, con posizioni decisamente conservatrici (a favore del tradizionale ordine familiare e persino della pena di morte: ennesimo paradosso in lui che amava l’uomo e soprattutto i deboli).
Per interessamento di Antonio Segni, nel 1958 fu chiamato all’Università di Roma sulla cattedra di diritto fallimentare (ma chiese e ottenne di insediarsi solo dal novembre 1959), per poi passare su quella di diritto processuale civile (1961). Nel 1958 divenne direttore della sezione di procedura civile dell’Enciclopedia del diritto, mentre nel febbraio del 1965 fu eletto preside ma esercitò la carica per poco tempo, colpito dopo alcuni mesi da una grave forma di peritonite.
Alla ripresa, quella ‘crisi’ che aveva nitidamente avvertito nel dopoguerra come giurista e come intellettuale andò tramutandosi in una solitudine che si alimentava e si traduceva in un attivismo quasi prodigioso. Tra il 1967 e il 1973 apparvero due nuove edizioni del manuale processualcivilistico, con importanti prefazioni che riconsideravano gli itinerari percorsi, denunciavano il conformismo e ponevano interrogativi.
Satta approntò un saggio duramente critico sulla scienza giuridica italiana, dedita al concettualismo astratto, chiusa in steccati disciplinari, dominata da cordate clientelari di potere, petulante nel chiedere diritti senza avvertire la responsabilità dei doveri. Il testo (Considerazioni sullo stato presente della scienza e della scuola giuridica in Italia), rifiutato da varie riviste, fu pubblicato, unico inedito, nei Soliloqui (Padova 1968), in apparenza una semplice raccolta di scritti già noti, nella quale in realtà trovava compiuta espressione l’anima del giurista – quasi un’autobiografia – e la sua ansia di rivisitare la propria esperienza (figure di giuristi, indirizzi metodologici, battaglie accademiche) nella coscienza di trovarsi sospeso tra le cose fatte e ancora da fare.
Nel 1970 pubblicò nella Enciclopedia del diritto (XIX, pp. 218-329) la voce Giurisdizione (nozioni generali) che si era autoassegnato e che non sembra azzardato definire il suo testamento scientifico. In essa Satta dichiarava mera opera di fantasia la entificazione dello Stato, negava in quanto irreale la tripartizione delle funzioni (legislazione, amministrazione, giurisdizione) e dichiarava che l’ordinamento (anzi, i tanti ordinamenti in cui la societas organizzata si risolveva) coincideva con la giustizia nel caso concreto, rinvenibile attraverso il processo: giurisdizione equivaleva a ‘giustizia’ ed era il formarsi stesso del diritto («il diritto fa la sua apparizione soltanto nel momento del giudizio», p. 223). Poteva ben esistere un diritto senza legislazione, mentre esso era impensabile senza giurisdizione.
Spicca ancora, tra il 1969 e il 1973, l’impegno per la ‘sua’ rivista, preannunciata nella prefazione alla settima edizione del Diritto processuale civile (Padova 1967).
Come egli stesso indicava, il modello era la rivista di Carnelutti: non un contenitore amorfo, bensì una palestra di discussione critica, uno strumento dinamico che riflettesse «la mobilità della vita». Nonostante il modesto titolo di Quaderni, gli intenti erano assai ambiziosi, perché il periodico avrebbe dovuto affiancarsi al manuale, di per sé statico salvi gli aggiornamenti e, nell’insieme, costituire i canali di riferimento della scuola. In effetti la rivista fu un mezzo espressivo della personalità di Satta, compilatore quasi per intero dei testi raccolti nelle diverse sezioni (dottrina, giurisprudenza, letture, riletture, cronache), tanto che nell’ultimo volume, del 1973, riprodusse anche gli articoli pubblicati quale editorialista del Gazzettino di Venezia (1970-72), evidentemente di natura divulgativa (la riedizione sembra quasi un segno di stanchezza). Con il solito incisivo linguaggio, i Quaderni riflettevano le inquietudini del giurista/scrittore, spesso in polemica con lo spirito del tempo e comunque sempre su posizioni francamente conservatrici (per esempio, contro la legge sul divorzio e le sentenze della Corte sulla incostituzionalità delle norme in tema di adulterio). Ma Satta andava al di là. Avversando quanti criticavano le ideologie sottese al diritto, teorizzava che il giurista dovesse essere necessariamente conservatore, perché chiamato a scoprire il diritto fattualmente esistente e incarnato nei valori dell’ordinamento: valori di origine ideologica, certo, ma giuridicizzati nell’ordinamento e come tali vincolanti.
Nella rivista lo studioso sardo riconsiderava anche il ruolo della propria disciplina (si occupò del codice di procedura civile del 1865 e di Chiovenda e pubblicò le preziose e inedite Pagine autobiografiche di Lodovico Mortara) e, insieme, la propria collocazione in seno a essa. Se si eccettua il sostegno dell’amico romanista Bernardo Albanese e una recensione poco generosa di un giovanissimo Federico Spantigati, i Quaderni furono ignorati da tutti. Consapevolmente solo, il giurista si produceva in una riflessione che era al tempo stesso un esame di coscienza: si interrogava sulla sua ‘competenza’ – nell’accezione sattiana: quel che gli competeva come soggetto nel sociale e nell’Accademia – e prima ancora sulle proprie origini. L’uomo era inscindibile dallo scienziato del diritto, come aveva scritto presentando le note autobiografiche di Mortara.
Ma è sul piano letterario che il suo bisogno di introspezione si espresse più nitidamente. La tensione verso la letteratura che il giurista, per senso del dovere, aveva costantemente compresso («La procedura civile era il talento affidatomi, e io credo che l’aver messo a frutto – così come potevo – questo talento, resistendo a ogni lusinga di evasione, varrà a farmi molto perdonare nel giorno di quel giudizio»: Prefazione al Diritto processuale civile, 1948, in Soliloqui..., 2004, cit., p. 143) si fece prepotentemente largo. Satta avvertiva ormai la necessità di andare oltre, di «fare qualcosa che giustifichi la mia esistenza», come scriveva ad Albanese, soggiungendo: «cosa sarà ignoro, ma non può essere questo mestiere» (lettera del 15 maggio 1970, in Gazzola Stacchini, 2002, p. 82). Quella crisi del giudizio che aveva più volte denunciato gli imponeva ora un lavacro innanzi tutto di se stesso.
Il 25 luglio 1970 cominciò così la stesura del suo capolavoro letterario: Il giorno del giudizio. È il racconto autobiografico, incompiuto, incentrato sulla vita della sua famiglia (Sanna nel romanzo) nel primo ventennio del secolo e nel contesto della Nuoro del tempo. I personaggi e l’ambiente erano rappresentati secondo un ordine: ognuno con un ruolo e una caratterizzazione propria in quella societas da cui il futuro cattedratico processualcivilista si era staccato, ma tutti con il problema di vivere. Era un ritorno alle origini, per chiedersi il perché delle cose e per prepararsi al giudizio, da cristiano laico o forse da calvinista, come Satta stesso ha lasciato scritto (Quaderni, II (1969), p. 109); per quanto vi sia in essa un ordine, la vita stessa è un mistero al pari di quel processo cui il giurista aveva dedicato la sua riflessione accademica.
Con il genere autobiografico si cimentò un numero relativamente elevato di processualcivilisti del Novecento (il menzionato Mortara, Calamandrei, Carnelutti), ma Satta fu originale anche in questo: per le prove ripetute in ambienti e tempi differenti, la prosa efficace e raffinata, i lampi inventivi, l’ironia che nasceva dal distacco e la pietas che derivava dalla comprensione e in fondo dal sentirsi parte del mondo descritto. Pubblicato postumo da Cedam nel 1977 e ristampato nel 1979 da Adelphi per la sollecitudine di Francesco Mercadante (anche in edizione critica, Cagliari 2003, a cura di G. Marci, con le pagine iniziali della seconda parte biffate nell’autografo dall’autore), il libro, inizialmente ignorato dalla critica e accolto con imbarazzo nella città natale, divenne presto un caso letterario tradotto in diciassette lingue. Da allora la fama del letterato, peraltro contrastata, oscurò quella del giurista, non meno grande.
Il 20 maggio 1972 Satta aveva tenuto la sua ultima lezione ed era stato collocato fuori ruolo. Morì a Roma il 19 aprile 1975, stroncato da un male incurabile.
Fonti e Bibl.: Università degli studi di Pisa, Archivio generale, Studenti, 17732; Roma, Archivio storico dell’Università degli studi La Sapienza, 4865; Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione generale Istruzione superiore, Liberi docenti, 1930-1950, b. 445, f. Satta Salvatore; Ibid., Divisione I, pos. 21: Concorsi a cattedra universitaria, 1924-1954, b. 67; Roma, Fondazione nazionale Giuseppe Capograssi, Carteggio Satta-Capograssi (1946-1954); Studi in memoria di S. S., I, Padova 1982; S. S. giuristascrittore, Atti del Convegno internazionale di studi, Nuoro... 1989, a cura di U. Collu, Cagliari 1990; V. Gazzola Stacchini, Come in un giudizio. Vita di S. S., Roma 2002; M. Corda, La filosofia della vita in dimensione esistenzialista. S. S. filosofo, Roma 2004; Nella scrittura di S. S.: dalla «Veranda» al «Giorno del giudizio», a cura di A. Delogu - A.M. Morace, Sassari 2004; S. S., oltre il giudizio. Il diritto, il romanzo, la vita, a cura di U. Collu, Roma 2005; C. Punzi, S. S., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 1806-1808; G. Gangemi, S. S. sotto il torchio dello storico, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, XCI (2014), pp. 105-126; L. Cavallaro, Presentazione, in S. Satta, Trattatello di procedura civile, a cura di L. Cavallaro, Milano 2015, pp. V-XX; C. Montagnani, Insegnare il fascismo e difendere la libertà. L’esperienza di S. S., Napoli 2015; F. Scamardella, Diritto e letteratura: alcuni profili della consuetudine giuridica ne «Il giorno del giudizio», in Il diritto incontra la letteratura, a cura di S. Torre, Napoli 2017, pp. 83-111.