SPINUZZA, Salvatore
– Nacque a Cefalù il 20 dicembre 1829 da Rosario, commerciante, e da Stella Amato, casalinga.
Ebbe un fratello, Antonino, e una sorella, Gaetana, entrambi maggiori di lui.
L’esempio fraterno fu fondamentale per la sua formazione: collaboratore di Giuseppe Mazzini, Antonino introdusse Salvatore alla cospirazione, portandolo con sé negli incontri con gli esponenti di punta del democratismo isolano, come Rosario Bagnasco e Saverio Friscia. Fin dall’adolescenza Spinuzza manifestò un carattere indomito e una forte vocazione alla militanza: agli studi affiancò la lettura dei classici del pensiero politico e l’elaborazione di una personale visione del problema italiano, mutuata dall’insurrezionalismo mazziniano, ma disposta ad abiurare le idee repubblicane in favore del costituzionalismo monarchico.
Nel 1848, la ‘primavera dei popoli’ sembrò il momento propizio per la realizzazione dei suoi progetti: abbandonati gli studi, Salvatore – appena diciannovenne – aderì al comitato di Cefalù e si arruolò come volontario nella guardia urbana. Malgrado la repentina conclusione, l’apprendistato rivoluzionario fu per lui un’occasione di maturazione, trasformandolo definitivamente in un ‘uomo d’azione’: fin dal 1849 si adoperò per rafforzare la rete cospirativa dell’isola, collaborando con il cugino Andrea Maggio, con Nicolò e Carlo Botta, Luigi La Porta, Vittoriano Lentini e Francesco Bentivegna.
Le scomode amicizie misero Spinuzza nel mirino della polizia: il giovane fu arrestato all’inizio del 1850 e condotto nel carcere di Cefalù, da dove fu liberato il 5 febbraio dello stesso anno, in cambio di una cauzione di mille ducati.
Quelle vicissitudini non servirono però a smorzare il suo impegno: riprese così le comunicazioni con i comitati siciliani e all’inizio del 1853, membro del vertice cospirativo assieme a Lentini e La Porta, tentò di organizzare una nuova sollevazione. A bloccarlo fu ancora la polizia, che – dopo aver arrestato i suoi compagni a Palermo – inviò a Cefalù l’ordine per la sua cattura. Al crepuscolo del 19 gennaio una pattuglia fece irruzione nel casolare di campagna della famiglia Spinuzza: vi trovò Salvatore e il fratello Antonino, assieme a Pasquale Noto, Giuseppe Bianca e Rosario Grasso, circondati da armi, cifrari, biglietti indirizzati ai detenuti Giovanni Curatolo e Andrea Maggio. Gli uomini furono condotti al comando di Cefalù e dopo poco rilasciati. Solo Salvatore, leader del comitato, fu rinchiuso a Castellammare. Negli interrogatori e nel processo cui fu sottoposto rifiutò di tradire i compagni, andando incontro a una sentenza esemplare. Al termine delle udienze, che lo videro imputato insieme a Lentini e La Porta, fu giudicato infatti colpevole di cospirazione e condannato a morte.
Solo l’appello alla Corte suprema impedì che l’esecuzione fosse eseguita: rinviati al tribunale di Trapani, e rinchiusi alla Colombaia, tre anni più tardi i detenuti furono sottoposti a un nuovo giudizio, che ribaltò la condanna e li rimise in libertà. Nell’agosto del 1856 Salvatore tornò così a Cefalù e riallacciò i contatti con Bentivegna; insieme a lui visitò la Sicilia, rifondò circoli e associazioni segrete, concordò con il comitato centrale tempi e modi della rivolta.
Il 2 novembre 1856, dopo una tappa a Corleone, i due amici si separarono: Bentivegna si mosse verso Palermo, Spinuzza si spostò a Termini, dove conferì al barone Giuseppe De Luca l’incarico di mettersi alla testa dei moti. Mentre stava lasciando la sua casa, però, fu tratto in arresto e nuovamente rinchiuso a Cefalù.
La sua cattura convinse Bentivegna della necessità di anticipare l’insurrezione: il 13 novembre il quartier generale fu fissato a Mezzojuso e il 22 fu proclamata la rivolta. Gli insorti disarmarono la guardia urbana e liberarono i detenuti, mentre il moto si propagava nei paesi di Villafrati e Ciminna. Il 24 le squadre cercarono di estendere le operazioni a Corleone e Marineo, contando sull’appoggio di altri uomini provenienti da Palermo. Giunti a Vicari, tuttavia, non trovarono i rinforzi e dovettero scontrarsi con le truppe borboniche. Le bande furono disperse e Bentivegna si rifugiò in un casolare vicino Corleone, dove fu catturato due settimane più tardi.
La notizia del fallimento dell’insurrezione, intanto, giunse a Termini e Cefalù: se il comitato termitano scelse subito di rinunciare all’azione, diversa fu la decisione dei concittadini di Spinuzza, che il 25 novembre incontrarono l’emissario Cesare Civello e acconsentirono a dare comunque avvio alle operazioni. Nella notte i rivoltosi irruppero in strada, distrussero le linee telegrafiche e assaltarono le carceri. Lì liberarono Salvatore, nominandolo leader della sollevazione. Si creò così un comitato di giovani patrioti, cui presero parte anche alcune donne, fra le quali Giovanna Oddo, fidanzata di Spinuzza, ed Elisabetta e Giuseppina Botta, sorelle di Carlo e Nicolò.
Il moto, tuttavia, degenerò rapidamente. Malgrado l’emanazione di misure in tutela della proprietà e dell’ordine pubblico, Spinuzza fallì nel tentativo di disciplinare le folle e la rivolta assunse i contorni di una jacquerie, priva di obiettivi politici e scollegata dal resto dell’isola.
All’alba del 27 novembre, intanto, la nave borbonica Sannio fece la sua apparizione nella rada della città. Lo sbarco dei soldati e la minaccia di un bombardamento furono gli atti finali di una tragedia annunciata. Il popolo si disperse; a Spinuzza e ai suoi collaboratori non rimase che la fuga. Si nascosero a Presti e poi sulle montagne di Collesano, dove Spinuzza sciolse il gruppo, proseguendo il suo cammino a fianco di Maggio, Salvatore Guarnera e dei fratelli Botta. Con loro giunse a S. Mauro e a Pettineo, da dove pensò di prendere la via del mare, verso Malta. Scrisse così una lettera al fratello, chiedendogli l’invio del denaro necessario.
La risposta non gli giunse mai. Antonino era stato arrestato insieme alla madre, alla sorella e ai congiunti degli altri patrioti. I detenuti furono sottoposti a ogni genere di violenze: Gaetana, incinta, perse il suo bambino, ma né lei né gli altri accettarono di indicare il nascondiglio dei fuggitivi.
A provocare la cattura di Spinuzza furono invece le delazioni di Vincenzo Fratantoni – che suggerì alla polizia di cercare i transfughi in provincia di Messina – e il sequestro di una lettera che rivelava un loro legame con Raimondo Dissidomino di Patti. L’uomo fu raggiunto il 5 febbraio 1857; dopo lunghe torture, indicò che il rifugio degli evasi era la casa del patriota Giovanni Sirena di Pettineo, e la notizia fu confermata dal marinaio Salvatore Gerbino, catturato intanto a Finale.
All’indomani i militari si recarono nella città peloritana, circondarono l’abitazione e iniziarono l’assalto. Al termine di un combattimento di nove ore riuscirono a catturare i fuggiaschi, ormai privi di forze e munizioni, e li condussero a Castellammare, in attesa di giudizio. Il processo, gestito dal Consiglio di guerra, si svolse l’11 marzo, e Spinuzza ancora una volta rifiutò di collaborare con le autorità. Incurante delle torture – che avrebbero suscitato l’indignazione del console britannico in Sicilia – rimase in silenzio e intervenne solo alla fine del procedimento: «Ho compreso che si vuole una vittima, ma non posso tollerare che mi si addebitino principi repubblicani. Io voleva la monarchia costituzionale» (G. Raffaele, Un periodo di cronaca contemporanea, Palermo 1862, p. 42).
La sua sorte, comunque, era segnata: lo stesso giorno fu condannato a morte e, a differenza degli altri imputati, non poté godere della sospensione della pena in ragione dei suoi precedenti. Fu quindi imbarcato sul Guiscardo, che lo riportò a Cefalù. A causa del maltempo giunse in città a tarda sera; l’esecuzione fu rinviata all’indomani e Spinuzza trascorse la notte nella chiesa dell’Addolorata. I concittadini approfittarono del ritardo per chiedere una revisione della sentenza al commissario straordinario Vincenzo Ramo, in visita da Napoli. Le loro istanze, però, caddero nel vuoto.
Il 14 marzo 1857 morì fucilato a Cefalù, sotto gli occhi della fidanzata.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, Polizia, bb. 531, 600, 627, 1230-1233, 1475-1479; Corte Suprema, Processo Lentini-Spinuzza-La Porta. Le denunce del console inglese del 1857 si trovano a Londra, National Archives, Public Record Office, FO, 70-291. L’unica biografia del personaggio è quella di T. Matassa, I moti rivoluzionari e S. S. martire del Risorgimento, Cefalù 2006. Inoltre: F. Miceli, Elogio funebre di S. S., Palermo 1861; F. Neri, S. S. Ricordi patriottici, in La vita italiana. Rivista illustrata, II (1895), 23, pp. 462-464. Altre notizie si ritrovano in A. Sansone, Cospirazioni e rivolte di Francesco Bentivegna e compagni, Palermo 1891, passim; F. Spiridione, Storia della rivolta del 1856 in Sicilia, Roma 1899, ad ind.; A. Sansone, La Sicilia dal 1848 al 1860, in Archivio storico siciliano, n.s., L (1930), pp. 69-248; T. Gambaro, S. e il capitano. Cronache di una latitanza, in Conoscere il territorio: arte e storia delle Madonie. Studi in onore di Nico Marino, a cura di G. Marino - R. Termotto, I, Cefalù 2013, pp. 69-78.