SĀṂKHYA
KHYA Uno dei sei sistemi filosofici ortodossi dell'India brahmanica (rispettivamente tre, giacché ciascuno di essi trova integrazione in un altro: v. mīmāmsā). È così denominato, probabilmente, dalle molte enumerazioni (saṃkhyā "numero") che si contengono nella sua esposizione: ad es., "il triplice dolore, i venticinque principî, le sessantadue forme d'errore", ecc. È tra i sistemi filosofici uno dei più antichi (il suo autore leggendario, Kapila, sarebbe difatti vissuto nel nord dell'India verso la metà del secolo VI a. C.), ma è pure uno dei più elaborati.
La più antica trattazione di esso ci è data dalla Sāṃkhya-kārikā, (attribuita a Īśvarakṛṣṇa, vissuto, pare, nel sec. IV d. C.), la quale consta di 72 strofe mnemoniche (kārikā) ed è stata dotata di molti commenti e sottocommenti nei secoli vIII e XII; già nel sec. Iv era stata tradotta in cinese. Una vera e propria sistemazione del Sāṃkhya si è avuta in epoca assai più tarda (sec. XIV) col Sāṃkhya-sūtra o Sāṃkhyapravacana, che fu più tardi dotato, a sua volta, di commento, nel quale si contengono, come appunto il titolo significa: "Le regole (sūtra), la dichiarazione esauriente (pravacana) del Sāṃkhya".
Il Sāṃkhya è sistema nettamente pessimistico: afferma il dolore dell'esistenza e si propone per fine supremo la distruzione di esso; ma per tale suo carattere si rivolge, contrariamente al Vedānta, a tutti gl'Indiani, senza distinzione di casta. Costituisce un' antitesi realistica, razionalistica, all'idealismo delle Upaniṣad (v. india: Letteratura); è, inoltre, essenzialmente dualistico: nella perfetta conoscenza, cioè, della natura (prakrti "natura, materia") e dello spirito (puruṣa "spirito, anima, uomo in sé"), sostanze nettamente distinte, esistenti ambedue senza principio e senza fine, e delle reciproche loro relazioni, fa consistere la vera salvezza.
La prakrti è "l'elemento o materia primordiale, radice, sostrato di tutte le cose, l'essenziale, il principio originale o caos primitivo", ciò che, in altre parole, preesiste alla formazione del mondo: attivo, incosciente, uno, infinito, eterno. Per la sua sottigliezza, la prakrti è impercettibile: se ne desume, tuttavia, l'esistenza da una serie di illazioni (ultima, la necessità di ammettere un precedente non prodotto, ecc.); è nel suo stato originale "l'involuto, l'indifferente, l'indiscriminato" (avyakta: cfr. la ὕλη di Aristotele), pronto ad evolversi (vyakta), in conseguenza della vicinanza del puruṣa: rappresenta la natura nel senso più ampio. Il puruṣa, invece, è la monade pura, eterna, l'anima, lo spirito in sé, l'elemento individuale, l'io: se ne concepisce l'esistenza dalla coscienza che abbiamo dell'io (cogito ergo sum). Di genere del tutto diverso dalla prakṛti, il puruṣa non può essere definito che per negazione: è immateriale, senza forma, non prodotto né produttore, è inattivo, è privo di ogni possibile qualità, ché, diversamente, sarebbe soggetto a mutazioni; è insensibile. È, inoltre, intelligenza pura, pura luce, mai oggetto, ma sempre soggetto della conoscenza. Il puruṣa risulta finalmente, non uno, come la prakrti, ma in numero infinito, in numero, cioè, corrispondente alle creature viventi. Tale numero infinito di anime non implica, tuttavia, una differenza tra loro, secondo la natura accennata del puruṣa, né una conseguente loro gerarchia. Dal che consegue non essere necessario ammettere l'esistenza di uno spirito supremo, Dio, reggitore e regolatore dell'universo e del destino delle creature. E difatti, contenendo la prakṛti (inconscia) il potere dell'evoluzione (durante la quale le anime rimangono del tutto passive), la determinazione del corso dell'evoluzione stessa e del destino delle creature è dovuta soltanto all'effetto delle loro azioni cioè, al karman (v.).
Gli stadî costruttivi della natura nell'evoluto" (vyakta) sono determinati dal Sāṃkhya nel modo seguente: considerati i "cinque grossi elementi" sthūlabhüta (terra, acqua, fuoco, aria, etere), esso risale ai loro costituenti "sottili" sūksmabhūta o fondamentali (suono, tatto, colore, gusto, odore), lo stadio di sviluppo dei quali ultimi è posseduto dai cinque sensi (organi di percezione: udito, tatto, vista, gusto, odorato), cui si connettono i cinque organi di azione (voce, mani, piedi, apparato di secrezione, apparato di generazione). Ma aghi elementi sottili e agli organi dei sensi sovrasta una funzione mentale, cioè "il fattore dell'io, il senso dell'individualità, ciò che produce l'illusione dell'io, l'organo della soggettivazione" (ahaṃkara), al cui elemento di giudizio soprassiede la buddhi "sostanza pensante, intelletto" o mahat "il grande", che "ha l'ufficio di discernere, giudicare, decidere". Ma anche la buddhi è elemento materiale, limitato e caduco: essa risale a sua volta a un principio più alto, privo di limitatezza ed eterno, alla prakṛti primeva. Nello stato di avyakta "inevoluto" la prakṛti risulta di tre diverse sostanze o costituenti (guṇa) o parti integranti (tale sua divisibilità nell'unità fondamentale accennata è paragonabile a un fiume che è uno, se pur formato da tre affluenti): il sattva "bontà", il rajas "passione", il tamas "tenebra", elementi il cui stato di equilibrio, che si manifesta alla fine di un periodo cosmico, viene rotto dalla forza invisibile (adṛṣṭa) delle opere compiutesi nel periodo precedente, forza di cui causa immediata è la vicinanza delle anime, "che agiscono sulla prakṛti, come la calamita sul ferro". Dall'eccellere di uno o di un altro dei tre guṇa in lotta fra loro, dipende il carattere peculiare della sostanza pensante e cioè: a) bontà, virtù, gioia o leggerezza, luminosità; b) attività, passione, dolore o forza, movimento; c) paura, incoscienza, stoltezza, malvagità o pesantezza e tenebra: secondo, cioè, il prevalere rispettivamente del sattva, rajas, tamas.
Alla fine di ogni periodo cosmico avviene, "per l'eterno alternarsi dell'evoluzione, dell'esistenza e della dissoluzione", il ritorno di ogni cosa nella materia primeva.
Il processo psicologico secondo la concezione del Sāṃkhya, riveste un carattere ancor più strettamente religioso. La sostanza pensante (intelletto, buddhi), l'organo di soggettivazione (ahaṃkāra), gli organi dei sensi, di pensiero (jñānendriyāṇi) e di azione (karmendriyāṇi) e il senso interno (manas) che a tutto soprassiede, primus inter pares (come quello che, organo intellettuale e di azione, trasmette in forma elaborata alla sostanza pensante "le immagini elementari che gli organi dei sensi gli apportano") costituiscono tutti insieme "l'organo interno" (antaḥkạranạ). Questo, con i sensi e gli elementi sottili, costituisce il "corpo sottile" o trascendente (sūkṣma-śārīra o liñga-śārīra) che circonda l'anima e da essa è fatto cosciente e che, veicolo del karman (merito o demerito), accompagna, come si è detto, l'anima nella trasmigrazione da uno a un altro corpo. Ogni possibile e più varia qualità del "corpo sottile" cioè (bontà, cattiveria, saggezza, stoltezza, passionalità, ecc.), appartiene al "corpo sottile" e non all'anima, che sappiamo essere priva di ogni qualità e non soggetta ad affezione alcuna, che "s'unisce alla prakrti per contemplarla, mentre questa si unisce all'anima per cooperare alla salute di essa". (Sāṃkhya-kārikā, 21).
Ma il vivente confonde l'io (prodotto della materia evoluta, l'anima empirica, cioè, il jīva "vivente") con l'anima assoluta, metafisica: da tale confusione l'origine del dolore, il fondamento della rinascita, anche se le sensazioni possono essere di piacere: estrema espressione questa del pessimismo del Sāṃkhya. Quando l'individuo abbia raggiunta la vera conoscenza della distinzione tra anima e materia (conoscenza che non producono né gli antichi sacrifici vedici, né le opere buone - cagione pur essi di rinnovamento dell'esistenza -, ma solo l'interno lavoro psichico, la speculazione filosofica che genera l'intuizione, o, come sarà secondo il sistema Yoga, l'ascetismo), il "corpo massiccio" si dissolve negli "elementi massicci"; il meccanismo psichico in ciò da cui esso era venuto, cioè nella materia primeva, inevoluta, e l'anima, non più offuscata dal rispecchiaisi in essa dell'"organo interno" e non più confusa con l'io empirico, riacquista il suo stato di assolutezza e fruisce eternamente dell'"assoluto isolamento" (kaivalya).
R. Garbe, Die Sāṃkhya Philosophie, 2ª ed., Lipsia 1917; F. Belloni-Filippi e C. Formichi, Il pensiero religioso e filosofico dell'India, Firenze 1910; A. B. Kerth, The Sāṃkhya System, a history of the Sāṃkhya Philosophy, Calcutta-Oxford 1922.