Disciplina psico-fisiologica indiana basata su una vasta gamma di tecniche ascetiche. Lo y. cosiddetto classico costituì uno dei sistemi filosofici indiani, strettamente collegato al Sāṃkhya (➔); tuttavia, proprio per la sua natura tecnica, esso è piuttosto un supporto per i vari sistemi filosofici, da cui riceve specifici indirizzi. Indizi della sua esistenza risalgono già all’epoca preariana, e sono rintracciabili nell’Atharvaveda (➔ Veda); ma è nelle Upaniṣad che esso compare come termine indicante una ‘tecnica’. Lo y. offre gli strumenti per sottomettere al dominio della coscienza i processi psichici e fisiologici che si svolgono normalmente fuori di essa, al fine di risvegliare quella potenza nascosta nel substrato psichico per mezzo della quale si realizza tale reintegrazione. In questo senso y. può essere inteso anche come ‘riunione’ tra l’uomo e il cosmo individuato, che insieme si trasfigurano così nell’Universo trascendente.
Nello schema dello y. classico, è previsto per il praticante (yogin) un itinerario ascetico che, dopo una fase preliminare (comprendente anche lo studio dei Veda), si articola in 8 gradi fondamentali (aṇga «membra»). Di questi, i primi 2, propedeutici allo y. vero e proprio, sono costituiti rispettivamente da 5 proibizioni (yama) e da 5 prescrizioni (niyama) che concernono la disciplina etica e la pratica dell’ascesi (tapas), intesa a questo livello come semplice esercizio di sopportazione fisica (caldo, freddo, fame, sete ecc.). Con gli aṇga successivi si entra nel dominio specifico dello y. (v. fig.): conoscenza delle 84 posture fondamentali, autoregolazione della respirazione, distacco dei sensi dagli stimoli esterni, concentrazione dell’attenzione su un oggetto, meditazione totale sull’oggetto, annullamento della separazione tra soggetto e oggetto; in questo ultimo stadio si sperimenta l’estasi del samādhi, meta finale dell’itinerario yogico. Le ultime tre fasi (rāja yoga) costituiscono il vero e proprio percorso mistico, mentre le prime 5 possono essere preparatorie al rāja y. o costituire delle regole di vita ascetica. Il samādhi, stato di beata quiescenza, può essere raggiungibile sia attraverso una sublimazione del dinamismo psichico e una trasfigurazione del concreto, sia attraverso l’eliminazione di entrambi.
Quale che sia l’indirizzo, la prassi dello y. è sempre basata sull’esaltazione delle forze psichiche, ovvero sul risveglio di un flusso di energia sovrasensibile (kuṇḍalinī) latente, alla base della colonna vertebrale. I centri di tale energia, 3 nello y. più antico, 5 o 7 nella speculazione successiva, sono raffigurati come fiori di loto o ruote (cakra), disposti verticalmente lungo una linea che va dal plesso sacrale fino al cervello. Nel corso della prassi yogica l’asceta può conseguire poteri fisici eccezionali (siddhī) che, se non subordinati al samādhi, costituiscono per l’asceta il più grave rischio di ripiegamento: lo yogin abdicherebbe al suo compito degradandosi a fachiro.
A seconda delle tecniche impiegate, si distinguono vari tipi di y.: laya-y., karma-y., mantra-y., bhakti-y., jnana-y., haṭha-yoga. Quest’ultimo, y. «dello sforzo» o «violento», dilata smisuratamente le tecniche somatiche al fine di giungere alla costituzione di un ‘corpo magico’ liberato dalle inanità e dalle contraddizioni del corpo profano; dietro di esso si ravvisano antichi orientamenti magico-religiosi.