San Pietro e San Paolo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le basiliche intitolate agli apostoli Pietro e Paolo sorgono nel IV secolo comportando ingenti lavori di sbancamento, la costruzione di fondamenta difficili e costose e la complicata abolizioni di antiche necropoli, allo scopo di inglobare le tombe venerate: entrambe sono state ideate, con la loro splendida cornice artistica, per contenere il corpo del martire, allora come oggi punto preciso e inamovibile delle due costruzioni.
Costruita pochi anni dopo l’editto di Milano del 313 con il quale Costantino concede libertà di culto ai cristiani, la basilica di San Pietro è sorta nell’area extraurbana dell’ager Vaticanus dove l’Apostolo trovò la morte e la sepoltura secondo la lezione tramandata dal Liber Pontificalis: “in Vaticano, sulla via Aurelia, presso il tempio di Apollo (…), di fronte al palazzo di Nerone”: (L. Duschesne, Le Liber Pontificalis, 1886-1892). La costruzione patrocinata da Costantino due secoli dopo dipende per posizione ed orientamento dalla volontà di racchiudere un piccolo monumento che dalla metà circa del II secolo sorgeva sulla tomba venerata, nel mezzo di una necropoli di origine pagana. In base ad indizi archeologici l’inizio dei lavori di costruzione può fissarsi fra il 319 e il 322 e il completamento verso il 329. Il progetto di Costantino rappresenta una delle prime esperienze che danno origine alla forma architettonica della basilica cristiana, senza dubbio dettata dalle esigenze liturgiche suggerite da papa Silvestro I. Confrontata con altre basiliche erette dall’imperatore e dai suoi successori nel corso del IV secolo essa si rivela un unicum, e non solo per le dimensioni grandiose e le sue imponenti cinque navate. La basilica del Salvatore (in seguito nota con la dedica a San Giovanni), sorta nell’area imperiale del Laterano in epoca poco anteriore è infatti di dimensioni non troppo minori. La novità risiede nel fatto che la basilica nasce per contenere il corpo di un martire. Essa è formata dalla giustapposizione di due corpi di fabbrica, navata e transetto, connessi ma ben distinti. Il transetto è creato con una sua autonomia architettonica, separato dalle navate laterali da un fitto schermo di colonne. Soltanto dalla navata centrale, seguendo l’asse principale della basilica incentrato sulla tomba, si poteva vedere l’abside, fuoco prospettico dell’intero complesso, enfatizzato da un organismo a baldacchino formato da raffinate colonnine tortili fatto giungere dalla Grecia dallo stesso Costantino: l’insieme sembra potersi riconoscere nella riproduzione sulla faccia posteriore della capsella in avorio trovata a Samagher, in Istria (Venezia, Museo Archeologico), databile alla metà del V secolo ca.
Il transetto era unicamente dedicato alla memoria dell’Apostolo; cinquant’anni dopo solo la seconda basilica di San Paolo, con aggiornamenti e modifiche, ne ripropone il modello architettonico. L’abside appariva in origine ammantata da un rivestimento aureo aniconico, dalla metà del IV secolo sostituito o integrato con la composizione teofanica della Traditio Legis, come suggerisce il rilievo del coperchio della cassetta di Samagher. Cristo consegna idealmente il rotolo svolto della Legge a Pietro mentre Paolo acclama; nella fascia inferiore il trono regale recava la croce e mentre al di sotto spiccava l’Agnello mistico. Si tratta di una tematica parallelamente sperimentata in altri contesti paleocristiani che trae i suoi elementi da un alto repertorio di apparato, il più idoneo a porre ideologicamente la basiliche cristiane al livello delle regiae imperiali. Per decenni quest’abside polarizza l’attenzione dei fedeli costituendo il fuoco prospettico e simbolico dell’intero edificio, sopra la tomba dell’Apostolo. Alla metà del V secolo, l’ordinamento dell’immensa materia della storia della salvezza sotto il profilo della struttura tematica e della sequenza narrativa figurata attuato da Leone Magno (440-461), fornisce il modello per il ciclo di affreschi ispirati all’Antico e Nuovo Testamento che si svolgeva in abbinamento su entrambe le pareti della navata, disposto su due registri sovrapposti e separati da colonnine tortili, secondo quanto era già stato realizzato a Santa Maria Maggiore qualche tempo prima. Distrutto agli inizi del XVII secolo, il programma ispiratore della tipologia decorativa di ogni altra basilica medievale ci è noto attraverso agli acquarelli di Domenico Tasselli e la descrizione di Giacomo Grimaldi che risalgono al XVII secolo. Allo stesso Leone I si deve la decorazione musiva della facciata, in seguito ampiamente rielaborata da Gregorio IX (1237-1241) e nota nelle sue linee generali da una miniatura dell’XI secolo raffigurante i funerali di Gregorio Magno davanti alla Basilica Vaticana (Eton, College Library, Farf. 124): al centro della composizione si stagliava l’Agnello fiancheggiato dai simboli degli Evangelisti e più in basso, tra le finestre, prendeva svolgimento la processione dei Ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse in adorazione. Sia all’esterno che all’interno i mosaici subiscono restauri già nel corso dell’alto Medioevo; in particolare, dopo l’incursione saracena che infierisce particolarmente sul Vaticano nell’846, Leone IV (847-855) risarcisce i cicli della navata forse introducendovi i due nuovi soggetti della Crocifissione e dell’Anàstasi. Il mosaico della conca absidale viene in seguito sostituito dall’immagine patrocinata da Innocenzo III (1198-1216), destinata ad essere smantellata nel 1592 insieme alla tribuna dell’antica basilica per dare luogo alla costruzione michelangiolesca. L’edizione innocenziana del mosaico segnala l’avvenuta maturazione di un linguaggio espressivo orientato verso temi di pregnanza politica oltre che ecclesiale: essa trasforma la Traditio Legis in una Maiestas Domini imperniata sulla figura di Cristo in trono tra Pietro e Paolo perfettamente simmetrici e soprattutto attualizza la fascia inferiore della composizione, dominata pur sempre dall’Agnello sul trono ma fiancheggiato dai simbolici dodici agnelli fuoriuscenti dalle città di Gerusalemme e Betlemme. A capofila delle due schiere di agnelli le figure dello stesso Innocenzo III e dell’Ecclesia romana risultavano a stretto contatto con il trono e in asse rispetto al Cristo della Maiestas. Gli unici frammenti superstiti del mosaico (Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi) derivano proprio da questa fascia (l’effige di Innocenzo III il busto dell’Ecclesia, la fenice originariamente posta sulla palma dattilifera).
Di una prima basilica eretta dallo stesso Costantino, attestata dal Liber Pontificalis (L. Duschesne, Le Liber Pontificalis, 1886-1892) restano tracce archeologiche rese più consistenti da recenti indagini archeologiche. L’edificio sull’Ostiense era meno imponente rispetto a San Pietro; con il patrocinio di tre imperatori, Valentiniano I, Teodosio e Arcadio, sul volgere del IV secolo inizia la costruzione di una nuova basilica, consacrata, tutta o in parte, nel 390 da papa Siricio e portata a termine dall’imperatore Onorio (395-423), così come è documentato dalla lunga iscrizione musiva dell’abside. Agli albori del V secolo essa viene descritta da Prudenzio completa di soffitti dorati, colonne di marmo nei quattro colonnati, e una decorazione in mosaico. Ignoriamo quale fosse la composizione absidale prevista in età paleocristiana e solo in via ipotetica si può pensare ad una teofania con Pietro e Paolo ai lati del Salvatore, uno schema cui materialmente danno vita Innocenzo III (1194-1216) e Onorio III (1216-1227) introducendo le figure dell’apostolo Andrea e dell’evangelista Luca, nel mosaico realizzato in parte da artefici chiamati da Venezia. I Codici Barberiniano Latino 4406 e 4407 della Biblioteca Vaticana contengono rispettivamente le riproduzioni dei cicli pittorici della navata e delle serie dei ritratti papali perduti nell’incendio che nel 1823 ha distrutto il soffitto della basilica. Dobbiamo soprattutto a questi disegni acquerellati la conoscenza del ciclo pittorico commissionato e ideato da Leone Magno dopo il 441, contestualmente al ciclo di San Pietro, restaurato e integrato da Pietro Cavallini a partire dal 1270. L’insieme comprende le Storie tratte dai libri del Genesi e dell’Esodo, sulla parete destra, e gli Atti degli Apostoli a sinistra; scene della Passione di Cristo erano disposte sulla controfacciata, mentre il fregio con i ritratti dei papi prende posto entro clipei sopra le arcate.
L’unico frammento del complesso leoniano è superstite sull’arco trionfale di San Paolo, sebbene completamente rimaneggiato dagli interventi seriori. Vi trova svolgimento la solenne cerimonia dell’aurum coronarium piegata ad illustrare il passo dell’Apocalisse giovannea (IV, 9) con la processione dei Ventiquattro vegliardi che recano a Cristo l’offerta delle corone, sullo sfondo del mare vitreo solcato da nubi e alla presenza dei simboli Evangelisti: una nuova tematica destinata ad essere da allora replicata con la stessa collocazione fisica nelle basiliche romane e laziali per l’intero Medioevo. L’autentica reliquia del trasfigurato arco ostiense – e in assoluto unica superstite dell’imponente mole di immagini scaturite dalla pianificata opera di Leone Magno – consiste nel frammento della testa di san Pietro verosimilmente proveniente dal pennacchio destro dell’arco, giunta presso le Grotte vaticane in seguito alle devastazioni causate dall’incendio e per lungo tempo obliata.