Benedetto II, santo
Figlio di un Giovanni, appartenente a famiglia romana, aveva percorso nel clero cittadino tutta la carriera ecclesiastica, dalla "schola cantorum" sino all'ordinazione a presbitero.
L'elezione di B., dopo i pontificati di Agatone e di Leone II entrambi di famiglie siciliane e, quindi, di ambiente molto legato a Bisanzio, fu senza dubbio conseguenza della maggior sicurezza che animava il clero cittadino dell'Urbe dopo il ristabilimento della pace religiosa con l'Oriente, per effetto della condanna del monotelismo (VI concilio ecumenico, anno 681). Non per nulla l'anonimo autore contemporaneo della biografia di B. accolta nel Liber pontificalis ebbe cura di precisare che il nuovo papa aveva servito la Chiesa "ab ineunte aetate", e che "a puerili aetate" aveva studiato il canto liturgico e le Sacre Scritture: erano i tratti che caratterizzavano quanti, nati da famiglia romana, avevano fatto parte sin da fanciulli del clero cittadino. Ed è significativo il rilievo dato, nell'epigrafe mortuaria di B., al fatto che egli tenne il soglio pontificio "iure patrum", e cioè, come giustamente annota il Duchesne, in piena conformità con l'antica tradizione, secondo la quale i successori di s. Pietro dovevano di preferenza esser scelti nell'ambito del clero cittadino e, in particolare, fra quelli che vi avevano regolarmente compiuta tutta la loro carriera ecclesiastica.
La consacrazione di Leone II (17 agosto 682) era stata celebrata un anno e sette mesi dopo la sepoltura (10 gennaio 681) di Agatone; quella di B. il 26 giugno 684 quando stava per compiersi un anno intero dalla sepoltura (3 luglio 683) di Leone II. Così prolungate vacanze della cattedra pontificia erano dovute alla particolare situazione religiosa del tempo.
Nella fase decisiva del VI concilio ecumenico e delle prime ripercussioni a Roma della condanna, in esso sancita, anche di un papa, Onorio I, l'obbligo di annunziare ogni volta la morte di un pontefice e l'elezione del successore al sovrano, per chiedergli l'autorizzazione a consacrare l'eletto, offriva all'imperatore il modo di ritardare l'accoglimento della richiesta sino al momento in cui poteva ritenersi tranquillo sui sentimenti degli elettori e del loro prescelto.
Questa tranquillità aveva senza dubbio acquisito il sovrano, Costantino IV, quando all'autorizzazione aggiunse, mediante apposite ordinanze - "divales iussiones" -, anche il ripristino sia della delega all'esarca d'Italia, residente a Ravenna, dei poteri per il rilascio delle future autorizzazioni in materia, sia dell'antica tradizione romana (non più esercitata dopo la morte di Severino, 2 agosto 640) di condurre immediatamente l'eletto, in solenne corteo, ad insediarsi nel Palazzo del Laterano.
La delega all'esarca d'Italia consentiva di abbreviare di molto la durata delle vacanze della sede pontificia; e da allora nessun imperatore l'avocò di nuovo a se stesso. L'autorizzazione all'immediato insediamento dell'eletto nel palazzo papale costituiva di per sé un primo riconoscimento sovrano della validità dell'avvenuta elezione.
Costantino IV indirizzò le ordinanze in questione al clero, al "populus" e al "felicissimus exercitus" della città di Roma. Erano i tre ceti - ecclesiastico, civile e militare - che costituivano il corpo elettorale. Ma l'imperatore fece rimettere quelle "divales iussiones" direttamente a B.: riconosceva dunque nel papa l'autorità in Roma più qualificata di quelle statali e municipali ad essere il tramite ufficiale tra il potere sovrano ed i sudditi dell'Impero nella città. Ancor più ricco di significati politici fu un altro atto allora compiuto da Costantino IV: l'invio a Roma di ciocche recise dalle chiome dei figli Giustiniano ed Eraclio, invio accompagnato da un'altra iussio con l'annunzio ufficiale dell'invio stesso. E solenne fu la cerimonia che si svolse allora per tale circostanza a Roma. Le ciocche dei giovani principi furono consegnate a B., al clero e alle forze armate riuniti.
Al principio di quello stesso secolo, il 25 aprile 603, l'icona inviata a Roma da Foca, che nel novembre dell'anno precedente aveva strappato a Maurizio il trono imperiale, icona nella quale erano effigiati il nuovo sovrano e la consorte Leonzia, era stata solennemente ricevuta da papa Gregorio, da tutto il clero e dal Senato raccolti nella grande sala detta "basilica Iulia" del palazzo papale del Laterano. La cerimonia del 603 aveva significato che Roma riconosceva l'assunzione al potere sovrano dell'uomo che si era sostituito all'ucciso Maurizio. Era stato un atto compiuto nel quadro dello stato di sudditanza diretta dagli imperatori residenti in Oriente, quale Giustiniano I aveva stabilito in Italia, chiudendovi a vantaggio di Bisanzio, e con l'abbattimento del Regno ostrogoto, la vacanza del potere imperiale che era stata aperta nel 476 dal Regno di Odoacre.
Ottantadue anni più tardi Costantino IV attribuiva senza dubbio all'invio delle ciocche dei capelli dei figli il valore di simbolo della ristabilita unione di Roma con Bisanzio. Negli usi del tempo, tuttavia, l'invio e l'accoglimento di quelle ciocche avevano anche il valore simbolico di offerta e di accettazione di un altro vincolo diretto, ma di diversa natura, per il quale i figli del sovrano regnante diventavano da allora i figli adottivi di una Roma impersonata dal suo vescovo, dal suo clero, ufficiali e soldati concordi nell'assumersi i doveri e i diritti di alleati e di protettori dei giovani principi. Le forze armate, inoltre (e non più, come era avvenuto nel 603, il Senato di Roma), costituivano la rappresentanza qualificata del laicato romano.
Non sono noti, come invece sappiamo per il 603, il giorno, il mese ed il luogo di Roma scelti per la cerimonia. È però indubbio che, come allora lo era stato il papa Gregorio I, così in tale circostanza il personaggio di rilievo maggiore fu Benedetto II. Papa, clero e rappresentanza del laicato, d'altro canto, avevano una posizione che non era più la stessa di ottantadue anni prima; ed il gesto compiuto da Costantino IV, senza precedenti nella storia dei rapporti costituzionali fra gli imperatori bizantini e l'antica capitale dell'Impero, rivelava la consapevolezza, anche nel sovrano, che i papi, clero e ceto militare di Roma erano divenuti, durante il conflitto, forze capaci di agire, di fronte all'imperatore, pur rimanendo entro il nesso statale dell'Impero, in rapporti ormai irriducibili al rigido legame di sudditanza imposto all'Italia dalla conquista di Giustiniano.
B. aveva dato inizio al suo ministero di sommo pastore senza attendere il giorno della consacrazione a papa, e proprio per un problema dogmatico di valore capitale: la recente condanna ecumenica del monotelismo. A quell'epoca non aveva ancora lasciato Roma il notaio regionario Pietro, cui Leone II aveva assegnato il compito di recarsi in Spagna a far sottoscrivere dai vescovi del Regno visigoto le decisioni del concilio costantinopolitano. Leone II aveva munito Pietro di sue lettere indirizzate, rispettivamente, al re Ervigio, a un conte di nome Simplicio, all'arcivescovo di Toledo Quirico, a tutti i vescovi del Regno; gli aveva altresì affidato quella parte degli atti del concilio costantinopolitano che a Roma era stata sin'allora tradotta dal greco in latino. B. era ancora "presbyter, in Dei nomine electus Sanctae Sedis Apostolicae" quando impartì a Pietro l'ordine di partire, confermandogli il delicato compito.
Incresciosi furono i risultati di questa missione. Papa Leone II aveva ritenuto opportuno rivolgersi non solo al corpo episcopale del Regno visigoto e all'arcivescovo toledano, ma anche al re e a uno dei suoi grandi: i circoli lateranensi conoscevano dunque innegabilmente le particolari condizioni nelle quali operava quella Chiesa, saldamente stretta intorno al trono ed alla sede metropolitica di Toledo, senza aver mantenuto costanti rapporti diretti con la Sede apostolica romana. Era tuttavia conoscenza non abbastanza profonda e precisa, per misurare esattamente il peso da attribuire ai sentimenti in quella Chiesa alimentati dall'orgogliosa fierezza di una propria ininterrotta tradizione d'intensa attività spirituale e culturale (Isidoro di Siviglia). A Roma si ignorava inoltre, evidentemente, che Quirico era morto nel gennaio 680, e che il suo successore Giuliano nel gennaio 681 aveva ottenuto dal XII concilio toledano poteri tali da mettere, in materia di governo ecclesiastico, la capitale del Regno visigoto su di un piano di fatto paragonabile a quello della capitale dell'Impero, e quindi tali da infondere nel titolare della sua sede arcivescovile l'idea di un prestigio personale paragonabile a quello del patriarca di Costantinopoli.
A Toledo si era appena chiuso il XIII concilio generale del Regno, convocato per il 4 novembre 683 dal re Ervigio, quando vi giunse l'inviato papale. Le cose presero allora una piega che non era certo quella sperata da Roma: l'apposizione delle firme dei vescovi spagnoli alle decisioni del concilio costantinopolitano fu subordinata a tutta una serie di minuti esami del loro testo, impegnandovi successivamente i singoli sinodi provinciali, il concilio generale del Regno e, di nuovo, i singoli sinodi provinciali.
Senza dubbio una così complessa procedura fu suggerita dal proposito di usarla come rivalsa del fatto che Agatone aveva trascurato d'interpellare l'episcopato del Regno visigoto quando aveva redatto la professione di fede del 27 marzo 680, professione che era stata presentata dai legati papali al concilio costantinopolitano e che da quest'ultimo era stata accolta come base della definitiva proclamazione del ditelismo. Le lettere del "pontifex antiquae Romae" portate da Pietro furono tenute in conto di un semplice invito a dare un motivato parere.
Giuliano, da parte sua, forte della fama che lo cingeva in patria di essere il più dotto presule del tempo, non attese neppure che fosse iniziata la procedura dei singoli esami da parte dei sinodi provinciali: senza che nessun appiglio gliene venisse dalla lettera da Leone II indirizzata al suo predecessore, espose subito il proprio parere personale in un Apologeticum fidei, che inviò, per il tramite dello stesso legato pontificio Pietro di ritorno a Roma, a Benedetto II. A Pietro, Giuliano volle affiancare anche un proprio inviato. Il papa trovò da eccepire sul modo col quale, in alcuni capitula, Giuliano aveva formulato nel suo testo le definizioni dottrinali; tuttavia, per l'inadeguata conoscenza che si aveva a Roma del mondo ecclesiastico visigoto, non ritenne che fosse il caso di fissare per iscritto, nella lettera allora mandata a Giuliano, i suoi rilievi, ma si limitò ad esprimerli verbalmente all'inviato toledano, il quale li segnò in una sua renotatio da sottoporre all'arcivescovo.
Fu un errore di tatto. Giuliano se ne adontò, come di grave mancanza formale di riguardo, mediante la quale si era voluta mortificare la sua persona di dotto teologo e di primate della Chiesa visigota. Con una replica, immediatamente spedita a B., egli reagì alla prima lettura della renotatio del suo inviato reduce da Roma. Non conosciamo il testo del documento: possiamo, tuttavia, immaginare almeno il tono dalle parole con le quali l'arcivescovo stesso poi vi accennò, come a risposta data "sufficienter congrueque". Nel frattempo i sinodi provinciali e il XIV concilio toledano (convocato dal re nel novembre 684) avevano approvata la parte degli atti del concilio costantinopolitano conosciuta nella versione latina, per il tramite della Sede apostolica romana. La procedura adottata, tuttavia, aveva permesso all'episcopato visigoto di prendere, nella condanna al monotelismo, una posizione che aveva una sua propria autonomia. E questa fu accentuata dal fatto che fu contemporaneamente approvato anche l'Apologeticum fidei di Giuliano, e che il XIV concilio toledano dichiarò di ratificarlo come avente vigore di "honor et reverentia" simile a quello delle "decretales epistolae" e come un loro equipollente. Le definizioni dottrinali dell'arcivescovo di Toledo venivano così messe su di un piano analogo a quello dei solenni documenti papali in materia di fede.
Non ancora contento, Giuliano pose mano ad un secondo Apologeticum. Di questo è giunto il testo negli atti del XV concilio toledano, riunitosi per ordine del re Egica nel maggio 688, che fu unanime nell'approvarlo. Il tono del documento è aspramente polemico. Giuliano si erigeva a maestro di B. in fatto così di grammatica come di esegetica. Giungeva sino a rimproverare a "quell'uomo" di aver trascurato in un punto certe sue espressioni perché le aveva saltate nel leggere in fretta e distrattamente. Avanzava, per un altro punto, la supposizione che il papa, per la lettura disattenta, avesse frainteso il testo. Tacciava di spudoratezza chi non cedesse alle dottrine dei Padri ai quali egli si era richiamato e si richiamava. Chiudeva dichiarando che, sulle orme di quei Padri, egli avrebbe percorso la retta via, senza più discutere con chi ne avesse ulteriormente dissentito; e proclamando che, in forza del "divinum iudicium", questa sua "responsio" sarebbe risultata "sublimis" per gli "amatores veritatis", anche se l'avesse tenuta in conto di "indocilis" (e cioè atto di ribellione in campo dottrinale) l'opinione degli ignoranti che ne fossero avversari, "ignorantes aemuli".
Ignoriamo quando la prima replica dell'arcivescovo di Toledo giunse a Roma: non siamo quindi in grado di stabilire se essa fu consegnata a B. ancora vivente, e se la mancanza di una sua controreplica può esser spiegata col sopravvenire, l'8 maggio 685, della sua morte. Una controreplica romana, in ogni caso, mancò anche da parte degli immediati successori di B., Giovanni V e Conone. E tacque Sergio I, pur dopo la clamorosa approvazione del secondo Apologeticum nel XV concilio toledano del 688. Fu silenzio certo suggerito a Roma dal deliberato proposito di non dar corpo ad un penoso conflitto con la Chiesa visigota, conflitto che potesse incrinare la conclamata solidarietà del cristianesimo occidentale di fronte all'Oriente. Il silenzio di Roma diede tuttavia motivo a Toledo perché un successore di Giuliano, Felice, scrivendone la vita, dicesse che "invano" B. aveva dubitato di alcuni punti del primo Apologeticum di Giuliano; diede motivo inoltre a che le tradizioni locali credessero che il secondo Apologeticum fosse stato dal papa (quale? non se ne fa il nome) "degnamente e pienamente accolto", approvato e comunicato all'imperatore.
B. continuò l'opera del predecessore in rapporto alle decisioni del VI concilio ecumenico anche nei riguardi di uno dei patriarchi orientali allora colpiti da anatema: Macario di Antiochia. Questi, insieme con altri del pari pertinaci nel monotelismo, era stato da Costantino IV mandato in esilio a Roma, perché Leone II lo prendesse sotto le sue cure spirituali. B. lo trovò ancora ostinato a resistere. Gli concesse quaranta giorni di meditazione, durante i quali, per indottrinarlo e ricuperarlo alla ristabilita unità della fede nel ditelismo, lo fece quotidianamente visitare da un suo consigliere, Bonifacio: non riuscì nel suo intento, così come non vi era riuscito il suo predecessore.
Il biografo dà a B. la lode di esser stato "paupertatis amator" e "manu largissima". A vantaggio diretto di quel clero cittadino da cui egli stesso usciva, il papa procedette, la Pasqua del 685 (26 marzo), a conferire onori e promozioni a molti dei vari ordini sacri. Il biografo registra la notizia con evidente compiacimento. Ma non solo il ceto ecclesiastico ed il personale laico dei "mansionarii", addetti agli edifici del culto per i servizi di custodia e di manutenzione, beneficiarono del generoso lascito disposto da B. per l'ingente valore di 30 libbre d'oro. Il papa ne volle estendere il godimento anche ai cosiddetti monasteria diaconiae.
Questi monasteri erano particolari enti che si andavano allora costituendo a Roma - sul modello di enti consimili esistenti nell'Oriente bizantino - ad opera di monaci di provenienza greco-orientale, che avevano il compito specifico di attendere alle attività caritative e assistenziali, complessivamente indicate col termine diaconia, usato nel suo originario significato di "servizio". Nella biografia di B. l'espressione compare per la prima volta: prima testimonianza delle premure subito rivolte dai papi a questo tipo di organismi caritativo-assistenziali, che a Roma si sarebbero successivamente sviluppati.
B. fu colto, subito dopo la Pasqua del 685, dall'infermità di cui doveva morire l'8 maggio. Fu sepolto in S. Pietro. Nell'epitaffio (Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, nr. 12, p. 129; nr. 8, p. 157) si esaltano i meriti del pontefice che adempì egregiamente il sommo ufficio ecclesiastico (v. 5: "cuncta sacerdotum praestantia munia comples") dopo essersi distinto nel servizio alla Chiesa prestato sin dall'infanzia (v. 7: "[...] a parvo meritis radiantibus auctus") come regolarmente si verificava nei secoli precedenti (v. 8: "iure patrum [...]"). Era stato a capo della Chiesa di Roma meno di un anno, a contare dal giorno della consacrazione; meno di due, se comprendiamo i mesi decorsi dall'elezione. Ma questo brevissimo pontificato riceve il suo rilievo storico dalle vicende dei rapporti con Bisanzio, con la Chiesa visigota, con i monasteria diaconiae cittadini, che lo contrassegnarono. E notevole fu l'attività da lui svolta anche nel campo dell'edilizia sacra, con i lavori di restauro fatti eseguire per la basilica di S. Pietro. Preziose tovaglie d'altare donò alle chiese di S. Lorenzo in Lucina, dove molto probabilmente eseguì anche alcuni restauri di cui non si conosce però l'entità, e di S. Valentino sulla via Flaminia. Nella linea di una tradizione manoscritta di successive aggiunte al Martyrologium di Adone arcivescovo di Vienne († 875), il nome di B. fu inserito nel Martyrologium Romanum (Città del Vaticano 1956, p. 110, all'8 maggio).
fonti e bibliografia
Biografia di B., certo opera di un contemporaneo, in Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 363-65; cfr. ibid., s.v. Conon, p. 369.
Le lettere di B. in P.L., XCVI, coll. 423 s.; l'epitaffio è nella citata ediz. del Liber pontificalis, p. 365 n. 8.
Regesti: Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I-II, Lipsiae 1885-88: I, pp. 241 s.; II, p. 699.
Sulla figura del metropolita di Toledo e sui suoi rapporti con B., Felicis Toletani episcopi Vita S. Iuliani Toletani episcopi, in P.L., XCVI, coll. 448 s.
Gli atti del XIV e XV concilio di Toledo in I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, coll. 1085-92; XII, ivi 1766, coll. 10-7; per Macario, patriarca di Antiochia, v. ibid., XII, coll. 1035-38 (Concilium Nicaenum a. 787); F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo, I, Roma 1900, pp. 465 s.; L.M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, 1, Gotha 1900, pp. 262 s.; H.K. Mann, The Lives of the Popes in the Early Middle Ages, I, 2, London 1925, pp. 54-63; H. Grisar, Roma alla fine del mondo antico, I-II, Roma 1930: I, p. 420; II, pp. 170 s.; E. Caspar, Geschichte des Papsttums, I, Tübingen 1930, pp. 611 n. 3, 614 s., 616, 617 s., 674 s., 686 s.; O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 375, 393-95, 404 (non è più sostenibile l'affermazione qui fatta a p. 393 [cfr. nn. a p. 767] tenendo conto della n. 1 del Duchesne alla vita di Leone II, p. 361, che B. sia stato il primo papa a pronunciare la Promissio fidei fissata nella formula del Liber Diurnus Romanorum Pontificum contrassegnata nel codice Vaticano col nr. 85; più probabilmente il testo originario corrispondente risale al tempo di Leone II, ma quando ancora a Roma si ignorava come si fossero chiusi a Costantinopoli i lavori del VI concilio ecumenico); R. Aigrain, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, V, Torino 1945, pp. 268 s., 423; O. Bertolini, Per la storia delle diaconie romane, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 70, 1947, pp. 20, 22, 48, 58 s., 85-9, 91, 97, 105-08, 134 s.; F.X. Murphy, Julian of Toledo and the Condemnation of Monothelism in Spain, in Mélanges J. De Ghellink, I, Gembloux 1951, pp. 361-63; F.X. Seppelt, Geschichte der Päpste, I, München 1954², pp. 76 s. (trad. it. Storia dei papi, I, Roma 1962, p. 229); J.M. Lacarra, La Iglesia visigoda en el siglo VII y sus relaciones con Roma, in Le Chiese nei Regni dell'Europa occidentale e i loro rapporti con Roma sino all'800, I, Spoleto 1960, pp. 379-84; A. Saba, Storia dei Papi, I, Torino 1966³, pp. 310-12; M. Strohm, Der Konflikt zwischen Erzbischof Julian von Toledo und Papst Benedikt II. Ein Faktum von ökumenischer Bedeutung, "Annuarium Historiae Conciliorum", 15, 1983, pp. 249-59; F. Baix, Benoît II, in D.H.G.E., VIII, coll. 9-14.
Per quanto riguarda la documentazione archeologica ed epigrafica v.: Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, a cura di G.B. de Rossi, I, Romae 1857; II, 1, ivi 1888; Supplementum al vol. I, a cura di I. Gatti, ivi 1915; M.E. Bertoldi, S. Lorenzo in Lucina, ivi 1994, p. 29; Lexicon Topographicum Urbis Romae, III, ivi 1996, s.v. S. Laurentius qui appellatur Lucinae, basilica, pp. 183-85.