FRANCESCO d'Assisi, Santo
Nacque in Assisi nel settembre 1182 (o, secondo altri, 1181). Pare che il padre, Pietro di Bernardone, ricco mercante di panni - da alcuni storici tardivi ritenuto, senza prove sicure, oriundo della famiglia dei Moriconi di Lucca - solito a recarsi in Francia per il suo commercio, conducesse dalla Provenza in Assisi la sposa madonna Pica. Al piccolo, nato durante un'assenza paterna, la mamma fece imporre il nome di Giovanni, che il babbo, al ritorno, volle mutato in quello, allora non comune, di Francesco (francese). Frequentate nell'infanzia le scuole dei preti della chiesa di S. Giorgio, cominciò giovanetto ad aiutare i suoi nella vendita delle stoffe, ma specialmente a sfoggiare le doti naturali di eleganza, d'intelligenza, di cuore; e, soprattutto, le ricchezze avite in gara di vanità con i coetanei. I parenti si rammaricavano per quelle spese pazze, ma godevano in cuor loro dei trionfi del primogenito. Sete di ambizione e sogni di gloria bruciavano lo spirito del giovane che fu avido di bellezza e di gioia, ma moralmente e fisicamente sano; sdegnoso della mediocrità, liberale fin dalla fanciullezza con i poveri.
Caduto prigioniero dei Perugini nello scontro di Ponte S. Giovanni (1204), il brillante giovane è sottratto alla sua vita d'ogni giorno; pure nel carcere primeggia presto, sostenendo in pace la sventura e rincorando i compagni. Ma tutta la sua baldanza cade quando, tornato in patria, si ammala gravemente: tutto gli appare ora scolorito e la stessa esistenza un inutile enigma. Va così maturando la conversione che, attraverso lunghe, ansiose preghiere solitarie e un tentativo di ritorno alla gloria delle armi per una spedizione nelle Puglie, bruscamente interrotta da una nuova malattia a Spoleto e da un sogno misterioso, lo trarrà a dedicarsi totalmente al servizio di Dio; la decisione fu presa davanti al Crocifisso di S. Damiano, diruta cappella sui declivî del Subasio, e dopo aver visto le labbra dell'icone bizantina agitarsi per suggerirgli: "Va e ripara la mia Chiesa che sta rovinando". F. cominciò subito (1206), con l'ardore dei giovani, la sua carriera di ricostruzione edilizia, simbolo e preludio della restaurazione morale che la Chiesa di Cristo attendeva. Sono i primi passi nella via nuova: egli sente di dover compiere qualche cosa di straordinario. Che cosa precisamente non sa; solo comprende di dover espiare la vita spensierata di prima per essere fatto partecipe della passione di Gesù e della sua opera redentrice. Vince l'orrore del viso di un lebbroso, baciandolo, e un giorno compare, sparuto e sfigurato, per le vie di Assisi, tra l'urlìo beffardo della folla che lo chiama pazzo, suscitando il dolore della madre e la collera del padre che, umiliato e sdegnato, lo trascina in casa e lo chiude in un sottoscala. Il dissidio tra l'abito mentale paterno e il nuovo ideale del figlio è insanabile; e poiché il denaro è il pretesto col quale Bernardone tenta ritrarlo dal suo proposito, il giovane vuol disfarsi per sempre di ogni possedimento. Quando nell'episcopio di Assisi si trovano davanti padre e figlio, questi, senza parole, si spoglia persino degli abiti che indossa, rinunciando in questa forma suggestivamente drammatica a ogni bene terreno, in fatto e in diritto. Così a venticinque anni, coperto solo di un cencioso mantello, lascia la sua città (aprile 1207) e s'avvia alla volta di Gubbio. All'ospedale serve per qualche tempo amorosamente ai lebbrosi; ma le parole del Crocifisso non gli dànno tregua, e ritorna a S. Damiano a completare, in letizia di spirito, la restaurazione della crollante chiesetta, chiedendo pietre e prestazioni manuali ai passanti. Poi è un continuo progredire sulla via della rinuncia; di tappa in tappa l'ardore del rinnegamento s'identifica con il gaudio di ritrovare la via che la Provvidenza gli va indicando, attraverso molteplici esperienze; finché il 24 febbraio 1209, sentendo leggere nella piccola cappella detta della Porziuncola, anch'essa restaurata con le sue mani, nella pianura boschiva di Santa Maria degli Angioli, l'evangelo dell'apostolato: "Andate e predicate... non tenete oro, né argento... non sacca da viaggio, né due vesti, né scarpe, né bastone...", grida: "Ecco quello ch'io bramo" e getta i calzari e cambia l'abito eremitico, ricevuto da un amico, nella rozza tunica dei contadini umbri, stringendola ai fianchi con una ruvida corda. La rivelazione è completa. Ora s'inizia la sua opera di apostolato.
Ben presto fiorì intorno a F. una piccola corona di anime estatiche e operose, di figli devoti ed entusiasti, attratti dal suo candore, dalla sua serena povertà, dalla sua sicurezza di sacrificio: nell'aprile del 1209, Bernardo da Quintavalle lo seguì per primo, insieme col canonico Pietro Cattaneo; mentre la generosa elargizione dei loro beni ai poveri era stimolo all'avaro prete Silvestro a imitarne l'esempio. Dopo pochi giorni Egidio, operaio infaticabile e profondo contemplatìvo, come gli altri oriundo d'Assisi, scendeva egli pure alla Porziuncola. Era una semplice famiglia, formatasi senza disegno prestabilito, stretta intorno al Poverello, nell'esercizio della rinuncia e della preghiera.
A due a due quei viri poenitentiales s'avviarono alla conquista delle anime. Quando si ritrovarono a S. Maria eran cresciuti di numero; perciò s'imponeva un ordinamento più regolare, e F. pensò di tracciare una specie di regola di vita (oggi perduta: v. appresso), ricavata direttamente da passi evangelici. Quindi F., avvertita la responsabilità della direzione di quelle anime, volle egli stesso per sé e per loro fare atto di sudditanza alla sede apostolica, e con la sua semplicità caratteristica prese senz'altro con i discepoli la via di Roma. La grandezza del suo proposito parve dapprima audacia al grande Innocenzo III e al sacro collegio; ma i tempi stessi calamitosi richiedevano energici rimedî, e il papa seppe intendere il sommo valore dell'entusiasmo di rinnovamento che animava F. e s'indusse ad approvare verbalmente la regola presentata dal santo (v. francescanesimo; frati minori). Così gli oscuri figli dell'Umbria tornarono in patria con la benedizione del papa. L'approvazione orale della religio francescana (1210; o 1209?) portò nuovo vigore all'opera iniziata, poiché F. e i suoi potevano annunciare dal pergamo le parole di vita che prima avevano dette alle folle per le vie e per le piazze. Un'importanza speciale ebbe la quaresima da F. predicata in San Ruffino nel 1212, perché al termine di essa la giovinetta Chiara d'Assisi (v.), la quale doveva poi dare origine all'ordine delle Clarisse (il "secondo ordine" francescano, v. clarisse), ricevette nella cappella della Porziuncola, dalla mano stessa di F., l'abito religioso. F. s'era dunque in breve tempo trovato a capo di una famiglia assai numerosa, ma pur attendendo con sollecitudine paterna ai suoi seguaci, procedeva con fervido entusiasmo nel suo cammino. Era ormai desideratissimo ovunque: alle sue esortazioni cadevano odî inveterati d'individui e di famiglie, si commovevano i cuori dei masnadieri e degli avari, rifioriva la primavera nella Chiesa di Cristo. Egli divideva i giorni tra le fatiche dell'apostolato e le lunghe meditazioni in qualche eremo solitario; se esitava a riprendere la vita attiva, uno sguardo al Vangelo lo riportava nel turbine del mondo, dove sapeva del resto conservare tutta la sua pace interiore.
Agl'inizî del sec. XIII, se era irrompente il movimento dei crociati, nessuno pensava a valicare i mari per desiderio di convertire gli infedeli. F. con l'esempio e col comando apre ai suoi figli la via dell'evangelizzazione del mondo. Duplice era per lui lo scopo e la meta: riportare la luce di Cristo alle popolazioni, specialmente delle terre dell'Islam; e dare la propria vita in testimonianza di fede. Questo sarebbe stato il vertice delle sue aspirazioni. Dopo un viaggio a Roma (forse in questa occasione conobbe la nobile dama Giacomina dei Settesoli e s'incontrò con S. Domenico: v.), lasciato in Assisi come suo vicario fra' Pietro Cattani, s'imbarcò, pare ad Ancona, su una nave che salpava per l'Oriente; una tempesta lo gettò sulle coste dalmate (1214-1215?) donde tornò in patria. Né più fortunato fu il secondo tentativo di passare nel Marocco, perché in Spagna una grave malattia lo colse e l'obbligò a rifare il cammino percorso. Tuttavia l'idea delle missioni tra gl'infedeli non gli dava pace. Celebrando, nella Pentecoste del 1217, il primo capitolo, o adunanza generale, dei suoi religiosi, aveva affermato l'opportunità di allargare il campo del lavoro apostolico, dividendo in provincie l'Italia e stabilendo missioni nei paesi d'oltre Alpe e nella Siria (già nel 1215 fra' Egidio era sbarcato a Tolemaide), regione a lui particolarmente cara e affidata alle cure di frate Elia (v.). Ignari della lingua e degli usi dei popoli, privi di commendatizie ufficiali, quei coraggiosi pionieri dovettero soffrire e lottare molto; eppure l'entusiasmo del Santo aveva così acceso il cuore di tutti, che nel capitolo dell'anno seguente sei frati minori si disponevano a partire pel Marocco; cinque di essi cadevano il 16 gennaio 1220 sotto la scimitarra dell'emiro, primizie di martirio nell'ordine francescano. Francesco stesso, celebrato alla Porziuncola il secondo capitolo generale, nel 1219, si diresse di nuovo alla volta di Ancona per passare in Oriente con i crociati. Nell'agosto è a Damiata; poi, con frate Illuminato, si presenta animosamente al sultano al-Malik al-Kāmil, per annunciargli il Vangelo; non riuscì a convertirlo, ma non ebbe neppure a soffrire persecuzioni; ché anzi ricevette da lui un salvacondotto, munito del quale visitò indisturbato la Palestina.
Nell'autunno del 1220 F. ritornò in Italia, anche perché gli era pervenuta notizia di alcune perturbazioni introdottesi frattanto nell'ordine. S'imponeva una codificazione più particolareggiata delle varie prescrizioni ormai divenute abitudinarie tra i frati. Il fondatore non aveva ceduto al consiglio suggeritogli fin dagl'inizî, di adottare la legislazione dei benedettini o degli eremiti agostiniani, avendo voluto dare un'impronta tutta particolare al suo istituto. Via via la primitiva formula vitae s'era accresciuta di aggiunte; bisognava ridurre tutto a unità organica e rafforzare l'istituzione, riaffermandone le caratteristiche, tenendo presenti alcune recenti disposizioni canoniche che imponevano l'anno di noviziato. F. dunque, abbandonata definitivamente la direzione dell'ordine nelle mani di Pietro Cattani (autunno 1220), si mise all'opera, aiutato nella redazione della regola, che avrebbe dovuto essere definitiva, da fra' Cesario da Spira. Ma quando il nuovo testo fu pronto (1221) non incontrò il favore di tutti i religiosi. Lo spirito di sacrificio aveva per F. reso normale l'eroismo di una vita quotidianamente abbandonata alla Provvidenza e la rinuncia a tutto ciò che non fosse di stretta necessità; ma quest'altezza non poteva essere raggiunta da molti. Dopo una penosa esitazione, vinto anche dall'opera persuasiva del cardinale Ugolino, protettore dell'ordine, s'indusse a compilare un nuovo testo. Ma neanche questa nuova regola accontentò alcuni ministri che facevano capo a frate Elia, il quale verso il marzo del 1221, morto Pietro Cattani, era stato eletto vicario generale dell'ordine. Non si può negare il movimento d'opposizione, determinatosi specialmente mentre il santo era raccolto nella solitudine di Fonte Colombo; ma è pure nota la risposta di lui agli oppositori, rivendicando alla Regola quasi un'origine divina. Essa veniva poi solennemente sanzionata con una bolla da Onorio III il 29 novembre 1223. Consta di soli dodici capitoli; vi permane lo spirito di rinuncia totale e cordiale a ogni possesso, e vi è severamente vietato ricevere denaro; vige sempre l'obbligo di procurarsi il sostentamento col lavoro prima che con la mendicità, e la povertà deve osservarsi pur nelle vesti; una povertà serena che non si turbi alla vista di chi vive delicatamente. Nota dominante l'amore fraterno, frutto necessario e indice dell'amore divino; raccomandata, con le classiche virtù cristiane, quali l'umiltà e la purezza e l'obbedienza, è la cortesia, che tanto piaceva allo spirito cavalleresco del fondatore, e la gioia piena anche in mezzo alle tribolazioni e alle persecuzioni. Comunque, il santo dovette soffrir molto in quel tempo, ed è qui il segreto della sua perfetta adesione al sacrificio. Siamo a un nuovo periodo della sua vita: par quasi d'assistere all'inizio della passione di F., a somiglianza della passione del suo Maestro divino. Non gli sfuggiva il dissidio tra quanto aveva sognato e l'evidenza dei fatti; ma rimase tranquillo, anzi mostrò in atto l'insegnamento della perfetta letizia, conservatoci in una squisita notissima parabola dei Fioretti. Frattanto varie malattie minavano quel corpo che le austerità e le fatiche della predicazione avevano indebolito; il Poverello docilmente si sottopose a cure spesso dolorosissime, senza ritrarne alcun giovamento.
Il 1224 segna il momento più solenne di quest'esistenza nobilissima. Il "serafico in ardore" affaticato e pur anelante a più alta perfezione, decide di passare la quaresima, ch'era solito consacrare nel digiuno e nella preghiera all'arcangelo S. Michele, sul Monte della Verna. Era salito più volte sulla sacra montagna; questa fu l'ultima. Meditava di preferenza, in quei giorni, il mistero della redenzione, piangeva sulle colpe dei peccatori, per i quali aveva ottenuto alla Porziuncola la grande indulgenza del Perdono d'Assisi (per una ipotesi sulle origini di questa indulgenza v. francescanesimo), e spasimava di risentire il martirio ineffabile di Cristo e di provarne insieme l'ardente e fiammeggiante carità. Infatti una mattina, intorno alla festa dell'esaltazione della Santa Croce, nella solitudine silenziosa vide venire verso di lui un serafino con sei ali infocate, che aveva l'aspetto d'un uomo crocifisso, e nel contemplare estatico l'immagine bellissima, dolorosa nel suo splendore, F. sentì qualche cosa di misterioso operarsi in lui; s'avvide poi che nelle sue mani e nei suoi piedi erano spuntati dei neri chiodi carnosi e nel petto s'era prodotta una ferita sanguinante. L'episodio della stimmatizzazione, storicamente accertato da testimonianze irrefragabili, e che sfugge nella sua natura alle conclusioni della scienza, accrebbe il dolore fisico e portò insieme nuove forze allo spirito del novello martire; egli parve acquistare una più perfetta libertà, come se ogni scrupolo e ogni terrore si fossero consumati in quell'incendio d'amore; e nelle ore dello spasimo più intenso il giullare del buon Dio riprese a cantare. Ripeteva di voler tornare ai primordî della sua conversione, alla cura dei lebbrosi, all'apostolato laborioso per Cristo, ed esortava i figli a fare più e meglio, come rinascendo di continuo a vita nuova. Ma poi accettò l'invito di sorella Chiara e, ridisceso nell'Umbria, trascorse qualche tempo in una capannuccia di rami da lei intessuta presso S. Damiano: echeggiò allora per la prima volta quella fresca prosa ritmica, conosciuta col nome di Cantico di Frate Sole (1225).
Molto si è scritto a proposito di questo canto, di cui s'è cercato a torto di negare la paternità a F. Non si può dimenticare ch'egli fu il santo del misticismo fortemente operoso e l'asceta delle più dure mortificazioni, ma sarebbe ugualmente erroneo negare accenti poetici in lode della natura, a questo spirito che veramente guardò ogni cosa con occhio ottimista e riconoscente, in tutto scorgendo il segno adorabile del Creatore. Appunto per questa concezione umana, dolce e simpatica dell'universo, F. si differenzia da tanti altri santi e ha potuto lasciare tracce incancellabili del suo passaggio: la gara melodica con l'usignuolo, l'amicizia col falcone della Verna, la predica alle rondini, la cura per i più piccoli insetti, come la sua indulgente bontà persino verso le belve, sono manifestazioni di quello stesso spirito generoso, che sapeva trovare le vie del cuore per guarire nel corpo e nell'anima il lebbroso bestemmiatore, per convertire i briganti, per riportare la pace nelle città dilaniate da lotte di parte, e che si estasiava ripetendo il nome del neonato divino, comunicando ai circostanti la sua commozione, quando nel bosco di Greccio ricostruiva il presepio di Betlemme (1223).
Lo stesso tono di semplicità vibrante e di accalorata supplica ritroviamo nei suoi scritti (vedi qui appresso) ricchi di rapidi tocchi pittorici, di moniti efficaci, scritti che furono prezioso sussidio al suo apostolato, per giungere ovunque la sua voce non potesse arrivare, specialmente quando l'aggravarsi delle infermità lo costrinse a trascorrere quasi nell'immobilità gli ultimi mesi, lui ch'era come fiamma sempre agitata. Ammirevole tra gli altri documenti quel Testamento, dettato in fine dei suoi giorni e che non si può leggere senza ammirazione e commozione profonda.
Negli ultimi mesi la serenità di F. è costante, anzi assume il tono del canto più lieto dell'anima, per l'acquistata assoluta confidenza nella divina misericordia. Giaceva inferm0 nell'episcopio d'Assisi, dove i cittadini l'avevano trasportato dalle Celle di Cortona ed era angustiato perché nessuno pensava a sedare una vecchia lite tra il vescovo e il podestà; un giorno composta una nuova strofa, invia due compagni a cantarla di seguito al Canto delle Creature alla presenza delle due autorità ostili: la strofa fu suggellata dal reciproco abbraccio degli avversarî. Questo trionfo della carità riempì di una gioia incontenibile il cuore di F., il quale durante le torture della malattia intonava il suo cantico e, non potendo proseguire, invitava i suoi fedelissimi Leone e Angelo a terminarlo. Egli sentiva avvicinarsi rapida la fine e volle dal medico la conferma del suo presentimento; come seppe che non gli rimanevano se non pochi giorni, esclamò festoso: "Bene venga la mia sorella morte!" e compose l'ultima strofa del suo inno di laude al Signore. Colui che aveva trasformato la propria esistenza in un canto di esultanza, volle lasciare ai figli, presenti e futuri, il tesoro della sua benedizione paterna, ed effondere la sua riconoscenza filiale e il suo amore di santo nell'ultimo saluto alla città del suo cuore, mentre, portato su una barella, scendeva il colle del Subasio verso la mistica Porziuncola. Gli ultimi giorni li passò soffrendo, cantando, talché quando, la sera del 3 ottobre 1226, sentì appressarsi la morte, poté intonare il salmo davidico: Voce mea ad Dominum clamavi. Tutti poterono baciare e contemplare le stimmate da F. sempre gelosamente occultate, mentre si preparava il trasporto funebre, in mezzo alla moltitudine del popolo, dalla pianura di S. Maria sul colle d'Assisi, dove la salma venne deposta prima nella chiesa di San Giorgio, poi, dopo la canonizzazione (16 luglio 1228), nella basilica di Assisi eretta da frate Elia alla memoria di Francesco. (V. anche francescanesimo; frati minori).
Iconografia. - F. fu ed è oggetto di un gran numero di pitture o sculture, in rappresentazioni di ogni specie. Tommaso da Spalato ci parla della sua "facies indecora" e Tommaso da Celano, ce lo descrive così: "... statura mediocris parvitati vicinior, caput mediocre ac rotundum, facies uteunque oblonga et protensa, frons plana et parva, mediocres oculi, nigri et simplices, fusci capilli, supercilia recta, nasus aequalis, subtilis et rectus, aures erectae sed parvae, tempora plana,... dentes coniuncti, aequales et albi, modica labia atque subtilia, barba nigra, pilis non plene respersa, collum subtile, humeri recti, brevia brachia, tenues manus, digiti longi, ungues producti, crura subtilia, parvuli pedes, tenuis cutis, manus largissima". L'evidente impronta retorica di questa descrizione, non consente di controllarne l'esattezza; e del resto i pittori che vissero al tempo del Santo non lo dipinsero in modo molto conforme a essa, forse perché non lo conobbero personalmente. Nella cappella di S. Gregorio nel S. Speco di Subiaco esiste una immagine antichissima di F., dipinta certamente quando egli non era ancora santificato (1228) perché inscritta: Frater Franciscus, e senza nimbo. Per la mancanza delle stimmate si potrebbe supporre che quell'affresco fosse anche anteriore al miracolo della Verna (1223), se esso non facesse parte dell'intiera decorazione della cappella, eseguita nel 1228, forse poco innanzi la canonizzazione del santo, come ritiene il Toesca. Il santo, che aveva visitato i monasteri di Subiaco, è rappresentato in atto di porgere un cartello inscritto: pax huic domui; e dal viso, dagli occhi celesti, spira una serena dolcezza, in contrasto con altre pitture del Dugento. Di un ritratto anche più antico, fatto nel 1219, da un pittore perugino Tullio, non rimane che una copia moderna (Roma, Museo dei Cappuccini), che lascia sospettare una vera impostura.
L'arte bizantineggiante del sec. XIII sembra non aver guardato allo spirito nuovo del santo riducendone la figura entro i soliti schemi di idealizzazione dell'ascetismo: e nelle pale di San Francesco a Pescia, di S. Croce a Firenze, della sagrestia della basilica di Assisi, di Margaritone e di altri, la sparuta immagine del santo è immota nell'astrazione della preghiera, senza calore di animo e senza tratti che si possano dire personali. E lo stesso Cimabue (v.), trattando con altra nobiltà le forme bizantine, improntò a queste l'aspetto del santo nel celebre affresco della chiesa inferiore di Assisi. Ma Giotto (v.), rinnovando a fondo l'arte, liberò dai vieti canoni la rappresentazione del santo: e se diede agli episodî della leggenda francescana (Assisi, chiesa superiore di S. Francesco; Firenze, S. Croce) un movimento di affetti che ci commuove ancora, ricreandoli nel proprio spirito, improntò nella figura del santo il carattere proprio, rendendola umanamente vigorosa ma pronta a ogni profondo moto dell'animo, sia nella preghiera, sia nell'estasi, sia nella deliberata dedizione alle stimmate. Dopo Giotto, gli artisti maggiori cercarono di esprimere nella figura del santo qualcuna almeno delle sue qualità più intime, senza attenersi a caratteri iconografici tradizionali: l'austerità e la dolcezza, l'abbandono in Dio, l'estasi devota; e vi riuscirono in vario modo secondo il loro diverso temperamento. Esteriormente la figura del santo fu distinta con le stimmate.
In quanto alla leggenda francescana, essa seguitò a dare soggetto a innumerevoli opere, e anche a intieri cicli di pitture e di sculture (Benozzo Gozzoli a Montefalco; Benedetto da Maiano in S. Croce di Firenze, ecc.).
Fonti. - Secondo un criterio proposto fin dal 1894 da Paolo Sabatier, il primo, se non il più felice e acuto, studioso che abbia condotto un'indagine sistematico-comparativa sulle fonti francescane, si è soliti dividere queste in cinque grandi categorie: scritti di S. Francesco, documenti diplomatici, cronache di scrittori facenti parte dell'ordine, cronache di autori estranei all'ordine, biografie propriamente dette.
Scritti di S. Francesco. - Dopo l'edizione principe curata dal Wadding (Anversa 1623), oggi ne possediamo le due critiche: di L. Lemmens (in Bibliotheca franciscana ascetica medii aevi, I, Quaracchi 1904) e di H. Böhmer (Analekten zur Geschichte des Franziskus von Assisi, 2ª ed. a cura di F. Wiegand, Tubinga 1930). Quest'ultima registra fra gli opuscula sincera del Santo 18 scritti: le due regole superstiti e frammenti di una regola precedente alla bolla di Onorio III; una lettera del 1223 a un ministro dell'ordine; una breve promessa di assistenza alle clarisse; l'ultima voluntas del Santo alle clarisse; il Testamento; 28 admonitiones ai fratelli; una lettera a tutti i fedeli per raccomandare e illustrare dodici precetti di vita cristiana; una lettera di F. infermo al capitolo generale del 1224; un De reverentia corporis domini et de munditia altaris; le Laudes de virtutibus; il Cantico delle creature; le Laudes Dei; un regolamento ai fratelli qui volunt religiose stare in heremis; l'epistola e la benedizione a frate Leone (gli autografi sono ora nel duomo di Spoleto e nella basilica di Assisi); una preghiera alla Vergine. Tutti questi brevi scritti (occupano in tutto 47 pagine nell'ed. di Bönmer) furono composti dal santo o per impulso mistico, o per edificazione dei fratelli, non con l'intento (inconcepibile in S. Francesco) di dare un'esposizione sistematica, sia pur breve, delle sue idee: sì che esse non ci forniscono che numerosi indizî per farci intendere il carattere e il peculiare spirito del santo, indizî ehe peraltro sono spesso il mezzo migliore per controllare le dichiarazioni dei biografi. In questo senso, più importanti che le regole e il Cantico delle creature, sono alcuni scritti posteriori alla 2ª regola (Admonitiones, lettera del 1224, Testamento) nei quali F. ha inserito principî e precetti che non si era creduto di accogliere nella regola stessa: anzi, per il Testamento, scritto alla vigilia della sua morte, il Santo impose che esso dovesse da allora in poi essere osservato come parte integrante della regola, e che questa come quello non dovessero esser soggette a interpretazioni o a glosse di sorta (pochi anni dopo una bolla papale dispensò i frati da questa osservanza: v. frati minori). Il Testamento, quindi, "nello spirito di F. è la regola vera e definitiva, l'ideale riaffermato con pienezza e rigore nel punto estremo della sua vita", e ha, per l'esatta comprensione del programma religioso di F., importanza assai maggiore delle due regole giunte fino a noi, la seconda (e definitiva) delle quali lo stesso F. sentì la necessità di integrare appunto con il Testamento. Una prima regola fu scritta da F. nel 1210: da lui presentata a Innocenzo III, ottenne una semplice approvazione verbale. Questa regola è perduta, ma dagli accenni che ad essa hanno fatto F. stesso nel Testamento, Tommaso da Celano, Angelo Clareno e altri, è possibile arguire che essa constasse di pochi passi evangelici (probabìlmente quelli stessi con cui si apre la regola del 1221) con poche altre prescrizioni quae ad conversationis sanctae usum imminebant (Tommaso da Celano). Delle due regole successive che noi possediamo: quella del 1221 (la cosiddetta I regola - in realtà II - o non bullata, perché non presentata all'approvazione papale) e quella del 1223 (la cosiddetta II regola - in realtà III - o bullata, perché approvata da Onorio III con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223), solo la prima si può considerare (almeno entro certi limiti: la collaborazione ad essa prestata da Cesario di Spira dovette essere in ogni modo assai limitata) come scritto genuino di F., come manifestazione spontanea del suo spirito (per quanto anch'essa rifletta interessi e preoccupazioni più subiti che sentiti da F.), mentre la seconda, frutto di una più ampia collaborazione e nella quale sono tracce evidenti della mano esperta del cardinale Ugolino protettore dell'ordine, rappresenta un compromesso e una concessione alle correnti meno intransigenti dell'ordine, già governato da frate Elia (v.). A proposito del quale ricordiamo altresì la lettera da lui indirizzata il 4 ottobre 1226 a Gregorio ministro di Francia, che è la più antica testimonianza, di grande interesse, sopra le stigmate di S. Francesco.
Documenti diplomatici. - Sono riuniti in questa categoria tutti gli atti aventi carattere d'autenticità pubblica, in particolare quelli redatti dalla cancelleria pontificia, e cioè: l'Instrumentum donationis montis Alvernae (9 luglio 1274) per il quale il figlio del conte Orlando Cattani avrebbe ratificato la donazione fatta verbalmente dal padre a F. (sull'autenticità del documento, edito in S. Mencherini, Cod. dipl. della Verna, Firenze 1924, non della donazione, sono stati elevati serî dubbî); i registri di Onorio III e quelli (particolarmente importanti) di Gregorio IX (ed. G. Levi, in Fonti per la st. d'Italia, VIII, Roma 1890), le bolle pontificie relative all'ordine (in G. G. Sbaralea, Bullarium franciscanum, Roma 1759-1780).
Cronache dell'ordine dei minori. - Cronaca di Giordano di Giano (ed. H. Böhmer, Parigi 1908; trad. it., Brescia 1932) scritta nel 1262, relativa alla diffusione dell'ordine in Germania, e notevole per la documentazione relativa ai primi contrasti verificatisi nella famiglia francescana, vivente ancora F. Cronaca di Tomaso di Eccleston (ed. A. G. Little, Parigi 1909), scritta fra il 1224 e il 1260 circa e relativa all'ingresso dei frati minori in Inghilterra. Cronaca di fra' Salimbene (ed. O. Holder Egger, in Monumenta Germaniae Historica, Hannover 1905-1913) scritta fra il 1282 e il 1287: preziosissima per la storia dello sviluppo francescano e delle correnti estremiste (spirituali, gioachimiti) sviluppatesi in essa, ha scarse notizie specifiche su F. ed è ritenuta di secondaria importanza per lo studio di questi e del suo ideale religioso da chi non pensa che tali correnti siano le autentiche eredi del genuino ideale francescano. La stessa considerazione può valere, a un dipresso, per la Historia septem tribulationum Ordinis minorum (testo latino in due edizioni parziali: dell'introduttorio e delle prime due Tribolazioni, a cura di F. Tocco, in Rendic. Lincei, Roma 1908; delle ultime cinque tribolazioni, di F. Ehrle, in Archiv für Litt.- und Kirchengesch. des Mittelalters, II, 1886, pp. 125-155, 256-327; scarso valore ha il volgarizzamento italiano, ed. L. Malagòli, Torino 1931) di Angelo da Cingoli (v.), o Clareno scritto circa il 1330: documento vivente di lotta, dominato dall'idea che l'"apostasia" dell'ordine dall'ideale di F. dati dall'anno 1219 quando, essendo F. in Levante, prevalsero nell'ordine le tendenze più accomodanti. Del Clareno esiste anche una Expositio regulae fratrum minorum (ed. da L. Oliger, Quaracchi 1912). Da ambiente gioachimita provengono anche gli scritti di Pietro Giovanni Olivi (v.), quasi tutti inediti, e di Ubertino da Casale (v.), specialmente l'Arbor vitae crucifixae Iesu (Venezia 1485), la Responsio ad quatuor articulos e la Declaratio (su tutta questa letteratura gioachimita v. F. Ehrle, in Archiv cit., II-III, 1886-1887). Appartengono infine a questo gruppo la Cronaca dei 24 generali dell'ordine (ed. in Analecta franciscana, III, Quaracchi 1897) scritta verso il 1375; il Liber de conformitate vitae Beati Francisci ad vitam Domini Iesu (ed. Quaracchi 1906-1912) scritto da Bartolomeo di Pisa fra il 1385 e il 1390; la Cronaca di Nicola Glassberger (ed. Quaracchi 1888), scritta verso il 1508 e la cronaca di Marco da Lisbona (ed. Lisbona-Salamanca 1556-1570) seritta verso il 1550, e altre di minore importanza.
Cronache estranee all'ordine. - Basterà ricordare i nomi del cardinale Giacomo de Vitry (v.), che ha lasciato quattro testimonianze di capitale importanza: due lettere, un capitolo della sua Historia occidentalis e due sermoni (vedi questi testi in Analekten cit. del Böhmer, pp. 64-72, e in H. Felder, J.V.'s sermones ad Fratres minores, Roma 1903); e di Tommaso di Spalato (Historia Salonitanorum; v. Böhmer, op. cit., p. 72) che il 15 agosto 1222 udì predicare in Bologna F. e lo descrive con pochi ma vivaci tratti. - Per le altre fonti di questo gruppo, v. P. L. Lemmens, Testimonia minora saeculi XIII de S. Francisco, Quaracchi 1926.
Biografie propriamente dette. - È questo il gruppo più notevole delle fonti francescane, quello intorno al quale la critica si è più esercitata, non sempre con serenità. Per orizzontarsi nel labirinto di ipotesi (riferiamo solo le principalissime) avanzate per tracciare lo sviluppo della leggenda francescana, è necessario fissare le tre tappe che in esso si possono identificare, e che sono rappresentate dalle tre biografie qualificabili come eanoniche, in quanto scritte per incarico dei generali dell'ordine o del papa: la Legenda prima e secunda di Tommaso da Celano (ed. E. d'Alençon, Roma 1906, volg. ital. ed. da F. Casolini, Quaracchi 1923) e la Legenda maior di S. Bonaventura (ed. Quaracchi 1898 e 1923; volg. it. ed. da G. Battelli, San Casciano Val di Pesa 1926).
La prima Vita di Tommaso da Celano fu intrapresa all'epoca della fondazione della basilica di Assisi (16 luglio 1228) e approvata da Gregorio IX il 25 febbraio 1229. La valutazione che di questo scritto si può dare ai fini della sua utilizzazione è subordinata a due ordini di critiche, l'uno dei quali non sembra escludere l'altro. Si è osservato che Tommaso è un retore: la sua tendenza al ricamo letterario è evidente, il suo ricorso a motivi agiografici tradizionali frequentissimo. In secondo luogo: la vita del Celanese fu scritta in un momento in cui la tendenza, che potremmo dire "conventuale", cercava d'imporsi nell'ordine per l'autorità che le derivava da frate Elia (v.), e da papa Gregorio IX grande protettore di Elia e che, ancora cardinale Ugolino, aveva favorito, vivente F., l'affermarsi di questa tendenza come quella che meglio avrebbe permesso di inserire l'ordine nei quadri dell'organizzazione regolare. La vita del Celanese rivela lo studio costante di mostrare come Elia fu da F. stesso designato come successore (si ricordi che Tommaso scriveva essendo ancora generale Giovanni Parenti) e indicato come suo interprete autorizzato; il libro, anche se non è una risposta polemica a uno scritto del partito degli spirituali (come è stato sostenuto da P. Sabatier) è stato a buon diritto definito come un manifesto a favore di Elia: esso tace persino i nomi di Leone, Angelo, Illuminato e Masseo, i quattro più fedeli compagni del santo e di tendenza contraria a Elia. Fino a che punto la retorica e la manifesta tendenza "politica" del Celanese vietano di fargli credito? La risposta a tale quesito, inevitabile data la veridicità degli appunti, dipende dalla valutazione di essi e va dall'accusa di totale menzogna e impostura alla concessione di un credito illimitato. Comunque, la Legenda prima ebbe larghissima diffusione e da essa dipendono direttamente numerosissime vite in prosa e in versi: leggende a uso del coro; Liber epilogorum di Bartolomeo di Trento; la Leggenda cosiddetta, dalle parole iniziali, Quasi stella matutina, di Giovanni da Ceprano (ce ne è stata conservata una compilazione abbreviata); la Leggenda di Giuliano di Spira (è probabilmente la cosiddetta Vita secunda pubblicata come anonima negli Acta Sanctorum); una vita in esametri latini opera di Enrico d'Avranches, ecc.
Gli anni seguenti alla pubblicazione della prima vita di Tommaso possono essere considerati (v. frati minori) fra i più turbinosi di quanti ne abbia traversati l'ordine. A Giovanni Parenti succede frate Elia (1232) che approfitta del potere per lavorare con indomabile fermezza alla realizzazione delle sue idee; ma le opposizioni dei partiti a lui contrarî giunsero a tanto che Gregorio IX abbandonò il suo protetto e che questi fu deposto (1239). Se la diffusione della prima vita di Tommaso dovette incontrare gravi difficoltà da parte degli oppositori di Elia, dando luogo al diffondersi di biografie extracanoniche più conformi allo spirito dell'opposizione, una revisione della Leggenda prima si impose anche negli ambienti ufficiali quando Elia fu deposto. Nel 1244 il generale Crescenzio da Iesi nel capitolo di Genova comandò a tutti i frati: quod sibi in scriptis dirigerent quidquid de vita, signis et prodigis beati Francisci scire veraciter possent. Degli scritti (si tralasciano i meno notevoli) che si riconducono a questo decreto, tre: la Legenda trium sociorum (ed. M. Faloci-Pulignani, Foligno 1898; volg. it. di G. Battelli, San Casciano Val di Pesa 1926), la Seconda vita di Tommaso da Celano e lo Speculum perfectionis (ed. P. Sabatier, 2ª ed., Parigi 1930), presentano, per lo studio della loro genesi, difficoltà anche oggi non risolte.
La Legenda Trium sociorum, nella redazione in cui ci è pervenuta, è preceduta da una lettera datata da Greccio l'11 agosto 1246 con la quale l'opera era inviata a Crescenzio, dai tre autori: Leone, Angelo e Ruffino, cioè "des hommes - scriveva P. Sabatier nel 1884 - dignes de raconter Saint François, et peut-être les plus êapables de le faire". Specialmente Leone che, dal 1220, fu senza interruzioni al fianco di F., compagno fedele di S. Chiara, avversario di Elia, rappresentante tipico dell'ideale francescano. Frate Leone amava consegnare alla carta i fatti e le parole del santo che egli di tanto in tanto rievocava per l'edificazione dei più giovani fratelli: sono i famosi rotuli o schedulae ricordati e citati spesso da Ubertino da Casale, Pietro Olivi, Angelo Clareno. Disgraziatamente, basta un esame superficiale della Legenda a far constatare come dopo aver parlato della giovinezza del santo e dei primi tempi dell'ordine, essa passi bruscamente alla morte e alla canonizzazione, saltando quella parte della vita che, oltre a essere la più interessante, era proprio quella sulla quale i tre compagni erano meglio informati; d'altra parte vi sono evidenti contraddizioni fra la lettera di invio e il contenuto della Legenda, i cui due capitoli finali presentano tali differenze di stile dal resto da apparire ai più un'aggiunta posteriore. Tuttavia non sono mancati i difensori dell'integrità e autenticità della Legenda; altri, pur pensandola autentica, ne hanno contestata l'integrità; per altri, infine, essa, checché ne sia della sua integrità, è un rafforzamento di epoca assai tarda: la definì pastiche il competentissimo bollandista Van Octroy (Analecta Bollandiana, XIX, 1900, pp. 119-197), le cui conclusioni, nonostante le repliche, sono ora accolte quasi universalmente. Resta la lettera d'invio a Crescenzio da Iesi: il Van Octroy pensava che essa dovesse precedere qualche documento francescano oggi perduto o che fosse opera di un falsario; in realtà non pare possibile concludere così semplicisticamente, e la lettera è e rimarrà un mistero la cui soluzione porterebbe un po' di luce nella così intricata questione delle fonti francescane.
L'ipotesi che la Leggenda fosse autentica ma incompleta ha suggerito non pochi tentativi di rintracciare le parti di essa che dai più si pensavano soppresse da Crescenzio da Iesi,. avversario degli zelanti. E P. Sabatier, preso in esame lo Speculum vitae, caotica e indigesta compilazione della metà del sec. XIV, pensava, eliminando successivamente da questa compilazione i Fioretti, frammenti della leggenda di S. Bonaventura, di Cronache dell'ordine, di opere di F. e di altri scritti, di trovare i frammenti soppressi dalla Leggenda dei tre compagni: si trovò invece in presenza di uno scritto omogeneo, alcuni passaggi del quale erano citati da Angelo Clareno e da Ubertino da Casale come opera di frate Leone. La conferma venne dal manoscritto parigino Mazarino 1743, del 1459, che conteneva, quasi negli stessi limiti, appunto lo scritto isolato dal Sabatier, col titolo Speculum perfectionis. L'explicit era datato 11 maggio 1228 (computo pisano; 1227 computo nostro): dunque un'opera anteriore alla prima vita di Tommaso! Tanto bastò al Sabatier per pubblicarla (1898) come Speculum perfectionis seu S. Francisci Assisiensis legenda antiquissima auctore Frate Leone. La pubblicazione diede origine a un grandissimo numero di scritti, polemiche, discussioni, ipotesi: si erano dunque finalmente messe le mani sull'inafferrabile e fondamentale scritto di frate Leone? Ma il confronto con un secondo manoscritto (Ognissanti, Firenze) dimostrò che lo Speculum era del 1318, quindi non poteva essere opera di frate Leone: ciò non toglieva, anzi poteva essere accolto come certo, che l'opera contenesse materiali leoniani. A rintracciare i quali furono avanzate le più svariate ipotesi (tutte, malauguratamente, irriducibili fra loro per mancanza di argomenti decisivi) e pubblicati testi spesso interessantissimi (fra questi una nuova redazione dello Speculum edita da L. Lemmens; la Legenda antiqua o Compilazione di Avignone, studiata da P. Sabatier; un manoscritto francescano, pubblicato (1903) da A. G. Little; la Legenda antiqua, o manoscritto di Perugia, pubblicato da F. Delorme), ma che non hanno avuto altro resultato che di confondere ancora di più una già confusa questione. Quello che si può ritenere - nonostante l'opposizione di M. Beaufreton, il paladino più tenace della tradizione celanese - è che negli scritti studiati per rintracciare l'opera di frate Leone (in particolare la Legenda Trium sociorum e lo Speculum perfectionis) è possibile vedere frammenti di un materiale certamente anteriore alla II vita di Tommaso e da questa utilizzati.
Sta di fatto che in seguito alle deliberazioni di Crescenzio da Iesi molto materiale biografico dovette esser posto a disposizione del generale: è probabilissimo che anche i tre compagni gli facessero pervenire, se non una vita, almeno dei materiali per una vita; è certo che questi materiali, comunque pervenuti a Crescenzio da Iesi, furono affidati a Tommaso affinché ne traesse una biografia organica e ufficiosa. È questa la II vita di Tommaso da Celano iniziata nella seconda metà del 1246. L'11 luglio 1247, quando ancora il Celanese non aveva compiuto il suo lavoro, a Crescenzio da Iesi, avversario degli zelanti, succede nel generalato Giovanni da Parma, il più in vista del partito contrario; a lui è attribuito, sembra a torto, un Sacrum commercium beati Francisci cum domina paupertate (ed. F. D'Alençon, Roma 1900) notevolissimo. Giovanni rinnovò al Celanese l'incarico. La II vita riflette questo mutato indirizzo nel governo dell'ordine rivelandosi, nella seconda parte, circa la questione della povertà e della lotta fra i due partiti, un'apologia degli spirituali.
Ma, come la caduta di Elia aveva provocato la caduta della I vita di Tommaso, così quando Giovanni da Parma fu dimesso dal generalato, anche la II vita, favorevole agli spirituali, subì la stessa sorte. Il capitolo di Narbona (1260) affidò la compilazione di una nuova biografia al nuovo generale, S. Bonaventura. Avversario in egual misura dei due partiti estremi in seno all'ordine e desideroso soprattutto di pacificazione, Bonaventura era l'uomo adatto a dare, del santo, una biografia ufficiale. La Legenda maior (Bonaventura compose anche una Legenda minor a uso del coro) di lui, approvata dal capitolo di Pisa del 1263, conformemente allo scopo per il quale fu scritta, sopprime nella vita del santo tutto ciò che era stato motivo di polemica: non vi è per es. ricordato il Testamento, e cadono insieme i nomi di Elia e dei Compagni del santo. E vi si cercherebbe invano l'originalità di F., il dramma della sua esperienza intima, che pure aveva trovato nel celanese un pittore efficace: il santo vi è rappresentato come tipico fondatore di ordine e grande taumaturgo. Inutile insistere sui procedimenti che permisero a Bonaventura di adattare le sue fonti al suo scopo, come è inutile esagerare - ha osservato il Van Octroy - il merito critico di questa vita ufficiale, che il capitolo generale del 1266 dichiarò unica autorizzata, ordinando la distruzione di tutte le precedenti: tanto che, contro quasi duecento codici della Legenda maior, ne abbiamo solo una diecina della prima vita di Tommaso.
Delle biografie posteriori a Bonaventura ricorderemo gli Actus Beati Francisci et sociorum eius (ed. M. F. Pennacchi, Foligno 1911), scritti fra il 1322 e il 1328, con tutta probabilità da Ugolino da Monte Giorgio (Marche), dai quali furono tratti sostanzialmente i Fioretti (v.). Essi presentano un certo interesse in quanto sono l'unico documento francescano che rifletta al vivo la vita francescana quale si perpetuava negli eremitaggi e fra il popolo.
Le fonti francescane (specialmente quelle connesse col famoso decreto di Crescenzio da Iesi) presentano dunque difficoltà, insormontate e forse insormontabili, quando si tratta di stabilire rapporti d'interdipendenza e d'individuare la famosa e inafferrabile opera di frate Leone. E anche qualora tutte le difficoltà di ordine storico-letterario fossero risolte, rimarrebbe sempre il problema generale dell'attendibilità di queste fonti. Ciò non autorizza tuttavia a dichiarare la questione insolubile. Sta di fatto che le fonti frascescane, oltre a essere opere di edificazione (ciò che non contribuisce ad aumentarne l'attendibilità), offrono un'immagine del santo che appare troppo spesso foggiata per avallare una particolare interpretazione del messaggio francescano e sono documenti viventi di una lotta che conosciamo bene. Indagarne lo spirito e la tendenza è il mezzo migliore per sapere fino a che punto si possa loro far credito: gli scritti del santo permettono di controllare se e in che misura l'idea che i varî biografi si son fatti di F. sia vicina all'immagine di lui che balza luminosa e vivente dalle pagine accorate del Testamento.
V. tavv. CLXXIX-CLXXXII.
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Papini (Foligno 1804); G. Schnürer (Monaco 1905; trad. it. Firenze 1906); G. Joergensen (Kopenaghen 1907; trad. it., 2ª ed., Roma 1919); F. Cuthbert (Londra 1912); A. Colombo (Milano 1921); F. Tarducci (Roma 1923); G. K. Chersterton (Londra 1923); M. Beaufreton (Parigi 1925); E. Buonaiuti (Roma 1925); G. Fanciulli (Torino 1925); D. Sparacio (Assisi 1926); A. Fortini (Milano 1926); V. Facchinetti (2ª ed., Milano 1926); L. Salvatorelli (2ª ed., Bari 1927). Degli scritti su argomenti particolari si citano solo: K. Müller, Die Anfänge des Minoriten Ordens, Friburgo in B. 1885; G. Ratzinger, Die soziale Bedeutung des hl. F., in Forschungen zur bayrischen Gesch., 1897; I. Della Giovanna, S. F. d'A... e le "Laudes creaturarum", in Giornale storico della lett. italiana, XXIX, XXXIII; H. Tilemann, Sources of history of St. Francis, in English historical Reviev, XVII (1902), p. 643 segg.; P. Mandonnet, Les règles et le gouvernement de l'ordo de poemitentia au XIIIme siècle, Parigi 1902; W. 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