Giovanni I, santo
Nato in Toscana, figlio di Costanzio, successe a Ormisda il 13 agosto 523. Per quanto riguarda il periodo precedente al pontificato, l'identificazione del personaggio storico di G. non è facile. Tra l'altro, il nome Giovanni ricorre spesso nel VI secolo (altri due papi portarono questo nome). Si trova la prima attestazione di un diacono Giovanni nel concilio romano indetto da Simmaco e tenutosi nella basilica di S. Pietro il 1° marzo 499. Qui, un diacono Giovanni è indicato per ultimo tra i sette diaconi presenti, l'intero corpo diaconale romano. Anche la sua firma è l'ultima, la sesta, dal momento che le deliberazioni di questo concilio furono sottoscritte solo da sei tra i sette diaconi. Questo Giovanni, forse, è lo stesso diacono che partecipò anche al concilio simmachiano del 501, dove è indicato al secondo posto tra i soli quattro diaconi presenti. Un diacono Giovanni firmò, anche, un documento, una pubblica ammissione di colpa e una promessa di fedeltà a papa Simmaco, che porta la data del 18 settembre del 506 (Iohannes Diaconus, p. 38). Questo diacono Giovanni era stato schierato, sino a quel momento, con l'ala antisimmachiana del clero romano (v. Simmaco, santo).
Il documento del 18 settembre 506 si può considerare in qualche modo conclusivo della fase più drammatica dello scisma laurenziano. Questo aveva preso l'avvio il 22 novembre 498, quando sia Simmaco che Lorenzo erano stati eletti alla carica di vescovo di Roma. La doppia elezione rifletteva, tra le altre, divergenze politico-dottrinali sull'atteggiamento da tenere nei confronti dello scisma acaciano. I simmachiani sostenevano una politica filocalcedonese e filoromana, i laurenziani avevano un orientamento filorientale. Dopo alcuni anni di pontificato, Simmaco era stato esautorato e al suo posto era subentrato Lorenzo, che per quattro anni, dal 502 al 506, restò a capo della Chiesa romana. In conseguenza di ciò Roma conobbe anni tragici di violenze fratricide tra le due fazioni avversarie. Nel 506, la sottoscrizione del documento citato da parte del diacono Giovanni, nel suo ruolo particolarmente rappresentativo nell'ambito della fazione laurenziana, indicherebbe la fine dell'opposizione ufficiale a Simmaco: sacche poco significative di resistenza al papa sarebbero continuate fino al loro definitivo riassorbimento avvenuto durante il pontificato di Ormisda, successore di Simmaco.
In conseguenza della posizione tenuta prima di questa dichiarazione è inevitabile pensare a un atteggiamento del diacono favorevole al riavvicinamento con l'Oriente, un orientamento politico consono con la politica del futuro papa Giovanni. Non è escluso che il diacono Giovanni presente ai concili simmachiani del 499 e del 501 possa anche essere lo stesso diacono Giovanni che firmò il documento del 506.
A giudizio di Richards (p. 85), invece, si tratterebbe di due personaggi diversi e non sarebbe possibile identificare il diacono Giovanni presente ai concili simmachiani del 499 e del 501 (Richards sulla base della datazione mommseniana colloca quest'ultimo concilio nel 502) con il diacono Giovanni che sottoscrisse il documento del 506. Il primo, infatti, sarebbe appartenuto alla schiera dei fedelissimi di Simmaco: lo comproverebbero la presenza ai concili e le due sottoscrizioni alle deliberazioni. Il secondo, invece, era stato schierato fino al 506 tra le fila del partito laurenziano. Per Richards l'orientamento politico filorientale può essere attribuito solo al diacono sottoscrittore del documento del 506 e solo questo diacono può identificarsi con papa Giovanni. I due diaconi, inoltre, sarebbero appartenuti a due diaconati paralleli, vicini rispettivamente a Simmaco e a Lorenzo. In realtà, presenza e sottoscrizione a un concilio romano e, nello specifico, ai concili simmachiani, non sono prova di adeguamento alla politica papale: lo dimostrano, in un solo caso, ma esemplare per tutti, la presenza e sottoscrizione da parte dello stesso presbitero Lorenzo, già proclamato papa insieme a Simmaco, al concilio romano del 499. L'ipotesi di un diaconato parallelo, inoltre, non sembra adattarsi soprattutto al caso del concilio del 501, quando Lorenzo, lontano da Roma, era vescovo a Nocera. È, dunque, possibile che il diacono Giovanni, presente e sottoscrittore nei concili simmachiani del 499 e del 501, possa anche essere stato un avversario di Simmaco, lo stesso che, dopo una militanza aperta a favore di Lorenzo negli anni in cui questi aveva governato la Chiesa, al rientro di Simmaco, nell'anno 506, ammise pubblicamente la propria colpa e dichiarò la propria fedeltà a Simmaco.
Un diacono Giovanni, un veterano di antiche battaglie della Chiesa, in quanto considerato un esperto in questioni liturgiche, fu consultato dal conte Senario, "comes patrimonii" di Teoderico e fedele servitore del re dei Goti. A Senario, che aveva posto domande sul battesimo, il peccato e la grazia, il diacono rispose con l'Epistula ad Senarium, redatta verso il 500 e importante per la storia della liturgia battesimale romana. Questo diacono Giovanni appare uomo colto e, anche per questo, sarebbe possibile identificarlo con il futuro papa. Probabilmente si tratta dello stesso diacono Giovanni, intimo di Boezio, che fu figura ecclesiastica guida del gruppo filorientale dell'aristocrazia romana. Boezio lo chiamò "maestro di santità e venerabile padre" e a lui dedicò tre dei suoi cinque trattati teologici, li sottopose al suo consenso e ne accettò le correzioni. Il probabile coinvolgimento di Giovanni e di Boezio nei rapporti tra papa Simmaco e i vescovi orientali filortodossi perseguitati in Oriente (Symmacus, ep. 12), durante lo scisma acaciano, suggerì forse a Boezio di scrivere il suo Liber contra Eutychen et Nestorium, dedicato a Giovanni, così come il trattato Utrum Pater et Filius et Spiritus sanctus de divinitate substantialiter praedicentur e il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint.
Un'ipotesi di identificazione tra il diacono Giovanni, autore dell'Epistula ad Senarium, e il diacono Giovanni, che fu in contatto con Boezio, ha un riscontro indiretto anche nella tesi di alcuni studiosi che ascrissero al diacono Giovanni, autore dell'Epistula e futuro papa G., l'opuscolo De fide catholica, sintesi di dottrina cristiana, più generalmente considerato il quarto tra gli Opuscula sacra Boethii. L'attribuzione sembra essere errata, ma essa appare, comunque, esemplificativa della vicinanza di personalità tra il diacono autore della lettera a Senario e il diacono Giovanni, amico di Boezio, e ne avvalora, in qualche modo, l'ipotesi di identificazione. Se è possibile riunire tutte queste informazioni in un unico diacono Giovanni futuro papa G., la sua elezione potrebbe significare, in una Roma che ancora risentiva del lungo conflitto politico e dottrinale con l'Oriente, il trionfo del partito filorientale.
Solo da qualche anno si era concluso, sotto il predecessore di G., papa Ormisda, lo scisma acaciano che, per trentacinque anni (484-519), aveva diviso Oriente e Occidente, in relazione ai problemi lasciati aperti dal concilio di Calcedonia. Anche a Roma clero e aristocratici erano stati divisi al loro interno tra un partito filorientale, favorevole alla pacificazione con l'Oriente, e un partito filocalcedonese in materia religiosa, politicamente vicino agli Ostrogoti e sostenitore di una linea romanocentrica. A Roma, i riflessi della frattura con l'Oriente erano stati concausa, insieme a problemi e interessi specifici del contesto romano, dello scisma laurenziano. Chiuso lo scisma acaciano, non si poteva, però, dire che a Roma fossero eliminate del tutto le tensioni tra la fazione filoromana e filogotica da un lato e quella filorientale dall'altro. La situazione politica era, inoltre, complicata dal fatto che all'unione religiosa delle Chiese d'Oriente e d'Occidente si contrapponeva ora una divergenza di orientamenti di fede e di dottrina tra le massime autorità politiche. Infatti, in Italia governava il re Teoderico, ostrogoto e amalo, di fede ariana, mentre a Costantinopoli, dal 518, l'ortodosso Giustino era succeduto al filomonofisita Anastasio. Rispetto allo scisma acaciano, dunque, notevoli erano i mutamenti intercorsi a Roma sia nell'ambito del clero romano che all'interno del Senato, probabilmente in gran parte schierato dalla parte di Giustino. Per tutto questo non è possibile interpretare l'elezione di G. come il semplice alternarsi di due partiti contrapposti nell'ambito di uno stesso contesto politico. L'elezione di G. consegnava ai filorientali la guida della Chiesa romana, adesso che, concluso lo scisma acaciano, era più chiaro che l'unità religiosa poteva preparare la strada per l'unità politica. L'arianesimo di re Teoderico era, forse per questo, diventato anche meno tollerabile. Pure l'autore dell'Anonimus Valesianus - che già aveva guardato con cattolica simpatia al re ariano, qui stesso definito "devotissimus ac si catholicus" - alla fine del racconto relativo al periodo di governo dell'ariano re ostrogoto, fa un attacco violento contro il suo arianesimo (Anonimus Valesianus 88, 94, 95). Per quanto riguarda, poi, l'atteggiamento di Teoderico verso la politica italiana e l'atteggiamento della politica italiana verso Teoderico va anche considerato che, in politica estera, per varie ragioni, Teoderico si era notevolmente indebolito. Soprattutto, si era indebolita la posizione degli ariani, sia in Occidente che in Oriente, dove, nel 523 (o 524), l'imperatore aveva avviato contro di loro una persecuzione. Il re intuì, forse, che lo stesso sarebbe potuto quanto prima succedere anche in Occidente.
Da papa, probabilmente nel 525, in dubbio sulla data della Pasqua del 526, G. accettò il computo fissato da Dionigi il Piccolo, figura di grande autorevolezza, perfetto conoscitore del greco e del latino, amico di Cassiodoro, uno dei principali mediatori della cultura greca in Occidente. G. si era rivolto al primicerio Bonifacio e al secondicerio Bono perché studiassero la questione. Questi interpellarono Dionigi, il quale rispose che la Pasqua doveva essere collegata al ciclo alessandrino. Il primicerio Bonifacio si convinse della tesi di Dionigi e raccomandò a G. di attenervisi. S'ignora quale seguito diede il papa al rapporto di Bonifacio. Si sa però, da quanto Dionigi e i suoi sostenitori continuarono a fare per dimostrarne l'esattezza, che tale ciclo fu ancora osteggiato.
La questione della data della Pasqua aveva conosciuto, non molti anni prima, sotto papa Simmaco, la sua ultima controversia, dai risvolti particolarmente drammatici. Allora tale data aveva rappresentato un terreno di scontro diretto tra Oriente e Occidente e aveva assunto una forte valenza simbolica nel contesto dello scisma laurenziano. Infatti, nel 501, la decisione di papa Simmaco di modificare la data della Pasqua, ormai orientalizzata anche a Roma, e di fissarla in base al calendario occidentale, diede l'avvio alla fase più dura degli scontri tra difensori di Calcedonia e della posizione romanocentrica da un lato e sostenitori di una politica di pacificazione con l'Oriente dall'altro. Come allora non era sfuggito ai nemici di Simmaco il senso ideologico di quella scelta, così è difficile negare che essa non avesse anche adesso un qualche valore politico.
Chiuso il capitolo dello scisma acaciano, a Roma le antiche tensioni erano riaffiorate in un contesto per certi aspetti profondamente mutato, mentre gli attriti politico-dottrinali riemergevano soprattutto in conseguenza della persecuzione in Oriente contro gli ariani, ai quali venivano confiscate le chiese. Teoderico reagì e il suo atteggiamento, nel complesso fino ad allora conciliante, e, comunque, al di là delle mitizzazioni delle fonti, politicamente lucido, cambiò.
Una delle prime reazioni del re coinvolse due personaggi illustri, Boezio e il suocero di questi, Simmaco. Una lettera del senatore Albino, console nel 493, era stata intercettata dal re. Forse la lettera era una di quelle che annunciavano a Costantinopoli l'elezione di papa Giovanni. L'allora referendario del re, Cipriano, poi "comes sacrarum" e "magister", spinto da cupidigia insinuò nel re il sospetto che la lettera fosse stata mandata segretamente all'imperatore Giustino contro di lui. Boezio, da poco divenuto "magister officiorum", tentò una difesa maldestra. La vicenda fu interpretata come un complotto e un atto di tradimento contro il governo ostrogoto da parte di forze politiche vicine all'imperatore. Il re istruì un processo per tradimento. Invano Boezio si proclamò innocente. Egli fu imprigionato e, dall'autunno 523, passò più di un anno in carcere. Nell'estate del 524 fu crudelmente ucciso. L'uccisione del suocero, Simmaco, "princeps senatus", avverrà successivamente, nel 525, quando il papa sarà in missione a Costantinopoli (il Liber colloca tutta la vicenda, anche quella relativa a Boezio, al periodo della missione papale a Costantinopoli). Invece (cfr. Anonimus Valesianus 87-8) la tragedia di Boezio si era già consumata prima che l'ambasceria partisse per Costantinopoli.
Teoderico covava progetti di vendetta ben più devastanti dell'eliminazione di alcuni sia pur eminenti personaggi. Ma, prima, decise di inviare un'ambasceria all'imperatore. Appariva evidente che, se le sue richieste non fossero state esaudite, la violenza del re si sarebbe abbattuta su tutta l'Italia cattolica. Alla fine del 525, benché il papa fosse malato e si muovesse con grande sofferenza, Teoderico lo fece chiamare e lo costrinse a presentarsi a corte, a Ravenna. Da lì, gli impose di andare a Costantinopoli, con un preciso mandato: chiedere all'imperatore Giustino di bloccare la persecuzione degli ariani, imporgli di riconsacrare le chiese già passate ai cattolici e, soprattutto, fargli annullare tutte le conversioni al cattolicesimo che, secondo Teoderico, sarebbero state solo frutto di coercizioni. Benché G. si mostrasse disponibile a guidare la legazione reale e a intercedere presso Giustino, espresse apertamente il proprio dissenso per quanto riguardava l'ultimo punto del mandato relativo agli ariani convertiti al cattolicesimo che Teoderico voleva fossero restituiti alla loro fede d'origine. Senza riserve disse al re che non gli prometteva di fare quanto gli veniva richiesto in merito. Anzi, non avrebbe nemmeno fatto menzione all'imperatore di quest'ultima richiesta. G. dichiarava di essere determinato, invece, fidando nell'aiuto di Dio, a ottenere dall'imperatore tutto il resto. L'atteggiamento e la risposta del papa indisposero non poco Teoderico. Questi, comunque, organizzò egualmente l'ambasceria da inviare all'imperatore e ne predispose il viaggio via mare. Fece costruire appositamente una nave e G. fu posto alla testa di una missione di alto livello. Egli era il principale responsabile di una delegazione composta da eminenti personaggi del mondo ecclesiastico e politico (i vescovi Ecclesio di Ravenna, Eusebio di Fano, Sabino di Canusio, e un gruppo di importanti senatori ed ex consoli, quali Teodoro, Inportuno, e, ancora, un altro ex console e un patrizio, entrambi di nome Agapito). Si era nell'avanzato inverno del 525. Secondo altre fonti nei primi mesi del 526.
Dopo un viaggio tranquillo, l'ambasceria guidata da G., al suo arrivo in Oriente, fu, secondo quanto attesta l'Anonimus Valesianus, accolta trionfalmente. L'orgoglio degli Orientali era quello di testimoniare a gran voce che, per la prima volta dai tempi dell'imperatore Costantino e di papa Silvestro, l'Oriente guidato dal cattolico Giustino aveva meritato di accogliere il vicario di Pietro. A quindici miglia da Costantinopoli una processione composta da tutta la cittadinanza, che innalzava croci e ceri in onore dei beati apostoli Pietro e Paolo, andò incontro al papa. A capo vi era l'imperatore, che si prostrò dinanzi a Giovanni. Questi, insieme agli altri legati, chiese a Giustino di ricevere l'intera delegazione romana. Lo stesso Anonimus Valesianus, dopo aver registrato il diniego del papa a chiedere la reintegrazione degli ariani convertiti al cattolicesimo, attesta che la richiesta fu sottoposta egualmente all'imperatore. Questi promise che avrebbe concesso tutto, tranne, appunto, l'annullamento delle conversioni al cattolicesimo. Per quanto riguardava tale questione Giustino si giustificò diplomaticamente dichiarando l'"impossibilità" di potere realizzare un simile progetto.
La data della partenza di G. e della legazione per Costantinopoli è successiva al rapporto inviato a G. dal "primicerius notariorum" Bonifacio (settembre 525). In base ai documenti greci la partenza e l'arrivo a Costantinopoli sarebbero precedenti a Natale: così Pfeilschifter, Sundwall e Stein. In base ai documenti latini, che da taluni studiosi sono ritenuti, per varie ragioni, più attendibili, partenza e arrivo dovrebbero essere spostati ai primi mesi del 526 o poco prima della Pasqua (L. Duchesne, E. Caspar). Secondo Stein, la prima tesi sarebbe suffragata anche dall'errore di Marcellino "comes", che fa celebrare al papa non il Natale, ma la Pasqua 525: errore che si spiegherebbe più facilmente se l'arrivo a Costantinopoli fosse, comunque, avvenuto nel 525. Notevoli differenze narrative esistono anche tra le varie fonti. Quelle greche fanno un resoconto dell'incontro tra papa e imperatore molto poco trionfalistico. Ma anche le fonti latine divergono. Non solo i racconti del Liber e dell'Anonimus Valesianus corrispondono a concezioni di parte politica divergente, ma disparità significative distinguono tra loro anche le redazioni del Liber.
A Costantinopoli, G. avrebbe celebrato con rito latino le festività di Natale e Pasqua e, durante quest'ultima festa, l'imperatore, reincoronato dal papa, apparve ai contemporanei all'apice della gloria terrena. Dopo questi fatti, la legazione rientrò in Italia e si presentò a Teoderico. Dal punto di vista del re l'ambasceria era stata un fallimento. E non solo per i risultati parziali rispetto al mandato che era stato affidato agli ambasciatori, ma anche per lo stesso prolungarsi del soggiorno del papa e dei legati a Costantinopoli in un clima trionfale. Il re fece esplodere la sua ira sugli uomini che avevano preso parte alla legazione. Questi furono tutti, compreso il papa, tratti in inganno, imprigionati, forse torturati. Dopo pochi giorni di prigionia, il papa, forse per le torture subite, morì.
Al primo periodo del suo pontificato si fanno risalire le opere monumentali. La seconda redazione del Liber pontificalis gli attribuisce la ricostruzione e il restauro di alcuni cimiteri. Il biografo riferisce infatti di lavori compiuti sulla via Ardeatina dove "refecit cymiterium beatorum martyrum Nerei et Achillei"; l'uso di "refecit" sembra indicare una risistemazione di un santuario precedentemente esistente, piuttosto che, come ipotizzava R. Krautheimer, la costruzione "ex novo" della basilica cimiteriale semipogea. G. intervenne inoltre nel cimitero di Commodilla con la realizzazione di una basilica, che sostituì il precedente santuario damasiano, in onore dei martiri Felice e Adautto, sepolti nel cimitero. Con la costruzione della basilica, dotata di due absidiole, il papa provvide anche alla realizzazione di una apposita scala di accesso. Come riferisce il Liber pontificalis G. "renovavit cymiterium Priscillae" (p. 276); l'opera interessò, secondo G.B. de Rossi, la basilica di S. Silvestro. Da Giustino G. avrebbe ricevuto in dono oggetti preziosi, sembrerebbe di capire prima del suo viaggio a Costantinopoli, perché G. ne avrebbe fatto offerta votiva ad alcune basiliche, tra cui quella degli apostoli Pietro e Paolo. A S. Pietro inoltre G. portò a compimento probabilmente la decorazione dell'atrio intrapresa da Simmaco, come attesta una iscrizione situata "in sinistro atrio", che riporta il nome di un papa Giovanni (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, nr. 4116).
Morto a Ravenna il 18 maggio, il suo corpo fu trasportato a Roma e sepolto nella basilica di S. Pietro il 27 maggio 526. Contesto e modalità della sua morte ne fecero subito un martire della fede. L'Anonimus Valesianus narra del culto popolare di cui il suo corpo fu fatto oggetto immediatamente dopo la morte e dei miracoli che sarebbero stati da lui ben presto compiuti: la liberazione di un indemoniato e la guarigione di un infermo. In conseguenza di ciò, anche le sue vesti sarebbero state subito trattate come reliquie da popolo e senatori e il suo corpo riportato trionfalmente a Roma e sepolto a S. Pietro (J. Ch. Picard, p. 750). L'epitaffio (Inscriptiones Christianae urbis Romae. Nova series, nr. 4151) propone in forma dialogica un discorso ideale rivolto al lettore (v. 1: "quisquis [...]") al quale si prospetta la vita esemplare di G. come modello a cui conformarsi per poter raggiungere la vita eterna ("[...] ad aeternam festinat tendere vitam"). La via da seguire altro non è che lo stesso sentiero che percorse fiducioso il papa (v. 3: "tramite quo fretus [...] sacerdos"), meritando di entrare nel regno dei cieli (vv. 3-4: "[...] caelestia regna [...] / intravit meritis [...] suis"), già preparatogli da Dio (v. 4: "[...] ante parata"). Di seguito si ricorda la missione compiuta dal pontefice per soddisfare le richieste dell'imperatore (v. 5: "[...] commercia grata peregit"): G., a motivo del fallimento delle trattative con l'imperatore Giustino, perse (v. 6: "perdidit [...]") la vita ma poté ottenere un posto per sempre nella dimora eterna ("[...] ut posset semper habere Deum"). L'autore dei versi quindi si rivolge direttamente al defunto papa (v. 7: "antistes Domini [...]") e ne esalta le sofferenze del martirio glorioso ("[...] procumbis victima Christi"), indicando in esso la via per conseguire il beneplacito di Dio "supremo pontefice" (v. 8: "pontifici summo sic placiture Deo").
La morte di Teoderico, passato alla tradizione cattolica come il carnefice del papa, dopo non molti giorni, il 30 agosto, ed è presentata dal Liber come un atto di giustizia divina. In Beda, probabilmente per errore, il nome di G. è riportato il 28 maggio. Il Martyrologium Romanum lo riporta alla data del 27 maggio, mentre il Calendarium Romanum al 18 maggio.
fonti e bibliografia
Di G. si sono perse tutte le epistole autentiche. Spurie sono quelle in P.L., LXIII, coll. 529-34. Gli è stata attribuita, da diacono, l'Epistula ad Senarium, in P.L., LIX, coll. 399-408.
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