Ormisda, santo
Nacque a Frosinone, figlio di Giusto. Fu diacono della Chiesa romana sotto il pontificato di Simmaco, del quale fu il successore. Fu eletto papa il 20 (e non il 27 come era tradizione considerare) luglio 514.
Della sua vita privata, si sa che fu sposato ed ebbe un figlio, Silverio, autore dell'epitaffio del padre (Inscriptiones Christianae urbis Romae, II, 1, nr. 15; Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 984, p. 184) come si deduce dal testo stesso dell'epigrafe (v. 11: "[…] haec ego Silverius […] notavi"). Alla fine dell'iscrizione Silverio esprime la consapevolezza che quanto ha compiuto rimarrà indelebile nel tempo ad eternare la memoria paterna (v. 12: "ut possent fixa manere diu"). Dopo aver dichiarato la pochezza della propria opera in relazione alla dignità del personaggio - papa O. - cui essa è dedicata (v. 1: "quamvis digna tuis non sint pater ista sepulcris"), l'autore elenca, nella sezione centrale e più estesa dell'iscrizione, gli eventi salienti del pontificato del padre. Si ricordano gli sforzi che O. compì per eliminare le ultime tracce dello scisma laurenziano che aveva dilaniato il corpo della Chiesa (v. 5: "sanasti patriae laceratum scismate corpus […]"), l'intervento a favore della riconciliazione tra Chiesa d'Oriente e d'Occidente dopo lo scisma acaciano (v. 7: "imperio devicta pio tibi Graecia cessit […]"), infine, la reintegrazione dei membri dell'episcopato africano nelle proprie funzioni, dopo l'invasione dei Vandali, che si compì negli ultimi anni del suo pontificato. Silverio fu suddiacono e, non si sa con quale grado ecclesiastico, divenne a sua volta papa. Da un'epigrafe, scoperta nel 1757 (Inscriptiones Christianae urbis Romae, nr. 1098, p. 501; Inscriptiones latinae christianae veteres, nr. 1312, pp. 252-53) e dall'iscrizione di una tabula di marmo si conosce il nome di un parente stretto di O., Geronzio († 565), "primicerius" dei notai pontifici. Questi, presiedendo l'ufficio della Cancelleria apostolica in qualità di direttore generale e di uno dei dignitari più autorevoli della corte pontificia, collaborò con O. contribuendo al prestigio del suo pontificato.
Si conoscono anche alcuni dati significativi relativi alla sua attività ecclesiastica precedente il pontificato. Molto probabilmente, O. fu consacrato diacono dal predecessore Simmaco, pochi mesi dopo il concilio indetto dal papa, tenutosi il 1° marzo 499 nella basilica di S. Pietro. A questo concilio O., infatti, non partecipò. Il suo nome manca dalla lista dei sette diaconi, l'intero corpo diaconale romano, indicati come presenti negli atti del concilio, le deliberazioni del quale sei di questi stessi diaconi sottoscrissero in calce ai verbali. Non si sa né quando né perché O. entrò nelle gerarchie della Chiesa. Unico punto di riferimento al proposito è quanto dice Ennodio, vescovo di Pavia e amico di O., come già lo era stato di Simmaco: egli lo colloca in un tempo di poco posteriore all'entrata della propria moglie nel chiostro. Troviamo O. diacono nel concilio romano del 6 novembre del 501, anche questo indetto da Simmaco nella basilica di S. Pietro. Qui, dell'intero corpo diaconale romano, composto da sette diaconi, ne sono presenti solo quattro e il nome di O. è il terzo. Egli fu il relatore del documento sul quale il sinodo era stato chiamato a esprimersi: una "scriptura" risalente al 483, che il sinodo avrebbe dichiarato giuridicamente illegittima. Dopo il discorso di apertura di papa Simmaco, O. iniziò a leggere il testo. I verbali degli atti registrano i passi del documento progressivamente letti, i commenti e le discussioni, che ne interrompevano via via la lettura.
Questa "scriptura" risaliva ai pochi giorni di transizione tra la morte di papa Simplicio (10 marzo 483) e l'elezione del suo successore, Felice III, del 13 marzo 483. Essa era stata presentata dal prefetto di Odoacre, Basilio, subito dopo la morte di Simplicio. Basilio, richiamandosi a disposizioni che sarebbero state date dallo stesso Simplicio in punto di morte, proprio per evitare i disordini spesso connessi all'elezione di un nuovo vescovo, lamentava che la designazione del successore fosse avvenuta, a suo dire, non solo "praetermissis nobis" - l'espressione è da intendersi come riferita agli aristocratici, anche se alcune letture la interpretano come riferita a Basilio, in quanto rappresentante del re -, ma per di più quando il papa era ancora vivo, sia pure in imminente punto di morte. Ciò contro l'indicazione di Simplicio volta a far sì che la successione fosse decisa "non sine nostra consultatione". La "scriptura" era un documento redatto sulla base di un suggerimento informale di papa Simplicio, non ufficializzato, ed era stata approvata da un'assemblea alla quale il papa non aveva partecipato. I problemi relativi alla procedura seguita, la partecipazione di aristocratici all'atto della sua stesura, e i contenuti del documento erano strettamente connessi ai temi dello scontro in atto tra Simmaco e Lorenzo e le rispettive fazioni. Ad essa si appellavano i nemici di Simmaco. I simmachiani la contestavano e ne ponevano in discussione la validità. Nel 501, Simmaco convocò un sinodo per discuterla. Il documento venne abrogato.
Successivamente, il nome di O. non compare nel sinodo del 502, durante il quale il papa Simmaco fu sottoposto a processo. Ma, qui, non si hanno sottoscrizioni dei clerici della Chiesa romana, né di presbiteri, né di diaconi.
Una lettera di Simmaco, da collocare probabilmente tra il 507 e il 512 (ep. 11, in Epistolae Romanorum Pontificum, pp. 708-09), indirizzata ai vescovi africani perseguitati in Africa dai Vandali ariani, parla di un diacono H (sic!), che avrebbe trasmesso al papa la richiesta di "veneranda patrocinia" dei ss. Nazario e Romano a conforto delle sofferenze dei cattolici. Secondo alcuni, questo diacono H potrebbe essere Ormisda. Secondo altri, potrebbe trattarsi, invece, di Ennodio (sulle diverse interpretazioni del diacono H cfr. T. Sardella, pp. 162-64).
Sulla scelta di O. quale pontefice non sembrerebbero esserci stati dissensi. Ma non si può dire con certezza se papa Simmaco avesse effettivamente designato O. quale suo successore, così come si sarebbe dovuto fare in base al decreto stabilito dal concilio romano del 1° marzo 499 relativamente alle modalità di designazione del vescovo di Roma.
Simmaco, allora, aveva convocato il concilio al solo scopo di risolvere la questione, spesso drammatica, delle elezioni del vescovo di Roma e solo per le elezioni del vescovo di Roma tali deliberazioni dovevano valere: esse prevedevano che l'elezione del pontefice romano, da allora in poi, sarebbe dovuta avvenire, di norma, su designazione del vescovo in carica. Diversamente, il vescovo doveva essere eletto all'unanimità, o, nel caso inauspicabile che questa non si fosse raggiunta, dalla maggioranza. Certamente, O. fu tra i fedelissimi di Simmaco e occupò sotto il papato di questi un posto importante nella Chiesa romana. Dunque, i rapporti con il papa e il suo ruolo quale diacono furono tali che egli sarebbe potuto essere il candidato ideale di Simmaco. Questo è ancor più probabile se si tengono presenti le dichiarazioni di stima e di amicizia di Ennodio, potente vescovo di Pavia, nei confronti di O. e i rapporti di familiarità tra Ennodio e lo stesso Simmaco. I riconoscimenti di Ennodio, vicino alla corte teodericiana, possono essere indicativi anche di un possibile avallo di re Teoderico alla designazione di Ormisda. In ogni caso, la sua elezione, se non voluta dallo stesso re ariano, non sembra essere stata contro la volontà del sovrano. Sotto il suo pontificato vennero riassorbiti gli ultimi casi di dissidenza dello scisma laurenziano (cfr. Le Liber pontificalis, I, p. 269 e l'epitaffio del figlio Silverio, Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo, II, 1, pp. 130, 286 e 502). Tale scisma si poteva considerare ufficialmente concluso nel 506. Ma non tutte le tensioni erano state ricomposte durante il pontificato di Simmaco. Forse l'intervento di O. consistette nel reintegrare nelle funzioni ecclesiastiche gli ultimi partigiani di Lorenzo (v. Lorenzo, antipapa).
Nel momento in cui O. assunse la cattedra di vescovo di Roma, fra Oriente e Occidente era ancora in atto lo scisma acaciano.
L'Italia era governata dall'amalo re goto Teoderico. A Costantinopoli era imperatore Anastasio e, dal 518, Giustino I, al cui trono era associato il "comes" Giustiniano, suo nipote. Dal 484 una frattura politico-religiosa, che va sotto il nome di scisma acaciano - da Acacio, patriarca di Costantinopoli -, divideva le due parti dell'Impero. Tale scisma era stato determinato dai problemi lasciati aperti dal concilio di Calcedonia (451). In conseguenza di tali problemi, ad Alessandria, era stato deposto, sia pure con una forte opposizione, l'ortodosso patriarca Giovanni I Talaia, difeso da papa Simplicio, presso il quale lo stesso Talaia aveva in un secondo tempo trovato rifugio. Giovanni Talaia era stato sostituito dal monofisita Pietro Mongo. Questi aveva concordato con Acacio un simbolo con il quale si anatemizzavano Nestorio ed Eutiche, ma che era contrario anche al concilio di Calcedonia. Tale simbolo accoglieva solo le norme di fede niceno-costantinopolitane, i dodici anatematismi di Cirillo e le definizioni di Efeso. La formula dottrinale così concordata era stata pubblicata dall'imperatore Zenone con il nome di Henotikon, una legge statale in materia religiosa (482), che aveva l'intento di ricomporre l'unità religiosa nell'Impero. L'Henotikon, invece, con le sue ambiguità aveva avuto il solo effetto di aggravare la scissione. Il documento fu rifiutato da tutti e l'allora papa Felice III lanciò la scomunica contro il patriarca di Costantinopoli, che fu dichiarato deposto: si consumava così la frattura tra Oriente e Occidente (484). Morto Acacio (488 o 489), lo scisma continuò anche perché papa Felice insistette, inutilmente, perché ne venisse cancellato il nome dai dittici.
La documentazione epistolare degli anni del pontificato (centocinquanta lettere, complessivamente, tra quelle di O. e quelle dei corrispondenti, nell'edizione di A. Thiel) riguarda in massima parte i rapporti con l'Oriente. In relazione a questi, al papa si ponevano due questioni. Quella di maggior peso politico-religioso riguardava lo scisma acaciano. La seconda, che su questa si inserì, era legata alla vicenda dei monaci sciti, sostenitori della formula teopaschita. La prima mossa per interrompere lo scisma e ricomporre l'unità delle Chiese d'Oriente e d'Occidente partì dall'imperatore Anastasio (il Liber la attribuisce al papa, l'epistolario documenta, invece, l'iniziativa imperiale), che invitò il papa a presiedere un sinodo, da tenersi a Eraclea il 1° luglio, con lo scopo di raggiungere un accordo. Nonostante O., nel clima di tensione dovuto allo scisma, non avesse seguito la prassi di vescovi e imperatori di comunicarsi reciprocamente la propria elezione, Anastasio scrisse al papa che riteneva possibile riprendere con lui quei rapporti che erano stati resi impossibili dalla "durezza" di Simmaco (lettere del dicembre 514 e gennaio 515, in Collectio Avellana 107, 109).
In realtà, non era l'elezione del nuovo papa che aveva spinto Anastasio a riprendere i contatti con Roma. La tensione tra ortodossi e monofisiti era riesplosa con violenza e si era riaccesa l'opposizione dei primi: nei Balcani era scoppiata una rivolta, anche con motivazioni di natura religiosa, capeggiata dal conte Vitaliano. Alla testa di un esercito di Unni e Bulgari il conte insidiava Costantinopoli. Anastasio fu costretto ad accettare tre condizioni: cessare la persecuzione contro gli ortodossi; reintegrare i vescovi ortodossi deposti; invitare il papa a un concilio a Eraclea e ridiscutere la questione dello scisma. Anastasio poteva sperare di salvare il trono solo aprendo agli ortodossi. A Roma, però, l'imperatore trovava clero e aristocratici che, tra morti naturali e violente, in seguito alle stragi dello scisma laurenziano, epurazioni, integrazioni e sostituzioni politiche, erano ormai in gran parte schierati lungo la stessa linea di opposizione che era stata di papa Simmaco.
Sulle richieste dell'imperatore O. si consultò con Teoderico e ne discusse in un concilio. Tra aprile e agosto 515 scrisse molte lettere. Sostanzialmente tergiversava e prendeva tempo, chiedendo di essere meglio informato su quali argomenti si dovessero discutere. Si dichiarava disponibile a trattare, ma, allo stesso tempo, contro gli attacchi di Anastasio, difendeva il suo predecessore e annunciava l'invio di una delegazione che lo avrebbe dovuto informare meglio. Ad agosto la legazione partì. Essa era composta dai vescovi Ennodio di Pavia e Fortunato, dal presbitero Venanzio, dal diacono Vitale e dal notario Ilaro. Ad essi O. aveva consegnato un indiculus, una agenda dettagliata (ibid. 116), con precise istruzioni su chi vedere, dove andare, cosa fare, cosa dire. All'indiculus era allegato anche un libellus fidei (Regula rectae fidei Hormisdae), contenente le condizioni del papa, senza le quali egli non avrebbe accettato il concilio. Questo doveva essere sottoscritto dai vescovi d'Oriente. Queste condizioni consistevano nel riconoscimento della lettera di Leone, con le implicazioni calcedoniane, nella dichiarazione di condanna di Acacio e dei sei grandi eresiarchi, nell'accettazione della primazia giurisdizionale di Roma, nella dichiarazione di volontà di rientrare in comunione con Roma "perché nella sede apostolica la religione cattolica si è sempre conservata immacolata". Diverse le interpretazioni sull'operato di O. e sul significato del libellus fidei. Per taluni il papa non si sarebbe battuto per una causa religiosa, ma avrebbe mirato solo al riconoscimento della supremazia di Roma approfittando dell'appoggio di Teoderico e delle pressioni di Vitaliano. Altri hanno spiegato il libellus come "un atto di fede religiosa e politica" da collocare sulla stessa linea dell'eredità gelasiana. O. esponeva le proprie condizioni anche in una lettera diretta all'imperatore. Anastasio rifiutò, ma lasciò aperte le trattative rinnovando proposte di pace (Collectio Avellana 111, 125) e cercando, inutilmente, di coinvolgere in questo suo progetto anche il Senato perché intercedesse presso il re e presso il papa (luglio 516). La risposta del Senato, tramite gli ambasciatori Teopompo e Severiano, fu piuttosto dura e rinviava alle stesse posizioni di Ormisda. Anzi, il Senato sollecitava l'imperatore a non fare fallire l'unità delle Chiese ostinandosi a difendere la memoria di Acacio.
In una lettera della tarda estate del 516, O. riconosceva all'imperatore il merito di avere intrapreso per primo l'azione di pace e lasciava aperte le possibilità di trattativa che, però, nei fatti, resteranno bloccate per quasi un anno. Stando alla documentazione rimasta, nessun contatto sembra esserci stato tra papa e imperatore in questo lasso di tempo. Piuttosto intensi, invece, furono i rapporti e serrate le trattative tra O. e alcuni vescovi orientali, e, tra questi, soprattutto Giovanni di Nicopoli e i vescovi dell'Epiro. O. si congratulava con loro per il fatto che erano ritornati in comunione con Roma. Ma riteneva ancora insufficiente la loro generica condanna degli eretici e chiedeva che nei confronti degli eresiarchi la ripulsa fosse espressa singolarmente. A Giovanni di Nicopoli inviò, per mezzo del suddiacono Pullione, un indiculus, le istruzioni per la sottoscrizione del libellus da parte dei vescovi limitrofi. Di questo periodo sono anche alcune lettere indirizzate all'episcopato spagnolo.
Solo nella primavera del 517, O. riprendeva i contatti con l'imperatore. Organizzò una seconda missione in Oriente, più complessa della prima dal punto di vista diplomatico. Della delegazione facevano parte Ennodio e Peregrino di Miseno. O. ribadiva da un lato le richieste di condanna per Acacio e gli eresiarchi. Ma, soprattutto, tentava di dare vigore e saldezza all'opposizione ortodossa: scriveva "ad universos episcopos Orientis", colpevoli di aver tradito i "constituta patrum"; scriveva ai vescovi ortodossi dell'Oriente perché non cessassero di offrire a tutti esempio costante di fede, sollecitava il vescovo Possessore perché perseverasse nella fede, ammoniva il clero, il popolo e i monaci ortodossi di Costantinopoli, perché rifuggissero quanti continuavano a non accettare Calcedonia e l'epistola di Leone. A conclusione della missione, l'11 luglio del 517, Anastasio, scrivendo a O., concludeva con una affermazione assai eloquente: "possiamo sopportare di essere ingiuriati e annullati, non possiamo tollerare di essere comandati". La situazione era nuovamente a un punto morto. Ancora un anno di silenzio tra papa e imperatore. In questo periodo sembrerebbero esserci stati contatti solo tra O. e i vescovi di Siria. La situazione si sbloccò con la morte dell'imperatore, nel luglio del 518. Le trattative vennero riprese con il successore di Anastasio, Giustino, di fede ortodossa. Il 1° agosto, il nuovo sovrano comunicava al papa la propria elezione e il 7 settembre formalizzava la richiesta di pace. La stessa richiesta veniva fatta dal nipote ed erede designato, Giustiniano. Contemporaneamente, Giovanni, patriarca di Costantinopoli, comunicava che i nomi di Leone e O. erano stati scritti nei dittici. Fra la fine del 518 e l'inizio del 519, il papa inviava all'imperatore le proprie congratulazioni per il trono e si augurava che la pace potesse essere raggiunta. Ribadiva a Giustino, Giustiniano e Giovanni di Costantinopoli la necessità che non solo fosse condannato Acacio, ma venisse anche sottoscritto il libellus. Una nuova legazione papale composta dai vescovi Germano e Giovanni, dal presbitero Blando, dai diaconi Felice e Dioscoro - probabilmente lo stesso diacono alessandrino che aveva mediato presso Teoderico per la conclusione dello scisma laurenziano (v. Simmaco, santo) - venne inviata, con un nuovo indiculus, a Giustino, al "comes" Giustiniano e a Giovanni, patriarca di Costantinopoli. Il papa ribadiva a tutti la richiesta di rimuovere il nome di Acacio e dei suoi seguaci e di sottoscrivere il libellus. Le richieste per il piano di pace del papa vennero esposte ai notabili e all'imperatore. Sia il papa che l'imperatore tenevano al corrente delle nuove negoziazioni il re Teoderico.
Ai primi di marzo del 519 i legati comunicavano esultanti al papa le trionfanti accoglienze ricevute nei Balcani e a Costantinopoli. Qui il giorno di Pasqua, dopo che, ufficialmente, nel palazzo imperiale il vescovo aveva sottoscritto il libellus, in chiesa era stata concelebrata solennemente la liturgia festiva. Nessuno aveva recitato i nomi condannati e tutti avevano assicurato che mai più sarebbero stati invocati. Gli ambasciatori si auguravano che si potesse ottenere lo stesso successo anche ad Antiochia. Il 28 marzo 519, Giovanni, patriarca di Costantinopoli, tra i primi a firmare, ribadiva a O. l'identità della propria fede con quella della Sede apostolica e rinviava al papa, attraverso gli stessi ambasciatori papali, il libellus sottoscritto. Questa si può considerare la data ufficiale di ricomposizione dello scisma. Ma, prima di sottoscrivere il libellus, Giovanni aveva ottenuto di apportare significative modifiche. Soprattutto, all'inizio e alla fine della lettera, aveva aggiunto l'affermazione dell'eguaglianza dell'antica e della nuova Roma. Simile dichiarazione del patriarca di Costantinopoli, su una questione così contestata tra Costantinopoli e Roma, dimostrava che il successo della missione papale era molto meno assoluto di quanto tutti credessero realmente o così volessero fare intendere. Nell'aprile successivo lettere esultanti - degli ambasciatori papali, dell'imperatore, di Giustiniano, dell'imperatrice - comunicavano al papa i risultati ottenuti. In realtà, la situazione era tutt'altro che definita. Gli ambasciatori restarono, infatti, ancora per oltre un anno in Oriente per controllare l'omologazione dottrinale delle altre sedi alle richieste romane. Non sempre il libellus fidei veniva sottoscritto dai vescovi, né sempre era possibile rimuovere i vescovi monofisiti. Tra aprile e maggio, alle comunicazioni rassicuranti si aggiungevano resoconti dettagliati sull'andamento delle missioni, a Tessalonica e ad Antiochia, ma anche a Costantinopoli, che delineavano il quadro di una situazione ancora molto conflittuale. Alcuni vescovi - come quello di Efeso, per esempio - non avevano aderito. Altri, dopo alterne vicende e pressioni di tutti i tipi, si erano decisi a sottoscrivere il libellus fidei del papa. Notizie preoccupanti riferivano di casi in cui gli anatemi richiesti e dichiarati ufficialmente erano stati solo simulati. Ancora nel luglio del 519, O. pressava il vescovo Giovanni di Costantinopoli, l'imperatore Giustino, Giustiniano, l'imperatrice, perché si adoprassero e collaborassero per liberare dallo scisma Alessandria e Antiochia. A tal fine O. si rivolse all'imperatore perché Dioscoro, uno dei suoi legati, fosse eletto patriarca di Alessandria. Fino all'aprile del 521, O. pressò insistentemente imperatore, imperatrice e patriarca di Costantinopoli - dal febbraio del 520, morto Giovanni, gli era succeduto Epifanio - per la reintegrazione di alcuni vescovi ortodossi esiliati, tra cui Elia e Nicostrato. Ma lo stesso imperatore gli rispose che tale reintegrazione non era possibile.
A Tessalonica, anche il vescovo Doroteo, che all'inizio delle trattative sembrava essere disposto alla pacificazione, contestò il libellus e sobillò la folla. Furono uccisi alcuni rappresentanti della legazione papale, lo stesso capo della missione si salvò per miracolo. Il papa chiese la rimozione del vescovo all'imperatore. Ma riuscì solo a ottenere una temporanea sospensione di Doroteo. Questi, con l'assenso dell'imperatore, riuscì a salvare la cattedra, barattandola, alla fine, con una opportunistica accettazione del libellus (estate-autunno del 520, Collectio Avellana 208, 225, 227). Papa e imperatore entrarono in conflitto anche a proposito dell'elezione del vescovo di Antiochia. Alla fine, l'imperatore riuscì a imporre un presbitero di Costantinopoli, Paolo. In nome di una giurisdizione di Costantinopoli su Antiochia, l'imperatore pretendeva anche che l'ordinazione di Paolo a patriarca di Antiochia avvenisse a Costantinopoli. Ma ciò non avvenne.
In molte Chiese, le maggiori difficoltà alla pacificazione con Roma venivano dalle richieste di O. di cancellare dai dittici anche i nomi dei patriarchi che non avevano accolto le sue richieste di anatemizzare gli eresiarchi. Ancora una volta, tra luglio e settembre del 520, Giustino, Giustiniano ed Epifanio chiesero al papa di ammorbidire le sue posizioni in tal senso. Tali richieste, prima ancora che esprimere un dissenso personale nei confronti di O., prendevano atto del dissenso generale nei confronti delle istanze romane. Ma il papa rifiutò ogni concessione. Il 26 marzo 521, O. delegava la reintegrazione di tutte le Chiese orientali a Epifanio e lasciava a se stesso il compito di definire la questione solo con la Chiesa di Tessalonica. Il secondo problema con l'Oriente riguardava la controversia relativa ai monaci sciti. Questi monaci erano oriundi della provincia della Scizia (Dobrugia romena), di nazionalità gota e di lingua latina e, tra il 519 e il 520, sostennero la contestata formula dottrinale, "unus de Trinitate passus est carne", denominata teopaschita (da theós, dio, e páschein, soffrire). I loro nomi - Achille, Giovanni, Leonzio e Maurizio - sono tramandati nell'epistola scritta da Giustiniano al papa (ibid. 187, 3).
La formula dottrinale era una proposta di integrazione alle definizioni calcedoniane. Essa recuperava un'antica formula, in base alla quale veniva asserito che Cristo aveva sofferto come Dio. La possibilità di usare questa espressione faceva appello alla cosiddetta "comunicazione degli idiomi", cioè al fatto che fosse possibile attribuire all'unica persona di Cristo ciò che si diceva per l'una e per l'altra delle nature. Tale espressione era ritenuta una soluzione in grado di superare monofisismo e difisismo: dire che Dio aveva sofferto significava fare riferimento alla natura umana di Cristo. Essa era illustrata in un libellus fidei (Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 2, pp. 3-10), opera di un monaco, Massenzio (di cui parla Dioscoro in un'epistola al papa: Collectio Avellana 224, 11). Questi è da identificare con Giovanni di cui parla l'imperatore (Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 2, p. V). I capi del gruppo erano questo Giovanni Massenzio e Leonzio, il quale si diceva parente del "magister militum" Vitaliano (Collectio Avellana 216, 5), il loro più potente sostenitore. Notevole incertezza alla situazione fu causata dall'atteggiamento indeciso di Giustiniano. Questi, dopo fasi di opposizione e titubanze rispetto alla formula, alla fine la sostenne e pensò anche di correggere "unus de Trinitate" con "unus in Trinitate". Il risvolto monofisita della formula teopaschita già adottata a Costantinopoli con Anastasio e, forse, anche la sua abrogazione durante la reazione sotto Giustino avevano causato tumulti popolari e ostacolavano la pacificazione.
L'imperatore aveva rinviato giudizio e decisioni da prendere sulla formula ai legati papali. Dioscoro scrisse al papa che la riteneva contraria alle definizioni di Calcedonia. Lo stesso pensava anche il clero patriarcale. I legati papali spiegarono la loro opposizione col fatto che essa non era espressa dai sinodi, non si trovava nell'epistola di Leone, né apparteneva alla consuetudine ecclesiastica. Un accanito oppositore dei monaci sciti era, soprattutto, il diacono Vittore. I monaci ribaltarono le accuse denigrando i legati definiti nestoriani. La decisione definitiva fu rinviata a O. (giugno 519). Gli stessi monaci sciti andarono direttamente da lui e giunsero a Roma tra maggio e giugno 519 (ibid. 216-17). Nonostante l'imperatore avesse chiesto a O. una decisione tempestiva, questi temporeggiava nel prendere posizione. Forse questo atteggiamento del papa fu determinato dall'influenza e dal prestigio di un connazionale dei monaci, Dionigi il Piccolo, il quale, su commissione di O., riunì i canoni sinodali greci in una collezione greco-latina.
Figura di grande autorevolezza, amico di Cassiodoro, perfetto conoscitore del greco e del latino, traduttore di testi greci in latino e uno dei principali mediatori della cultura ecclesiastica greca in Occidente, vicino al papa e molto legato ad alcuni di questi monaci sciti, Dionigi era, forse, interessato più all'unità della Chiesa romana e di quella bizantina che al successo della formula teopaschita.
A settembre, il papa scrisse a Giustiniano che, per decidere, intendeva aspettare il ritorno dei suoi legati a Roma e insisteva perché i suoi ambasciatori rientrassero al più presto. Soprattutto, voleva parlare con il diacono Vittore, il critico più competente. Nel frattempo riteneva opportuno che gli sciti restassero a Roma. Nel marzo del 520 si esprimeva - senza ulteriori precisazioni - contro qualunque formula innovativa del mistero della Trinità. La richiesta di un intervento del papa sulla questione pelagiana si intrecciava con la questione scita. Nel luglio del 520, il vescovo africano Possessore chiedeva al papa come comportarsi a proposito delle dispute sorte negli ambienti monastici provenzali, sicuramente non pelagiani, ma perplessi anche di fronte al radicalismo di Agostino, attorno alle tesi di Fausto di Riez, in particolare alla sua dottrina della grazia. Il 13 agosto, la risposta di O. (ibid. 231) era soprattutto un attacco ai monaci sciti, che lo avevano vessato per oltre un anno. Per quanto riguardava il problema della corretta dottrina della grazia O. rinviava ad Agostino, Ilario e Prospero. La pubblicità data alla lettera da Possessore provocò la violenta reazione di Giovanni Massenzio contro il papa e in difesa della formula (Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 2, pp. 46-7). Nel frattempo, nel settembre del 520 (Collectio Avellana 192), rientrarono da Costantinopoli i legati papali e ribadirono la loro posizione contraria alla formula. Questo fatto, ma anche gli intrighi degli stessi monaci a Roma, dove essi avevano cercato appoggi tra i gruppi filorientali, sembrarono far decidere il papa. Gli sciti furono, allora, scacciati da Roma (settembre 520).
Il rientro degli ambasciatori papali da Costantinopoli avvenne a settembre: lo documenta la data di accettazione delle missive, delle quali essi furono latori (17 settembre), missive che portano come data di partenza o, almeno, di stesura, il 9 luglio. E, certamente, gli sciti lasciarono Roma dopo il rientro degli ambasciatori papali (Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 2, pp. 54-5).
O. comunicò all'imperatore la sua decisione: la formula dei monaci andava rigettata per incompatibilità del teopaschismo con le definizioni di Calcedonia (26 marzo 521, Collectio Avellana 236, 237). Giustiniano non ne fece gran conto e continuò a sostenerla, promulgando due successivi editti e facendo di Giovanni Massenzio il vescovo di Tomi. Successivamente brigò presso alcuni dei successori di O., Giovanni II e Agapito, perché la adottassero. Molto meno copiosa è la documentazione relativa ai rapporti tra O. e l'episcopato d'Occidente. Tuttavia, essa è sufficiente a dimostrare l'interesse di O. per le cristianità della Gallia e, soprattutto, della Spagna. A giudicare dalla documentazione rimasta, maggiore appare l'interesse per le Chiese della penisola iberica. Forse questo è spiegabile con la situazione politica, dal momento che il dominio ariano dei Visigoti poneva maggiori problemi. A Sallustio di Siviglia O. conferisce - forse nell'aprile 521 - (ep. 142, in Epistolae Romanorum Pontificum, pp. 979-81) il vicariato apostolico nelle province della Betica e della Lusitania. Interessanti questioni riguardanti le norme da seguire nella scelta dei vescovi e nella convocazione dei sinodi evidenziano problemi relativi all'inserimento di esponenti del clero greco nelle Chiese di Spagna e, con essi, possibili ondate migratorie ecclesiastiche, proprio in dipendenza della situazione con l'Oriente.
Non è escluso che un problema simile riguardasse anche le Chiese di Gallia. Di tale situazione, però, si può solo intuire l'esistenza sulla base del tenore di alcune informazioni date da Ormisda. Per il resto, l'episcopato gallico non sembra aver posto questioni particolari. In Gallia, la classe governativa dei Franchi era da poco divenuta cattolica e, nella valle del Rodano, Sigismondo, re dei Burgundi, ariani tolleranti, si convertì nel 517. Delle lettere all'episcopato gallico, quella a Remigio di Reims è da considerare spuria: tra l'altro, presupporrebbe vivente re Clodoveo, morto nel 511. Per lo stesso motivo non può essere accolta la notizia del Liber in base alla quale O. avrebbe ricevuto in dono da Clodoveo gemme preziose. Un'epistola a Cesario (ep. 150, ibid., pp. 988-90), forse dell'inizio del pontificato, riguarda, tra l'altro, un'interessante questione relativa all'alienazione del patrimonio ecclesiastico per la dotazione di una fondazione monastica femminile fatta dal vescovo di Arles. Le lettere, a Cesario e ad Avito di Vienne, non denotano l'esistenza di particolari problemi, ma solo l'interesse - sia del papa che dei corrispondenti - di aggiornamenti tempestivi sull'andamento delle trattative con l'Oriente.
Su richiesta di Giustiniano, O. inviò a Costantinopoli reliquie dei santi apostoli Pietro e Paolo. Con l'Oriente sembrerebbe esserci stata anche un'intensa importazione di vasi d'oro e d'argento. Anche a lui, come al suo predecessore, il Liber attribuisce la persecuzione dei manichei, sottoposti a processi ed esiliati, con conseguente rogo dei loro libri davanti alla basilica costantiniana. O. intervenne con opere di fastosa ristrutturazione dei presbiteri della basilica di S. Pietro e della basilica costantiniana (S. Giovanni in Laterano) e di quella di S. Paolo sulla via Ostiense, che arricchì di sontuosi arredi liturgici. In particolare alla basilica vaticana donò una "trabs" rivestita d'argento su cui era incisa un'iscrizione, trascritta nelle sillogi, composta da otto versi, il che fa pensare ad una trave di misure notevoli (Inscriptiones Christianae [...]. Nova series, II, nr. 4115); alla basilica lateranense il papa offrì un arco d'argento "ante altar" e, infine, a S. Paolo due archi d'argento (Le Liber pontificalis, I, pp. 271-72). Probabilmente si trattava di un unico sistema di recinzione attorno al presbiterio con piccoli archi funzionanti da parapetti e una trave, eventualmente con archi più grandi, come struttura superiore, tipo pergola. Questo tipo di sistemazione sembra trovare confronti nel tipo di accesso al presbiterio comune in Grecia nel V-VI secolo. Un'epigrafe, incisa su un frammento di cornice rinvenuto nella chiesa superiore di S. Clemente, ricorda la sistemazione di un altare durante il pontificato di O. da parte del presbitero Mercurio, il futuro papa Giovanni II: "altare tibi d(eu)s salvo Hormisda papa Mercurius p(res)b(yter) cum sociis of(fert)" (G.B. de Rossi, p. 143, tav. X). Nel territorio circostante la città di Roma, O. costruì un edificio di culto presso Albano "in possessionem Mefontis" che è stato identificato con l'odierna chiesa di S. Pietro (Le Liber pontificalis, I, p. 269).
O. morì e fu sepolto in S. Pietro il 6 agosto 523. Assente in Beda, il suo nome è aggiunto nel Martyrologium di Adone e nel Martyrologium Romanum al 6 agosto.
fonti e bibliografia
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Tutte le epistole, tranne le nrr. 9, 24, 25, 26, 88, 125, 142, 143, 148, 149 e 150, si trovano in Collectio Avellana, a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1895 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1), pp. 495-742; epistola 9 (ad Caesarium), in Collectio Arelatensis 30, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach, 1892, pp. 42-4, n. ediz. in Epistulae Caesarii, in S. Caesarii Opera omnia, II, a cura di G. Morin, Maretioli 1942, pp. 14-7; epistola 124 (ad Possessorem), in Collectio Avellana 231 e in Acta Conciliorum Oecumenicorum, IV, 2, a cura di E. Schwartz, Berlin-Leipzig 1914, pp. 44-6; l'epistola 148 è di Dionigi il Piccolo; epistola 150, in Caesarius, Statutis de virginibus, in S. Caesarii Opera omnia, II, pp. 125-27; Epistula ad Caesarium Arelatensem, ibid., p. 14; Fides Hormisdae papae, in Collectio Avellana 89; 90; 116B; 159, 3 e Appendix IV; Inscriptiones Christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, I-II, a cura di G.B. de Rossi, Romae 1857-88: I, nr. 1098, p. 501; II, 1, nr. 15, pp. 130, 286, 502.
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