Pietro, santo
La fonte principale della vita di P. è il Nuovo Testamento; questo però deve essere integrato da fonti patristiche e da testimonianze archeologiche. Nel Nuovo Testamento sono i quattro vangeli e gli Atti degli apostoli i testi che più parlano di P., ma anche Paolo, nelle lettere ai Corinzi e ai Galati, ne fa menzione. Nel Nuovo Testamento sono pure comprese due lettere attribuite a Pietro. Benché questi scritti forniscano una moltitudine di dati e di racconti sull'apostolo non è possibile scrivere una biografia esaustiva nel senso moderno della parola sia perché le notizie non sono complete sia perché i dati biblici devono essere letti nell'insieme del quadro teologico del libro che li contiene e nel contesto di un certo processo allegorizzante di alcuni episodi petrini, riletti alla luce di avvenimenti postpasquali. Che ciò non intacchi sostanzialmente l'affidabilità dei racconti si desume dal fatto che, nonostante il rispetto con cui gli scrittori del Nuovo Testamento scrivono di P., questi autori non nascondono né i suoi difetti né i rimproveri mossigli da Gesù stesso, né la sua negazione del Maestro e nemmeno il suo rimprovero da parte di Paolo. Quanto all'età di queste fonti, Paolo è il più antico ed è contemporaneo di Pietro. Invece Marco, racconta il presbitero citato da Papia (circa il 125), era lo ἑρμηνευτήϚ, l'interprete o il portavoce di P. (Eusebio, Historia ecclesiastica III, 39, 15) e scrive negli anni Sessanta, prima o dopo la morte dell'apostolo. I vangeli di Matteo e di Luca e gli Atti degli apostoli dello stesso Luca vengono collocati generalmente negli anni Ottanta, mentre Giovanni scrive nell'ultimo decennio del secolo presentando, insieme a molte tradizioni antichissime, un quadro teologico avanzato. In questa presentazione si preferisce seguire un racconto continuo, valutando le fonti man mano che si presentano e in quanto l'occasione lo richiede, piuttosto che esaminare il contenuto di ciascuna separatamente, con un risultato alquanto frammentario. È necessaria una premessa sul nome "Pietro". L'apostolo viene chiamato con quattro nomi nel Nuovo Testamento: Σίμων, Συμεών, ΠέτροϚ, ΚηϕᾶϚ. Il nome di nascita era certamente Shim'on, nome tradizionale ebraico, trascritto in greco come Σιμεών in Atti 15, 14 e 2 Pietro 1,
Comunemente viene chiamato con il simile nome greco Simon (cinquantuno volte) più adatto all'ambiente ellenizzante galilaico. Kefa' (nove volte) in aramaico e Petros (centocinquantaquattro volte) in greco significano la medesima cosa: "roccia". Era il soprannome datogli da Gesù stesso secondo Giovanni 1, 42 e Matteo 16, 18. Il cambiamento di nome non era puramente formale ma indicava un nuovo compito: nomen est omen. P. era fratello di Andrea e il loro padre si chiamava Giovanni (Giovanni 1, 42), Johanan, presumibilmente accorciato in Jona (dato l'appellativo Barjona, figlio di Giona, in Matteo 16, 17, Jona non è però attestato come nome ai tempi di Gesù mentre nei codici della traduzione greca della Bibbia ebraica, detta dei Settanta, si fa spesso lo scambio tra Johanan e Jona). Era sposato: Gesù gli guarì la suocera a Cafarnao (Marco 1, 29-31) e forse sua moglie lo accompagnava nei suoi viaggi missionari (1 Corinzi 9, 5). P. e Andrea erano pescatori, soci (κοινωνοί) di altri due fratelli, Giovanni e Giacomo, figli di Zebedeo (Marco 1, 16-20). Di provenienza P. era galileo di Bethsaida (Giovanni 1, 44) donde veniva anche l'altro discepolo Filippo, ma la sua casa sembra essere stata a Cafarnao, sulla riva nord-occidentale del lago di Tiberiade dove si svolgeva la sua attività; lo stesso P. riteneva l'accento di quella regione facilmente riconoscibile nelle città della Giudea (Marco 14, 70; Matteo 26, 73). Come tutti i buoni ebrei andava in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme per la Pasqua e la Pentecoste, e forse in uno di questi viaggi Andrea suo fratello si unì a Giovanni Battista che stava battezzando e predicando sulle rive del fiume Giordano. Non è da escludere che anche P. sperimentasse l'influsso del Battista (Giovanni 1, 40). Riguardo la chiamata di P. al discepolato da parte di Gesù ci sono due tradizioni: Marco 1, 16-18, seguito da Matteo, la colloca sulla riva del lago di Tiberiade dove P. ed Andrea sistemavano le reti. Gesù li chiama a seguirlo: "'Vi farò diventare pescatori di uomini'. E subito, lasciate le reti, lo seguirono". Luca 5, 1-11 pone la chiamata in occasione di una pesca miracolosa, e poiché precedentemente aveva raccontato la guarigione della suocera di P. (4, 38-39) suppone che già conoscesse Gesù. Giovanni segue una tradizione completamente differente. La chiamata avviene sulle rive del Giordano presso Betania. È Andrea che, dopo l'esperienza di una giornata trascorsa con Gesù, annunzia a P. suo fratello di avere "trovato il Messia" (Giovanni 1, 40-42) e lo conduce al Maestro, il quale, fissando P., dice: "Tu sei Simone figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa, che significa Pietro" (cfr. Matteo 16, 18; Marco 3, 16; Luca 6, 14). Nella tradizione biblica il cambiamento di nome indica un compito o un carisma nuovo, ma nel quarto vangelo, in occasione della pesca miracolosa postpasquale, l'incarico a P. non è quello di pescatore bensì di pastore (Giovanni 21, 15-17). La versione di Marco, dunque, suggerisce di supporre che prima della sua chiamata definitiva P. fosse già stato conosciuto da Gesù, forse nell'ambito dell'attività del Battista. La notizia che "lasciarono tutto" viene confermata dall'affermazione di P. medesimo in Marco 10, 28 ("Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito") e dalla risposta di Gesù che coloro che hanno lasciato tutto per il vangelo riceveranno il centuplo in questo mondo e la vita eterna in quello che verrà. Nel Nuovo Testamento si trovano quattro liste degli "apostoli": Matteo 10, 2-4; Marco 3, 16-19; Luca 6, 13-16 e Atti 1, 13.25-26. In ciascuna di esse il nome di P. figura sempre come primo, anzi, nella sua lista, Matteo lo sottolinea dicendo: "Per primo Simone, detto Pietro". E gli evangelisti erano così avvezzi a considerare P. come il portavoce degli altri discepoli che, per esempio, mentre in Marco (11, 21) il discorso è attribuito a P., nel parallelo Matteo 21, 20 esso ha come soggetto "i discepoli". È da notare che intorno a Gesù si formano dei cerchi concentrici. All'esterno si trova la folla, mentre un cerchio più stretto è formato dai "discepoli", tra cui i settantadue inviati da Gesù per annunziare la vicinanza del Regno nei villaggi intorno (Luca 10, 1.17). Poi vengono "i dodici" che più tardi vengono chiamati "apostoli", anche se questo termine riveste un senso più largo nelle lettere paoline. Tra i dodici vengono scelti P., Giacomo e Giovanni per assistere ad alcuni avvenimenti come la guarigione della figlia del capo della sinagoga (Marco 5, 37) e la trasfigurazione (Marco 9, 2.5); è la loro domanda che provoca il discorso escatologico (Marco 13, 3) e, infine, sono loro a trovarsi nel Getsemani nelle ultime ore di Gesù (Marco 14, 33). Spicca P. che fa da portavoce. Il portavoce P. raggiunge il suo culmine nella confessione di Gesù come Messia a Cesarea di Filippo, un episodio su cui è necessario fermarsi a causa della sua importanza: "E Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo; e per via interrogava i suoi discepoli dicendo: 'Chi dice la gente che io sia?'. Ed essi gli risposero: 'Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti'. Ma egli replicò: 'E voi chi dite che io sia?'. Pietro gli rispose: 'Tu sei il Cristo'. E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno" (Marco 8, 27-30). Matteo nel passo parallelo (16, 16) ha: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". Luca pone il colloquio in un ambiente di preghiera senza menzionare Cesarea di Filippo (9, 18). Questa confessione rappresenta il culmine del racconto dei vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) circa l'attività di Gesù nella Galilea. Il ricordo del luogo, che non ha nessuna importanza teologica, denota l'antichità di questa tradizione e il rimprovero a P. (Marco 8, 33) è indice anche della sua storicità. Qui ci si trova di fronte a due reazioni alla predicazione e ai miracoli di Gesù. La folla interpretava la sua persona come il ritorno di uno dei profeti dell'antichità, o del Battista redivivo, ma non arrivava alla vera interpretazione del ruolo messianico di Gesù, in quanto l'archetipo che si era formato del Messia apparteneva ad un'altra categoria, quella socio-politica o anche apocalittica. P. giunge all'identificazione di Gesù ma non si rende conto del vero ruolo del Messia, un Messia visto alla luce del "servo sofferente" descritto in Isaia 53 che, nel racconto di Marco (8, 31), viene identificato, provocando la reazione del medesimo P. che arriva persino a rimproverare Gesù. Ma Gesù a sua volta lo riprende aspramente: "Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli rimproverò Pietro e gli disse: 'Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini'". Cioè, benché tu P. sia arrivato a dare la giusta risposta, che io sono il Cristo (Messia), ancora non hai capito il vero senso della mia missione che deve terminare sulla croce. Se mi trattieni dal seguire questa via stai agendo secondo uno spirito umano e non secondo i piani di Dio. Questo spiegherebbe pure perché Gesù proibisce agli apostoli di parlare di lui presso la gente: la gente, particolarmente i capi del popolo, deve capire da sola, leggendo le Scritture, la vera natura della missione e della persona del Cristo. La versione della confessione di P. data da Matteo: "Tu sei il Cristo [traduzione greca di "Messia"], il Figlio del Dio vivente" è un'esplicitazione cristiana del termine "Cristo", o almeno così pensano molti esegeti. Però, con la pubblicazione intera dei manoscritti di Qumr¯an (in partic. 4Q246) viene rafforzata la tesi di M. Hengel (Der Sohn Gottes, Tübingen 1977) che anche presso gli ebrei "figlio di Dio" fosse un titolo messianico, anche se non nel senso ontologico dei cristiani. L'autore del quarto vangelo non ignora questa confessione di P., ma la colloca in una circostanza completamente diversa, secondo lo schema teologico del suo libro. Nel capitolo 6, dopo il racconto della moltiplicazione dei pani e il lungo discorso sul pane della vita a Cafarnao, alcuni discepoli, convinti che Gesù stesse esagerando, lo lasciano. "Disse allora Gesù ai Dodici: 'Forse anche voi volete andarvene?'. Gli rispose Simon Pietro: 'Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio'" (6, 67-69). "Santo di Dio" è sinonimo di Messia, e P. parla a nome dei dodici. Con questa confessione P. e gli apostoli avevano raggiunto un punto d'arrivo molto importante nella loro relazione con Gesù. Si distinguevano dalla "gente" che era arrivata ad un riconoscimento profetico, ma non ancora a quello messianico. Però, una tale confessione costituiva solo una prima tappa nel riconoscimento della vera identità di Gesù. A parte la sua incompletezza che viene indicata dal rimprovero a P., il senso dell'espressione "Tu sei il Messia" prima della Pasqua di Gesù ha un senso molto inferiore alla medesima confessione ("Gesù è il Cristo") nel periodo successivo. Difatti P. stesso, nel suo discorso di Pentecoste, afferma che Dio, risuscitando Gesù dai morti, "ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso" (Atti 2, 36). Il senso pieno della messianicità di Gesù appare cioè alla luce della sua morte e risurrezione. D'altra parte, l'episodio storico della confessione di P. è indizio del fatto che egli e i suoi compagni erano sulla via giusta nella lettura da loro effettuata dei "segni" operati da Gesù nella sua vita terrena. Le due versioni della confessione petrina, quella sinottica e quella giovannea, nonostante le differenze dovute in maggior parte ad una colorazione teologica diversa, testimoniano un solo episodio che si era fissato fermamente nella memoria degli apostoli e che, oltre un punto di arrivo, costituiva anche un punto di partenza verso una comprensione più profonda. Si ritorni adesso alla versione matteana dell'episodio di Cesarea di Filippo. Dopo le parole "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente", Gesù dice a P.: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Matteo 16, 17-19). È il famoso testo del primato petrino che tante controversie ha suscitato dalla Riforma fino a oggi. Questo testo è importantissimo anche perché è uno dei testi principali citati per provare il primato di P. dal concilio Vaticano I (costituzione dogmatica Pastor aeternus, cap. 1, in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ediz. bilingue a cura di P. Hünermann, trad. it. Bologna 1995, nr. 3053). Prima di passare al contenuto dottrinale del passo bisogna fare una premessa critica. Nel secondo cinquantennio del Novecento nella valutazione della storicità dei vangeli c'è stato un grande progresso. Il concilio Vaticano II, particolarmente nel documento Dei Verbum, sottolinea che molta attenzione viene prestata dagli esegeti ai diversi generi letterari contenuti nella Bibbia. Inoltre il concilio prende seriamente in considerazione la "critica delle forme" - che esamina la trasmissione dei detti e delle opere di Gesù nella comunità primitiva alla luce dell'avvenimento pasquale e delle condizioni delle comunità ai loro tempi - e la cosiddetta "teologia redazionale", secondo la quale gli evangelisti non sono dei semplici redattori di materiale arrivato a loro per tradizione ma sono veri e propri autori che inseriscono questo materiale in uno schema teologico tutto proprio, che però non toglie nulla alla storicità sostanziale dei racconti evangelici (Dei Verbum, 19). L'esame di questo testo si fa allora più complesso. Da tutti viene scartata l'opinione di A. von Harnack, risalente all'inizio del Novecento, che questo passo sia stato introdotto nel testo di Matteo dopo il II secolo, dato che i primissimi scritti patristici non lo citano: nessuno dei numerosissimi codici dei vangeli lo omette ed è perciò criticamente sicuro. Ma sorgono altre questioni: il contesto in cui lo pone Matteo era veramente il contesto storico in cui vengono rivolte le parole a P. da Gesù? Le parole di Gesù sono riferite alla lettera o sono state modificate redazionalmente da Matteo? Si hanno vari esempi di detti di Gesù trasposti da un contesto all'altro e modificati dall'evangelista per adattarli al punto di vista teologico del libro, particolarmente nel discorso della montagna. Ma questo non intacca la storicità sostanziale del detto (logion). Rispondendo, adesso, alle due domande poste sopra con riferimento a Matteo 16, 17-19, dato che i luoghi paralleli della confessione di P. in Marco 8, 27-30 e Luca 9, 18-21 non contengono la promessa a P., si ritiene probabile che questa sia stata fatta in un'altra occasione e collocata in questo contesto da Matteo per creare un'unità letteraria interamente petrina, passando dalla confessione cristiana alla beatitudine (macarismo: "Beato te [...]"), in quanto le sue parole gli erano state rivelate dal Padre, fino al rimprovero quando P. vuole distogliere Gesù dalla sua passione. O. Cullmann crede che il contesto originale del detto fosse l'episodio raccontato in Luca 22, 33-34. Altri esegeti, anche cattolici, credono che le apparizioni di Gesù dopo la sua risurrezione sarebbero un'occasione più adatta per un tale detto, particolarmente a causa della parola ἐκκλησία con un significato universale. Inoltre, certi riscontri tra vari elementi del logion con il vangelo di Giovanni confermerebbero tale opinione. Però l'applicazione a se stessa degli equivalenti ebraici qahal e 'edah da parte della comunità di Qumr¯an, che credeva di vivere negli ultimi tempi, e la scelta da parte di Gesù dei "dodici" darebbero all'espressione "la mia chiesa" il senso di un nuovo Israele voluto da Gesù, che non sarebbe affatto fuori posto anche nella sua vita terrena. Inoltre, la terminologia del passo ha una forte coloritura semitica che escluderebbe una composizione ellenistica posteriore, ponendo il logion in uno strato aramaico di tradizione antichissima. Date queste premesse critiche si passi ora ad esaminare il contenuto della promessa fatta all'apostolo P. da Gesù. P. viene in primo luogo proclamato "beato" perché la sua confessione cristiana non era frutto di ragionamento umano ma di una rivelazione da parte del Padre (si confronti Giovanni 6, 63, che precede la confessione "giovannea" di P., e 1 Corinzi 12, 3), ma appena P. vuole distogliere Gesù dalla sua morte viene scacciato come "satana" perché segue un ragionamento secondo lo spirito del mondo. La confessione petrina, dunque, era completa riguardo alla caratterizzazione messianica di Gesù ma incompleta dal punto di vista soteriologico, perché non prendeva in considerazione la sua morte redentrice. Segue il giuoco di parole: "Σὺ εἶ ΠέτροϚ, καὶ ἐπὶ ταύτῃ τῇ πέτρᾳ". Poiché nell'onomastica greca è sconosciuto il nome ΠέτροϚ, è ovvio che il soprannome P. viene da πέτρα. In aramaico la parola è la medesima: "Tu sei Kefa e sopra questa kefa", cioè, nella mente di Gesù l'idea principale era la roccia che avrebbe dato il nuovo nome a Simone. Come già s'è detto, nell'uso biblico il cambiamento di nome implica una nuova missione o un nuovo esercizio, come nel caso di Abram/Abraham e Sarai/Sara in Genesi 17, 5.15. P., dunque, da quel momento avrebbe avuto il compito di essere una roccia di fondamento. Qui, però, sorge una difficoltà: in Romani 9, 33 e 1 Corinzi 10, 4 è Cristo a essere la pietra; sarebbe possibile, dunque, che nella parola a P. Gesù volesse dire "Tu sarai chiamato Pietro, ma sopra la pietra che sono io stesso edificherò la mia Chiesa"? Questa possibilità è stata avanzata da alcuni protestanti in controversia con i cattolici, ma dopo il libro classico dello studioso protestante O. Cullmann s'è visto che si tratta di un'interpretazione forzata perché il contesto di Romani e 1 Corinzi è molto diverso, e non avrebbe nessun senso chiamare Simone con un nuovo nome che poi non verrebbe applicato a lui stesso. Avendo dato il nuovo nome a Simone Gesù aggiunge: "Su questa roccia edificherò la mia ἐκκλησία", come il tempio era fondato sulla roccia di Sion. Il verbo è al futuro, quindi la fondazione non è immediata. Ma che significa ekklesía? E perché è la ekklesía di Gesù? Come già si è detto, la parola greca corrisponde a qahal o a 'edah in ebraico. In questo contesto linguistico e nel contesto socio-religioso del tempo la parola indicherebbe la comunità escatologica del "resto di Israele" raccolta intorno al Messia. Già la scelta dei dodici era un simbolo delle dodici tribù di Israele, e la qualifica di questa comunità come quella propria di Gesù la distinguerebbe sia dalla sinagoga sia dalle diverse sette giudaiche contemporanee. Il valore primario della parola ekklesía è teologico, quello istituzionale è conseguente. Fondamento di questa nuova comunità sarebbe stato P., che, in quanto portavoce dei dodici, aveva confessato la vera identità di Gesù. Come si vedrà più avanti, il comportamento di P. nella Chiesa apostolica qualifica l'ampiezza di questo compito. Le "porte degli inferi", dell'Ade, della morte, cioè le potenze del male, non prevarranno contro la ekklesía di Gesù, il quale con la sua risurrezione ha sconfitto la morte e rimarrà con i suoi discepoli "tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Matteo 28, 20). "A te darò le chiavi del regno dei cieli": anche qui la consegna non è immediata, avverrà dopo la risurrezione. Benché il "regno dei cieli", cioè la salvezza portata da Cristo, non sia perfettamente coincidente con la Chiesa, in Matteo la Chiesa occupa una larga parte di questo regno. Ma che significano le chiavi? In Isaia 22, 15-25 il re Ezechia di Giuda costituisce Shebna suo primo ministro, o suo maggiordomo, ponendogli le chiavi del proprio palazzo sulle spalle. D'altra parte, in Apocalisse 1, 18 il Figlio dell'uomo asserisce che egli ha "potere sopra la morte e sopra gli inferi", un potere sopra la morte che adesso trasmette a Pietro. Con questo potere tutto ciò che P. scioglie o lega sulla terra sarà sciolto o legato nei cieli. In Matteo 18, 18 si trova questo medesimo potere dato a tutti gli apostoli nel contesto di una possibile scomunica di chi non si sottometta alla correzione della comunità. In Giovanni 20, 23 un detto analogo conferisce il potere agli apostoli di perdonare o ritenere i peccati in nome di Dio. Nel linguaggio dei rabbini contemporanei, legare o sciogliere significava pronunciare una sentenza normativa (halakhica) decisiva, o anche escludere dalla sinagoga. Quindi, solo P. ha il potere delle chiavi, ma il collegio dei dodici condivide con lui il potere di legare o di sciogliere. Matteo divide il suo vangelo in cinque "libri" a imitazione del Pentateuco. La quarta di queste sezioni, da 14, 1 fino a 19, 1, viene chiamata "il libro ecclesiastico" perché contiene parole di portata ecclesiale. L'episodio di Cesarea di Filippo appartiene a questa sezione. Ma ci sono altri due episodi che si riferiscono al ruolo di P. nella Chiesa e quindi sono di importanza capitale: l'episodio della tassa per il tempio (Matteo 17, 24-27) e quello di P. che cammina sulle acque (Matteo 14, 28-31). Ambedue vengono raccontati solo da Matteo, e probabilmente sono di natura midrashica. Al tempo di Gesù, quando veniva letta la Bibbia in lingua ebraica, il testo letto veniva subito tradotto da un metarguman in lingua aramaica (targum). Questo interprete qualche volta aggiungeva ad un testo certe inserzioni per chiarire meglio a sua discrezione il significato teologico del racconto. Tale spiegazione si chiamava midrash. Matteo avrebbe inserito in questi due episodi ricevuti dalla tradizione alcuni concetti teologici raccontati in forma di storia per illustrare meglio il significato ecclesiale dell'accaduto, proprio come si faceva nel targum. Data questa premessa, si passi ad esaminare l'episodio della tassa per il tempio. Prima della distruzione di questo nell'anno 70 ogni ebreo maschio sopra i diciannove anni doveva pagare una tassa di mezza moneta d'argento, o di due dracme, per la sua manutenzione. Dopo la distruzione di Gerusalemme la tassa serviva addirittura per il mantenimento del tempio di Giove Capitolino a Roma. Sapendo che Gesù aveva minacciato il tempio di distruzione (Matteo 26, 61; Giovanni 2, 19), gli esattori fiscali di Cafarnao chiesero a P. se il loro Maestro pagava pure lui la tassa. P. rispose di sì, ma appena entrato in casa Gesù lo prevenne con una domanda: "Che cosa ti pare, Simone? I re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli altri?". Dalla risposta di P., che erano gli estranei a pagare le tasse, Gesù concluse che i figli erano esenti, ma perché gli esattori non si scandalizzassero ordinò a P. di andare a pescare: nella bocca del primo pesce preso avrebbe trovato una moneta d'argento che sarebbe servita a soddisfare l'obbligo per entrambi. Un "miracolo" del genere, per uso proprio, Gesù non lo aveva mai fatto ed è dunque ovvio che il racconto riflette qualcosa d'altro. Nella Chiesa primitiva i giudeocristiani erano obbligati a pagare la tassa del tempio? Una decisione petrina nel nome di Cristo avrebbe applicato il principio "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" (Matteo 22, 21) e decretato che i cristiani, essendo figli di Dio, erano esenti, ma pro bono pacis dovevano pagare: Dio avrebbe provveduto. La decisione di P. era stata accettata definitivamente. L'altro episodio, quello di P. che cammina sulle acque (Matteo 14, 28-31), è più complicato, ma rivela molto sia sul personaggio sia sul pensiero teologico intrecciato posteriormente con le tradizioni petrine. I quattro vangeli narrano tre episodi dove appare la barca di P.: la pesca miracolosa (Luca 5, 1-11; Giovanni 21, 1-14), la tempesta sedata (Marco 4, 35-41; Matteo 8, 23-27; Luca 8, 22-25) e Gesù che cammina sulle acque (Marco 6, 45-52; Matteo 14, 22-32; Giovanni 6, 16-21). Benché siano tre o quattro episodi diversi, nella trasmissione della tradizione alcuni dettagli si sono mescolati, dando una certa unità al loro significato teologico. Il primo episodio, quello della pesca miracolosa, viene collocato all'inizio dell'attività di Gesù da Luca, ma dopo la risurrezione da Giovanni. Il primo è l'occasione della vocazione di P. come pescatore di uomini dopo la sua esclamazione: "Allontanati da me, poiché sono un peccatore, Signore". In Giovanni, appena P. si accorge che era "il Signore" si cinge la veste e si butta in mare per andare verso di lui. Nel secondo episodio, la tempesta sedata, Gesù si addormenta nella barca in mezzo ad una tempesta, viene svegliato dai discepoli impauriti che vengono rimproverati per la loro poca fede e, dopo che Gesù ha ordinato al vento di cessare, esclamano: "Chi è costui al quale anche il vento e il mare obbediscono?". Il terzo episodio avviene in mezzo al lago di Tiberiade verso la quarta veglia della notte (Matteo, Marco) a circa trenta stadi da terra (Giovanni). Gesù sta pregando su un monte (Marco, Matteo) ma i discepoli incorrono in una burrasca. Vedono Gesù che cammina sulle acque e che li incoraggia dicendo "sono io" (l'"io sono" di Dio?). Subito il mare si placa e la barca tocca terra (Giovanni, ma cfr. Salmi 107, 23-30; Geremia 31, 35; Giobbe 9, 8; 38, 8-11, che forniscono la chiave di interpretazione dell'episodio). Alla narrazione di Marco, Matteo aggiunge un altro fatto. Appena Gesù venne riconosciuto "Pietro gli disse: 'Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sulle acque'. Ed egli gli disse: 'Vieni'; Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento, si impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: 'Signore, salvami!'. E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: 'Uomo di poca fede, perché hai du-bitato?'. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti esclamando: 'Tu sei veramente il Figlio di Dio!'" (Matteo 14, 28-33). È ovvio che queste tre narrazioni, anche nell'intenzione degli evangelisti, sono fortemente simboliche. La barca di P. è la Chiesa; Gesù che prega sul monte è il Cristo risorto che intercede per la Chiesa la quale si trova in mezzo alla tempesta della storia. Come Dio, che doma il mostro marino, causa del caos della storia, il Cristo placa le acque e fa che la barca raggiunga la salvezza. Nella pesca miracolosa viene indicato che un'opera umana prestata "di notte" vale ben poco, ma con la parola del Signore si pesca una moltitudine di pesci. Sia i rimproveri sia gli interventi di Gesù provocano atteggiamenti di umiltà e confessioni di fede, oltre il coraggio di proseguire nella missione. Ma che significa l'episodio di P. che cammina sulle acque? La redazione matteana forse riunisce diverse tradizioni dai vari episodi che sono stati appena esaminati: dalla pesca miracolosa in Giovanni, P. che si butta nel mare appena riconosciuto il Signore, un episodio postpasquale; la poca fede dei discepoli in occasione di una tempesta (Marco); e Gesù che cammina sulle acque (Matteo). Tutto, adesso, si concentra su P., il capo degli apostoli, il quale finché ha piena fede in Cristo è capace anche di imitarlo, ma, appena viene meno la sua fiducia di fronte alle avversità comincia ad affondare e ha bisogno di preghiera e di soccorso per non farlo. È possibile che una situazione di dubbio come quella in cui si trovava P. nella questione del dibattito ecclesiale circa la validità della legge mosaica per i pagani convertiti abbia indotto Matteo ad inserire l'episodio narrato nel racconto di Marco. Difatti è proprio P. che, nella stessa quarta sezione del vangelo di Matteo, chiede una spiegazione della parabola circa i cibi che rendono impuro un uomo (Matteo 15, 15) e provoca la risposta che non ciò che entra nell'uomo lo rende impuro, ma ciò che esce dal suo cuore malvagio. Ancora nel "quarto libro" di Matteo (18, 21-22), in occasione di un discorso di disciplina ecclesiastica, P. domanda a Gesù quante volte deve perdonare chi gli fa un torto, se fino a sette volte. La risposta di Gesù è: "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette", cioè, non ci sono limiti alla riconciliazione fraterna e al perdono purché il peccatore sia pronto a riconciliarsi con la comunità (18, 15-18). L'impetuosità di P. insieme al suo amore per Gesù e alla sua debolezza trovano la migliore illustrazione nella predizione della sua negazione del Maestro. Predicendo che tutti i discepoli si sarebbero scandalizzati di fronte alla sua passione, Gesù applica a sé la profezia di Zaccaria 13, 7 sul pastore percosso e le pecore disperse. P. interviene dicendo che anche se tutti si fossero risentiti, lui non si sarebbe urtato; ma Gesù risponde predicendo una triplice negazione da parte dell'apostolo quella notte stessa. Le parole di Gesù sono riportate da tutti i vangeli (Marco 14, 30; Matteo 26, 34; Luca 22, 34; Giovanni 13, 38). Luca, però, ha qualche cosa da aggiungere: "Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli" (Luca 22, 31-32). A cosa si riferisce Gesù? È strano che questo detto segua immediatamente una lode agli apostoli per avere perseverato con Gesù nelle sue sofferenze (22, 28), ma che sia poi seguito dalla predizione della negazione di P. (22, 34). L'espressione "vi ha cercato" richiama la richiesta a Dio da parte di satana per tentare Giobbe (Giobbe 1, 6-12), una richiesta esaudita. Il medesimo tentatore, o meglio, accusatore, adesso vuole provare la fede e la costanza dei discepoli di Gesù. La prima prova ha luogo al momento dell'arresto di Gesù, quando tutti fuggono e P. lo nega. Ma ciò preludeva alle persecuzioni che essi stessi avrebbero dovuto soffrire nella loro missione. La richiesta di satana viene controbilanciata dall'intercessione di Gesù, non per tutti loro direttamente, ma per P., il quale non era fuggito, ma lo aveva negato. Non era stata la sua fede a venire meno, ma il suo coraggio. La preghiera di Gesù ottiene il suo ravvedimento e, attraverso lui, la conferma nella costanza degli altri cristiani perseguitati. Ma perché solo P.? Proprio perché sarà lui che verrà costituito pastore sia degli agnelli sia delle pecorelle di Cristo (Giovanni 21, 15-17). Egli avrà il compito di testimoniare nella sua persona sia la debolezza che aveva mostrato sia la grazia dell'intercessione di Gesù che lo costituisce strumento di esortazione alla costanza della fede. Luca colloca questa parola di Gesù nel contesto dell'ultima cena, che P. stesso e Giovanni avevano preparato. Nel suo racconto di questa cena Giovanni menziona P. altre tre volte. Si prescinde qui dalla questione circa l'identità o no della cena alla vigilia della Pasqua secondo il quarto vangelo con la cena pasquale dei sinottici. Nella versione giovannea P. svolge un ruolo nell'episodio della lavanda dei piedi (Giovanni 13, 6-11), nella domanda circa l'identità del traditore (13, 24) e nella sua presunzione di seguire Gesù fino alla morte (13, 36-38). In occasione di una cena, presso gli ebrei, uno schiavo straniero lavava i piedi degli ospiti man mano che arrivavano. Si può quindi immaginare la meraviglia degli apostoli quando Gesù alla fine della cena si cinge le vesti e si mette a lavare i loro piedi. La migliore interpretazione di questo gesto sono le parole dell'inno di Filippesi 2, 7-8 dove si dice che Cristo spogliò se stesso, assumendo la condizione di schiavo, umiliò se stesso fino alla morte e alla morte di croce, parole che richiamano il commento di Giovanni che Gesù "dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (13, 1). A un tale gesto umiliante di Gesù P. si ribella, protestando che Gesù non gli avrebbe mai lavato i piedi (si ha qui un'eco del rimprovero dell'apostolo a Gesù in Marco 8, 32 quando questi parlava della sua passione). "Rispose Gesù: 'Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo'. Gli disse Simon Pietro: 'Non mi laverai mai i piedi!'. Gli rispose Gesù: 'Se non ti laverò non avrai parte con me'. Gli disse Simon Pietro: 'Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!'. Soggiunse Gesù: 'Chi ha fatto il bagno non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti'. Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: 'Non siete tutti mondi'" (Giovanni 13, 7-11). Anche se l'autore del quarto vangelo forse pensava al battesimo quando scriveva queste parole (come in Giovanni 3, 3-5), il senso del discorso di Gesù si riferiva alla piena unione con lui nella fede che rende mondo il credente. Le parole "se non i piedi" mancano in qualche manoscritto, incluso il Sinaitico, ma sono ritenute autentiche dagli esperti in materia. Gli apostoli che andranno a peregrinare nel mondo per evangelizzarlo, benché essi non siano del mondo inevitabilmente si sporcheranno i piedi e avranno bisogno di essere lavati da Gesù di tanto in tanto. Solo Giuda che tradisce la persona di Cristo avrebbe avuto bisogno di un bagno completo se non si fosse disperato del tutto. Difatti, Gesù predice questa negazione esplicitamente in Giovanni 13, 21 ed è P. che si rivolge al discepolo prediletto del Maestro per chiedergli chi sarebbe stato colui di cui Gesù parlava, e questi, offrendogli un boccone, indica Giuda Iscariota (Giovanni 13, 26). Il terzo intervento di P. durante la cena giovannea segue le parole di Gesù: "Dove vado io voi non potete venire" (13, 33). Alla domanda di P. ("dove vai?") Gesù risponde che dove egli andava, cioè a soffrire la passione, P. non poteva seguirlo immediatamente ma lo avrebbe seguito più tardi; ma l'apostolo, con la sua solita impetuosità asserisce che egli lo avrebbe seguito ovunque, avrebbe dato pure la vita per lui; la sua presunzione non fa altro che meritare la predizione della sua prossima negazione (13, 36-38). Il comportamento di P. peggiora durante l'agonia del Maestro nell'orto del Getsemani (Marco 14, 32-42; Matteo 26, 36-46; Luca 22, 39-46). Accompagnano Gesù P. e i due figli di Zebedeo, cui Gesù ingiunge di vigilare e pregare perché non entrino in tentazione; ma essi si addormentano. Marco riporta il rimprovero fatto a P.: "Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un'ora sola? Vegliate e pregate perché non entriate in tentazione; lo spirito è pronto ma la carne è debole" (14, 37-38). Quest'ultimo inciso sintetizza in pieno il carattere di P.: buona volontà sì, ma debolezza umana e troppa fiducia in se stesso. Il rimprovero è fatto a P., ma l'esortazione vale per tutti i discepoli di Gesù. Segue la cattura del Maestro (Marco 14, 43-52; Matteo 26, 47-56; Luca 22, 47-53; Giovanni 18, 1-11). P. si distingue volendo difendere Gesù e tira fuori una spada con la quale colpisce Malco, il servo del sommo sacerdote, troncandogli l'orecchio destro (Giovanni 18, 10). Gesù lo rimprovera: "Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?" (Giovanni 18, 11). P. non ha ancora accettato la passione del Cristo come parte essenziale del piano salvifico del Padre, e vuole ottenere la liberazione umana con la violenza, come aveva tentato di fare Mosè uccidendo l'egiziano (Esodo 2, 12-14). È solo Giovanni che identifica l'"uno dei discepoli" dei sinottici con Pietro. Il rimprovero rivoltogli nel vangelo di Matteo è più esteso: "Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada. Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?" (26, 52-54). La violenza genera violenza, la salvezza si realizza nell'accettazione umile e paziente della volontà di Dio. Era un avvertimento per tutta la Chiesa fondato anche sull'esperienza della rivolta giudaica contro i Romani che aveva provocato la distruzione di Gerusalemme. Anche la triplice negazione di P., in cui si avverò la predizione di Gesù, viene narrata da tutti e quattro i vangeli con una concordanza di dettagli quasi completa (Marco 14, 54.66-72; Matteo 26, 58.69-75; Luca 22, 54-62; Giovanni 18, 15-18.25-27). Fonte delle tradizioni contenute nel quarto vangelo sembra sia stato quel "discepolo prediletto", noto al sommo sacerdote, che intercedette con la portinaia perché P. potesse entrare nel palazzo, ed è la stessa portinaia a riconoscere P. come discepolo di Gesù. Egli nega, ma essa insiste anche con gli astanti, e questi provocano la sua seconda e terza negazione. Marco e Matteo aggiungono alle negazioni anche un giuramento. Tutti menzionano il canto del gallo, ma Luca aggiunge uno sguardo penetrante di Gesù che ricorda a P. le parole di predizione. Questi, uscito fuori, "pianse amaramente" (Luca 22, 62). Ai piedi della croce P. è assente. Gesù affida sua madre al discepolo prediletto, non a lui (Giovanni 19, 26-27). Una tale concordanza rivela che nella comunità primitiva si era molto parlato dell'incidente e i cristiani lo avevano fissato bene nella memoria, ma era proprio quella comunità che riconobbe il medesimo P., e non Giovanni, come il suo capo indiscusso, secondo la parola di Gesù. P., però, è il primo testimone della risurrezione di Gesù. Qui non si entrerà nella questione della sequenza delle cristofanie su cui esistono tanti studi. La testimonianza più antica viene da Paolo. In 1 Corinzi 15, 5-8 egli afferma, con una formula tradizionale, che Cristo è apparso prima a Cefa, quindi ai dodici, poi a cinquecento fratelli, dei quali alcuni erano ancora in vita, a Giacomo, a tutti "gli apostoli" (cioè gli evangelizzatori fondatori di Chiese, distinti dai "dodici") e, in ultimo, a lui stesso. Tutti e quattro i vangeli, al contrario, menzionano Maria di Magdala e altre donne come testimoni prima di un'angelofania e poi di una cristofania in cui Cristo ingiunge agli undici di incontrarlo in Galilea (Matteo 28, 1-20; Marco 16, 1-8.9-11; Luca 24, 1-11; Giovanni 20, 11-18). Le donne, però, non erano legalmente ammesse come testimoni. Dei quattro evangelisti solo in Luca 24, 34 si trova che gli undici dicono ai discepoli di Emmaus che Gesù era "apparso a Simone". Quello che entra in più dettagli per quanto riguarda gli incontri di P. con il Cristo risorto è Giovanni, sul quale è necessario soffermarci a causa della rilevanza della sua testimonianza su Pietro. Anche in questo vangelo è la Maddalena che scopre il sepolcro vuoto, corre ad annunziare il fatto a P., vede due angeli e poi lo stesso Gesù (20, 1-2.11-18). Gesù appare agli undici solo più tardi (20, 19-23). L'avvenimento che qui interessa maggiormente, però, è narrato nei versetti 4-9: all'annuncio della Maddalena P. e il discepolo prediletto corrono ambedue al sepolcro di Gesù. Arriva prima il prediletto, vede le bende per terra ma non entra. Poi arriva P. che vede inoltre il sudario piegato a parte e "allora entrò anche l'altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli, cioè, doveva risuscitare dai morti". Dato il carattere del quarto vangelo si deve vedere in questo avvenimento anche un significato simbolico. Il discepolo prediletto è la fonte principale di notizie evangeliche della comunità giovannea. Egli è colui che aveva posato il suo capo sul petto di Gesù, che gli aveva chiesto chi fosse colui che lo avrebbe tradito, che entra per sentire tutto il processo, che sta ai piedi della croce e che riceve l'eredità della madre di Gesù. È quindi più intimo di P. nei confronti del Maestro e penetra più profondamente nel cuore di Cristo. Però anche lui non aveva ancora capito le Scritture. D'altra parte, la sua deferenza verso P. indica che anche se la comunità di Giovanni poteva vantare un fondatore così vicino al Maestro ciò non toglieva niente alla preminenza di P. nella Chiesa apostolica. E questo viene meglio illustrato nell'ultimo capitolo del vangelo. Il capitolo 21 del quarto vangelo viene considerato come un'appendice posteriore di provenienza della medesima "scuola". I versetti 1-14 narrano un'apparizione del Risorto sulle rive del lago di Tiberiade e una pesca miracolosa postpasquale come quella prepasquale di Luca 5, 1-11 (si tratta di due avvenimenti o dello stesso, e uno è l'allegorizzazione dell'altro?). Anche qui è il prediletto che riconosce Gesù per primo ma è P. che si butta in mare per andargli incontro. Ma di maggiore importanza è l'episodio che segue (Giovanni 21, 15-19). Gesù, avendo condiviso il pane e il pesce con i discepoli, chiede per ben tre volte a P.: "Mi ami tu?". Alla triplice risposta, "Signore, tu lo sai che ti amo", contrapposta alla triplice negazione, Gesù ingiunge: "Pasci i miei agnelli" e "Pasci le mie pecorelle". Da pescatore P. diventa pastore. Gli agnelli e le pecore però non appartengono a lui ma a Cristo; tuttavia è P. che le deve pascere e difendere contro i lupi e contro i ladri (cfr. Atti 20, 28-30). Cristo è il buon pastore che dà la sua vita per le sue pecorelle (Giovanni 10, 11-13; cfr. Ezechiele 34 e 37). Difatti Gesù aggiunge: "'In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi'. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: 'Seguimi'" (Giovanni 21, 18-19). Quando fu scritto il quarto vangelo P. aveva già subito il martirio, ma l'oscurità del detto di Gesù è segno della sua antichità. Era arrivata l'ora di cui P. si era vantato, quella di seguire Gesù fino alla morte a imitazione del Pastore supremo che dà la sua vita per le sue pecorelle. Come si vedrà più avanti l'immagine del pastore prevale su quella del pescatore nella prima lettera di P. (5, 1-4). Nel frattempo era morto anche il discepolo prediletto, al quale non era stata richiesta nessuna dichiarazione di amore perché era presupposta, onde la seguente domanda di P.: "Signore, e lui?". La risposta enigmatica di Gesù, "Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi" (Giovanni 21, 21-22), provoca il malinteso che quel discepolo non sarebbe morto affatto, ma il vero significato del detto era che Gesù aveva piani misteriosi anche per lui. Giovanni ha il primato di amore, P. quello di testimonianza e di autorità. Da questo punto in poi è necessario rivolgersi alle lettere paoline e agli Atti degli apostoli per seguire l'attività missionaria di P. nella Chiesa primitiva. Le due lettere di Paolo che menzionano P. sono Galati e 1 Corinzi, ambedue autentiche e scritte durante la vita di Pietro. Gli Atti costituiscono il secondo libro di Luca, ma occorre premettere una parola di introduzione prima di usare queste fonti, per chiarire il loro valore storico nel contesto delle vicende ecclesiali in cui furono composte. I primi convertiti al cristianesimo erano ebrei ed essi non concepivano la loro fede come una "nuova religione" bensì come il completamento e adempimento delle speranze del giudaismo. Difatti nella loro vita quotidiana continuavano a frequentare il tempio e le sinagoghe, a circoncidere i loro figli e ad osservare la legge di Mosè. Presto, però, entrarono a fare parte della Chiesa anche molti pagani i quali o erano già stati attratti al giudaismo ovvero provenivano dal paganesimo più totale. Sorse dunque la questione: per questi ultimi convertiti bastavano la fede e il battesimo per essere cristiani oppure essi dovevano passare attraverso il giudaismo, osservandone tutte le sue istituzioni? Molti giudeocristiani, specialmente quelli provenienti dal fariseismo che erano particolarmente attaccati non soltanto alla legge mosaica (torah) ma anche alle loro tradizioni, mantenevano una posizione abbastanza rigida riguardo i neoconvertiti. Altri, però, escludevano i cristiani ellenisti da tali osservanze. Fatta questa premessa bisogna aggiungere qualche cosa sul libro degli Atti degli apostoli. Questo fu composto da Luca, verso gli anni Ottanta o Novanta, come seguito del suo vangelo, per istruire e confermare il convertito Teofilo sugli inizi e il fondamento della sua nuova fede. Gran parte degli avvenimenti ivi descritti furono ricavati da Luca da tradizioni orali o da fonti scritte, ma l'autore non intendeva scrivere una cronaca completa bensì un resoconto sia della nascita e crescita della nuova comunità, sia dell'espansione del vangelo da Gerusalemme, attraverso la Giudea, la Samaria e l'Asia, verso Roma (Atti 1, 1-8). Però non era questo l'unico suo scopo. Nel suo tempo, benché la maggioranza della Chiesa fosse costituita da provenienti dal paganesimo, la questione circa l'osservanza della torah non era morta, e alcuni giudeocristiani ancora accusavano Paolo di aver tradito il giudaismo predicando la totale libertà dalla legge mosaica. Scopo di Luca, dunque, era anche quello di difendere l'operato di Paolo mostrando che era avvenuto sotto la guida dello Spirito Santo e con l'approvazione, anzi, con la spinta, di P. (Atti 10). Quest'ultimo è il protagonista dei capitoli 1-15 del libro, ma cede il posto a Paolo nella seconda metà degli Atti. Tale tesi teologica qualifica sia la scelta del materiale per il racconto sia il punto di vista da cui viene trattato, qualche volta a scapito della completezza e dell'oggettività della cronaca. È impossibile, in questa sede, entrare in tutti i dettagli esegetici e critici dei passi degli Atti in cui P. viene menzionato. È, dunque, necessario passare in rapida rassegna queste narrazioni lucane per poi tentare di penetrare oltre lo schematismo teologico dell'autore e ricavare un quadro degli avvenimenti sottostanti. P. è di nuovo il primo nella lista degli undici riuniti nel cenacolo in 1, 13. È lui che presiede l'elezione del dodicesimo apostolo che riempirà il vuoto lasciato da Giuda Iscariota il quale si era impiccato (1, 15). Il lungo discorso indirizzato al popolo in occasione della discesa dello Spirito Santo sugli uomini riuniti nel cenacolo, che costituisce l'essenza dell'annuncio (Kerygma) apostolico, viene attribuito a P. e agli undici (2, 14-36), cioè a P. a nome degli apostoli. Segue la guarigione di uno storpio nato alla porta detta "Bella" del tempio, da parte di P. con Giovanni e, in questa occasione, il secondo discorso kerigmatico (3, 1-4, 22). I due apostoli vengono arrestati dai sacerdoti e dai sadducei perché annunciavano la risurrezione dei morti, ma, di nuovo, è P. che annuncia agli anziani del popolo che non c'è salvezza se non nel nome di Cristo. Nel capitolo 5 Anania e sua moglie Saffira, che s'erano macchiati di disonestà nella condivisione dei beni della comunità, vengono accusati da P. di aver "mentito allo Spirito Santo" (5, 3) e prodigiosamente puniti con la morte (forse una morte in seguito a una scomunica da parte dell'apostolo, come in 1 Corinzi 5, 3-5). La fama degli apostoli aumenta a causa dei miracoli che operavano. Persino l'ombra di P. viene accreditata di poteri taumaturgici (5, 15). Di nuovo arrestati e messi in carcere, vengono liberati miracolosamente (5, 17-23). Quindi di fronte al sinedrio P. risponde con coraggio al rimprovero del sommo sacerdote che "bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (5, 29). Dopo il racconto dell'istituzione dei sette "diaconi" ellenisti e della lapidazione di Stefano, Luca narra l'inizio della missione di P. fuori di Gerusalemme. P. e Giovanni visitano la Samaria che era stata evangelizzata da Filippo e lì incontrano Simon Mago che viene aspramente condannato da P. per l'atteggiamento che da lui nel linguaggio ecclesiastico si denominerà simonia, cioè per il tentativo di "acquistare con denaro il dono di Dio", e precisamente il potere apostolico di conferire lo Spirito "con l'imposizione delle mani" (8, 14-24). Dopo la conversione di Paolo, P. cura il paralitico Enea a Lidda (9, 32-35) mentre a Giaffa compie un miracolo ancora più strepitoso risuscitando dai morti una discepola di nome Tabità (9, 36-43). Nel capitolo 12 si narra la terza carcerazione di P., questa volta da parte di Erode Agrippa I. Legato con catene e custodito da soldati P. viene liberato da un angelo e si reca nella casa di Maria madre di Marco dove erano riuniti i discepoli in preghiera, con grande meraviglia di tutti. Non potendo ritornare nella Giudea perché ricercato dal re, P. soggiorna a Cesarea (12, 19) ed Erode viene poco dopo prodigiosamente punito con una morte atroce (12, 20-23). Da questa serie di episodi raccontati da Luca un ventennio dopo la morte di P. quale immagine dell'apostolo si può ricavare? Non ci può essere dubbio che sia per l'autore degli Atti sia per le tradizioni a lui pervenute P. primeggia tra gli apostoli. Egli li rappresenta di fronte al popolo e alle autorità, rende testimonianza sia con la sua parola sia con le sue carcerazioni, è un taumaturgo riconosciuto, ha il potere di scomunicare o di punire, presiede i consigli dei dodici, fa il missionario itinerante e viene messo in scena almeno due volte con Giovanni. Ci si può domandare se un personaggio che notoriamente aveva rinnegato Gesù tre volte avrebbe potuto essere onorato di tanta autorità se non ci fosse stata qualche parola di Gesù che fondasse un tale atteggiamento verso di lui. Anzi, Luca non dice tutto di lui: dalle lettere di Paolo scritte prima dell'anno 60 s'apprende che P. era conosciuto a Corinto sì da avere a suo favore anche un "partito" (1 Corinzi 1, 12; 3, 22; 9, 5). Aveva visitato la città o era conosciuto solo per fama? Non era meno conosciuto nella Galazia dai pagani convertiti, ai quali Paolo racconta che il suo vangelo era stato approvato da P. stesso durante una visita a Gerusalemme (Galati 1, 18). Ci si può legittimamente chiedere perché Luca, che scrive dopo la morte di P., non racconti la suprema testimonianza del suo martirio. Gli Atti, scritti dopo il vangelo di Luca, sono datati così tardi sia perché il vangelo mostra segni chiari di essere stato scritto dopo la caduta di Gerusalemme, sia perché il libro degli Atti riflette situazioni ecclesiali che appartengono piuttosto alla terza generazione di cristiani. La ragione probabile per cui viene omessa la notizia del martirio sia di Paolo sia di P., oltre il fatto che doveva essere diffusissima, potrebbe risiedere nell'intento apologetico del libro che voleva presentare i cristiani come buoni cittadini dell'Impero. Quindi, mentre non tace la loro persecuzione da parte dei giudei, nemmeno una volta presenta la condanna di un cristiano da parte di un tribunale civile. L'immagine ideale di P. fornita da Luca però ha anche la sua controparte. A Gerusalemme Giacomo, "fratello del Signore", era dotato di un'autorità altissima. Rispettato pure dagli ebrei, sembra che avesse preso le redini di governo della comunità gerosolimitana dopo la partenza di P. sotto la persecuzione di Erode nell'anno 43 o 44. La sua autorità derivava dalla sua parentela con Gesù oltre che dall'apparizione speciale che aveva avuto del Cristo risorto (1 Corinzi 15, 7). Difatti, nel I secolo la Chiesa di Gerusalemme sembra essere stata governata da una sorta di "califfato" di "parenti del Signore": Simeone, Giusto e Giuda. I giudeocristiani di stretta osservanza di quella città erano riuniti strettamente intorno a Giacomo, la cui autorità si estendeva anche alle Chiese della Siria e della Samaria legate a Gerusalemme. Questa chiarificazione era necessaria per poter capire l'importanza di due episodi finora omessi tra quelli petrini narrati da Luca: la conversione di Cornelio (Atti 10) e il cosiddetto concilio di Gerusalemme (Atti 15), di cui ci si deve occupare più accuratamente per capire la posizione di P. nella controversia di cui s'è sopra parlato a proposito dell'ammissione dei pagani nella Chiesa senza la circoncisione. Le fonti sono la lettera di Paolo ai Galati, scritta in tono di controversia, e Atti 15, un capitolo in cui Luca vuole mostrare che tra i due estremi P. figura come conciliatore. Il capitolo 10 è di capitale importanza in questa vicenda. Un centurione romano di nome Cornelio, "timorato di Dio", cioè attratto dal giudaismo, frequentatore della sinagoga e dedito alle opere buone, ma non circonciso, ha la visione di un angelo, a Cesarea, il quale lo assicura che è accetto a Dio e gli ingiunge di mandare a chiamare P. a Giaffa. Mentre gli inviati di Cornelio sono in viaggio, l'apostolo sta pregando e vede in visione un grande lenzuolo pieno di animali impuri che scende dal cielo mentre una voce lo invita ad uccidere e mangiare. P. protesta che non ha mai mangiato niente di impuro. Dopo la terza volta gli si risponde: "Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano" (10, 15). L'incomprensione di P. aumenta quando arrivano gli uomini di Cornelio per invitarlo nella sua casa. L'apostolo li accompagna ed entrato nella casa del centurione ascolta il racconto di Cornelio. P. allora gli annunzia Cristo e mentre ancora sta parlando scende lo Spirito Santo su tutti gli astanti che cominciano a parlare diverse lingue come gli apostoli il giorno di Pentecoste. P. adesso intuisce il significato del segno e della visione che aveva avuto e battezza Cornelio e i suoi. La reazione è immediata: l'apostolo viene subito rimproverato dai giudeocristiani oltranzisti di Gerusalemme per essere entrato nella casa di un pagano e avere mangiato alla sua mensa (11, 3). P. racconta loro l'accaduto e conclude: "'Se dunque Dio ha dato loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?'. All'udir questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: 'Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!'" (11, 17-18). Con questo lungo racconto Luca vuole sottolineare il fatto che il primo ad ammettere i pagani nella Chiesa senza la circoncisione era stato P. sotto ispirazione divina, e non Paolo, come affermavano i suoi avversari. Si poteva pensare che dopo l'intervento di P. il caso fosse risolto, ma non era così. Nei capitoli 13 e 14 Luca narra il primo viaggio missionario di Paolo e di Barnaba da Cipro fino ad Antiochia di Pisidia e il successo di questa predicazione confermata dallo Spirito (13, 52). Ma i cristiani già farisei "venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: 'Se non vi fate circoncidere secondo l'usanza di Mosè, non potete essere salvi'" (15, 1). Allora Paolo e Barnaba vengono chiamati a Gerusalemme dove gli apostoli e gli anziani si riuniscono in concilio per decidere la questione. P. prende la parola a favore dell'operato di Paolo, adducendo il precedente di Cornelio (15, 7-11). Segue un discorso di Giacomo, il quale accetta il principio della non necessità della circoncisione per i pagani convertiti, ma richiede che questi almeno siano legati da quelle proibizioni che obbligavano i pagani convertiti al giudaismo: l'astensione dalle carni offerte agli idoli, dall'impudicizia (cioè dai matrimoni tra parenti) e dal mangiare carne di animali soffocati o contenente ancora sangue (15, 14-21; cfr. Levitico 17-18). Accettato questo compromesso viene scritta una lettera circolare in cui si diceva che coloro che turbavano i pagani non avevano ricevuto nessun incarico dai capi di Gerusalemme e quindi: "Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie" (15, 23-28). Così, l'autore degli Atti concilia le due parti opposte con l'autorità sia di P. sia di Giacomo. Da questo momento P. sparisce dalla scena e Luca prosegue con il racconto degli altri viaggi missionari di Paolo, ormai autorizzato a seguire la sua via. Se però si legge la versione di Paolo relativa a questi fatti ci si accorge che le cose non erano andate così lisce come racconta Luca quarant'anni dopo. Nella lettera ai Galati, composta pochi anni dopo il concilio di Gerusalemme, egli scrive: "Da parte dunque delle persone più ragguardevoli - quali fossero allora non mi interessa, perché Dio non bada a persona alcuna - a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi - poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani - e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani e loro verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare" (Galati 2, 6-10). Paolo parla qui dell'incontro di Gerusalemme. Le tre "colonne" avevano approvato il suo agire e s'erano divisi i compiti: Paolo e Barnaba dovevano dedicarsi alla missione fra i pagani, senza l'obbligo della circoncisione, ed essi si sarebbero preoccupati di predicare agli ebrei. Fin qua Paolo è d'accordo con Luca. Ma Paolo non menziona affatto le quattro clausole del concilio, e riferisce invece di un'altra condizione, quella cioè di una colletta per la Chiesa di Gerusalemme in segno di comunione. Anzi, in 1 Corinzi 8 permette il consumo delle carni immolate agli idoli purché non si dia scandalo ai più deboli. Come si conciliano queste due versioni? Ci sono diverse opinioni tra gli esegeti. Dato che anche in Atti 21, 20-25 Giacomo informa Paolo al suo ritorno a Gerusalemme delle quattro clausole (come se Paolo non le conoscesse), la soluzione più probabile sembra essere l'ipotesi secondo la quale Luca fonderebbe insieme due avvenimenti: il concilio che finisce per approvare in assoluto l'operato di Paolo e Barnaba, e un'altra riunione posteriore presieduta da Giacomo con gli anziani di Gerusalemme che stabiliscono alcune regole per quella Chiesa e per quelle da questa dipendenti. Ma questo compromesso ebbe poi una lunga storia perché anche nell'Apocalisse, scritta alla fine del I secolo, l'autore rimprovera alcune Chiese che permettono il consumo delle carni immolate agli idoli (2, 14.20). A lungo andare, però, prevalse la tesi di Paolo e di P. perché l'osservanza delle clausole sparì ben presto dalla Chiesa. Inoltre Paolo narra che trovandosi ad Antiochia con P., nessuno dei due osservava le prescrizioni alimentari giudaiche, ma quando vennero in quella città alcuni del partito di Giacomo P. cominciò a titubare e scese a compromessi, meritando un severo rimprovero da Paolo (Galati 2, 11-16) che voleva mantenere ad ogni costo il suo principio di libertà dalla legge mosaica. Dopo il concilio di Gerusalemme P. sparisce dagli Atti che si concentrano sull'attività di Paolo fino a condurre il vangelo a Roma. Ed è qui che si deve cercare P., ma attraverso altre fonti, oltre alla notizia contenuta in 1 Pietro 5, 13. La comunità cristiana di Roma ha origini antichissime ma oscure. Prese radice tra i circa cinquantamila ebrei residenti in quella città, che disponevano d'una dozzina di sinagoghe. Tacito narra che dopo l'incendio di Roma nel 64 Nerone fece uccidere come capri espiatori una moltitudine ingente di cristiani (Annales 15, 44). Paolo arriva a Roma nel 61 e viene ricevuto da una delegazione alle Tre Taverne (Atti 28, 15). Ai cristiani di Roma aveva indirizzato una lettera tre anni prima. Nell'anno 49 Claudio aveva espulso "i giudei" da Roma a causa di sommosse impulsore Chresto, tra cui Aquila e Priscilla amici di Paolo (Svetonio, Claudius 25, 4; Atti 18, 2-3). Probabilmente non si tratta dell'intera comunità giudaica ma soltanto di alcuni che erano stati coinvolti in qualche discussione sulla messianicità di Gesù. Quindi si può collocare l'inizio del cristianesimo a Roma al più tardi verso la metà degli anni Quaranta. Poiché il giudaismo romano aveva strette connessioni con Gerusalemme è probabile che l'annuncio cristiano fosse arrivato dalla Giudea, e che il cristianesimo romano fosse di natura giudeocristiana, attaccato cioè all'osservanza della legge mosaica, malgrado la presenza di un numero sempre crescente di convertiti dal paganesimo. La presenza di P. nella capitale non è documentata prima della persecuzione neroniana; che però P. sia giunto a Roma, vi abbia subito il martirio in una data compresa tra il 64 e il 67 e sia stato sepolto in quella città sembra indubbio. Si esaminino le testimonianze. Nella lettera scritta nel 96 ai Corinzi, Clemente Romano così parla dell'apostolo: "Pietro, che per un'iniqua gelosia dovette sopportare non uno o due, ma molti travagli e, resa così testimonianza, raggiunse il posto a lui dovuto nella gloria" (Epistula ad Corinthios 5, 4). Forse l'espressione "iniqua gelosia" si riferisce a qualche delatore cristiano o ebreo. Intorno al 110 Ignazio di Antiochia scrive nella sua lettera ai Romani: "Io non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io sono un condannato; essi erano liberi, io, finora, sono uno schiavo" (Ad Romanos 4, 3). È strano però che, mentre in tutte le sue lettere Ignazio saluta il vescovo dei destinatari per nome, a Roma, "la chiesa che presiede nella carità", non menziona nessuno. Nel 171 Dionigi di Corinto, scrivendo ai Romani, asserisce che P. e Paolo, martirizzati a Roma, avevano impiantato la Chiesa sia a Corinto sia in Italia (in Eusebio, Historia ecclesiastica II, 25, 8). Anche Ireneo conferma che la Chiesa di Roma era stata fondata e stabilita da P. e Paolo e dà la successione dei vescovi (Adversus haereses III, 2-3). Nel 194 il presbitero Gaio riferisce che a Roma aveva visto i trofei di P. sul Vaticano e di Paolo sulla via Ostiense, coloro che avevano fondato quella Chiesa (in Eusebio, Historia ecclesiastica II, 25, 6-7). Tertulliano è il primo a connettere la successione petrina con le parole di Gesù in Matteo 16, 16-18 (De praescriptione haereticorum 22). Tra le altre testimonianze, infine, l'Ascensio Isaiae (4, 3) ricorda che un re iniquo (prevalentemente identificato con Nerone) aveva fatto morire uno dei dodici. In relazione alla presenza e al martirio di P. a Roma un capitolo fondamentale è costituito dagli scavi eseguiti negli anni Quaranta sotto l'altare papale della basilica vaticana. Le indagini, dopo secoli di "timori reverenziali", si avviarono nel 1939 per volere di Pio XII. I risultati furono di assoluto rilievo e sarebbero stati ancora più rilevanti se, come documentato da A. Ferrua, non fossero intervenute intromissioni e contingenze del tutto estranee alla rigorosa conduzione di una indagine scientifica. I lavori, protrattisi per un decennio, riportarono alla luce una vasta e ricca necropoli, con mausolei allineati lungo un asse est-ovest ai margini di una via secondaria, che correva lungo il fianco del "Circus Gai et Neronis". Gli edifici, a pianta quadrata o rettangolare e pavimentati in mosaico, destinati ad accogliere olle cinerarie e arcosoli per sarcofagi, si caratterizzano per la tecnica costruttiva adottata nelle facciate, rivestite con laterizi legati con un sottile strato di malta e decorazioni in cotto. Queste strutture sono assegnate al II secolo. Nella parte occidentale della necropoli fu individuata una piccola area quadrangolare ("campo P"), a cielo aperto, destinata a sepolture a inumazione, delimitata a ovest da un muro coperto da intonaco dipinto in rosso ("muro rosso"). Questo spazio divenne il centro della venerazione e del culto di P., circondato ma non occupato da sepolture e corrispondente all'area presbiteriale della basilica dedicata all'apostolo fatta costruire dall'imperatore Costantino dopo il 324. Fino alla fine del I secolo, prima cioè della costruzione dei mausolei della necropoli, nell'area era presente solo un limitatissimo gruppo di tombe situate nel "campo P"; soltanto nel corso del II secolo alcuni mausolei furono fondati intorno alla zona in esame, mantenendo uno spazio di rispetto. Alla fase delle prime tombe pavimentali del "campo P" segue una importante evoluzione monumentale, finalizzata a evidenziare una delle sepolture dell'area. Lungo il "muro rosso", al momento della sua costruzione alla metà del II secolo, fu installata un'edicola che si apriva verso il "campo P"; l'edicola, alta meno di 3 m, fiancheggiata da colonne, era costituita da due nicchie semicircolari sovrapposte, separate da una lastra in travertino. Anche nelle fondazioni del "muro rosso", sulla verticale della sovrastante edicola, fu aperta una rozza nicchia, scalpellata irregolarmente, in corrispondenza di una tomba preesistente, che si estendeva probabilmente anche sotto il muro. Le colonnine fiancheggianti l'edicola poggiavano su una soglia in travertino, originariamente chiusa da una lastra, messa in opera con un orientamento diverso rispetto all'edicola soprastante, ma corrispondente alle tombe antiche. A questa lastra è con ogni probabilità da attribuire la funzione di conservare e segnalare quanto esistente nel sottosuolo. L'impianto monumentale costituito dall'edicola è da mettere in relazione con la testimonianza, riportata da Eusebio nella Historia ecclesiastica (II, 25, 7), del presbitero Gaio, vissuto al tempo di papa Zefirino, che menziona i tropaia di P. e Paolo, rispettivamente sul Vaticano e sulla via Ostiense: "Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa". A nord dell'edicola fu costruito, in una fase successiva, un muro (g), con funzione di rinforzo del "muro rosso", sul quale poggia in posizione non perfettamente perpendicolare, essendo orientato nello stesso senso della lastra di chiusura in travertino e quindi della tomba sottostante. Certamente dal "muro rosso" proviene un piccolissimo frammento di intonaco iscritto (cm 3,2 x 5,8) che potrebbe costituire il più antico testimone epigrafico di una invocazione a Pietro. Vi si leggono le lettere PET[---] ENI[---]: le integrazioni più probabili sono Πέτ[ροϚ] ἔνι (cioè "Pietro è qui", come vuole M. Guarducci) o Πέτ[ροϚ] ἐν ἰ[ρήνῃ] ("Pietro in pace") come indicato da altri (per esempio J. Carcopino); ma, in linea di principio, non si possono tassativamente escludere altre integrazioni come ad esempio "Petilius", "Petronius", "Petinius" e, in tal caso, il graffito del "muro rosso" non si riferirebbe all'apostolo ma a un comune visitatore che lasciò la sua firma di devozione. È d'altra parte ben documentata la presenza di visitatori presso il sepolcro di P. come dimostrano i graffiti sul muro (g) eseguiti tra la seconda metà del III secolo e il primo decennio del IV. Qui, diversamente da quanto si può constatare per i graffiti della Memoria apostolorum sulla via Appia (cfr. sotto), c'è "una frenetica sovrapposizione di scritte diverse nel medesimo ristrettissimo spazio, senza rispetto delle precedenti, senza un qualsiasi ordine grafico e senza alcuna preoccupazione di leggibilità" (A. Petrucci). Un dato rilevante che emerge in queste iscrizioni è la precoce occorrenza del cristogramma, impiegato per lo più come "compendium scripturae" in contesti di tipo acclamatorio come: "[--- et] Simplici vivite in Chr[isto]"; "Nikasi vibas in Chr[isto]"; "Victor / Gaudentia / vivatis in Chr[isto]"; "Marcu / bive in Chr[isto]" (M. Guarducci, nrr. 6, 13, 24, 42). Altrettanto rilevante e, almeno in apparenza, sorprendente è anche l'assenza dell'esplicita menzione del nome di P. né, a tal proposito, appare persuasivo il tentativo di intravvederlo in alcune forme abbreviate di tipo monogrammatico (lettere PE), costruite attraverso un presunto meccanismo di consapevoli sovrapposizioni e tangenze tra elementi alfabetici appartenenti a iscrizioni e mani diverse. Alla sepoltura di P. nell'area vaticana fanno esplicito riferimento testimonianze letterarie, liturgiche, topografiche e agiografiche: Girolamo (De viris illustribus 1): "[Pietro] sepultus Romae in Vaticano, iuxta viam Triumphalem"; il Martyrologium Hieronymianum (29 giugno): "Romae via Aurelia Natal[e] sanctorum apostolor[um] Petri et Pauli, Petri in Vaticano, Pauli vero in via Ostensi"; la Passio apostolorum Petri et Pauli (63): "abstulerunt corpus eius occulte, et posuerunt sub terebinthum iuxta Naumachiam in locum qui appellatur Vaticanus"; il Liber pontificalis (I, p. 118): "qui sepultus est via Aurelia, in templum Apollinis, iuxta locum ubi crocifixus est, iuxta pa-latium Neronianum, in Vaticanum, iuxta territurium Triumphalem"; l'itinerario De locis: "Primum Petrus in parte occidentali civitatis iuxta viam Corneliam ad miliarium primum in corpore requiescit"; l'itinerario Notitia ecclesiarum: "Et sic intravis via Vaticana donec pervenies ad basilicam Beati Petri, quam Constantinus, imperator totius orbis, condidit, eminentem super omnes ecclesias et formosam, in cuius occidentali plaga beatum corpus eius quiescit"; l'itinerario Notitia Portarum di Guglielmo di Malmesbury: "Iuxta eam [porta Cornelia] ecclesia beati Petri sita est, in qua corpus eius iacet, auro et lapidibus parata". Il dato rilevante che si ricava da questi testi, al di là delle difformità nella descrizione dell'area vaticana, è nella concorde indicazione sul colle Vaticano dell'ubicazione della tomba di Pietro. Il culto di P., insieme a quello di Paolo, è attestato anche in un'area cimiteriale al III miglio della via Appia. Nella Depositio martyrum e nel Martyrologium Hieronymianum, alla data del 29 giugno 258, si menziona una memoria funeraria dei due apostoli "in catacumbas": la Memoria apostolorum, individuata al di sotto della basilica di S. Sebastiano, costituita da uno spazio porticato che si affacciava su un cortile all'aperto; al di sotto del portico erano situati un sedile in muratura, una fontana e una nicchia semicircolare rivestita di lastre marmoree era forse il centro del culto. Che questo fosse il luogo in cui si svolgeva il culto di P. e Paolo è con evidenza documentato dalle centinaia di invocazioni rivolte ai due apostoli tracciate dai fedeli sui muri dell'ambiente; i graffiti ricordano il rituale dei banchetti funerari (refrigeria) in loro onore. Un altro discusso e delicato problema è quello connesso alla autenticità dei resti ossei rinvenuti in una cassetta lignea depositata nei magazzini della Fabbrica di S. Pietro e, forse, provenienti dalla piccola cavità ricavata al centro del muro (g). Si dovrebbe necessariamente supporre una traslazione interna, cioè il trasferimento di quanto era rimasto delle spoglie petrine dalla tomba a fossa al ricettacolo soprastante. Resta il problema, probabilmente insolubile, di quando e perché ciò sarebbe avvenuto e del rapporto tra le reliquie vaticane e quelle che, secondo una tradizione peraltro ben documentata, si sarebbero trovate sulla via Appia e al Laterano, dove, in età molto più tarda, è attestata la presenza delle teste dei due apostoli. Si può dunque concludere che dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 e la fuga della comunità cristiana da quella città, la "chiesa madre" non è più Aelia Capitolina, come Gerusalemme viene ormai chiamata, ma Roma, alla quale sempre più si rivolgono le altre Chiese, e la ragione è che quella Chiesa era stata stabilita sulla testimonianza, la predicazione e il martirio di P. e Paolo. Nel Nuovo Testamento si trovano due lettere sotto il nome di P., la 1 Pietro e la 2 Pietro. Mentre la seconda è ritenuta dalla quasi unanimità degli esegeti come pseudoepigrafa, l'autenticità della prima è ancora abbastanza discussa. Il suo ottimo greco supera le possibilità del pescatore della Galilea; idee ed espressioni sono molto vicine a quelle paoline; inoltre le parole dell'autore che si qualifica "testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi" (1 Pietro 5, 1) fanno pensare ad un martirio di P. già avvenuto. A questo si potrebbe obiettare che l'amanuense della lettera, o più probabilmente il segretario, viene chiamato Silvano (5, 12), compagno e collaboratore di Paolo e coautore di alcune sue lettere (1 Tessalonicesi 1, 1; 2 Tessalonicesi 1, 1; 2 Corinzi 1, 19; Atti 15-17). Tutto sommato però sembra meglio propendere per una composizione negli anni Novanta in prossimità della persecuzione di Domiziano piuttosto che per una missiva dell'apostolo al tempo di Nerone. L'epistola viene indirizzata ai fedeli della diaspora nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e nella Bitinia (1, 1), probabilmente le parti settentrionali della provincia d'Asia di cui parla Plinio il Giovane nella sua lettera a Traiano. È, quindi, una lettera circolare indirizzata da Roma (la "Babilonia" di 5, 13) per esortare i fedeli ad essere perseveranti nelle difficoltà e nelle persecuzioni che li circondano. L'ipotesi che la prima parte della lettera (1, 3-4, 11) sia parte di un'omelia battesimale è abbastanza discussa. L'importante è comunque che la prima lettera di P., sia essa autentica oppure scritta in suo nome, appare con chiarezza portatrice della sua autorità, così come le lettere pastorali di Paolo rivendicano l'autorità, la retta tradizione e l'interpretazione del messaggio paolino. Il fatto che sia la Chiesa di Roma a scrivere si può accostare a Clemente che contemporaneamente indirizza una lettera di rimprovero alla comunità di Corinto. Roma inizia a svolgere il suo ruolo di supervisione sulla Chiesa in nome di Pietro. L'immagine dell'apostolo che emerge da questo scritto è quella del pastore che esorta gli anziani (presbiteri) a pascere il gregge di Dio loro affidato volentieri e non per vile interesse, facendosi modelli di tutti perché "quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce" (5, 4). Queste parole richiamano Giovanni 10 e l'incarico a P. in Giovanni 21, 15-17. Chiunque abbia scritto la lettera era conscio di questo compito petrino. Di non minore importanza è la seconda lettera di P., la cui composizione viene collocata nel primo quarto del II secolo (la sua ricezione nel canone è stata abbastanza travagliata forse proprio a causa della sua apparizione tardiva). L'autore presunto è Simon Pietro (1, 1) che era stato testimone della trasfigurazione di Gesù (1, 17) e aveva scritto la prima lettera (3, 1). È ormai prossimo alla morte (1, 12-14) ed è questa notizia che qualifica il genere letterario dell'epistola come un "testamento" di P., nel medesimo senso in cui la 2 Timoteo appare essere il testamento di Paolo. La situazione in cui l'autore scrive è quella di uno sconvolgimento dottrinale dovuto ad un incipiente gnosticismo (2, 1) e a un certo scetticismo riguardo alla realtà della seconda venuta di Cristo (3, 4). L'autore fa uso dell'autorità di P. per confutare questi errori. Il suo scritto può essere qualificato come "cattolico" nel senso petrino della parola in quanto riunisce in sé la corrente giudeocristiana della lettera di Giuda, fratello del Signore, che viene incorporata nella 2 Pietro, e quella del "nostro fratello Paolo che vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per la loro rovina" (3, 15-16). Esiste, quindi, già una collezione di lettere paoline che vengono equiparate nell'ispirazione alle Scritture dell'Antico Testamento. La corrente petrina fonde insieme il giudeocristianesimo gerosolimitano e il messaggio di Paolo per fare fronte unico contro i pericoli interni della Chiesa che culmineranno nello gnosticismo di Valentino. Ecco l'importanza della presenza nel canone neotestamentario della seconda lettera di Pietro. Ci si trova dottrinalmente sulla via della testimonianza di Ireneo circa la Chiesa di Roma: "Con questa Chiesa, infatti, a causa della sua preminenza particolare, è necessario che tutte le Chiese, cioè i fedeli di ogni parte, concordino; in essa è sempre stata conservata la tradizione che viene dagli apostoli per quanti vengono da ogni parte" (Adversus haereses III, 3, 2). Oltre a queste due epistole canoniche che si trovano nel Nuovo Testamento sono pervenute altre opere apocrife attribuite a P. o che parlano di P., di cui si presenta qui di seguito una breve rassegna, anche perché narrano leggende o trasmettono tradizioni antiche che attestano l'immagine di Pietro. L'Evangelium Petri, già conosciuto nella Chiesa antica e sorto da una conflazione dei vangeli canonici, venne alla luce parzialmente in Egitto nel 1886 in un frammento greco che narra, in prima persona, la storia che va dalla condanna da parte di Pilato fino alla risurrezione di Gesù. Viene datato circa l'anno 150. Avrebbe avuto origine in ambienti siriaci caratterizzati da un certo docetismo, cioè da quella tendenza teologica che per salvaguardare la divinità di Cristo considerava il suo corpo una pura apparenza non tollerando che Dio potesse essersi realmente incarnato. Lo scritto ha lo scopo di annunziare che Cristo è il Signore. Fortemente antigiudaico, il suo Gesù piuttosto nebuloso prepara la via ai vangeli gnostici posteriori. Il frammento è conservato al Museo del Cairo. Il Kerygma Petri, citato in senso positivo da Clemente Alessandrino e usato dallo gnostico Eracleone, ma sospettato da Origene, fu composto nella prima metà del II secolo forse in Egitto. Vuol essere un compendio della predicazione apostolica di P. (o su P.). Il suo genere letterario si colloca tra la predicazione primitiva e l'apologetica. Ne sono sopravvissuti solo alcuni frammenti in citazioni patristiche. Alla base delle lettere, delle omelie in greco e delle Recognitiones in latino, che costituiscono la letteratura pseudoclementina (cioè falsamente attribuita a Clemente di Roma), è stata ipotizzata l'esistenza di un documento base (Grundschrift) che viene datato circa la metà del III secolo, ma contiene fonti più antiche, tra cui i Kerygmata Petrou, uno scritto che risale al 180-190 e ha origine in ambienti siriaci di lingua greca. Questo testo è costituito dalla Epistula Petri ad Iacobum, una presunta lettera di P. diretta a Giacomo perché conservi gelosamente la retta dottrina e la difenda contro gli errori, e dalla Contestatio. Il documento è ebionita, appartenente cioè a una tendenza giudeocristiana fortemente antipaolina. Paolo risulta, come Simon Mago, il nemico per eccellenza di Giacomo e di P., che egli aveva osato contestare. Paolo rappresenta anche la "profezia femminile" di cui non ci si può fidare. Nonostante la provenienza ebionita, i Kerygmata risentono anche di un certo gnosticismo (per la letteratura pseudoclementina, v. Clemente I, santo). Gli Acta Petri sono una raccolta di storie e leggende su P. che risale agli anni 180-190, anche se alcune di queste potrebbero avere radici tradizionali molto antiche. Il genere è la narrazione popolare devozionale. P. si trova a Roma quando Paolo compie il viaggio in Spagna, discute con Simon Mago al Foro Romano e lo supera compiendo miracoli. Il testo parla della figlia di P., della fuga dell'apostolo dalla città in seguito a una persecuzione da parte di un certo Agrippa, di cui aveva convertito la moglie, e si colloca in questo contesto l'incontro con Gesù alle porte di Roma e il celebre interrogativo che gli avrebbe rivolto P.: "Signore, dove vai?" (Domine, quo vadis?). Alla risposta di Cristo che si recava a Roma per esservi crocifisso di nuovo, P. si ravvede, torna in città e viene crocifisso con la testa in giù. Venuto a sapere della morte dell'apostolo, Nerone rimprovera Agrippa perché avrebbe voluto egli stesso fare uccidere P. con una crudeltà maggiore. La lingua originale è il greco. Gli Acta Petri sono conosciuti, oltre che da alcune citazioni patristiche, anche da un codice copto conservato a Berlino e da uno latino di Vercelli. L'Apocalypsis Petri (composta intorno all'anno 135) era considerata canonica da qualche scrittore antico, ma viene comunemente collocata tra i libri biblici la cui canonicità era discussa (antilegomena). È il primo documento che descrive il paradiso e l'inferno con tratti che si ritroveranno dodici secoli più tardi nella Commedia dantesca. La versione etiopica, scoperta nel 1910 e più lunga di quella greca (trovata ad Akhmim in Egitto nel 1887), sembra più vicina alla redazione originaria. La passione dello Pseudo Lino (traduzione latina, risalente al IV secolo, di un Martyrium scritto in greco) colloca il luogo della prigione di P. nel carcere Mamertino e il luogo del martirio presso l'obelisco di Nerone nella naumachia sul colle. Meno importanti sono l'Apocalypsis Petri di Nag Hammadi (gnostica) e la Passio apostolorum Petri et Pauli dello Pseudo Marcello, che aggiungono altri dettagli alle leggende tradizionali e sono spesso fonte di rappresentazioni iconografiche. Sarà utile ricordare che il termine "leggenda" non ha il significato di "testo non storico" e quindi da non tenere in alcun conto. A conclusione di questo studio si può dire che nella parola "Pietro" è racchiuso un concetto teologico (theologoumenon) che indica una persona storica, un carisma, un simbolo e un ufficio. P. non è stato il fondatore della Chiesa di Roma ma, insieme a Paolo, il suo fondamento. Per questo, da tempi antichissimi la Chiesa ricorda nello stesso giorno la memoria di entrambi gli apostoli, celebrando la loro solennità liturgica il 29 giugno (data attestata almeno dalla metà del III secolo). Per quanto riguarda P., la sua confessione di fede in Cristo che culmina con il martirio, la promessa fattagli da Gesù e la sua sicura presenza a Roma, costituiscono la base sulla quale la storia, in quanto principio ermeneutico, avrebbe poi costruito.
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