ZACCARIA, santo
Di origine greca, figlio di Policronio, apparteneva probabilmente ad una delle numerose famiglie che si trasferirono dall'Oriente a Roma tra la fine del VII secolo ed i primi decenni dell'VIII, per ricoprire uffici nell'amministrazione della città, che faceva parte dell'Impero bizantino, o per sfuggire alle persecuzioni religiose che accompagnarono l'imposizione della dottrina iconoclasta da parte dell'imperatore Leone III Isaurico. Il luogo e la data di nascita sono sconosciuti. In famiglia dovette ricevere un'apprezzabile istruzione; conosceva infatti oltre che il greco anche il latino e possedeva una biblioteca privata di codici liturgici che in seguito donò alla basilica di S. Pietro. Tradusse inoltre i Dialoghi di Gregorio Magno in greco per un pubblico che non conosceva il latino, forse nella stessa Roma. Non si hanno notizie sicure sulla sua carriera ecclesiastica. Può forse essere identificato con un diacono omonimo che sottoscrisse gli atti del sinodo romano del 732; certamente fu tra i collaboratori di papa Gregorio III, giacché in questa funzione lo conobbe l'evangelizzatore della Germania, Bonifacio, probabilmente durante il suo terzo viaggio a Roma, nel 737-738. Venne elevato al pontificato pochi giorni dopo la morte di Gregorio III, il 3 dicembre del 741, in una situazione politica particolarmente difficile. Fu il primo papa per cui non fu richiesto il benestare né a Ravenna, né a Costantinopoli. I re longobardi Liutprando e Ildeprando, associati nel potere, stavano infatti conducendo un'aggressiva politica contro i territori che l'Impero bizantino possedeva nell'Italia centrale: l'Esarcato (Romagna), la Pentapoli (Marche) e lo stesso Ducato romano, ossia il territorio regionale corrispondente a un dipresso all'attuale Lazio, su cui i papi avevano recentemente acquistato un'influenza politica che probabilmente comportava anche funzioni di governo, esercitate d'accordo con le autorità bizantine. Infatti l'esarca, rappresentante dell'imperatore in Italia, non era più in grado di governare efficacemente tutte le province imperiali, né di opporsi validamente all'aggressione dei re longobardi. Anche per questo il predecessore di Z., Gregorio III, aveva stabilito intese con i duchi di Spoleto e di Benevento, che, sebbene longobardi, erano ostili al rafforzamento dell'autorità regia, sperando col loro aiuto di poter tutelare almeno l'autonomia del Ducato romano. Z. fu eletto papa proprio mentre il re Liutprando stava preparando una spedizione militare contro il Ducato romano. Egli diede subito prova di quella notevole spregiudicatezza che caratterizza le sue principali iniziative politiche; abbandonando l'intesa con i duchi longobardi offrì al re Liutprando sostegno proprio contro il duca ribelle Trasmondo di Spoleto, in cambio della pace e della restituzione dei quattro castelli di Amelia, Orte, Bomarzo e Blera, nella valle del Tevere, che il re aveva occupato l'anno precedente. Effettivamente, per disposizione di Z., l'esercito romano partecipò nel 742 alla spedizione del re contro Trasmondo, conclusa con la sottomissione e la deposizione del duca. L'autorità esercitata in quell'occasione da Z. sull'esercito romano è una conferma del fatto che nell'ormai avanzata crisi del governo bizantino in Italia, il papa aveva assunto poteri politici in Roma, ed esercitava funzioni di governo nella città, d'intesa con il duca nominato dall'esarca. Dopo la sottomissione di Spoleto, poiché Liutprando tardava a consegnare i castelli promessi, Z. non esitò a lasciare Roma per incontrarlo personalmente e raccogliere i frutti dell'accordo, facendo valere nei confronti del re tutto il prestigio morale e carismatico che gli derivava dalla figura di vicario del principe degli apostoli. L'incontro avvenne a Terni probabilmente nell'estate del 742; Liutprando accolse il papa con grandi onori; le trattative durarono alcuni giorni, accompagnate da cerimonie religiose. Risultato fu la restituzione dei quattro castelli al papa, che probabilmente li ricevette per conto dell'Impero; inoltre il re restituì "a san Pietro", cioè propriamente alla Chiesa di Roma, vari patrimoni fondiari nella Pentapoli e nel Ducato romano, anch'essi recentemente occupati dai Longobardi. L'accordo fu sanzionato da una pace ventennale tra il re longobardo e il Ducato romano, i cui destini venivano così distinti da quelli delle altre province bizantine nell'Italia centro-settentrionale. Rientrato in Roma, Z. celebrò il successo della sua missione con una grande processione del popolo romano che si svolse da S. Maria ad Martyres (Pantheon) fino a S. Pietro. Questi eventi si intrecciarono con le vicende interne dell'Impero bizantino. Z. giunse al papato mentre era imperatore Costantino V e patriarca di Costantinopoli Anastasio (730-754), entrambi fautori dell'iconoclastia, che i predecessori di Z., in particolare Gregorio III, avevano duramente condannato. Nonostante ciò, Z. inviò al patriarca Anastasio la usuale sinodica, contenente la sua professione di fede ortodossa; insieme ad essa inviò anche uno scritto esortatorio all'imperatore. I messi papali giunsero a Costantinopoli mentre era in corso una ribellione contro Costantino ad opera del cognato Artavasdo, che nell'ottobre 742 si insediò a Costantinopoli mostrando di voler restaurare il culto delle immagini. Sembra che il patriarca lo assecondasse prudentemente, consentendo il ripristino delle icone della Madre di Dio e dei santi. Z., informato, inviò ad Anastasio una lettera in cui si felicitava per la caduta dell'"apostata" e per il ripristino, ancorché parziale, delle icone, esortandolo con una serie di considerazioni dottrinali ad accogliere in pieno l'orientamento iconodulo restaurando anche le icone di Cristo. Attribuita dalla tradizione a Gregorio II, la lettera è stata recentemente rivendicata a Z. e datata all'estate 743. Da quel momento il papato dovette anche riconoscere Artavasdo come imperatore. Tuttavia Costantino V, che aveva conservato basi in Asia Minore, in quegli stessi mesi sconfiggeva in battaglia Artavasdo e suo figlio, e il 2 novembre 743 riconquistava Costantinopoli. A Roma però si continuò per più di un anno a considerare Artavasdo come imperatore legittimo, datando col suo nome i documenti ufficiali e le lettere pontificie. Più che a disinformazione, ciò fu probabilmente dovuto all'incertezza su come sarebbe evoluta la situazione in Oriente, dove Artavasdo restava un soggetto politico importante, mentre erano in corso nuove ribellioni militari e il patriarca Anastasio, sebbene sottoposto a pubblica umiliazione, conservava la sua carica. È possibile anche che i messi papali trattassero il riconoscimento di Costantino, chiedendo garanzie per il papato e per il culto delle immagini in Italia. Solo alla fine del 745 i documenti papali figurano nuovamente datati con riferimento all'impero di Costantino V, che nel frattempo aveva eliminato definitivamente Artavasdo facendolo accecare insieme coi figli. La situazione politica si era così definitivamente chiarita, ma si doveva essere raggiunta anche, tra imperatore e papato, un'intesa che venne sanzionata dalla donazione alla Chiesa di Roma di due grandi proprietà fiscali site nella pianura pontina: le cosiddette "masse" di Ninfa e di Norma. È probabile che contemporaneamente l'imperatore accettasse l'accantonamento di fatto dei provvedimenti iconoclastici in Italia, dei quali non si fa più parola durante il pontificato di Zaccaria. La Corte papale fece cadere il silenzio sulla transitoria adesione ad Artavasdo, tanto che il biografo di Z. esplicitamente la nega. D'altra parte la complicata questione evidenzia che Z. riconosceva l'autorità dell'Impero in Italia e intendeva conservare i tradizionali vincoli che legavano ad esso il papato. Di questo lealismo egli aveva dato prova anche durante il periodo dell'usurpazione di Artavasdo, quando, nel 743, Liutprando era tornato ad assalire i territori bizantini in Romagna, conquistando Cesena e predisponendosi ad assediare la stessa Ravenna, sede del governo imperiale. L'esarca Eutichio e l'arcivescovo di Ravenna Giovanni, conoscendo il successo riportato da Z. nella precedente trattativa con Liutprando, gli chiesero di intervenire anche in difesa dell'Esarcato. Z. inviò al re un'ambasceria con ricchi doni, ma senza conseguire risultati. Affidò allora il governo di Roma al duca Stefano, che in questa situazione sembra essere un subordinato del papa, e si recò a Ravenna, da dove inviò una seconda ambasceria a Liutprando, per chiedergli un incontro; ad Imola i suoi messi vennero però a sapere che il re intendeva impedire la venuta del papa, e avvertirono Z., che prese l'audace risoluzione di forzare il re a riceverlo. Lasciata Ravenna, entrò infatti nel Regno longobardo, raggiungendo il Po il 28 di giugno. Liutprando, che aveva appena rifiutato di ricevere i messi del papa, fu costretto ad inviargli incontro i grandi della sua corte, che lo condussero a Pavia, dove il re si trovava. L'incontro si svolse con la massima formalità, tra cerimonie liturgiche e banchetti. Le trattative politiche furono invece molto difficili, ma finalmente Z. riuscì ad ottenere che Liutprando rinunziasse ad assalire Ravenna e restituisse Cesena all'Impero. In quelle vicende il papa estese dunque la sua protezione religiosa e politica alle popolazioni dell'Esarcato e della Pentapoli, difendendo insieme la sovranità dell'Impero bizantino in Italia. La biografia papale commenta la sua iniziativa facendo riferimento alla parabola evangelica del buon pastore che si adopera a salvare le pecorelle smarrite lasciando le altre al sicuro. La metafora delle perditae oves entrò da allora nella strumentazione ideologica con cui i papi della metà dell'VIII secolo giustificarono i loro ripetuti interventi a protezione delle popolazioni delle province bizantine, in sostituzione di un governo imperiale che non riusciva più ad esercitare un'efficace azione diplomatica o militare. La motivazione spirituale copriva peraltro una crescente influenza politica del papato in tutti i territori bizantini. A queste vicende seguì un periodo di relativa tranquillità nei rapporti con i Longobardi. Morto agli inizi del 744 Liutprando, il suo collega e successore Ildeprando venne deposto dopo pochi mesi e il nuovo re Ratchis manifestò un atteggiamento conciliante nei confronti del papato e delle popolazioni delle province bizantine; ricevette i messi che Z. gli aveva subito inviato e rinnovò con loro la pace ventennale probabilmente estendendola a tutti i territori bizantini. Nonostante la condiscendenza di cui Liutprando aveva dato tante volte prova nei confronti di Z., sembra che questi lo detestasse profondamente; secondo il suo biografo avrebbe chiesto a Dio la morte del re, venendo rapidamente esaudito. Attenuatosi il pericolo longobardo, e ristabilita insieme la pace con l'Impero bizantino, sembra che Z. si dedicasse a restaurare ed abbellire le principali chiese romane; una cura che era divenuta parte qualificante del governo dei papi. Restaurò e rinnovò il complesso lateranense ove aveva sede l'amministrazione papale: vi costruì tra l'altro una torre, con porte e cancelli di bronzo e un'immagine del Salvatore all'ingresso, ed una nuova sala per cerimonie, decorata di marmi, mosaici e pitture. Donò parati e vasellame liturgico alle basiliche degli apostoli e a molte altre chiese romane. Sembra che creasse una biblioteca di testi liturgici in S. Pietro, donando codici appartenenti alla sua famiglia. Z. si preoccupò anche dell'approvvigionamento delle istituzioni ecclesiastiche romane, per garantire il quale creò una serie di grandi aziende agricole, chiamate domuscultae, poste nel territorio circostante Roma, per lo più in prossimità delle grandi strade che raggiungevano la città. La peculiarità di queste aziende, che si estendevano per centinaia di ettari, consisteva nelle modalità di gestione. I numerosi patrimoni che la Chiesa romana possedeva fin dall'antichità nel Lazio e in altre regioni italiane, comprese quelle longobarde, erano per lo più affittati, con contratti a lunga scadenza, a persone che coltivavano direttamente; la Chiesa traeva da essi redditi in denaro, senza avere però la disponibilità delle terre né dei prodotti agricoli. Le domuscultae vennero invece gestite direttamente, facendole lavorare da contadini dipendenti, organizzati in forme di semi-schiavitù. I raccolti e il bestiame prodotti nelle aziende erano utilizzati direttamente dalla casa papale, oppure destinati ai consumi di determinati uffici ecclesiastici o di istituzioni dedite all'assistenza dei bisognosi (diaconie, ospedali). Oltre al vettovagliamento diretto, probabilmente divenuto necessario per la difficoltà di importare derrate alimentari da lontano, l'istituto delle domuscultae consentiva il controllo del territorio e della popolazione rurale. Forse per questo esse non furono ben viste dai proprietari fondiari di Roma e del territorio circostante; ciò nonostante l'istituzione venne salvaguardata dalla Chiesa, che riuscì per lungo tempo ad evitarne lo snaturamento. È possibile che anche le "masse" di Ninfa e Norma, donate dall'imperatore Costantino V, fossero sfruttate in gestione diretta. Nell'insieme sembra che Z. mirasse a ricostituire all'interno del Ducato romano quel complesso di patrimoni fondiari riservati che la Chiesa romana aveva perduto con le confische dell'imperatore Leone III circa dieci anni prima. Gli orizzonti politici e pastorali di Z. non furono comunque limitati alle questioni locali e alle relazioni con i Longobardi e con l'Impero bizantino. Fin dall'inizio del pontificato, egli dedicò grande attenzione all'opera di diffusione e organizzazione della Chiesa in Germania e nel Regno franco condotta dall'evangelizzatore anglosassone Bonifacio, che Gregorio II aveva già costituito "vescovo della Germania". Bonifacio si tenne continuamente in contatto con Z., informandolo sui progressi della sua attività e sollecitando istruzioni in materia di diritto ecclesiastico, di costume e di liturgia. Z. fornì le istruzioni richieste; inviò la conferma papale ai nuovi vescovi creati in Germania da Bonifacio; su richiesta di questi trasmise il pallio anche agli arcivescovi di fresca istituzione di Sens, di Reims e di Rouen. Nel 745 celebrò a Roma un sinodo nel quale si condannarono i sacerdoti Adelberto e Clemente, che in Germania predicavano dottrine lesive dell'autorità ecclesiastica ed erano stati perciò incarcerati da Bonifacio. Probabilmente per il tramite di Bonifacio Z. entrò in rapporto con i maestri di palazzo Pipino (III) e Carlomanno, figli di Carlo Martello, che esercitavano l'autorità regia nel Regno franco, in nome e in vece dei decaduti re dell'antica dinastia merovingia. Per motivi politici non meno che religiosi, i due principi favorivano sia l'azione missionaria di Bonifacio in Germania, sia l'opera di riforma ecclesiastica nel Regno franco; in particolare essi promossero sinodi in cui lo stesso Bonifacio avviò la riforma dei costumi e dell'educazione del clero franco, che versava in condizioni deplorevoli. Z. scambiò messaggi con i due maestri di palazzo, dando suggerimenti e direttive in materia di disciplina ecclesiastica e di morale. Quando, nel 747, Carlomanno rinunciò al potere per abbracciare la vita monastica, Z. lo accolse a Roma, e lo insediò nel monastero di S. Andrea al Monte Soratte, di cui gli fece dono. Nel 749 Pipino, rimasto unico capo politico dei Franchi, inviò dal papa il vescovo Burcardo di Würzburg ed il cappellano Fulrado per sollecitare un responso su un quesito di natura politica ed etica: era bene o male che vi fossero in Francia re privi del potere effettivo? Z., offrendo un'ulteriore prova di spregiudicatezza intellettuale e politica, diede una risposta destinata ad avere grandi conseguenze nella storia dell'Europa e del papato: era meglio che avesse nome di re chi esercitava realmente il potere, anziché chi ne era privo, "perché non fosse turbato l'ordine". Il responso papale fornì la legittimazione morale e religiosa al colpo di Stato con cui, nel novembre del 751, Pipino si fece proclamare re dei Franchi, deponendo l'ultimo sovrano di stirpe merovingia, Childerico. Dopo l'elezione, l'arcivescovo Bonifacio unse Pipino col crisma benedetto per conferirgli una consacrazione religiosa sostitutiva della sacralità pagana del sangue merovingio. La Chiesa legittimava così il cambiamento di dinastia e offriva sostegno al nuovo re; non è però attestato un ruolo diretto di Z. in tali vicende. Alcuni anni più tardi, peraltro, papa Stefano II rinnovò l'unzione di Pipino estendendola anche ai figli che dovevano succedergli nel regno. Al tempo dell'elevazione regia di Pipino, Z. era nuovamente alle prese con il problema longobardo in Italia. Nel 749 il re Ratchis, per ragioni che sfuggono, aveva rotto la tregua con l'Impero, assalendo la città di Perugia ed altri centri della Pentapoli. Z. riprese subito il ruolo di protettore dei territori imperiali; recatosi coraggiosamente a Perugia, accompagnato da esponenti del clero romano, pose nuovamente in atto quelle sperimentate tecniche di persuasione alle quali sembra che i re longobardi non sapessero resistere. Infatti riuscì ancora una volta ad ottenere che il re togliesse l'assedio alla città. Pochi giorni più tardi, anzi, Ratchis rinunciò al Regno e recatosi a Roma prese dalle mani del papa l'abito monastico, ritirandosi a Montecassino (così come Carlomanno si era ritirato a S. Andrea al Monte Soratte), mentre anche la moglie e la figlia entravano in monastero. In entrambe le iniziative di Ratchis dovettero influire problemi interni del Regno longobardo, dove i fautori della lotta contro l'Impero bizantino dovevano essere forti. Subito dopo la sua abdicazione, venne infatti eletto re suo fratello Astolfo, che riprese la politica aggressiva contro i territori bizantini e contro i Ducati di Spoleto e Benevento. Agli inizi del 751 Astolfo conquistò Ravenna, apparentemente senza incontrare resistenza, e si proclamò re degli abitanti ponendo fine alla sovranità bizantina nell'Italia centrale. Non si ha notizia delle reazioni di Z. a questi drammatici eventi; egli morì pochi mesi più tardi, il 15 marzo (giorno in cui ne viene festeggiata la memoria) del 752. Fu sepolto in S. Pietro "in porticu pontificum". Fonti e Bibl.: Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1955², pp. 426-39; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di Ph. Jaffé-G. Wattenbach-S. Loewenfeld-F. Kaltenbrunner-P. Ewald, I, Lipsiae 1885, pp. 262-70; le lettere sono edite in Codex Carolinus, nr. 3, a cura di W. Gundlach, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach-E. Dümmler, 1892, pp. 479-87; S. Bonifatii et Lulli epistolae, nrr. 50-3, 57-61, 68, 77, 80, 82, 83, 86-9, a cura di E. Dümmler, ibid., pp. 298-375. La lettera al patriarca Anastasio, attribuita a Gregorio II, è conservata negli atti del secondo concilio di Nicea (787), editi in I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XIII, Venetiis 1767, coll. 91-9; Annales regni Francorum, aa. 746, 749, 750, a cura di R. Rau, in Quellen zur Karolingischen Reichsgeschichte, I, Berlin 1955, pp. 12-4; Benedetto di S. Andrea del Soratte, Chronicon, a cura di G. Zucchetti, Roma 1920, p. 70. I sinodi romani celebrati da Z. nel 743-745 sono editi a cura di A. Werminghoff in M.G.H., Leges, Legum sectio III: Concilia, II, 1, 1906, pp. 8-44. E. Caspar, Geschichte des Papsttums, II, Tübingen 1933, pp. 707-23; O. 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