Zosimo, santo
Successe a papa Innocenzo I. Il Liber pontificalis attesta che Z. era di origine greca e figlio di un certo Abramo, il che fa supporre che fosse di discendenza ebraica. Fu consacrato, sembra, la domenica 18 marzo del 417. Il suo fu un pontificato molto tormentato, contrassegnato da interventi autoritari e spesso maldestri nei confronti delle Chiese delle Gallie e dell'Africa, determinati, oltre che dal suo carattere impulsivo, forse anche, date le sue origini, da una scarsa conoscenza della Chiesa occidentale.
Appena quattro giorni dopo la sua consacrazione, il 22 marzo egli intervenne in una controversia sorta nelle Gallie tra Patroclo, vescovo di Arles, e Proculo, vescovo di Marsiglia, a proposito della giurisdizione di due parrocchie, Citarista e Gargario, comprese nel territorio del vescovo di Arles e contese tra i due vescovi. Z. intervenne con una lettera datata appunto 22 marzo e indirizzata a tutti i vescovi delle Gallie e delle sette provincie (per l'individuazione di queste Chiese destinatarie cfr. É. Griffe, II, pp. 113-17), in cui prendeva la parte di Patroclo e gli accordava poteri da metropolita stabilendo alcuni principi: decretava che nessun membro del clero di quelle regioni potesse recarsi a Roma o altrove senza lettere di presentazione ("formatae") di Patroclo e dei suoi successori nella sede di Arles pena l'esclusione dalla comunione con il papa; che i vescovi della provincia di Vienne e delle due provincie Narbonensi (la I e la II) fossero ordinati dal metropolita di Arles, e ammoniva infine a non toccare le parrocchie della Chiesa di Arles (ep. 1, coll. 642-45; Collectio Arelatensis 1; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 328). Z. motivava tali privilegi concessi a Patroclo con la constatazione di suoi particolari meriti (ep. 1, 1, 1) e con il richiamo ad una antica tradizione - invero di dubbia storicità - che faceva risalire la fede di tutte le Gallie al "summus antistes" Trofimo, menzionato in 2 Timoteo 4, 20, che da Roma si sarebbe per la prima volta recato ad Arles (ep. 1, 3). Z. stabiliva infine che qualsiasi problema fosse emerso in quelle Chiese doveva essere deferito a Patroclo, a meno che questi non ritenesse necessario l'interessamento del papa. Il favore di Z. nei confronti di Patroclo, legato al patrizio Costanzo cognato dell'imperatore Onorio, è stato spiegato con le relazioni speciali che il papa aveva con lui, giacché Patroclo era presente a Roma al momento della sua consacrazione e forse si era adoperato affinché ciò avvenisse. Dal punto di vista della politica imperiale, inoltre, c'è da tener presente il fatto che Patroclo era stato sostenuto come vescovo di Arles da Costanzo il quale favoriva la posizione di privilegio assegnata ad Arles, intendendo legare la città alla corte di Ravenna onde contrastare l'opera dell'usurpatore Costantino III, che si era stabilito appunto ad Arles. Ma si è anche rilevato che il legame tra Roma ed Arles risaliva nelle sue origini a tempi lontani: fin dall'epoca di Cipriano era il vescovo di Roma ad insediare o deporre il vescovo di Arles; inoltre, Z. con la sua presa di posizione intendeva probabilmente contrastare le possibili aspirazioni nel sud della Gallia della sede di Milano, tanto più che intanto l'influenza politica di Arles si era assai accresciuta essendo divenuta sede del prefetto del pretorio della Gallia in luogo di Treviri. Z. il 22 settembre scrisse anche una lettera circolare ad Aurelio di Cartagine e a tutti i vescovi dell'Africa, delle Gallie e della Spagna, per ammonirli a non accogliere nella comunione della Chiesa, in qualsiasi grado ecclesiastico, Urso e Tuenzio priscillianista, consacrati vescovi da Proculo di Marsiglia - forse per le due parrocchie di Citarista e Gargario - ancora a scapito dei diritti di Patroclo di Arles (ep. 4, coll. 661-65; Collectio Arelatensis 2; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 331). Nella lettera si faceva menzione anche di Lazzaro di Aix, che fu uno dei principali accusatori di Pelagio e che calunniò Brixio di Tours al concilio di Torino (concilio di controversa datazione, che oscilla fra il 398-399 e il 417: cfr. Ch. Pietri, pp. 973-75, ma anche recentemente M.E. Kulikowski, pp. 159-68).
L'iniziativa di Z. provocò forte opposizione tra i vescovi della Gallia. Quelli di Narbona e Marsiglia vedevano lesi i loro diritti, acquisiti nel sinodo di Torino (cfr. Concilia Galliae, 314-506, pp. 54-8). Ilario, vescovo di Narbona (nella provincia Narbonense I) protestò e Z. gli rispose il 26 settembre (ep. 6, coll. 666-68; Collectio Arelatensis 3; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 332) vietandogli di ordinare i vescovi della sua provincia, diritto che dichiarava concesso al vescovo di Arles con un'antica decisione. Motivava poi il suo decreto non solo con la consuetudine, ma anche con il richiamo alla "reverentia" nei confronti di s. Trofimo e con la sua chiarissima e recente definizione in materia (ep. 6, 2), minacciando sia l'invalidità delle ordinazioni eventualmente compiute da Ilario sia la separazione di Ilario stesso dalla comunione con la Chiesa universale. Tale disposizione sarà poi revocata dal suo successore Bonifacio (ep. 12). Il papa il 26 o 29 settembre scrisse anche a Patroclo di Arles per confermargli la dignità di metropolita e la condanna di Proculo; in quella epistola trattava pure delle lettere di presentazione che Patroclo aveva l'incarico di redigere per chiunque dalle Gallie avesse voluto recarsi a Roma e, infine, sanciva l'esigenza, per gli aspiranti al sacerdozio, di percorrere gradualmente tutti i passaggi degli ordini clericali sulla base di 1 Timoteo 3, 6 e del canone 2 di Nicea (ep. 7, coll. 668-69; Collectio Arelatensis 4; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 333; cfr. Nicaeni concilii Praefationes, p. 114).
Il 29 settembre Z. inviò un'epistola ai vescovi della provincia di Vienne e della Narbonense II per ribadire che era esclusivo compito del metropolita di Arles consacrare i vescovi sia delle due province Narbonensi sia di quella di Vienne, e non di Proculo di Marsiglia né di Simplicio di Vienne. Nella lettera il papa sottolineava come fossero infondate le proteste di Proculo che, nel sinodo di Torino, aveva rivendicato per il vescovo di Marsiglia la potestà di metropolita sulla Narbonense II e aveva coinvolto Simplicio per reclamare tale potestà anche alla provincia di Vienne. Torna in questa lettera il richiamo alle "istituzioni dei Padri" e alla "reverentia" verso s. Trofimo, di cui Z. afferma la provenienza da Roma come primo metropolita di Arles con autorità sulle province Narbonensi e Viennense. Altra affermazione importante presente nell'epistola riguarda la Sede romana: presso la quale "con salde radici vive l'antichità nei confronti della quale i decreti dei Padri hanno prescritto riverenza" (ep. 5, coll. 665-66; Collectio Arelatensis 5; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 334).
Dalle epistole 10 e 11 del marzo del 418 si ricava che Proculo non si sottomise e continuò a compiere ordinazioni, e quindi Z., considerandolo decaduto dalla sua dignità episcopale, ordinò al clero e al popolo di Marsiglia di accogliere un nuovo vescovo seguendo le indicazioni di Patroclo di Arles (epp. 10-11, coll. 673-75; Collectio Arelatensis 6-7; Regesta Pontificum Romanorum, nrr. 340-41). Connessa con la problematica sorta nelle Gallie è anche un'epistola (cfr. P.L., Supplementum, coll. 796-97; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 337), indirizzata a Remigio, vescovo di una sede non facilmente identificabile, al quale Z. riconobbe alcuni diritti contro le usurpazioni di Proculo e di altri vescovi.
Dall'epistolario di Z. emerge anche un rapporto con l'Illirico occidentale e in particolare con la Dalmazia. L'epistola 9, datata 21 febbraio (o aprile: cfr. Ch. Pietri, p. 1102) del 418 (ep. 9, coll. 669-75; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 339), è una risposta a Esichio, vescovo di Salona, che aveva voluto consultare il papa in relazione alle ordinazioni ecclesiastiche di fronte al verificarsi di una situazione che vedeva accedere direttamente all'episcopato monaci e laici senza passare attraverso gli ordini inferiori. Lodando la sua iniziativa e facendo sempre appello ai "precetti dei Padri" e all'"autorità della Sede apostolica", Z. prescriveva che monaci e laici percorressero, se aspiravano al sacerdozio, tutti i gradi dell'ordine clericale prima di poter raggiungere l'episcopato (ep. 9, 1, 2). Egli chiedeva ad Esichio di diffondere la sua lettera, che si presentava come una vera e propria "decretale", e minacciava punizioni per chi osasse trascurare l'autorità "dei Padri e della Sede apostolica" (ep. 9, 2, 4); infine stabiliva anche l'età di accesso e il periodo di permanenza in ciascun grado ecclesiastico, e proibiva la moltiplicazione delle sedi episcopali. Z. non costituì comunque alcun vicariato papale per la Dalmazia come invece aveva fatto il suo predecessore per l'Illirico orientale.
L'intervento di maggiore rilevanza storica e di più considerevole impegno per Z. fu quello concernente la questione pelagiana e quindi il rapporto con Agostino e gli altri vescovi africani. Papa Innocenzo I sembrava aver risolto la questione, ma Pelagio e Celestio avevano reagito alla condanna rivolgendosi a Roma ove giunse la lettera che Pelagio aveva scritto a Innocenzo, contenente la sua professione di fede (P.L., XLV, coll. 1716-18), arrivata a destinazione dopo la morte del papa (cfr. Agostino, De gratia Christi I, 30, 32). Espulso nel 417 da Costantinopoli, a Roma arrivò Celestio (cfr. Mario Mercatore, Commonitorium 1, 2-4, p. 66, rr. 29-30), per presentare a Z. una professione di fede e chiedere la revisione della condanna. Il papa lo ricevette e l'incontro si svolse solennemente nella basilica di S. Clemente - che Z. sottolinea essere stato discepolo di Pietro (cfr. ep. 2, 2, col. 650) - ove la questione fu esaminata alla presenza di vescovi italiani, presbiteri e chierici romani: venne letto lo scritto di difesa di Celestio (il Libellus fidei), che fu minuziosamente interrogato e, pur rifiutando di ritrattare quanto aveva professato nel concilio di Cartagine del 411 in risposta alle accuse del diacono Paolino di Milano, si dichiarava in accordo con le proposizioni espresse da Innocenzo nelle sue lettere (cfr. Agostino, De gratia Christi II, 5, 5-7, 8). Tutto questo si ricava dall'epistola che Z. inviò subito dopo, forse alla fine dell'estate del 417, ad Aurelio e a tutti gli altri vescovi africani (ep. 2, coll. 649-54; Collectio Avellana 45; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 329) in cui comunicava loro che si erano dimostrate insufficienti a condannare Celestio le accuse portate contro di lui da Eros di Arles e da Lazzaro di Aix, per di più esposte per via epistolare, e non alla presenza dell'accusato che avrebbe potuto difendersi, e provenienti da persone che erano state deposte perché indegne del loro ministero. I due vescovi della Gallia, infatti, che erano stati esiliati dall'imperatore Onorio forse perché favorevoli all'usurpatore Costantino III, non si erano presentati al concilio di Diospoli in qualità di accusatori a causa della malattia di uno di loro (cfr. Agostino, De gestis Pelagii 1, 2; 35, 62). Z. mostrava di voler essere molto prudente nel giudicare, richiamandosi ai giudizi biblici di Daniele a proposito di Susanna (cfr. Daniele 13, 46) e di Salomone (cfr. 1 Re 3, 23). Dichiarava quindi di non voler decidere nulla in modo precipitoso (cfr. ep. 2, 6) e di aver voluto far conoscere agli africani l'esito della sua indagine concedendo agli accusatori due mesi per venire a Roma a contestare personalmente a Celestio l'effettiva discordanza del suo pensiero rispetto a quello da lui pubblicamente professato. Concludeva il richiamo all'autorità della Sede apostolica (cfr. ep. 2, 8).
Nel frattempo erano giunti a Roma gli scritti di Pelagio a Innocenzo, insieme ad una lettera del vescovo Praulio, succeduto a Giovanni nella sede di Gerusalemme, in difesa di Pelagio. In una succesiva epistola inviata ad Aurelio di Cartagine e agli altri vescovi africani il 21 settembre (ep. 3, coll. 654-61; Collectio Avellana 46; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 330) Z. rendeva loro noto che tali documenti erano stati letti pubblicamente e si era potuta constatare con grande gioia e commozione la concordanza di Pelagio e Celestio con l'ortodossia. Aveva colpito favorevolmente il continuo richiamo di Pelagio alla condanna di varie posizioni eretiche in campo trinitario e cristologico. Il papa sottolineava con insistenza la falsità delle accuse portate da Lazzaro di Aix e da Eros di Arles, di cui metteva in evidenza i trascorsi negativi, e soprattutto del primo la consuetudine alla calunnia emersa già nei confronti del vescovo Brixio di Tours (cfr. ep. 4, 2) e la solidarietà con Proculo di Marsiglia realizzatasi nel sinodo di Torino, oltre che la collusione con l'usurpatore imperiale Costantino III, e del secondo la tendenza alla sedizione, motivo per cui era stato espulso dalla città (ed era stato sostituito da Z. con Patroclo). Inoltre rilevava che, mentre Pelagio e Celestio si erano presentati alla Sede apostolica con le loro lettere e professioni di fede, ciò non era stato fatto da Eros e Lazzaro (cfr. ep. 3, 3). Il papa invitava quindi gli africani a non prestare ascolto a qualsiasi voce (cfr. ep. 3, 4) e ricordava i falsi testimoni insorti contro il Cristo, come pure tutti gli inviti presenti nelle Scritture a non accusare qualcuno senza averlo sottoposto a giudizio e a non procedere contro degli assenti appoggiandosi su altri assenti (cfr. ep. 3, 5). Per affermare la prudenza nel giudicare richiamava anche la legislazione vigente per dirimere le controversie di carattere secolare. Infine ribadiva la gravità dell'atteggiamento dei vescovi africani nell'aver seguito pedissequamente le lettere di Lazzaro ed Eros, ma rilevava anche l'ingenuità dei due accusatori nell'aver creduto che gli africani non si sarebbero rivolti alla Sede apostolica: così facendo accompagnava il biasimo ai vescovi d'Africa con una espressione di fiducia in un loro comportamento che giudicava corretto. Concludeva infine immaginando la gioia di tutta l'Africa nel riconoscere che Pelagio e Celestio, considerati colpevoli da falsi giudici, non si erano in realtà mai allontanati dalla Chiesa e dalla "verità cattolica" (ep. 3, 8) e dicendo di aver inviato ai suoi destinatari copie delle lettere che Pelagio aveva scritto: dunque l'appello di Celestio era accolto e gli scritti di Pelagio proposti per un ulteriore esame.
Ch. Pietri (pp. 1222-26) rileva come la posizione di Z. sembra sia stata motivata, più che da considerazioni teologiche, da sollecitazioni di politica religiosa perché il ruolo svolto nell'accusa contro i pelagiani da Eros e Lazzaro, ostili a Patroclo di Arles, ha avuto un forte peso nella sua valutazione della controversia: il papa era cioè soprattutto preoccupato di stabilire l'autorità della Sede romana e l'appello di Celestio e il ricorso di Pelagio gliene avevano offerto un'ottima occasione.
Le lettere di Z. provocarono una immediata reazione del diacono Paolino di Milano: in un "libellus" contro Celestio, inviato l'8 novembre al papa, egli richiamava la condanna di Pelagio e Celestio emanata dal suo predecessore Innocenzo nel caso avessero perseverato nella loro dottrina, e riportava il discorso sulle conseguenze del peccato di Adamo e sul battesimo rifacendosi a Cipriano, Ambrogio, Gregorio Nazianzeno e a Innocenzo stesso; infine si rifiutava di ottemperare alla richiesta, fattagli a voce il 2 novembre dal suddiacono Basilisco, latore della lettera papale, di recarsi a Roma per condurre personalmente l'accusa contro i pelagiani, giacché questo avrebbe significato sottoporsi a un giudizio e a una sentenza che si prospettava a lui avversa (Collectio Avellana 47; cfr. ep. 8 dell'epistolario di Z., col. 669).
Anche Aurelio entrò in azione: si riunì con gli altri vescovi africani e insieme pubblicarono un documento ufficiale ("obtestatio") facendo sapere al papa che essi continuavano ad attenersi alle decisioni di Innocenzo, dal momento che non ritenevano sufficienti le giustificazioni di Celestio e Pelagio, e contestando anche la procedura seguita da Z. nel condurre tutta la questione. Z. rispose solo il 21 marzo del 418 con un'epistola di tutt'altro tono (ep. 12, coll. 675-78; Collectio Avellana 50; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 342): dopo aver solennemente sottolineato l'autorità della Sede apostolica, basata sulla promessa fatta da Cristo a Pietro (cfr. Matteo 16, 19) e ai suoi successori che detengono la "cura di tutte le Chiese" così che "la Chiesa di Roma è basata tanto sulle leggi umane quanto su quelle divine" (ep. 12, 1), Z. dichiarava che, ricevuta la lettera dei vescovi africani, si era accorto che essi avevano inteso il suo scritto come se egli avesse voluto dare il proprio assenso a Celestio e raccomandarne la fede in tutti i suoi aspetti senza una accurata discussione, cosa che sarebbe stata atto temerario. Di conseguenza, pur non ritenendo accettabile che qualcuno potesse discutere una sentenza papale data appunto la sua autorità, egli, in nome della "fraternitas" e del desiderio di decidere in comunione con i vescovi africani, stabiliva che la questione rimanesse allo stato in cui si trovava, senza però chiarire se intendesse riferirsi alla situazione del tempo del suo predecessore Innocenzo o alla posizione da lui stesso espressa fino a quel momento.
Tale lettera giunse a Cartagine il 29 aprile e immediatamente dopo, il 1° maggio, si aprì il concilio plenario dell'Africa, con la presenza di duecentoquattordici vescovi. In esso venne accolta la teologia agostiniana sui temi controversi e si deliberò che su Pelagio e Celestio si conservasse il giudizio espresso da Innocenzo, a meno che non ritrattassero esplicitamente i loro errori (cfr. la lettera sinodale che accompagnava i canoni, citata da Prospero di Aquitania, Contra Collatorem 5, col. 227: cfr. Collectio Quesnelliana 13, coll. 486-90; Concilia Africae a. 345-a. 525, pp. 69-73). Tra l'altro, un canone proibiva ai chierici africa- ni di appellarsi a Roma (Registri ecclesiae Carthaginensis excerpta, canone 125, a cura di Ch. Munier, Turnholti 1974 [Corpus Christianorum, Series Latina, 149], p. 227). Ma nel frattempo i vescovi africani si erano anche rivolti alla corte di Ravenna e il 30 aprile, il giorno precedente l'apertura del concilio, l'imperatore Onorio aveva inviato un rescritto al prefetto del pretorio per l'Italia, Palladio, in cui, accennando appena al problema dottrinale, fondandosi sull'accordo dell'episcopato cattolico e trascurando totalmente la posizione della Chiesa romana, ordinava l'espulsione da Roma di Pelagio e Celestio, in quanto eretici e sediziosi (ma in realtà Pelagio si trovava in Oriente e forse anche Celestio aveva già lasciato Roma), come pure la denuncia e l'esilio dei loro seguaci (cfr. Collectio Quesnelliana 14, in P.L., LVI, coll. 490-94 e ibid., XLVIII, coll. 379-86).
Z. si trovò messo alle strette. Non si sapeva ancora se la sua lettera del 21 marzo fosse giunta in Africa, dal momento che non era pervenuta alcuna risposta, e l'imperatore emanava un provvedimento che rispecchiava il pensiero dell'episcopato africano anziché quello papale. Secondo Mario Mercatore il papa si premurò allora di riunire un sinodo a Roma al quale convocò Celestio ("audientia plenior") e, essendosi questi rifiutato di comparire, lo condannò (M. Mercatore, Commonitorium 1, 5, p. 66, rr. 37-43; cfr. anche Agostino, Contra duas epistolas Pelagianorum II, 3, 5). Ch. Pietri (pp. 1236-37) ritiene però più probabile che Z. non abbia perso tempo a convocare una assemblea ma abbia preso spunto dall'assenza di Celestio per condannarlo come contumace. Infine nella primavera o estate il papa emanò una lettera circolare, definita Tractoria, in cui condannava Pelagio e Celestio, e la inviò a Costantinopoli e a tutte le Chiese cristiane perché fosse firmata. La denominazione dello scritto è presente in Mario Mercatore (Commonitorium 3, 1, p. 68, rr. 20-23), il quale parla pure di lettere inviate alle Chiese orientali, e in particolare alle diocesi d'Egitto, di Costantinopoli, di Tessalonica e di Gerusalemme (1, 5, p. 67, rr. 2-4). Agostino (ep. 190, 6, 22) menziona anche lettere inviate da Z. all'episcopato africano. Della Tractoria (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 343; Clavis Patrum Latinorum, nr. 1645) si conservano solo frammenti (P.L., XX, coll. 693-95: frammento tratto da Agostino, ep. 190, 6, 23; frammento tratto da Prospero di Aquitania, Auctoritates 5 [8], col. 207, e Contra Collatorem 5, col. 228; cfr. anche Celestino I, ep. 21, 8, 9, col. 530 ed ep. 21, 9, 10, col. 534; sulla Tractoria cfr. O. Wermelinger, Rom und Pelagius, pp. 209-18). Il frammento riportato da Agostino tratta del battesimo come di una liberazione dal peccato e di una rinascita spirituale, parla della morte procurata da Adamo a tutti gli uomini e trasmessa a ogni anima, e del documento d'accusa contratto dai discendenti d'Adamo, che viene distrutto dalla morte di Cristo, giacché non esiste assolutamente nessun uomo che non ne sia assoggettato fino a che non venga liberato mediante il battesimo. La terminologia usata è paolina e la finalità è quella di mostrare l'assoluta necessità del battesimo per tutti gli uomini. Nel frammento riportato da Prospero c'è da rilevare invece un'altra espressione, non di carattere dottrinale, con cui Z. voleva evidenziare l'autonomia della sua decisione: egli affermava di aver agito "per ispirazione divina" ("instinctu Dei"), pur allargando il discorso alla necessità per tutti dell'aiuto divino. Così Z. accoglieva la teologia degli africani, anche se non entrava nelle specifiche questioni antropologiche né usava, per quanto è dato cogliere dallo stato frammentario del documento, il termine "peccatum originale".
Immediatamente dopo la complessa vicenda suscitata dalla controversia pelagiana Z. affidò ad alcuni vescovi della Numidia, tra cui Agostino, una missione a Cesarea di Mauritania, di cui si ignorano la motivazione e lo scopo (Regesta Pontificum Romanorum, nr. 344; cfr. Agostino, ep. 190, 1; Possidio, Vita 14), forse per ricostituire un buon rapporto con l'Africa.
Ma Z. ebbe a scontrarsi ancora con la Chiesa africana. L'epistola 16 (coll. 682-86; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 346), datata 16 novembre del 418, è un monito ai vescovi della Bizacena perché, noncuranti dell'onore dovuto al ministero episcopale e a discapito della regola ecclesiastica, avevano consentito che un membro dell'episcopato fosse giudicato da funzionari laici in un'assemblea che avevano definito concilio.
Più grave e autoritativo fu l'intervento del papa nella vicenda del prete africano Apiario. Questi nei primi mesi del 418 era stato deposto dal suo vescovo Urbano di Sicca Veneria e si era appellato alla Sede apostolica, in opposizione alla prassi canonica delle Chiese d'Africa che vietava il ricorso ai vescovi d'Oltremare. Il papa accolse l'appello di Apiario e inoltre inviò in Africa tre suoi legati, il vescovo Faustino di Potenza nel Piceno e i presbiteri romani Filippo e Asello, con l'incarico di riferire davanti a un concilio di Cartagine le richieste del papa: trattare la questione degli appelli dei vescovi alla Sede romana, stigmatizzare l'abitudine troppo frequente dei viaggi episcopali alla corte imperiale, consentire ai presbiteri e ai diaconi condannati dal proprio vescovo di interpellare i vescovi confinanti, e infine prospettare la scomunica oppure la convocazione a Roma di Urbano. I legati avevano ricevuto dal papa un documento ("commonitorium"; nell'ep. 15 sono contenuti dei frammenti: coll. 680-82; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 347; cfr. però Bonifacio, ep. 2, 3, coll. 753-54; Concilia Africae a. 345-a. 525, pp. 90-1 e 158, rr. 42-51), da cui risulta che Z. fondava le sue dichiarazioni su canoni che egli attribuiva al concilio di Nicea mentre in realtà erano stati promulgati dal concilio di Serdica e quindi non erano contenuti nella copia delle definizioni di Nicea posseduta in Africa (cfr. Concilium Serdicense, pp. 460, r. 1 e 462, r. 27). Di questo però si accorsero i vescovi africani che opposero le loro rimostranze e si dichiararono disposti ad accettare quelle disposizioni solo in via provvisoria, nell'attesa di accertare che quei canoni fossero effettivamente compresi tra quelli emanati a Nicea e di risolvere la questione in un ulteriore concilio, che si svolse l'anno successivo, dopo la morte del papa. La lettera a Z. in cui esplicitavano le suddette decisioni non è giunta ma il suo contenuto è esposto in una successiva epistola che Aurelio e i vescovi africani inviarono il 26 maggio del 419 al successore di Z., papa Bonifacio, per comunicargli le risoluzioni prese dal concilio africano che si svolse il 25 maggio del 419 (cfr. Bonifacio, ep. 2, coll. 752-56; Concilia Africae a. 345-a. 525, pp. 156-61).
Una lettera di Z., infine, lascia trasparire l'esistenza di una opposizione nei suoi confronti nella stessa città di Roma. Negli ultimi mesi del suo pontificato alcuni chierici romani andarono a lamentarsi di lui presso la corte di Ravenna: il papa allora scrisse il 3 ottobre, dopo aver ricevuto una relazione sugli avvenimenti dal presbitero Archidamo, ai presbiteri e ai diaconi che aveva precedentemente inviato a Ravenna, avvisandoli di aver escluso dalla comunione con la Sede apostolica i dissidenti e dichiarando di voler prendere provvedimenti nei confronti di quanti li avessero seguiti nella sedizione, una volta che i suoi legati fossero rientrati a Roma (cfr. ep. 14, coll. 678-80; Regesta Pontificum Romanorum, nr. 345).
Altre notizie circa alcune disposizioni pastorali di Z. sono fornite dal Liber pontificalis: nella sua prima redazione si fa riferimento a un decreto secondo cui Z. avrebbe esteso ai diaconi delle "parrocchie" (cioè delle piccole comunità suburbicarie alla periferia della giurisdizione episcopale) l'uso dei "pallia linostima", segno liturgico che da papa Silvestro era stato concesso ai diaconi della città di Roma, e nella seconda redazione questa concessione è collegata con la cerimonia della benedizione del cero pasquale, ma la notizia suscita non pochi problemi (cfr. Le Liber pontificalis, pp. 223-24). Inoltre, sempre secondo la medesima fonte, Z. avrebbe vietato ai chierici di entrare nelle taverne, divieto già presente, come è notato dal Duchesne (ibid., p. 226), tra i canoni del concilio di Laodicea e di quello di Cartagine del 397.
Z. morì il 26 dicembre del 418 e fu sepolto "iuxta corpus beati Laurentii martyris", nel cimitero ipogeo di Ciriaca sulla via Tiburtina (Le Liber pontificalis, p. 225). Non vi è notizia di un culto antico nei confronti di Z., dal momento che il suo nome non figura nel Martyrologium Hieronymianum del V secolo e compare solo nel Martyrologium di Adone del IX secolo (al 26 dicembre), da dove è passato nel Martyrologium Romanum.
fonti e bibliografia
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Collectio Avellana, Epistulae 45-7, 50, a cura di O. Guenther, Pragae-Vindobonae-Lipsiae 1898 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 35, 1), pp. 99-111, 115-17.
Collectio Arelatensis, Epistulae 1-7, a cura di W. Gundlach, in Epistolae Merowingici et Karolini aevi tom. I, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach-E. Dümmler, 1892, pp. 5-13, e in Concilia Galliae, 314-506, a cura di Ch. Munier, Turnholti 1963 (Corpus Christianorum, Series Latina, 148), pp. 54-8, 111-30.
Collectio Quesnelliana, Epistulae 13, 14, in P.L., LVI, coll. 486-94 e XLVIII, coll. 379-86.
Pelagio, Libellus fidei, ibid., XLV, coll. 1716-18.
Agostino, Epistula 190, a cura di A. Goldbacher, Vindobonae-Lipsiae 1911 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 57), pp. 137-62.
Id., De gestis Pelagii, a cura di C.F. Urba-J. Zycha, Pragae- Vindobonae-Lipsiae 1902 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 42), pp. 51-122.
Id., De gratia Christi et de peccato originali, a cura di C.F. Urba-J. Zycha, ivi 1902 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, 42), pp. 125-206.
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