Sardegna (Sardigna)
La notevole presenza della S. nella Commedia si spiega con l'importanza dell'isola nelle vicende della storia italiana, particolarmente in rapporto a Pisa e a Genova, dagl'inizi del sec. XI al XIV. L'alleanza delle due repubbliche fu originata dalla politica di conquiste iniziata da Mugahid che, in breve tempo, aveva portato i Musulmani al possesso delle Baleari e della S., e di qui alle incursioni sul litorale italiano culminate nella distruzione di Luni. Unite dal comune pericolo, Genova e Pisa sconfissero Mugahid e iniziarono, al tempo stesso, la penetrazione, prima economica e poi politica, nella S., allora divisa nei giudicati autonomi di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura, con prevalenza di Genova su quelli settentrionali e di Pisa su quelli meridionali. In seguito alla vittoria su Mugahid, divenuta motivo di una sia pur modesta epopea con i versi del Carmen de Victoria Pisanorum, con la prosa della Cronica Varia Pisana, gli Annali di Bernardo Marangone e le annotazioni di Lorenzo Veronese, la S. acquista un suo posto nel mondo della letteratura. Questi e altri precedenti (a esempio, il Liber Maiolichinus) spiegano la presenza dell'isola nella letteratura medievale.
D. ebbe più di una possibilità di notizie di prima mano sulla S., e in particolar modo sulla Gallura, dai Visconti, dai Malaspina e forse da Marzucco Scornigiani; infatti dal sec. XII il giudicato era sotto l'influenza incontrastata di Pisa, e, dai primi del XIII, retaggio personale della famiglia Visconti.
È del tutto improbabile invece una presenza dantesca in S., esclusa recisamente dal Bassermann, ritenuta però possibile dal Casini il quale, dopo aver sostenuto che " nel XIII sec. ai Genovesi e ai Pisani, ai Lombardi e ai Toscani il viaggio di Sardegna doveva essere più familiare che oggi generalmente non sia per noi italiani del continente ", scendendo in polemica col Bassermann, avanza l'ipotesi (pur rimanendo nel dubbio) che D. abbia visitato l'isola dalla quale avrebbe derivato l'idea dell'isola del Purgatorio a somiglianza di quella di Tavolara, nelle acque del golfo di Olbia. È comunque acquisita la nozione geografica che D. ebbe della S. dall'esatto rilevamento dell'isola (l'isola d'i Sardi, If XXVI 104) nella presumibile rotta a ponente di Ulisse diretto alle Colonne d'Ercole. Sulla scorta di D. è anche possibile avere un'idea di quelle che erano le nozioni sulla S. nei secc. XII-XIV.
La realtà di una terra malarica, la stessa che da Orazio a Marziale rimbalza sino all'Africa del Petrarca, appare in una dolorosa visione estiva di ospedali (If XXIX 48).
La notazione a proposito dell'impudicizia delle donne di Barbagia (Pg XXIII 94) che ha portato i chiosatori di D. ad affermazioni favolose, deriva da informazioni di terza o quarta mano o, meglio ancora, da una tradizione colta. La Barbagia ha sempre costituito, com'è attestato dalla storiografia classica, una zona inaccessibile ai conquistatori. Presso gli Insani Montes - l'attuale Gennargentu - si rifugiarono gl'isolani che non vollero diventare schiavi degl'invasori e quella zona, a parte un breve periodo nell'età augustea, fu sempre così pericolosa per gl'invasori che, sotto Giustiniano, l'autorità bizantina era costretta a mantenere un comando operativo in Forum Traiani - oggi Fordongianus - ai confini barbaricini. Gregorio Magno, in un'epistola ad Hospiton capo del Barbaricini (IV X 27), bolla quel popolo che vive come le bestie e adora pietre e legni. È soprattutto da questa lettera che discendono le favole sui Barbaricini. L'inaccessibilità della Barbagia ha fatto il resto, favorendo la tipica miticizzazione dei luoghi sconosciuti. D'altro canto, la riprova di quanto l'accusa gregoriana di paganesimo sia stata duratura, è data da Fazio degli Uberti, che così scrive: " Quel che sia cresma o battesmo non sanno; / la Barbagia è detta in lor paese; / in sicure montagne e forti stanno " (Ditt. III XII 61-63). Si tenga presente che, al contrario di D., Fazio era stato sicuramente in S., dove, come egli scrive, in Oristano era la tomba di " Lupo mio " (ibid. 89).
La storia isolana appare nella Commedia configurata soprattutto attraverso i due poli della politica indigena: Pisa e Genova. Michele Zanche (If XXII 87 ss.) s'inquadra entro questi limiti, perché egli, maggiorente sassarese ribellatosi alla politica fiscale di Ithocorre, tutore del giudice Barisone di Torres, colpito dalla confisca dei beni e dall'esilio, si rifugiò a Genova presso i Doria. Dopo il suo ritorno in S., mantenne vivi quei rapporti con i Doria, oltre che con gli Spinola ai quali era anche legato da parentela.
Frate Gomita (If XXII 81 ss.), il personaggio che, con lo Zanche, non cessa mai di rievocare, sotto le volte infernali, le cose sarde, si riallaccia alla politica isolana dei Visconti. Anche lo buon Marzucco (Pg VI 18), quello dal " magno saver " della canzone di Guittone, riporta a Pisa, in quanto Marzucco Scornigiani, come i suoi antenati Pietro, Scornigiano e Sigeri, svolse un'intensa attività nell'isola.
Ugolino della Gherardesca (If XXXII 124-139, XXXIII 1-78), poi, è personaggio di primissima importanza nella politica pisana in S. nell'età di Dante. I Gherardesca, non meno che i Visconti, sono sempre presenti quando si tratti di assicurare i diritti di Pisa nell'isola. Quando, in seguito all'alleanza di Chiano di Massa, giudice di Cagliari, con Genova, parve che la S. fosse perduta per Pisa, Gherardo e Ugolino della Gherardesca sono al comando delle navi e delle forze che assediano Cagliari, mentre altre milizie sono agli ordini di Giovanni Visconti, di Guglielmo di Capraia e di Francesco Malaspina. Riconquistata nel 1257 Cagliari e fatto prigioniero il presidio genovese, nell'anno successivo, il trattato di Santa Gilla riconosce ai due Gherardesca il possesso della terza parte del regno di Cagliari e altrettanto avviene per Guglielmo di Capraia e Giovanni Visconti ai quali vanno rispettivamente anche il giudicato d'Arborea e quello di Gallura. Il figlio di Ugolino, Guelfo, ribelle a Pisa, dal Castello di Acquafredda, presso Siliqua, conquistata la rocca della Gioiosa Guardia e asserragliatosi in Villa di Chiesa, tentò una sfortunata sortita, ma cadde in mano delle forze pisane di Lupo Villani. Riscattato da suo fratello Lotto, morì non molto dopo di febbri perniciose. Tuttavia, se la sorte non aveva arriso a Guelfo durante l'assedio, gli aveva però concesso di fare strazio di Vanni Gubetta, vicario dell'arcivescovo Ruggeri, squartato dalla furia di quattro cavalli. Il governo di Ugolino sulla terza parte del giudicato di Cagliari fu, in definitiva, buono; per suo impulso, il borgo minerario di Villa di Chiesa di Sigerro divenne una cittadina e si ebbe con il Breve un monumento di legislazione civica e mineraria. Ugolino favorì pure la diffusione tra i Sardi del volgare toscano, che apparve per la prima volta nell'iscrizione della cattedrale di Iglesias (nella quale egli è ricordato come signore, re e domino) in sostituzione, nell'uso aulico, del latino e del volgare sardo di tradizione giudicale. Ugolino richiama infine Nino Visconti: infatti in un documento dello schedario Lupi di Pisa, appare come " tutor vel curator Nini iudicis Gallurensis " (Dipl. 2 gennaio 1272). Fu quasi certamente il giudice Nin gentil (Pg VIII 52 ss.) l'informatore più diretto delle vicende sarde e, con lui, il compagno di espiazione, Corrado Malaspina (vv. 115 ss.). Anche dei Malaspina è traccia nelle vicende isolane sin dai tempi di Barisone I d'Arborea ed essi continueranno a essere presenti in S., oltre l'età di D., fino al regno di Pietro IV d'Aragona che, a malincuore, dovrà riconoscere ad Azzone e Pietro Malaspina la signoria del loro castello di Osilo. In castelli come questo si ridussero senza più speranze anche le ultime tarde sopravvivenze dei consorti delle casate toscane e genovesi e dei loro seguaci sardi quando la marea dei conquistatori, a grado a grado vinte le ultime resistenze e superati gli ultimi scrupoli di natura politica, tutto infeudò alla corona spagnola. Erano rocche formidabili con le quali si potevano dominare le grandi arterie di comunicazione, controllare l'accesso alle zone montane e, quello che più importava, le vie di accesso al mare. I Gherardesca avevano le loro posizioni chiave nel sud, con i castelli della Gioiosa Guardia, di Salvaterra e di Acquafredda; a settentrione, i Visconti con la rocca di Monte Acuto, i Doria con i castelli di Monte Forte, Monte Leone, Rocca Forte, Castel Genovese, Chiaramonti, e i Malaspina con quello di Serravalle. Si sono citati i nomi di questi castelli perché essi non furono soltanto arnesi di guerra, ma perché, attraverso di essi, dovette anche penetrare qualcosa del costume e della cultura italiana del Medioevo, talvolta rappresentata perfino nelle fantasiose leggende legate ai nomi di queste rocche. I Gherardesca infatti chiamarono Gioiosa Guardia la loro rocca sulcitana presso Villamassargia: dietro questo nome c'è un'insospettata testimonianza di epopea. Gioiosa Guardia è infatti il nome nel quale Lancillotto trasforma quello di Dolorosa Guardia, la fortezza da lui conquistata, come cavaliere errante, dopo aver sconfitto il castellano saracino, secondo una tradizione cavalleresca diffusa in Toscana dalla Tavola Ritonda nella versione del Codice Laurenziano Plut. XLIV 27 di redazione fiorentina, forse del XIV secolo (testo attuale, però, nel ms. I VII 13 della Comunale di Siena).
Un ultimo nome lega la S. a D.: Lapo Saltarelli, il deprecato compagno di condanna del poeta per cui saria tenuta allor tal maraviglia / una Cianghella, un Lapo Salterello (Pd XV 127-128). Dopo tante vicissitudini, il Saltarelli, per sfuggire alle vendette di Bonifacio VIII al quale si era presentato con l'ambasceria fiorentina e del quale aveva smascherato le mene per impossessarsi di Firenze, protetto dal fratello arcivescovo di Pisa e come tale primate di S., si era rifugiato nel convento cagliaritano di San Francesco di Stampace e lì morì, dimenticato e in pace: " indutus in morte habitu fratrum minorum ", come si legge nel titolo funerario conservato ora nel museo Nazionale di Cagliari.
Per quanto riguarda la fortuna di D. in S., essa dovrebb'essere antica di molto. Se si dovesse prestar fede a una notizia di Giovanni Spano, che delle cose sarde fu investigatore quanto mai acuto e paziente, nella chiesa cagliaritana di San Domenico sarebbe esistita una tavola con il ritratto di D. da taluno attribuita a Masaccio, che, nel 1855, sarebbe stata venduta e trasportata in Inghilterra. Una concreta base per la storia della fortuna di D. in S. è invece il codice Cagliaritano M 76, manoscritto della Commedia che quasi sicuramente risale alla prima metà del Trecento e che quindi si ha da porre tra i più antichi a noi noti (per il Petrocchi è invece della fine del sec. XIV).
Introdotto in S., con tutta probabilità, da mercanti toscani, esso appartenne nel Cinquecento alla biblioteca dello storico Gianfrancesco Fara e quindi a quella del giurista Monserrato Rossello che ne fece dono al collegio di Santa Croce, da dove, nel secolo scorso, passò all'università di Cagliari. L'M 76 è un manoscritto membranaceo di 164 carte non numerate di mm. 282 X 202, acefalo e lacunoso. Ogni carta contiene da 37 a 24 versi scritti in una sola colonna, in scrittura gotica, con chiose marginali e postille interlineari. Le chiose in scrittura gotica sono latine sino al c. XXVI dell'Inferno, italiane; in scrittura tarda minuta, per il resto del poema. Gl'inizi delle cantiche e le capitali d'inizio dei canti sono finemente miniati. Il codice fu edito parzialmente dal Carrara che ne pubblicò le chiose italiane, mentre sono tuttora inedite quelle latine e manca un'edizione diplomatica del testo.
Durante l'età spagnola, che si spinge praticamente sino al XVIII secolo, il gravitare della S. fuori dell'influenza della cultura italiana rese difficile la circolazione della Commedia. La conoscenza di D. nell'isola riprende, con crescente fortuna, nell'Ottocento. Ai primi di questo secolo si pubblicarono in Cagliari due fitti volumi di Lecturae Dantis tra le quali figurano i nomi di studiosi assai noti in campo nazionale. Nel 1929, lo scrittore Pietro Casu tradusse la Commedia in sardo (Sa Divina Cummedia in limba salda, Ozieri 1929). Col Novecento, l'attività dantesca nell'isola non è più cessata, interrotta solo dall'ultima guerra, ma subito ripresa nel 1946 dal comitato di Cagliari della " Dante Alighieri ", in collaborazione con l'associazione " Amici del Libro " che da quell'anno in poi affida ai maggiori dantisti italiani la lettura della Commedia in Sardegna.
Bibl. - P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae, I, in Historiae Patriae Monumenta, X, Torino 1861; C. Baudi Di Vesme, Codex Diplomaticus Ecclesiensis, ibid., XVII, ivi 1877; Bassermann, Orme 127; T. Casini, Ricordi danteschi in S., in " Nuova Antol. " CXLI (1895) 75-93, 259-279 (rist. in Scritti danteschi, città di Castello 1913, 77-138); E. Carrara, Le chiose cagliaritane, città di Castello 1902; F. Nissardi, Lapo Saltarelli a Cagliari, in " Arch. Stor. Sardo " I (1905) 210 ss. (cfr. A. S[olmi], in " Bull. " XIII [1906] 234); E. Besta, La S. medioevale, Palermo 1908; A. Solmi, Frate Gomita, in " Arch. Stor. Sardo " V (1909) 344 ss.; ID., Studi storici sulle istituzioni della S. nel Medioevo, Cagliari 1917; F. Alziator, Il codice dantesco cagliaritano, in " Il Convegno " IV (1923) 24; i diversi contributi pubblicati in La S. e D., numero speciale della rivista " Il Convegno " VII (1926); D. Scano, Codice Diplomatico delle relazioni fra la Santa Sede e la S., I, Cagliari 1941; A. Boscolo, Michele Zanche nella storia e nella leggenda, in " Studi Sardi " X-XI (1952) 337-385; D. Scano, Ricordi di vicende e personaggi danteschi in S., in Scritti inediti, Sassari 1962, 9-187.
Lingua. - Il giudizio che D. formula sulla parlata sarda ha un posto e un carattere particolari nella rassegna dei dialetti italiani del De vulg. Eloquentia. Dal punto di vista geografico, secondo D., la S., piuttosto che appartenere senz'altro alla metà di ‛ destra ' (o sud-occidentale) dell'Italia, va " associata " a essa, come la Sicilia: nec insulae Tyreni maris, videlicet Sicilia et Sardinia, non nisi dextrae Ytaliae sunt, vel ad dextram Ytaliam sociandae (VE I X 7). Per cui, nel paragrafo successivo dello stesso capitolo, i Sardi chiudono, facendo seguito ai ‛ Ianuenses ' o Liguri, l'elenco delle genti dell'Italia di destra le cui lingue si differenziano l'una dall'altra (e in effetti nelle rappresentazioni cartografiche del tempo la S. poteva risultare più occidentale della Liguria, e così presentarsi come l'ultima regione italiana dal lato ovest; mentre la giustificazione politica che il Marigo dà dell'accostamento ai Genovesi [" la Corsica era passata fin dal 1285 dal dominio dei Pisani a quello dei Genovesi "] è vanificata dal fatto che, per motivi che ci sfuggono, di Corsica nel De vulg. Eloq. non si parla, ed è molto difficile che D. intendesse implicitamente farne un tutt'uno con la Sardegna).
Ma quando D. passa a una caratterizzazione della parlata sarda, da una parte rompe la contiguità geografica stabilita ai § 7-8, discorrendone alla fine del capitolo iniziale della rassegna, dove ha stivato in una specie di lazzaretto i dialetti più brutti e inutilizzabili, dall'altra ribadisce e spiega in termini propriamente linguistici il giudizio di estraneità della S. all'Italia accennato in precedenza, separandone quindi nettamente i destini da quelli dell'altra isola mediterranea, della cui lingua parlerà assai più favorevolmente nel capitolo successivo.
A D. i Sardi paiono infatti privi in sostanza di un loro volgare individuale e autonomo, poiché ciò che parlano non è altro che una cattiva e ridicola imitazione del latino: Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simiae homines imitantes; nam ‛ domus nova ' et ‛ dominus meus ' locuntur (XI 7, secondo l'ediz. Mengaldo; da notare che il Marigo legge dominus nova e domus novus).
È da osservare anzitutto che D. viene così a costeggiare, e in certo qual modo a riprendere e radicalizzare, quella che doveva essere un'opinione diffusa, sul carattere cioè barbaro e incomprensibile, e in ogni caso molto diverso dalle parlate italiane, del sardo - e non solo del resto della lingua, ma un po' di tutto il modo di vivere di quel popolo. Si pensi al contrasto di Rambaldo di Vaqueiras, vv. 74-75 (" No t'entend plui d'un Toesco/o Sardo o Barbarì ": l'accostamento fra Sardi e " Barbarini " torna anche nell'Intelligenza CVI 2 e CCLXIII 8), e più tardi a Fazio degli Uberti Ditt. III XII 56 ss., per il quale la sarda è addirittura " una gente che niuno non la intende, / né essi sanno quel ch'altri pispiglia " tanto da comunicare con gli stranieri " per cenni ". È stato pure osservato che, fra tutti gli exempla dialettali del De vulg. Eloq. di più di una parola, questo sardo è l'unico a non formare una frase o frasi di senso compiuto: la ragione può essere, oltre a un'informazione con tutta probabilità assai scarsa da parte di D., proprio l'intenzione di sottolineare anche così l'aspetto eteronomo, artificioso e poco duttile del sardo, sclerotizzandolo in formule da sillabario. Naturalmente, come ha fatto notare anche il Vinay, il rilievo negativo (comunque lo s'interpreti più in concreto) sul fatto che l'eccessiva e quasi mimetica somiglianza col latino rende il sardo una lingua artificiosa e risibile, non contraddice teoricamente alla tesi più volte sostenuta da D. nel trattato (e anche nel vicino cap. X) della funzione di stimolo e modello che la gramatica ha nei confronti del volgare illustre: perché qui si tratta di un'‛ imitazione ' che consiste in un modellarsi sulla logica interna, sulla struttura retorica portante e la regolarità grammaticale del latino, senza pregiudizio per l'autonomia linguistica del volgare; nel caso del sardo invece di una scimmiottatura meccanica e passiva, che distrugge appunto l'autonomia e individualità di una lingua, facendole perdere il carattere distintivo più prezioso che hanno i volgari rispetto alla gramatica, cioè la naturalità.
Quanto al senso più preciso delle osservazioni dantesche, la valutazione ne è strettamente connessa con un problema di scelta testuale. Per il primo sintagma sardo, infatti, i mss. dell'opera danno concordemente domus nova, mentre per il secondo al dominus meus di GT si contrappone la lezione a prima vista insensata di B, domus (anzi in scrittura abbreviata dom') novus. E in realtà, accogliendo la lezione che lo status dei codici offre come più probabile, cioè domus nova - dominus meus (" la casa nuova " - " il mio signore o padrone "), le cose corrono più che bene. Con questi due esempi D. colpirebbe il carattere artificiosamente latineggiante ed eteronomo del sardo da due diversi e complementari punti di vista. Da quello del vocabolario, mettendo in evidenza come per nozioni così comuni quella parlata, di fronte agli autonomi tipi italiani e romanzi ‛ casa ' e ‛ signore ' o ‛ padrone ', possieda solo elementi lessicali che ricalcano pari pari il latino: e si osservi per il secondo la coincidenza con il pure allusivo donno di If XXII 83 e 88 (chiosato infatti così dal Buti: " Parla l'autore a modo sardesco "; e cfr. G. Bonfante, in Studia... Spitzer, Berna 1958, 85 n., ed E. Leone, in " Lingua Nostra " XXV [1964] 3 n.), già presente a fini analoghi nel Novellino LXXVII (p. 304 ediz. Favati), e poi, certo derivante da D., in Fazio degli Uberti Ditt. III XII 83; mentre il primo esempio, come già proposto dal Giuliani nel suo commento e ribadito dal Rajna, potrebbe esser stato suggerito a D. dal diffuso toponimo locale Domusnovas (sono attestate per l'antica S. almeno tre località con questo nome, una delle quali era cittadina fiorente e importante). E poi dal punto di vista morfologico con la desinenza -us, estesa arbitrariamente a questi due vocaboli che non la possedevano (domo, donnu), dai casi in cui, sia al singolare che al plurale, i dialetti sardi la conservano (o comunque conservavano -s finale); con una forma d'ipercaratterizzazione del tutto simile a quella che entra in gioco nel romanesco messure e nel friulano ces dello stesso capitolo, e del tutto simile anche a quanto è avvenuto di recente con la diffusione a mezzo stampa di un singolare prinzipales (v. G. Folena, in " Lingua Nostra " XXIX [1968] 60-61); per dirla col Rajna " sarà da ritenere... che delle scorrezioni la colpa sia imputabile a D. stesso, il quale, o per qualche scrittura veduta, o per relazione altrui, o per esperienza auricolare, seppe che i Sardi avevano l's finale alla latina, ma credette che la serbassero anche in casi in cui punto non la mantenevano ". Si può semmai sospettare non irragionevolmente, come faceva il D'Ovidio, che in origine il testo dantesco avesse novas al primo esempio, e ambedue stessero col valore di plurali: " Cosa più ragionevole e più fina è che D. scegliesse due frasi perfettamente latine in apparenza, che però in sardo hanno un valor grammaticale o diverso da quello latino, come nel plurale dominus meus, o non sempre identico ad esso, come in domus novas che all'occorrenza è nominativo ".
Questa soluzione conservativa è accettata, oltre che da vari studiosi anche recenti, dalla maggior parte degli editori, come Bertalot (e Dornseiff-Balogh), Toynbee, Rajna (3ª ediz.), Mengaldo; solo lievemente se ne stacca l'Ugolini che recuperando da B stampa dominus novus nel secondo esempio col vantaggio di un maggiore parallelismo dei due specimina, ma con lo svantaggio di perdere un elemento di varietà lessicale della documentazione dantesca (si aggiunga che un dato a favore di meus appare il carattere assolutamente comune e formulare del tipo dominus meus).
Al polo opposto si colloca la soluzione arditamente congetturale e innovativa del Marigo, accettata fra gli altri dal Contini che la giudica " elegantissima e definitiva ", il quale, con una sorta d'inversione dei fattori, perviene alla lezione sopra contenuta nella nostra citazione del passo (un ulteriore perfezionamento ne tenta in seguito il Chiarini, proponendo l'inversione di posto dei due sostantivi). A fondamento della congettura sta una certa ipotesi generale sul senso del brano. D., secondo il Marigo, giudicherebbe il sardo una parlata piena d'irrazionali solecismi, e perciò adatterebbe al caso un diffusissimo esempio scolastico (riportato per es. da Eberardo di Béthune, Giacomo di Dinant, Antonio da Tempo) di solecismo: " vir mea et sponsa meus " (sarebbe allora più calzante questo riscontro, da un commento alla Rhetorica ad Herennium conservato in un cod. riccardiano del XV sec.: " Soloecismus a soloecensibus, populis graeciae de civitate solorum, qui, cum Athenas profecti essent, corrumpebant latinitatem, ut si dicerent: ‛ mia messere ' e ‛ mio madonna ', et ‛ Bona Petrus ' et ‛ Malus Veronica ' ", dove certo anche i primi due moduli risalgono a esemplari latini: cfr. F. Quadlbauer, Die antike Theorie der Genera dicendi im lateinischen Mittelalter, Vienna 1962, 224).
Ma è proprio la premessa interpretativa dell'abile congettura a lasciar molto perplessi. In verità il contesto non indica affatto che D. giudichi il sardo negativamente non solo in quanto imita innaturalmente una lingua artificiale, ma in quanto questa imitazione produce una morfologia distorta e scorretta; si tenga presente che altrove è D. stesso (VE I XII 7 e XIV 5) ad alludere scopertamente all'affine categoria grammaticale del barbarismo criticando le forme abnormi di due dialetti italiani. Non è poi detto affatto, contrariamente a quel che pensa il Marigo, che il topico paragone con le scimmie (su cui informa soprattutto il classico volume del Curtius) debba sottintendere la ridicola deformazione delle categorie grammaticali latine, mal imitate. Intanto nella maggior parte degli esempi citati dal Curtius, e in altri che si potrebbero aggiungere, la nota parodistica è assente o appena accennata, e poi, anche ammessa come probabile l'intenzione caricaturale della similitudine dantesca, non si vede perché questa non possa aver semplicemente di mira il fatto che i Sardi, nel loro sforzo d'imitare una lingua estranea, che per di più è artificiale, riescono a risultati innaturali e perciò ridicoli, a una sorta di anchilosi espressiva. E per poco che si voglia concedere a D. di conoscenza o sentore del sardo, si dovrà ammettere che un'eventuale impressione di solecismo gli doveva semmai nascere, come appunto sospettato dal D'Ovidio, dai plurali in -us, e vertere dunque sullo scambio fra singolare e plurale, anziché su quello fra generi. Tutto ciò senza tener conto che il paradigma grammaticale sopra ricordato e che ha suggerito al Marigo l'intervento in questione suona per intero, nel testo Grion di Antonio Da Tempo da cui egli lo riporta, " Est barbarismus si dico: dŏmina dŏmus/Et soloecismus: vir mea et sponsa meus ", lezione certamente erronea perché nel primo verso si dovrà invece leggere, come giustamente nota il Bigongiari, " domìna domìnus ".
Non mancano altre proposte testuali. Così il Pellegrini, seguito da Terracini e Vidossi, conserva integralmente la lezione di B domus nova - domus novus. Si tratterebbe di un " aberrante paradigma... che probabilmente si citava nelle scuole " (col valore di " casa nuova, case nuove "). Rientra dalla finestra l'ipotesi non necessaria del solecismo, e inoltre qui è proprio la presenza del tipo, latinamente corretto, domus nova in prima sede a rendere sommamente improbabile l'aberrante domus novus che segue. Anche il Terracini si appella al toponimo Domusnovas, ma il richiamo sembra a questo scopo controproducente: i casi sono due; o D. non conosceva quel toponimo o, se lo conosceva, certo l'avrebbe utilizzato fedelmente, anziché deformarlo in questo modo, sia pure per ipercaratterizzare. D'accordo con l'impressionismo di molte notazioni linguistiche dantesche, ma non è il caso di esagerare: perché qui ne risulterebbe addirittura che D., colpito dalla vicinanza di sardo e latino quale appare per es. dagli -us conservati, l'avrebbe denunciata con un novus femm. plur., che non è né sardo né latino, ricavandolo da un toponimo che era più che sufficiente a fargli dedurre che il femminile plurale degli aggettivi di prima classe doveva essere -as. Tenendo come base la lezione di B, l'unica proposta non inaccettabile sembra allora quella del Peirone, che, sempre lavorando sull'ipotesi di un paradigma, emenda novus nel corretto novas, eccedendo tuttavia in razionalismo con l'ulteriore correzione del primo domus in domu: questa proposta è accettata dal più recente editore del trattato, il Panvini.
Appena da citare è infine la vecchia tesi del Delius, secondo cui D. riporterebbe i vocaboli sardi in forma latina, perché quello che gli preme dire è che i sardi in luogo di parole ‛ italiane ' come casa e signore usano altrettante forme latine (il Delius correggeva anche in mea il nova, con l'argomento che questa è forma che coincide con l'italiano e quindi non poteva essere significativa per Dante).
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