Scenografia
Per scenografia, in teatro, si intende lo sfondo (in genere, artificiale, appositamente progettato) davanti al quale si svolge l'azione drammatica. Nel cinema tutto si complica, non tanto perché rispetto a uno sfondo naturale, per es., il termine appaia meno congruo, quanto per il fatto che a ogni inquadratura corrisponde inevitabilmente un aspetto diverso della scenografia-madre (così si può denominare l'ambiente scenico nel suo complesso) e dunque si potrebbe a ragione sostenere che a ogni inquadratura corrisponde una s. diversa. Così la s., una soltanto sul set, può diventare, nel film, molte s., non solo in rapporto al taglio dell'inquadratura, ma anche ai cambi d'illuminazione, alle variazioni della profondità di campo, ai tipi di obiettivo, nonché ad altri elementi.
L'unità della s., nel cinema, si trasmette tale e quale dal set al film soltanto ove si privilegi il ricorso all'inquadratura fissa (nelle pratiche del cinema cosiddetto primitivo, o teatrale, oppure nel cinema d'autore più rigoroso). In tutti gli altri casi è il montaggio, essenza stessa del cinema, a moltiplicare nel film gli aspetti della s., le sue rifrazioni e metamorfosi apparenti. Anche qualora non sia previsto l'uso di piani-sequenza, la s. del set è sempre maggiormente vissuta, o almeno 'percorsa' (quindi frazionata) rispetto a quella teatrale (che è invece più vista, contemplata dall'esterno nel suo insieme). La s. cinematografica, si può dire, configura una sequenza spazio-temporale percorsa da un occhio ravvicinato, ubiquo e in movimento: ne risultano, pertanto, valorizzati gli aspetti di 'profondità' rispetto a quelli frontali o bidimensionali.
Non appena, ai suoi inizi, il cinema cessò di essere solo un'apparecchiatura più o meno complessa per lo studio e la scomposizione analitica del movimento o per la registrazione di scene dal vero riprese en plein air (le uscite degli operai dalle officine, l'arrivo dei treni in stazione, le vedute urbane o esotiche, la colazione del bebè ecc.), non appena, cioè, si pose in rapporto con la rappresentazione, lo spettacolo e la fiction, il cinema incontrò sul suo cammino la messa in scena teatrale e ne acquisì vizi e virtù, modalità e caratteristiche. Anche se, in linea con la tradizione inaugurata dai fratelli Lumière, si sarebbe comunque sempre rivelato cospicuo l'utilizzo di s. vere preesistenti, per sottolineare il versante realistico del film o per abbattere i costi.
L'epoca, tra gli ultimi anni dell'Ottocento e i primi del Novecento, segnava in tutto il teatro europeo il trionfo delle s. realistiche, illusionisticamente organizzate sul principio della visione prospettica monoculare di stampo quattrocentesco, propria del teatro detto all'italiana. La macchina da presa fissa, posta a una certa distanza dagli attori, riproduceva sul set le condizioni di visione dello spettatore a teatro, riprendendo il quadro completo dell'azione, con le quinte, o sfondi, davanti ai quali agivano gli attori inquadrati a figura intera. L'equazione 'macchina fissa a distanza = punto di vista dello spettatore teatrale' rimase a lungo valida, dettando regole e norme di comportamento non solo ai movimenti possibili degli attori, ma anche alla confezione degli apparati scenografici. La scenotecnica cinematografica si sviluppò e si affinò, ma doveva restare debitrice della scenotecnica teatrale, dalla quale mutuava del resto i suoi artigiani e artisti. Nel momento in cui il cinema soppiantò decisamente il teatro in quanto spettacolo popolare, ne ereditò proprio quelle caratteristiche di illusionismo realista che il teatro stesso, tentando altre strade e accogliendo la lezione degli innovatori, si avviava per suo conto a superare.
Per affrontare differenze e specificità tra s. cinematografica e teatrale, è necessario partire dall'origine comune, marcata però dallo stato della s. teatrale, all'epoca improntata al verismo. Sarebbe dovuto passare un certo tempo prima che la s. cinematografica acquisisse, per es., quella spettacolarità barocca che della scena teatrale era un momento già storico, se non archeologico. Resta comunque valida la distinzione classica: ossia mentre la s. teatrale costituisce essenzialmente uno sfondo, solo in parte agibile, e percorribile, davanti al quale lo spettatore assiste al gioco degli attori, nella s. cinematografica l'azione degli attori e della macchina da presa percorre la scena e la penetra, assieme all'occhio dello spettatore. In tal senso, la s. teatrale risulta essere sempre in qualche modo una facciata, anche laddove rappresenti un interno, mentre la s. cinematografica, anche se mette in forma un esterno, è sempre un contenitore, un involucro, una scatola, uno spazio concavo, una matrice. Questa matrice si organizza sul set e negli studios appositamente attrezzati: teatri di posa o théâtres des prises de vues.Georges Méliès, mago e illusionista, dopo aver fatto proiettare alcuni film a trucchi, da lui stesso diretti e interpretati, durante i suoi spettacoli di illusionismo al teatro Robert Houdin, edificò il primo teatro di posa europeo su un terreno di sua proprietà a Montreuil, nel 1897. Si trattava di un atelier interamente vetrato, vera e propria serra attrezzata per la cattura del sole attraverso pareti e coperture trasparenti. Già due anni prima, però, il regista americano William Dickson aveva fatto costruire lo studio Black Mary (benché, con orgoglio nazionalistico, Léon Barsacq nel suo Le décor de film, 1970, sembra volerne sottovalutare la portata), situato nei pressi del laboratorio di Thomas A. Edison, di cui sfruttava il procedimento brevettato come cinetoscopio.
La luce, dapprima naturale, solare, ma diffusa da velari, fondò il tipo di fotografia cinematografica, più universalmente perseguito, in cui i contrasti violenti di chiaro e scuro venivano eliminati mentre la luce lambiva uniformemente corpi e oggetti, disegnandoli in una nitida individualità. Gli accessori e gli arredamenti delle scene (v. arredi scenotecnici) potevano essere reali, o profilati su tavole segate o, ancora, dipinti sul telone di fondo del grande chassis in legno formante la scena a tre pareti. Fu per uniformare il più possibile ogni diversità che Méliès diede inizio alla pratica di dipingere tutto in trompe-l'œil, anche le ombre, con effetti raffinatissimi di acquerello e realizzando elaborate composizioni ove si fondevano oggetti veri e oggetti dipinti, presenze umane e figurazioni fantastiche.Il passaggio dalle scene dipinte (alla Méliès) a quelle costruite (in cartapesta, stucco, legno ecc.) avvenne in Italia, in concomitanza con lo sviluppo del grande spettacolo storico-mitologico che sarebbe sfociato nella realizzazione di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone e avrebbe influenzato lo stesso David W. Griffith (come nell'episodio babilonese di Intolerance, 1916).
Che lo sviluppo del genere dovesse avvenire in Italia, non può destare meraviglia: il territorio stesso si presentava carico non solo di memorie, ma di vestigia concrete della romanità, tali da rendere possibile una facile integrazione delle scene costruite in studio con quelle girate in esterni. Così, seguendo una prassi poi consolidata ovunque, il territorio ricco di testimonianze storiche funzionava da garanzia circa la veridicità degli interni ricostruiti, e questi, a loro volta, attingevano prestigio dal minuzioso lavoro documentario che, senza impedire voli di fantasia e le più ardite contaminazioni stilistiche, stava alla base di tale ricostruzione. La tendenza si indirizzò subito verso il gigantismo: le masse di Cabiria vennero moltiplicate in Intolerance, e Griffith chiese ai suoi scenografi di costruire mura di Babilonia abbastanza larghe e robuste da permettere il passaggio di carri da combattimento trainati da cavalli.
Il passaggio dal trompe-l'œil pittorico alla scena materica si compì nel quadro di una concezione pur sempre illusionistica della scenografia. Da questa si svincolò solo quel momento magico del set, e del set come s., rappresentato dall'Espressionismo. Capostipite del film espressionista si considera Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Dott. Calligari, noto anche come Il gabinetto del dottor Caligari) diretto da Robert Wiene, con le scenografie di Walter Röhrig, Walter Reimann, Hermann Warm.In questo primo tentativo espressionista il set si avverte molto, nel senso che la grafica, alla cui astrazione si aspira, si avvicina ancora troppo al teatro. Il predominio delle linee oblique, delle spezzate, delle inclinate, la scomparsa della verticalità e del parallelismo, il concatenarsi di piani sghembi in traiettorie paradossali, costituiscono un universo così coerente in modo totalizzante, nella sua sapiente incoerenza, da esigere che analogo trattamento d'astrazione investa i corpi degli attori, i loro movimenti, il loro abbigliamento e maquillage. Ciò a volte accade, ma il corpo umano si presta meno a questo processo di deformazione, ed è quindi giustificabile la maliziosa osservazione di Alberto Cavalcanti che nel cinema espressionista, nonostante tutto, "gli attori si intestardivano a restare umani" (Barsacq 1970, p. 181). D'altra parte sul set del cinema espressionista (almeno per le opere d'autore), si procedeva a volte ad aggiustamenti della s. in funzione della distanza della macchina da presa dagli attori. Nel passaggio, per es., da un'inquadratura in campo lungo a una più ravvicinata (magari sullo stesso asse), gli arredi sullo sfondo potevano venire impercettibilmente accostati l'uno all'altro, in modo che continuassero a essere visibili nella nuova inquadratura, o poteva venir potenziato, ingrandendolo, un dettaglio poco visibile in campo lungo.
E se oltre l'Espressionismo vanno i film di Fritz Lang e Friedrich W. Murnau, Schatten ‒ Eine nächtliche Halluzination (1923) di Arthur Robison costituisce il più emblematico dei film espressionisti, perché la scenografia di Albin Grau (un generico Settecento) non ha niente di dichiaratamente espressionista, ed è il gioco delle ombre e delle apparizioni, dei riflessi e degli specchi, dei corpi, dei loro doppi (o delle ombre e dei loro riflessi cioè i corpi) a creare l'universo magico del film.
Occorre infine ricordare la notevole invenzione scenografica ideata per Hintertreppe (1921) di Leopold Jessner e Paul Leni, consistente in un grande scenario di facciate bucate dal multiplo sguardo delle finestre, di palazzi-monoliti, di cortili incassati.
Una vera e propria storia della s. cinematografica non può non riguardare anche le trasformazioni determinate dai (rari) set dell'avanguardia, che interessano soprattutto i rapporti con l'architettura moderna e con lo spazio urbano (v. architettura).
Nel cinema sovietico, a parte qualche eccezione (Aelita, 1924, di Jakov A. Protazanov, con le scenografie futuriste di Sergej V. Kozlovskij), la ricerca si focalizzò prevalentemente sul montaggio, mentre acquisì spesso grande importanza, sul piano scenografico, l'instaurarsi di una dialettica nuova tra l'azione rivoluzionaria, espressione dinamica della lotta di classe, e la sopravvivenza degli spazi monumentali, prodotti della vecchia ideologia, che fanno da sfondo e la cui indubbia suggestione ci si proponeva comunque di superare. Esempio emblematico: il Palazzo d'Inverno in Oktjabr´ (1927; Ottobre) di Sergej M. Ejzenštejn, i cui ambienti reali, nobili e solenni, funzionano da contrappunto simbolico al movimento frenetico dei rivoluzionari, impegnati a imprimere un'accelerazione eccezionale al corso della storia. Ma va ricordato anche il contrasto tra l'aspetto intimidatorio dei monumenti di Pietroburgo e gli operai in rivolta, che poco a poco se ne appropriano, in Konec Sankt-Peterburga (1927; La fine di San Pietroburgo) di Vsevolod I. Pudovkin.
Se il cinema espressionista tedesco tentò di omologare produttivamente nell'universo dello spettacolo di massa una pratica in fondo d'avanguardia, all'opposto il cinema di Hollywood adeguò costantemente l'organizzazione del proprio spazio scenografico alle esigenze popolari di una divisione in generi, funzionale al raggiungimento capillare d'ogni tipo di pubblico.
Nel sistema hollywoodiano la suddivisione dei compiti era assai rigida. Competenze e specializzazioni dovevano integrarsi senza sovrapporsi, mentre l'ultima parola, a differenza della pratica europea, non spettava certo al regista. Le majors hollywoodiane avevano uno staff fisso di collaboratori addetti a occuparsi di ogni aspetto del film, comprese le scenografie. A capo dello staff vi era in genere un art director fisso (per es., Cedric Gibbons per la Metro Goldwyn Mayer, Richard Day per la Universal Pictures e poi per la United Art-ists, Hans Dreier per la Paramount ecc.) il quale firmava la s. del film, solo talvolta lasciandosi affiancare, nei titoli di testa, dai nomi di uno o più collaboratori. Ma non si può identificare, partendo da questo dato, uno 'stile MGM' o uno 'stile Paramount' nella s.: la dittatura dei generi era tanto forte da imporre comunque l'aderenza massima al complesso di convenzioni, anche scenografiche, che si erano andate stratificando sino a formare lo spessore di un genere determinato. Non vennero ammesse variazioni nello spazio-tipo del saloon, nel western, almeno fino agli anni Cinquanta quando si poté costruire il saloon barocco di Vienna (Joan Crawford) in Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray.
A parte il vero e proprio film fantastico, era il musical a offrire le migliori opportunità di preparare sapienti miscele di vero e falso, realistico e onirico, documentaristico e teatrale, secondo il prototipo messo a punto da Vincente Minnelli e da Gibbons per An American in Paris (1951; Un americano a Parigi). Il set del musical aveva i suoi momenti privilegiati durante l'esplosione dei grandi numeri musicali, laddove la s. doveva porsi come strettamente funzionale da un lato alla coreografia, e dall'altro, ai movimenti della macchina da presa, ai carrelli, ai dolly, alle plongées; la s. come scrittura della scena si coniugava alla scrittura del movimento (degli attori/ballerini e della macchina da presa), proponendo come esplicito uno statuto altrove virtuale. E se le grandi costruzioni del musical classico esaltavano la geometria perfetta delle schiere di attori, ballerini e girls (così nei disegni in plongé di Busby Berkeley) o delle piramidi umane di bellezze al bagno, a loro volta venivano esaltate dalla fantasmagoria dei ritmi coreografici che le investivano. Grazie al dinamismo della macchina da presa di Minnelli, in An American in Paris risultano valorizzate le s. di Gibbons, che disegnano da un lato una Parigi minore e quotidiana, tra convenzione e realismo, dall'altro fantastica e onirica, chiara allusione a quella dei grandi pittori impressionisti. Ma certo può accadere che la coreografia si affermi in tutta la sua scatenata dinamicità solo a prezzo della 'distruzione' della s., come in Seven brides for seven brothers (1954; Sette spose per sette fratelli) di Stanley Donen quando i giovanotti, divisi in squadre contrapposte, dovrebbero tirar su una costruzione in legno il più rapidamente possibile e finiscono, al termine di un balletto che mima una gigantesca rissa, per distruggerla completamente.
Da sottolineare come la decisa trasformazione e contaminazione dei generi, avvenuta nel cinema hollywoodiano a partire dagli anni Cinquanta, non ebbe un immediato né diretto riflesso sulle pratiche scenografiche. Temendo il bizzarro, la s. standard a lungo ancora cercò di uniformarsi al detto di René Clair, secondo il quale "la scenografia migliore è quella che non si nota".
Su una geometria di spazi rituali, legata da un lato ad antiche tradizioni abitative e dall'altro a secolari convenzioni coreografiche teatrali, si basa invece la s. delle cinematografie di area asiatica (Giappone, India, Cina ecc.). Per quanto riguarda in particolare il cinema giapponese, nelle scelte di s. affiora la forte influenza di talune particolarità dell'architettura nipponica, quali la modularità, la flessibilità e variabilità degli spazi attraverso l'uso di pannelli scorrevoli trasparenti e leggeri, come anche la tradizione della pittura, in specie per gli esterni naturali. In questi spazi, un particolare ritmo di vita (tradizionale) si svolge secondo rituali ben precisi che registi come Ozu Yasujirō, Naruse Mikio, Kurosawa Akira, Mizoguchi Kenji nelle loro opere non hanno mancato di sottolineare, oppure, nel caso di Ōshima Nagisa, di contestare. Sull'onda di una modernizzazione accelerata, poi, lo stesso Ōshima, Tsukamoto Shin'ya o Wakamatsu Kōji hanno prospettato scenari molto diversi. In Tokio fist (1995) di Tsukamoto, una storia estrema di violenza e sadismo è ambientata sullo sfondo apocalittico di una metropoli impazzita, segnata dalla più alienante postmodernità.
Esiste una grande tradizione di abilità artigianale tra gli scenografi del cinema italiano, alcuni dei quali possono essere considerati veri e propri artisti. E se la scelta neorealistica finì per caratterizzare i momenti migliori del cinema italiano, dal punto di vista delle scelte di s. non si deve dimenticare la fioritura, negli anni Trenta e Quaranta, del cosiddetto calligrafismo, con il suo interesse per la 'bella forma' e la ricostruzione storica e con nomi come quelli di Virgilio Marchi o di Gastone Medin, e molti altri. Anche nel cinema francese sono rintracciabili una scuola e degli esiti molto importanti in rapporto alle opere dell'avanguardia (vanno evidenziati, tra gli altri, A. Cavalcanti, Robert Mallet-Stevens, per il quale v. architettura), come a quelle del realismo poetico (v. realismo) degli anni Trenta (oltre a L. Barsacq, Lazare Meerson e Alexander Trauner).
Appare evidente comunque come l'approccio 'europeo' alla s. fosse strutturalmente diverso, anche dal punto di vista delle procedure produttive, da quello che Hollywood avrebbe perfezionato nello studio system.Il sistema europeo. In Europa è in genere il regista che sceglie i suoi principali collaboratori: scenografo, direttore della fotografia, montatore ecc., o è il produttore che si assicura le collaborazioni, ma sempre in accordo con il regista. Ne derivano inevitabilmente conseguenze sul metodo di lavoro che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare le produzioni europee rispetto a quelle hollywoodiane.
Come sottolineato da Barsacq nella sua analisi (1970, pp. 138-48), dopo la lettura della sceneggiatura o della sinossi, l'architetto-scenografo ha un incontro con il regista, poi con il produttore o il direttore di produzione. Il regista discute con lo scenografo delle necessità del film, delle s. principali, dello stile generale dell'opera. Il produttore consulta lo scenografo sui dettagli più materiali: il preventivo delle scene, il numero di teatri di posa necessari per la realizzazione del film, la possibilità di girare certe scene in décors naturali o in esterni, e così via. La preparazione del film, per quel che concerne in particolare le scene, dipende in parte dai metodi di lavoro del regista. Vi sono quelli che, scrivendo il loro adattamento o découpage, hanno una visione precisa della disposizione generale della scena: posizione delle porte, delle finestre, delle scale, movimenti di macchina e di personaggi. Il lavoro dello scenografo è così orientato. Altri registi, non si preoccupano affatto della disposizione degli elementi di décors e si affidano all'immaginazione dello scenografo che, mediante le sue idee, influenzerà la messa in scena. Vi sono infine alcuni registi che lavorano al découpage in collaborazione con lo sceneggiatore e qualche volta con il cameraman come nel sistema americano del production designer.
L'architetto-scenografo stabilisce i piani schematici delle scene principali, tenendo conto delle varie necessità della sceneggiatura: immaginerà una certa messa in scena facendo muovere camera e personaggi lungo i piani delle future costruzioni. Con i documenti sugli interni da evocare (soprattutto foto, ma anche illustrazioni, riproduzioni di quadri o semplicemente descrizioni precise) lo scenografo deve concretizzare la sua visione del quadro del futuro film, buttando giù schizzi che rappresentino le s. sotto i punti di vista più interessanti. Si comincia con il preparare numerosi bozzetti. L'idea prende corpo, spesso partendo da un dettaglio appreso da un documento o ritrovato al fondo della memoria. L'insieme a poco a poco si organizza, appare una visione più precisa: comincia a concretizzarsi il gioco della luce e delle ombre, come quello dei volumi, mentre una macchia di colore può dare valore ai bianchi e ai grigi. Con schizzi e piante schematiche, lo scenografo confronta il suo punto di vista con quello del regista.
Dopo eventuali modifiche, l'architetto-scenografo fa eseguire dagli assistenti i piani definitivi delle scene. Le piante di costruzione di un décor cinematografico così come la sezione e i prospetti, sono dei veri e propri disegni architettonici, realizzati in genere alla scala 1:50 con dettagli al 20, al 10 e qualche volta anche al vero. Le copie di tutti questi disegni, così come le foto degli schizzi vengono quindi distribuite ai differenti capi-squadra, secondo le esigenze di ogni competenza.Il sistema statunitense. Il sistema statunitense appare molto diverso, in quanto è basato sugli imperativi di una rigorosa divisione del lavoro, finalizzata al raggiungimento di un livello standard, peraltro molto alto. Fondamentale risultò negli Stati Uniti l'apparizione del production designer, progettista e disegnatore insieme. Fu Gibbons, lavorando ai film di Douglas Fairbanks negli anni Venti, ad abbattere il diaframma che separava la sceneggiatura dalla sua realizzazione visuale (la messa in scena, l'illuminazione, i trucchi ecc.), ma la locuzione production designer fu impiegata per la prima volta per William Cameron Menzies, a quanto sembra, in occasione di Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming. La funzione consiste attualmente nel coordinamento dei differenti elementi che concorrono alla realizzazione del film: messa in scena, illuminazione, inquadrature, scenografie, trucchi ecc. Risolti sulla carta tanti piccoli e grandi problemi, il regista, in teoria, ha più tempo da dedicare agli attori e ciò consente di ridimensionare i ritardi delle riprese. Per arrivare a questo occorre che il produttore, lo sceneggiatore, il regista, il production designer e il direttore della fotografia lavorino insieme, per almeno qualche settimana, a partire dal primo trattamento della sceneggiatura. Si stabilisce uno script board giornaliero, con indicazione delle scene, della musica e una serie di disegni, i continuity sketches, che concretizzano l'azione. Partendo dagli schizzi, il production designer concepisce le s. del film.
In ogni grande studio americano vi sono più art director di cui uno è il capo del dipartimento. Questi designa il direttore artistico (scenografo) che creerà le scene di un dato film, sotto la responsabilità del capo del dipartimento. L'art director ha come stretti collaboratori un assistente responsabile della documentazione, un altro che si occupa del colore e della luce, il disegnatore di costumi e i costruttori delle scene.Indipendentemente dall'organizzazione produttiva, la costruzione delle s. segue fedelmente piante, sezioni, prospetti. Il primo lavoro consiste nel riunire nel teatro di posa gli elementi scelti e costruiti nei laboratori (porte, finestre, scale, nicchie ecc.); poi, se la s. comporta i 'praticabili' (piattaforme sopraelevate) si comincia a prepararli e montarli. Per evitare gli scricchiolii o gli effetti di risonanza dei passi, che disturberebbero la ripresa del suono in diretta, occorre dedicare molta cura all'isolamento di tutti gli elementi. Per le pareti della s. si mettono insieme gli chassis di differenti larghezze e altezze, in modo di ottenere le misure stabilite sulla pianta. In genere, una volta montati gli chassis, vi si tende una tela da s., leggera (veletta) sulla quale è incollata una carta spessa, del genere carta d'imballaggio (papier kraft). Se il lavoro è eseguito bene, e grazie alle strisce 'inglesi' (strisce di carta spessa, larga 10 cm e fissata a secco), i giunti tra gli chassis risultano invisibili.
La più grande cura dev'essere dedicata alla pitturazione e alla patina di queste pareti di fondo, per dar loro l'aspetto di pietre, mattoni, legno o metallo, secondo i casi. Spesso i muri di una scena sono ricoperti di stoffa o di carta dipinta. Vi sono casi in cui conviene utilizzare veri rivestimenti in legno, salvo completarli, se non si decorano gli chassis cartonati con riquadri in gesso, pannelli scolpiti, cornici, cimase, stipiti, plinti ecc. Le pietre, i mattoni, sono ricalcati su veri muri e i pannelli usciti dagli stampi (m 2×1 circa) vengono fissati sulle pareti raccordando i giunti perché siano invisibili. Lo staff (gesso armato con fibre vegetali) risulta molto utile allo scenografo, perché permette di imitare tutte le forme e tutte le materie, procedendo per impasto, anche se ormai i modelli in staff vengono spesso sostituiti da stampi in materia plastica a base di poliestere. Un'altra materia plastica, il 'polistirene compensato', grazie alla sua leggerezza, alla sua superficie porosa e alla sua friabilità, può servire a imitare i blocchi di pietra, le vecchie tegole ecc. Di regola, si impiegano materiali veri tutte le volte che, per ragioni di aspetto, di facilità di riprese, di sicurezza o per ottenere magari un suono 'vero' non ci si può servire di imitazioni; tuttavia il legno, il cartone, il gesso e le materie plastiche sono sempre i materiali di base, perché permettono di imitare tutte le forme e tutti i materiali (ferro, granito, marmo, tegole, ardesie ecc.) con il vantaggio di essere leggeri e di farsi lavorare facilmente. Si tratta di soluzioni normalmente adottate almeno fino alla rivoluzione introdotta, anche nel campo della s., dall'avvento degli effetti speciali elettronici, che hanno reso parzialmente obsoleto il coefficiente di manualità e abilità artigiana insito nel mestiere, senza tuttavia riuscire a sostituirlo del tutto.
Gli scenografi hanno sempre avuto a che fare con gli effetti speciali, ossia con quelli che una volta si potevano chiamare trucchi, per la loro natura artigianale. Tutti i manuali di tecnica cinematografica riportano per es. il famoso 'effetto-Schufftan', inventato negli anni Venti dall'operatore tedesco Eugène Schufftan, basato su modellini in scala riflessi in un sistema di specchi e utilizzato, tra l'altro, in Metropolis (1927) di Fritz Lang.
Prototipo del film di trucchi si può considerare King Kong, diretto nel 1933 da Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, i cui effetti speciali erano coordinati da Willis O' Brien: film in cui ogni s. (in realtà ogni inquadratura) contiene almeno un trucco, ed è sempre composta di piani e materiali diversi, implicanti diversi effetti di illusione (modellini più pitture su vetro più trasparenti più animazioni ecc.).
Ma la storia degli effetti speciali è quella del progressivo restringimento degli spazi tradizionalmente riservati allo scenografo-artista o artigiano in favore dei tecnici (che certo possono essere non meno creativi) dell'elettronica, a partire proprio dalla rappresentazione filmica della tecnologia più avanzata (quella spaziale). Il modello Trumbull (ideato da Douglas Trumbull, curatore degli effetti speciali di 2001: a space odissey, 1968, 2001: Odissea nello spazio diretto da Stanley Kubrick avvalendosi delle avanzatissime tecnologie degli studios inglesi) innesca lo slit-scan, un effetto-tunnel, attraverso il quale il soggetto precipita per ottenere non uno spostamento lineare, ma un attraversamento dello spazio-tempo, una caduta vertiginosa, la perforazione di uno spessore. In 2001 lo spostamento tradizionale al massimo è propedeutico al vero, grande viaggio. Si gioca con i modellini, con le navette d'avvicinamento alla grande nave, con le evoluzioni preparatorie, gli accidenti secondari: ma il grande bang opera la sparizione del veicolo e l'instaurarsi di una visione in soggettiva che non esce più (non può uscire) dai limiti dell'occhio/schermo mentre precipita nel tunnel, con la simulazione di profondità dell'occhio elettronico e la realizzazione di un modello ludico che Kubrick, anche senza Trumbull, avrebbe ricercato e ritrovato in The shining (Shining) del 1980 (con s. di Roy Walker) lungo i corridoi dell'Overlock Hotel, percorsi a velocità folle dal triciclo del bambino, e nei sentieri del labirinto verde lungo i quali si svolge l'inseguimento mortale. Lo stesso effetto per cui, nei videogames, se si accetta di giocare, non ci si può limitare a vedere cosa succede, ma si è coinvolti a forza (pena una rapida distruzione), è qui dato dall'effetto steadycam, dalla macchina da presa che segue alle spalle il personaggio con il quale lo spettatore si identifica, mentre si inoltra in un vuoto da cui potrebbe sorgere all'improvviso il pericolo.
Nel 1975 George Lucas fondava la ILM (Industrial Light and Magic, al fine di curare gli effetti speciali elettronici del suo film Star wars (1977; Guerre stellari), segnando una profonda rivoluzione in questo campo. Il set diventava sempre più virtuale, i corpi perdevano importanza, lo spazio del film si componeva, si formava, si creava al computer. Da allora, si è moltiplicato il numero dei film i cui effetti speciali sono stati curati dalla ILM o da imprese dello stesso genere, alcuni con esiti eccellenti (Jurassic Park, e The lost world: Jurassic Park, Il mondo perduto ‒ Jurassic Park, di Steven Spielberg, rispettivamente usciti nel 1993 e nel 1997; Titanic, 1997, di James Cameron), altri che non superano il livello della favola adolescenziale. Va comunque sottolineato il notevole impatto teorico delle tecnologie elettroniche sull'ontologia stessa del film, che tende a perdere il suo rapporto (finora stretto) con il set, con la s. (vera o ricostruita), con la materia dei corpi, avvicinandosi tendenzialmente all'estetica del cartoon.
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