Scenografia
Teatro
di Antonio Audino
In Italia la s. ha assunto un'importanza prevalente rispetto ai vari elementi che compongono lo spettacolo teatrale, non soltanto per la tradizione storica, artistica e tecnica, sviluppatasi sin dal Rinascimento, ma anche per l'alto livello creativo mantenuto nei secoli - si pensi a G. Torelli (1604 o 1608-1678) e alla famiglia dei Bibiena, attivi tra 17° e 18° sec. - unito a un largo sviluppo, a una fiorente diversificazione di linee stilistiche e a una continua evoluzione delle invenzioni scenotecniche.
A dimostrazione della grande importanza data dal teatro italiano alla s. è sufficiente osservare il lavoro dei maggiori registi che hanno operato fin dagli inizi del teatro di regia, ovvero dopo il secondo dopoguerra. Ognuno di questi artefici ha rafforzato la sua linea ideativa con un importante lavoro di s., nato dalla collaborazione con artisti specifici, in un rapporto di totale fusione fra lavoro di regia e ideazione dell'apparato visivo, tale che ripensare ad alcuni allestimenti storici del teatro italiano, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, significa rievocare immediatamente l'immagine di determinati spazi e determinate soluzioni d'ambiente. Fondamentali sodalizi artistici hanno cambiato il gusto e il modo di concepire la messa in scena: basti pensare al rapporto di G. Strehler con L. Damiani (per Il giardino dei ciliegi, 1974, tratto da A.P. Čechov) e poi con E. Frigerio, di G. De Lullo con P.L. Pizzi (si pensi a Il giuoco delle parti, 1965, da L. Pirandello), di M. Castri con M. Balò (per la Trilogia della villeggiatura, 1996, da C. Goldoni), di S. Sequi con G. Crisolini Malatesta, di E. Luzzati con T. Conte, di L. Ronconi con M. Palli e, in alcuni storici allestimenti, con un architetto come G. Aulenti (per Gli ultimi giorni dell'umanità, 1990, tratto da K. Kraus).
La linea di evoluzione della regia italiana, dunque, ha sempre tenuto in gran conto l'apporto scenografico. A questo si è affiancato un altrettanto prezioso lavoro sui costumi, altro settore vivacissimo in Italia, con creazioni spesso disegnate dallo stesso scenografo o in alcuni casi ideate da altre figure non meno importanti e ugualmente legate al lavoro collettivo della messa in scena, quali V. Marzot (n. 1931), F. Squarciapino (n. 1940), O. Nicoletti (n. 1941). Di grande importanza anche lo sviluppo della scenotecnica, dell'illuminotecnica e dello studio della diffusione sonora e dell'amplificazione, settori in continua evoluzione, grazie anche alle nuove tecnologie, dove l'estro creativo si è unito alla possibilità di nuove soluzioni. A partire dalla metà degli anni Ottanta del 20° sec., hanno lavorato sui palcoscenici veri e propri 'artefici magici' di straordinari effetti luminosi, quali, per fare un esempio, S. Rossi, mentre per quanto riguarda lo studio di una dimensione sonora dello spazio scenico ha raggiunto risultati sorprendenti H. Westkemper (n. 1953).
Proprio l'accuratezza nella dimensione spettacolare del miglior teatro di regia italiano ha fatto sì che l'idea stessa del fare spettacolo sia sempre stata legata, in Italia, alla necessità di una fantasia visiva e spaziale di forte impatto: anche in tutto l'ambito di ricerca e sperimentazione scenica si è sempre manifestata con forza una linea di 'teatro immagine', nella quale la costruzione visiva ha prevalso spesso sul testo e sul lavoro degli attori. Restano esemplari, relativamente alla ricca stagione sperimentale degli anni Settanta, i lavori del regista M. Perlini realizzati insieme allo scenografo A. Aglioti (n. 1943) o quelli di G. Sepe con U. Bertacca (n. 1936); altrettanto centrale è stato il valore dello spazio scenico in esperienze differenti come quelle di Remondi & Caporossi o di G. Vasilicò (n. 1936), e persino nella dimensione creativa di C. Bene la ricerca poetica e fonetica si è sempre avvalsa di un cospicuo rapporto con la visione circostante. L'evoluzione successiva a quella fortunata stagione dell'elaborazione di nuovi concetti scenici e spettacolari è avvenuta, già dagli anni Ottanta, con l'inserimento nello spazio teatrale di elementi tecnologici, primo fra tutti il video, con esiti non sempre felici.
Le prime sperimentazioni di una riflessione sull'uso della videoproiezione in palcoscenico, o comunque nello spazio dell'azione teatrale, sono certamente quelle che hanno tentato un'integrazione delle nuove tecnologie con le strutture scenografiche e quelle dove l'uso di dispositivi visivi diversificati ha portato a un completo ripensamento di tutta l'immagine scenica. A partire dagli anni Ottanta si è potuto assistere a interessanti sviluppi, come le complesse elaborazioni della compagnia Falso Movimento diretta da M. Martone o il lavoro di G. Barberio Corsetti (n. 1951), con la presenza in scena di teleschermi che proiettano segni grafici creando nuovi effetti di movimento. Accanto e insieme a queste linee di ridefinizione dell'immagine teatrale si è cercato spesso di allargare il confine creativo, uscendo dal quadrato scenico dei teatri di tradizione, con il desiderio di ambientare gli spettacoli in luoghi dove fosse possibile agire in maniera diversa, comporre più complesse strutture spaziali, ambientando gli spettacoli in capannoni dismessi, ripensando persino alla possibilità di dislocare il pubblico in maniera diversa dalla sola presenza frontale, magari obbligandolo a percorsi e itinerari, a volte usando spazi della città, secondo un uso ancora molto seguito da tanto teatro (uno dei casi più clamorosi è stato l'Orlando furioso, da L. Ariosto, realizzato a Spoleto da Ronconi negli anni Settanta). A questo proposito risulta esemplare il lavoro della compagnia catalana Fura dels Baus, realizzato, a partire dagli anni Ottanta, con migliaia di spettatori raccolti in un ex edificio industriale tra complessi macchinari che si muovono tra la folla, automobili e motociclette che ne percorrono lo spazio, luci, suoni, rumori, attori con occhiali virtuali e proiezioni plurime su schermi, arrivando a vere e proprie incursioni, come nel caso della nave utilizzata dal gruppo, che entra in un porto dando vita ad azioni sia a bordo sia in terra con evoluzioni acrobatiche intorno alla stessa imbarcazione; il tutto con cupi effetti di evocazioni catastrofiche e una notevole capacità di suggestione.
Un ulteriore slittamento è avvenuto con le ultime generazioni di artisti teatrali, e anche in questo caso va tenuto conto che il continuo rimescolamento dei valori comunicativi dello spettacolo si è quasi sempre attuato con un cospicuo ricorso alla costruzione dell'immagine scenica, avvicinandosi visivamente a segni della cultura più socialmente allargata, come la discoteca, la sfilata di moda, o riportando frammenti di immaginario collettivo come la pubblicità, la televisione più commerciale, le sequenze dei videoclip musicali, riprodotte in scena o grazie a immagini filmiche.
Certo è che negli spettacoli di alcune delle più giovani formazioni italiane si ravvisa un'esplicita vocazione a una decostruzione postmoderna del modello rappresentativo, dove, appunto, si possono far convivere tracce di letterature classiche con segni degradati della modernità, banali immagini da telenovela con musiche di estrema concezione tecnologica. Dietro tutti i più recenti cambiamenti nel rapporto fra spettacolo e immagine scenica non va visto, dunque, soltanto un desiderio di sperimentazione formale e la ricostruzione di un sofisticato gioco tecnologico fine a se stesso. È l'intero pensiero di spettacolo nella società a essersi modificato e il teatro, del resto, non fa che cogliere il mutato rapporto con l'immagine; in una società nella quale la dimensione visiva è divenuta predominante e il linguaggio televisivo e cinematografico procede sulla linea di una continua accelerazione e moltiplicazione dei segni, soprattutto tenendo conto del fatto che si vive in un momento in cui la società stessa esiste sempre più nella sua spettacolarizzazione e rappresentazione mediatica, piuttosto che nella sua realtà oggettiva. In questo quadro relazionale ed estetico il teatro continua a essere luogo di realtà oggettive ed esistenti, di immagini concrete che possiedono ancora tutta la lentezza del tempo fisico e fisiologico.
La migliore ricerca internazionale, dunque, ha fatto sì che lo spazio scenico divenisse un luogo di riflessione del rapporto con l'immagine nei suoi tanti aspetti, nella sua realtà e nella sua virtualità, mettendo in connessione la presenza e l'assenza, l'attore e la proiezione filmica, la parola detta davanti allo spettatore e la percezione sollecitata da complessi apparati acustici e visivi. Crollata ormai la quarta parete, la dimensione scenica si pone come luogo di reale verifica di rapporti spaziali, comunicativi, mediatici, come accade nella riflessione delle arti visive e figurative. È la s. cinematografica (v. oltre: Cinema) e televisiva a continuare un lavoro di ricostruzione credibile del mondo, tanto che il lavoro scenografico in televisione e nel cinema e quello in teatro hanno modalità creative e tecniche diverse e figure artistiche differenti, che raramente lavorano in entrambi gli ambiti. Tuttavia secondo un apparente paradosso, è proprio lo spazio teatrale a offrire maggiori possibilità visionarie e fantastiche. Da questo punto di vista molte delle indicazioni più interessanti arrivano dall'estero, a partire dal lavoro iniziato negli anni Settanta dallo statunitense B. Wilson (n. 1941), ma con esempi più recenti nelle elaborazioni del canadese R. Lepage (n. 1957), in lavori come The seven streams of the river Ota (1994), o del belga A. Platel (n. 1956), in Bernadetje (1996) e Allemaal Indiaan (1999). Non è per mero gusto dell'effetto che alcuni grandi registi fanno uso di riprese realizzate in scena e proiettate in tempo reale, ma per un confronto con strumenti e mezzi del mondo contemporaneo e soprattutto per comprendere i nuovi modelli percettivi e sensoriali. Valga l'esempio delle ultime creazioni del compositore e regista tedesco H. Müller o di un gruppo di giovanissimi artisti statunitensi, il Big Art Group, che costruisce in scena dettagli ripresi con la videocamera e che soltanto nella loro ricomposizione su diversi schermi prendono una forma compiuta, ragionando e ironizzando sul rapporto fra l'immagine televisiva e la sua costruzione e soprattutto sull'inganno mediatico. In Italia un lavoro interessante su un uso di nuova concezione dell'immagine teatrale è stato fatto da R. Castellucci (n. 1960) e dalla Societas Raffaello Sanzio, con il progetto della Tragedia Endogonidia (2002-2004) mediante il quale hanno dato piena autonomia ai valori formali della costruzione scenica, rilanciando sullo spettatore indicazioni imprecise, rimandi incerti e difficilmente decodificabili, nel tentativo di sollecitare un più ampio spazio di percezione dell'individuo, di creare risonanze e connessioni consce e inconsce, penetrando la dimensione oscura della sensorialità e della sensibilità, nelle sue linee singolari ma anche nelle sue valenze collettive e sociali. Una riflessione teorica e pratica ha cercato anche di indagare le possibili integrazioni fra informatica e scena, ma oltre a un uso pratico della tecnologia per la gestione dei cambi di luce o della programmazione delle proiezioni, i pochi tentativi di relazione fra Internet e messa in scena, magari con proiezioni in tempo reale di luoghi e azioni lontani, non hanno aggiunto particolari valori all'elaborazione scenica.