Scrittori italiani d’altrove: verso una cittadinanza letteraria
Da Ornela Vorpsi a Bijan Zarmandili, la nostra letteratura si arricchisce di nuove voci. Che chiedono lo ius soli. Nell’epoca della globalizzazione ha ancora senso distinguere i narratori italiani da quelli di origine straniera?
Non occorre aspettare che tra una cinquantina d’anni, come previsto dagli studi demografici, un quarto della popolazione residente nel nostro paese sia composto da immigrati: già oggi si è incrinata l’idea che essere italiani significhi avere un’ascendenza autoctona. Eppure gli scaffali delle librerie continuano a essere divisi in autori italiani e stranieri: nel settore degli italiani alloggia la vasta famiglia che va da Giovanni Arpino a Elio Vittorini, passando per la Brianza di Carlo Emilio Gadda e le Langhe di Beppe Fenoglio, mentre gli scrittori dai nomi esotici – non importa se di lingua italiana o addirittura nati in Italia, foss’anche da madre italiana – sono collocati sugli scaffali della letteratura straniera. L’attribuzione di una piena cittadinanza linguistica – una sorta di ius soli per chi abbia avuto nascita alla scrittura nella nostra lingua – sembra l’ultimo tabù della nostra globalizzazione: l’opera degli scrittori italiani provenienti dai molti ‘altrove’ del mondo non ha ancora una nominazione condivisa, e le definizioni più usate (‘letteratura migrante in lingua italiana’, ‘letteratura transnazionale’, ‘letteratura italofona’, ‘letteratura postcoloniale’) si tengono in un’ambiguità tra riconoscimento di valore letterario, giudizio politico e sguardo antropologico.
Perché le istituzioni culturali, l’accademia, il mercato editoriale, i media e non ultimi i lettori sembrano dare per necessari una frontiera, un marchio identitario legato all’origine?Prendendo spunto da queste considerazioni, nei primi tre mesi del 2012, sulle pagine dei quotidiani si è svolto un acceso dibattito che ha aperto scenari imprevisti. Quasi tutti gli interventi sono stati a firma di autori italiani di origine straniera che hanno polemizzato, ironizzato, messo in questione la nicchia di mercato loro riservata, fatta di case editrici specializzate, premi specializzati, cattedre e corsi universitari su quella che è divenuta compiutamente una materia: un ghetto simbolico dove le retoriche del multiculturalismo, dell’integrazione, del meticciato indicano – seppure con le migliori intenzioni – l’articolazione di un ‘noi’ e di un ‘loro’. I nostri scrittori ‘d’altrove’, però, non chiedono diritti, né la visibilità ascritta al ‘fenomeno’ culturale-politico: vogliono essere giudicati per la qualità della propria opera, che – quando giunga a essere letteratura – è letteratura italiana. Il che porta dritti a una questione cruciale: che cos’è, oggi, la letteratura italiana?I villaggi calcinati del Centro America, le carovane del deserto, le piantagioni di tè punteggiate dai colori dei sari non sono più cascami di esotismo, godimenti di quell’immaginario coloniale che Edward Said ha, una volta per tutte, nominato come «orientalismo», ma materiali che costituiscono la nostra letteratura. I nostri scrittori persiani, uruguaiani, maghrebini, somali nutrono la letteratura italiana dei loro ricordi, sogni, resti onirici; delle fiabe delle madri; dei rituali di adolescenze vissute in altri luoghi: amori, sapori, odori, sonorità appresi altrove, oppure assimilati attraverso i racconti e le tradizioni di genitori spaesati. Ma lo spaesamento è la cifra del nostro mondo, e la scrittura dello spaesamento è un varco di comprensione per tutti. «Il poeta ibrido», afferma Bijan Zarmandili, scrittore italiano nato a Teheran, «è brutalmente chiamato a ricordare che nell’epoca delle grandi migrazioni scompare la geografia, ma permane ostile e ostinata l’idea della razza, dell’etnia, della religione, della lingua.
La letteratura d’immigrazione o, come preferisco dire, la letteratura dell’esilio, nasce da un immenso e straordinario movimento di massa: milioni di uomini e di donne che si spostano da un continente all’altro, dando luogo a una cultura fatta di elementi che impongono una metamorfosi a tutte le culture coinvolte nel processo». L’esito di un simile movimento non sta solo in una straordinaria e vitale produzione poetica, ma in una continua risignificazione dell’esistente. Il filosofo rumeno Emil Cioran, che scrisse sempre in francese, affermò che, prima ancora che un paese, si abita una lingua. La lingua è, di fatto, il primo luogo scambiato, promessa di comunità e spazio di relazione. Il vocabolario personale, la melodia individuale, la cui metrica è la biografia di ciascuno, diventano luogo e orizzonte politico, resistenza alla pretesa del potere di possedere una lingua. «Non ho che una lingua, e non è la mia», scriveva Jacques Derrida, indicando la permeabilità, l’ospitalità, ma soprattutto l’impossibilità della lingua di essere posseduta davvero come propria, di essere appropriabile. Così come la nostra letteratura non è nostra: può essere corteggiata e amata da cingalesi, croati, ghanesi che conoscono Dante e Pasolini non per imposizione scolastica ma per averli incontrati e scelti, per averli amati in un furioso corpo a corpo. La nostra lingua può essere abitata, risignificata senza necessità di chiedere permesso: qualcosa di simile accade per i tassi demografici dei paesi estenuati dalla propria vecchiezza e dal proprio ripetere la salmodia delle origini. Applicata a persone che si radicano in un luogo al punto da assumerne intimità linguistica, la parola ‘migrante’ – mutuata da Gilles Deleuze e piegata alle retoriche del ‘diritto di fuga’ – diventa allora una traiettoria astratta, che non accoglie la vita ‘sporca’, impastata di giorni, di relazioni, di quotidianità: ciò che fa, invece, la letteratura, che per sua natura non parla di moltitudini ma di individui. Quel participio presente che implica la fissità dell’atto del migrare non concede una casa, una dimora, neanche nella lingua.
Case editrici e scrittori di strada
Per accogliere la portata dello spaesamento introdotto nella nostra letteratura dagli scrittori d’altrove, occorre valutare criticamente gli esiti di ciascuno. Come? Con quali strumenti? Di primo acchito, ci si può affidare alle scelte di valore operate dai grandi e medi editori. È il caso di autori come Hamid Ziarati, Anilda Ibrahimi, Nicolai Lilin, Elvira Dones, Ornela Vorpsi, Amara Lakhous, Bijan Zarmandili, Igiaba Scego, Cristina Ali Farah. Ci sono poi le piccole e coraggiose case editrici, come Fara, Besa, Ek&Stra, Rayuela, che ci hanno fatto conoscere scrittori come Gëzim Hajdari, Mircea Butcovan, Christiana de Caldas Brito, Milton Fernández. Ma c’è anche un universo non misurabile di autori che, per esorbitanza di desiderio d’espressione e necessità di sopravvivenza hanno cominciato a stampare e vendere in proprio la loro produzione poetica e narrativa: i cosiddetti scrittori di strada. Alcuni di loro, dopo aver incontrato e rifiutato le offerte esose, spesso vissute come offensive, delle case editrici a pagamento, hanno tracciato in solitudine traiettorie straordinarie. È il caso di Çlirim Muça, sbarcato in Italia vent’anni fa dall’Albania, che per mesi dorme nei vagoni della stazione centrale di Milano, si sfama alla mensa della Caritas, viene più volte rimpatriato come clandestino, fa ogni lavoro, e intanto scrive poesie e racconti, insegna haiku e limerick. Poco per volta fonda una piccolissima casa editrice che pubblica gratuitamente scrittori nelle sue stesse condizioni. Il libro diventa così tramite e relazione, forma piccole comunità, ha una vita parallela e nascosta ai grandi circuiti editoriali.
Basili
Nel 1997 Armando Gnisci, studioso di Letteratura comparata in Italia e in Europa, ha fondato Basili, di cui è anche responsabile, la banca dati on-line degli scrittori immigrati in Italia che scrivono e pubblicano le loro opere in lingua italiana. Il progetto è stato finanziato inizialmente dal CNR e nel 2001 è stato potenziato grazie a uno stanziamento del Dipartimento di italianistica e spettacolo dell’Università la Sapienza di Roma.
La ‘zona Schengen’ della letteratura
La realtà attorno a noi cambia in un susseguirsi di sorprese e paradossi, come quello costituito dallo scrittore di origine albanese Carmine Abate, nato nell’enclave linguistico-culturale di Carfizzi, in Calabria, dove fino all’età scolare ha parlato esclusivamente la lingua arbëreshë; i suoi libri, scritti in italiano e tradotti nel mondo, sono popolati di personaggi della tradizione greco-bizantina: appartengono alla letteratura italiana, migrante, postcoloniale o albanese? E a che nominazione fa riferimento l’opera di Jadelin Mabiala Gangbo, nato nella Repubblica del Congo, cresciuto tra Imola e Bologna e ora residente a Londra, dove continua a scrivere i suoi romanzi facendo largo uso del dialetto emiliano? E ancora: perché autori che vivono da decenni in Italia e che scrivono in italiano, come Fleur Jaeggy, Giorgio Pressburger e Helena Janeczeck, nati rispettivamente a Zurigo, Budapest e Monaco, pur non avendo perso la loro connotazione di ‘stranieri’, non verrebbero mai annoverati tra gli scrittori migranti? Esiste una sorta di ‘zona Schengen’ anche per la letteratura? Quello dell’identità è un fantastico gioco di scatole cinesi, l’una dentro l’altra, così piene di eccezioni da non avere più regole, rese inservibili per eccesso. Fuori, c’è il mondo.