Scultura
La vicenda della scultura federiciana ha inizio nel giugno del 1223 con la fondazione del palatium di Foggia (Haseloff, 1920; Leistikov, 1977). Scelta dei tempi e del luogo, alla luce anche della funzione attribuita all'edificio ("Hoc fieri iussit Fredericus Cesar ut urbs sit Fogia regalis sedes inclita imperialis": così recita il titulus vergato sulla spalletta inferiore della superstite lapide di fondazione), appaiono tutt'altro che casuali e neutri. L'avvio dei lavori faceva seguito al ritorno di Federico dal lungo soggiorno in Germania (1212-1220), coronato dalla sua elevazione al trono imperiale, che veniva a sommarsi all'eredità per via materna del Regno di Sicilia: una situazione strategica radicalmente mutata rispetto a quella dei suoi antenati normanni, il cui primo effetto fu lo spostamento sul continente del centro gravitazionale dell'azione politica della corte, con una conseguente inversione di ruoli tra la Sicilia e la parte peninsulare del Regno. La nuova dignità conferita a una città a quell'epoca certamente non tra le più rilevanti della Puglia, peraltro nemmeno insignita della dignità vescovile, traeva giustificazione principalmente dalla sua felice condizione di ganglio nevralgico nel sistema di comunicazioni stradali verso il Settentrione e il versante tirrenico. Il ruolo che Foggia e la Capitanata avrebbero giocato d'ora innanzi nelle aspettative private dell'imperatore non meno che nell'organizzazione politico-militare dei suoi domini è testimoniato dal modo in cui Federico risolse, quasi in perfetta coincidenza di tempi con gli eventi sopra ricordati, l'annoso problema dei saraceni di Sicilia, liquidato con la loro deportazione in massa a Lucera.
È convinzione diffusa che il viaggio in Germania abbia rappresentato la maturazione in senso gotico dei gusti e delle preferenze estetiche dello Svevo, che se ne sarebbe fatto tramite nel Regno proprio con le iniziative artistiche foggiane. Tuttavia quando si prova a misurare questa affermazione con il metro di quel che di scultura sopravvive nel palazzo imperiale (archivolto del portale), ma anche di quello che nella stessa città gli è stato a buon diritto collegato stilisticamente (sculture architettoniche della collegiata di S. Maria Icona Vetere), la delusione si aggiunge allo sconcerto per il divario tra i connotati formali dei manufatti, da un lato, e la ricchezza decorativa e il prestigio del monumento, nitidamente percepibili attraverso il filtro delle testimonianze letterarie, dall'altro. Quale che sia stato il luogo di formazione del cantiere, disputato tra la Capitanata e il confinante Molise (Calò Mariani, 1984 e 1997; Aceto, 1990), l'autore del portale del palazzo, sia pure a un buon livello di tenuta manuale, appare in ogni caso debitore di modalità linguistiche e di modelli tipologici acclimatati lungo il versante adriatico da una prassi artistica più che quarantennale, come aveva ben intravisto Bertaux (1903) e come poi hanno meglio provveduto a chiarire altri studiosi (Haseloff, 1920; Jacobs, 1968). Una situazione culturale analoga trapela dagli scarsi resti di scultura architettonica ricadenti nel terzo decennio del Duecento attestati nei castelli di Bari e di Trani, dove ad agire sono modesti artefici locali, che non hanno pretenziosamente esitato a firmare il loro intervento. L'esatta valutazione di questo primo momento della scultura federiciana, segnato dalle tendenze sincretistiche distintive della tarda età normanna, è stata a lungo intorbidata dalle mansioni di protomagister, interprete fedele dei moderni pensieri dell'imperatore, accordato senza motivo a Bartolomeo ‒ in realtà un funzionario statale (ma v. contra Palatia) ‒, il cui nome, inciso in grande evidenza sull'epigrafe del palazzo di Foggia accanto a quello del sovrano, è stato con varia convinzione associato dalla critica (Bologna, 1969; Mellini, 1991) a capolavori di maturo 'classicismo gotico', quali il busto di Barletta e la non meno celebre coppia di capitelli erratici provenienti dalla cattedrale di Troia, uno ancora in sito, il secondo nel Metropolitan Museum di New York. A parte la questione nominalistica di Bartolomeo, riproposta a sprezzo della buona filologia con una pervicacia nell'errore di cui francamente sfuggono le ragioni (Magistrale, 1997), la scarsezza dei dati esterni, ma soprattutto le discontinuità linguistiche rilevabili all'interno della documentazione figurativa di diretto patrocinio imperiale hanno fornito terreno fertile al proliferare di valutazioni divergenti sui tempi, non meno che sulla qualificazione formale e sul relativo inquadramento storico delle opere, talora con oscillazioni di giudizio così radicali da indurre un forte scetticismo sulle effettive potenzialità del metodo di analisi stilistica. Per segnalare solo l'ultima di queste aporie, proposta alla di-scussione da autorevoli studiosi, mentre non si è esitato da più parti a stabilire una linea di diretta derivazione dal gotico delle cattedrali per l'effigie acefala di Federico già nella Porta di Capua (Claussen, 1990; 1995) ‒ in passato proposta addirittura come paradigmatico esempio di 'protoumanesimo' svevo ‒ facendo leva tra l'altro su presunti stilemi transalpini rintracciabili nella replica del capo di forte impronta neoclassica eseguita alla fine del Settecento dallo scultore genovese Tommaso Solari (Speciale, 1999); si sono invece declassati al rango di prodotti di maestranze meridionali capolavori quali le mensole figurate di Castel del Monte (Sauerländer, 1994), alcune degne di figurare per autonoma compiutezza formale in un'antologia delle prove gotiche di più intenso naturalismo espressivo, accanto a quelle offerte nel secondo quarto del Duecento dalla cattedrale di Reims e alle loro derivazioni tedesche (Bamberga, Magonza). Per parare l'insorgere inerziale di ostacoli sulla via di un'aderente ricostruzione della scultura federiciana, appare sempre più urgente sostituire all'osservazione esterna dei fatti, appoggiata ad ambigue categorie concettuali, un'indagine condotta per linee interne, rispondente alle dinamiche e alle forme organizzative praticate a quest'epoca dagli artefici medievali. In altre parole, messe da parte le astratte e abusate divisioni della materia per generi o per ambiti territoriali, occorre puntare l'obiettivo sulla struttura, al contempo mobile e mutevole, dei cantieri imperiali, il laboratorio fisico e mentale nel quale dal quotidiano confronto delle esperienze, dei modelli, dei procedimenti tecnici e delle specializzazioni di cui erano depositari i singoli maestri, ma anche dalle risposte alle sfide periodicamente proposte da una committenza vigile e di alto profilo intellettuale, quale indubitabilmente fu quella di Federico II, s'innescarono quei meccanismi di crescita che dagli esordi foggiani, ancora invischiati nel retaggio di forme romaniche, portarono nel giro di una generazione agli aggiornati esiti gotici di Castel del Monte e del castello di Lagopesole. Un simile approccio, nel dar conto in termini storicamente motivati dei travasi di cultura da una fabbrica all'altra prodotti dalla circolazione dei maestri, permette anche di cogliere gli snodi di una vicenda artistica che, se da una certa fase in avanti ha nell'esponente gotico il suo tratto unificante, appare d'altro canto segnata da accelerazioni e scarti spiegabili solo come frutto di un ininterrotto dialogo con il mondo transalpino, che le cerchie federiciane erano, per ovvie ragioni, nelle migliori condizioni mentali e logistiche per attivare e gestire.
Nella gran massa di fabbriche imperiali riadattate o innalzate ex novo da un capo all'altro del Regno, le prove qualitativamente più alte della scultura si concentrano, come un complemento indicativo dello speciale significato ad essi riconosciuto, in un numero in fondo esiguo di edifici, distribuiti tra la Sicilia orientale, la Capitanata, il Vulture, Terra di Bari e Terra di Lavoro, qualificandoli ora per le loro funzioni di raffinate residenze signorili (palazzo di Foggia, castelli di Siracusa, Lucera, Lagopesole, Andria), ora per le forti valenze simboliche all'interno di una precisa strategia di propaganda politica (Porta di Capua). Il primo momento di svolta dopo i contraddittori risultati formali di Foggia è offerto da Castel Maniace a Siracusa, un affascinante edificio che a dispetto delle gravi mutilazioni subite in età moderna ci ha conservato il più cospicuo e raffinato corredo di scultura architettonica federiciana precedente Castel del Monte. Avviata verosimilmente dopo il 1232, all'indomani della rivolta dei saraceni, la fabbrica risulta in via di completamento nel 1239 (Agnello, 1961). Nel lasso di tempo intercorso tra la fondazione del palazzo foggiano e quella della residenza-fortezza siciliana era intervenuto nell'organizzazione dei cantieri imperiali un fatto nuovo di enorme portata per i futuri sviluppi dell'arte sveva: nel 1224, "ad costruenda sibi castra et domicilia" (Ignoti monachi, 1888, p. 38), Federico aveva deciso di arruolare schiere di conversi cistercensi delle abbazie del Regno, a quest'epoca e a qualunque latitudine portatori di un sapere tecnico e di una cultura architettonica ormai pienamente integrati con il gotico delle cattedrali. Le stringate forme ornamentali del coevo castello di Augusta (forse destinato a deposito di derrate), costrette entro le severe linee dell'architettura secondo la più pura norma bernardina, si arricchiscono di fresche notazioni naturalistiche in chiave gotica nelle terminazioni vegetali dei colossali capitelli a crochets di Siracusa, alla cui logica strutturale vengono ora sottomesse anche le divertite e ironiche divagazioni figurative introdotte qui e là da addestrate maestranze meridionali. La conferma che i cantieri federiciani funzionavano come dei vasi comunicanti è offerta dalla riconoscibilissima presenza, con ruolo di assoluto spicco, tra gli scultori addetti alla decorazione plastica del castello siciliano d'un anonimo maestro transalpino, i cui esordi nel Meridione sono stati rintracciati tra Termoli e Fossacesia, ma che da molti sintomi sembra quasi certo sia stato coinvolto nelle imprese foggiane (Aceto, 1990). L'accrescimento segnato da Castel Maniace nella maturazione di nuovi indirizzi della scultura sveva è testimoniato dall'insinuarsi, nel ricchissimo corredo di plastica architettonica, di impegnative prove figurate pienamente raccordate stilisticamente alla ritrattistica imperiale, tra le quali spicca per i suoi tratti all'antica un misconosciuto peduccio in forma di protome maschile barbata in opera in uno degli ambienti di servizio. Quel che ancora si riesce a percepire della sua primitiva fisionomia formale, al di sotto degli irreparabili guasti prodotti dalla combinata azione erosiva del vento e della salsedine (lo squadro monumentale del volto, dilatato quasi con effetto da altorilievo; l'acconciatura dei capelli, fermati da una benda e arricciolati sulle tempie in grosse ciocche percorse da fitte striature, che s'innestano senza soluzione di continuità con quelle ritorte della copiosa barba; il taglio della bocca e del naso; le orbite profondamente incavate), rivela sorprendenti convergenze d'intenti con le parti di più marcato timbro classicheggiante delle sculture della Porta di Capua, in particolar modo con i busti dei 'giudici' e con la testa del cosiddetto 'Zeus'.
L'impresa capuana (1234-1239), proiezione nella solida materia del marmo dei principi informatori delle Costituzioni di Melfi (1231) imperniate sul concetto giuridico della centralità dell'autorità imperiale nella sfera politica, amplifica l'isolata nota formale siciliana in un articolato programma d'immagine lucidamente teso a proclamare la continuità del sovrano con gli imperatori romani, con l'allestimento per la prima volta in ambito meridionale di un vasto apparato figurativo monumentale reso perspicuo nei suoi contenuti ideologici da numerose scritte un tempo messe in bocca agli attori principali della scena. Nel registro mediano della cortina muraria che sul lato nord collegava la coppia di torri, affiancata da due statue classiche di Diana e Apollo (Scaglia, 1982; Meredith, 1994), campeggiava entro una nicchia l'effigie di Federico in trono, vestito all'antica e con i simboli del potere, nell'ufficialità solenne eternata a memoria del suo nome e della sua maestà ‒ come egli stesso dichiara in un documento del 1248 ‒ dagli augustali aurei coniati nelle zecche di Messina e Brindisi. In asse con il sovrano, subito al di sopra del fornice, prendeva posto l'immagine simbolica della Iustitia imperialis, cui facevano ala i due busti dei 'giudici'. Questo nucleo principale di sculture altamente significanti era completato da parti scolpite di valore decorativo, le une e le altre da tempo esposte nel Museo Provinciale Campano, nelle quali il paludato travestimento classicistico si allenta a vantaggio di una condotta più corsiva, ma anche umanamente più accostante. Le incertezze degli studiosi circa la provenienza e la formazione culturale della maestranza (Bologna, 1969, 1989; Poeschke, 1980; Claussen, 1990, 1995; Gnudi, 1980; Sauerländer, 1994) e al tempo stesso l'utilizzazione antologica di modelli antichi fra loro incoerenti rivelano da un lato il carattere eterodiretto e quindi eminentemente strumentale del 'classicismo' capuano, dall'altro l'assenza di una qualsiasi cultura antiquaria: "se i rilievi antico-romani assunsero lo statuto di modello, fu per meccanismi determinati dalla ragione del potere molto più che da quelle del gusto" (Settis, 2004).
Che una simile ostentazione antichizzante fosse stata dettata anche dall'urgenza della lotta politica contro il papato è altamente verosimile. È un fatto innegabile che, al di fuori dei limitati casi dei presunti ritratti ufficiali di Federico, non tutti in ogni caso riconducibili al diretto patrocinio del sovrano quando addirittura non gravati da seri dubbi di genuinità duecentesca, con il venir meno del condizionamento ideologico il gotico torni di nuovo a far sentire la sua originaria e insopprimibile attitudine a rivitalizzare i modelli classici, investendoli di contenuti espressivi nuovi. Il monumento che meglio illustra questo passaggio della produzione plastica federiciana, così decisivo anche per gli esordi toscani di Nicola "de Apulia", è Castel del Monte (1240-1246). Le sculture figurate che, in chiave di volta o come mensole a sostegno dei costoloni, concorrono all'armonioso telaio geometrico dell'architettura, sia pure a diversi gradi di manualità si propongono all'osservatore con la loro vibrante carica umana, in accordo con quanto da almeno un decennio venivano insegnando gli scultori di Francia e Germania. La virata risulta così netta nei confronti dell'antefatto capuano e insieme così omogeneamente di-stribuita all'interno delle nuove fabbriche (castello di Lagopesole), senza distinzioni di timbro formale tra parti figurate e apparati ornamentali, da rendere necessario ipotizzare l'apertura di un diretto canale con i centri del gotico transalpino, alla cui attivazione poterono più di ogni altra circostanza contribuire i movimenti di Federico e della corte tra il 1235 e il 1238, gli anni della seconda campagna di Germania e del matrimonio con Isabella d'Inghilterra.
In questo contesto non si farà fatica a trovare il posto giusto nella serie anche a superbe sculture, quali il busto di Barletta (Prandi, 1953) e i capitelli di Troia (Wentzel, 1954; Ostoja, 1965), riconfermandone al contempo, con la loro autenticità duecentesca, la specifica pertinenza culturale federiciana, negata recentemente con speciosi argomenti. L'intensità emotiva del volto dell'imperatore, impietosamente segnato dai guasti dell'incipiente vecchiaia, esorcizzata dal volitivo scarto laterale del capo, ha i suoi paralleli proprio nella plastica di Castel del Monte, in particolare nel frammento di protome maschile laureata, dal nome del suo scopritore nota come 'testa Molajoli'. I due capitelli di Troia, in particolare il pezzo ora a New York, finalmente disancorati dal perentorio ante quem del 1229 (Aceto, 1990), a loro volta spingono le ricerche di naturalismo gotico ancora più avanti nella pungente e individuata resa fisionomica delle protomi umane che ne costruiscono il volume.
Queste sculture, tutte ancorabili agli anni Quaranta del secolo, rappresentano il vertice del progetto culturale svevo in questo settore. Se con la morte dell'imperatore la bandiera del rinnovamento passerà alla Toscana, le esperienze maturate in questi anni avranno ancora il fiato per percorrere nel Regno un altro bel tratto di strada, suscitando persino l'interesse di Carlo I d'Angiò, responsabile del definitivo declino della casata degli Hohenstaufen.
fonti e bibliografia
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