Scuola
(XXXI, p. 249; App. I, p. 997; II, ii, p. 801; III, ii, p. 685; IV, iii, p. 294; V, iv, p. 695)
Parte introduttiva
di Aldo Lo Schiavo
Una storia della s., dalle prime forme organizzate nell'antichità greca e romana a quelle assunte durante il Medioevo, fino alla formazione dei caratteri propri della s. moderna, è stata delineata nella voce scuola nel XXXI vol. dell'Enciclopedia Italiana. Tale quadro informativo, prevalentemente dedicato all'aspetto istituzionale, è stato arricchito dalla riflessione relativa agli ideali educativi, alle concezioni e ai criteri pedagogico-culturali che hanno ispirato gli ordinamenti scolastici nel corso delle diverse epoche, svolta nel sottolemma Storia dell'educazione nella voce educazione (XIII, p. 492) dell'Enciclopedia, e ripresa, per l'educazione contemporanea, nell'App. IV (i, p. 644). Uno sguardo sistematico a concetti e modelli culturali connessi all'insegnamento scolastico, quali quelli relativi alle differenti forme di sapere organizzate nell'attività didattica o ai diversi tipi di istruzione impartita nelle s., è proposto sotto la voce istruzione (XIX, p. 688) dell'Enciclopedia, nonché, in relazione all'incidenza del fattore tempo nei processi di istruzione, nell'App. V (ii, p. 800). Con specifico riferimento alle modalità didattiche, all'organizzazione e alle condizioni di svolgimento dell'insegnamento-apprendimento, è stata svolta la voce didattica nell'Enciclopedia (XII, p. 771), ulteriormente sviluppata nell'App. V (i, p. 828). Particolare rilievo hanno assunto le teorie del curricolo (v. curricolo, teorie del, App. V, i, p. 787), per il tentativo di inserire i processi di insegnamento-apprendimento in una prospettiva organica, tale da corrispondere meglio alla complessità dei problemi posti dalla realtà sociale in cui opera la s. odierna. In tale più avanzata prospettiva si muovono anche le ricerche sugli obiettivi educativi (v. tassonomia degli obiettivi educativi, App. V, v, p. 395) e quelle relative alle procedure di valutazione del rendimento scolastico (v. docimologia, App. V, i, p. 857). Per quanto attiene ai successivi sviluppi degli ordinamenti scolastici e ai nuovi orientamenti delle politiche educative si rinvia agli aggiornamenti della voce scuola nelle varie Appendici dell'Enciclopedia. Dello specifico ruolo assunto dalla formazione professionale nelle moderne economie industriali e postindustriali e delle sue forme organizzative si tratta nella voce professionale, formazione, dell'App. V (iv, p. 286).
La spesa per l'istruzione
L'investimento di risorse nell'istruzione continua a essere considerato, all'inizio del 2000, un investimento capace di incoraggiare la crescita economica e il progresso sociale. Gli stessi organismi internazionali e comunitari, di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione dei mercati, sottolineano la necessità di migliorare l'investimento nei processi formativi, oltre che nella ricerca scientifica e tecnologica, quale condizione indispensabile ad assicurare competitività ai sistemi produttivi dei singoli paesi. Semmai, gli orientamenti più recenti dei governi nazionali, a cominciare dai paesi a economia avanzata, sembrano essere principalmente quelli di individuare nuove strategie in grado di conciliare l'ampliamento dell'offerta formativa con l'aumento di efficienza dei servizi resi, ovvero di trovare un più adeguato equilibrio tra le risorse finanziarie disponibili e la qualità dei differenti livelli di istruzione. In effetti, i limiti posti dalla congiuntura economica ai bilanci degli enti pubblici esigono, da un lato, che si proceda decisamente nel senso della ottimizzazione delle risorse impiegate e, dall'altro, che si realizzi un controllo sistematico della produttività delle istituzioni educative. Sebbene la principale fonte di finanziamento sia destinata a rimanere a lungo quella espressa dai bilanci pubblici, una delle preoccupazioni dei governi è di riuscire a stimolare l'incremento dell'intervento privato, specie dei settori economici di punta, a sostegno sia della ricerca che della formazione.
In base ai dati del rapporto dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sull'educazione del 1998 (v. anche tab. 1), i paesi che aderiscono a tale organizzazione spendono mediamente il 5,6% del loro PIL a sostegno degli istituti di istruzione (la spesa pubblica diretta in tale settore rappresenta da sola il 4,9% del PIL). I paesi con la maggiore percentuale di spesa complessiva sono, nell'ordine, Danimarca (con il 7,1% del PIL), Canada (7,0%), Svezia (6,7%), Stati Uniti (6,7%), Finlandia (6,6%), Francia (6,3%) e Repubblica di Corea (6,2%). Per contro, i paesi che spendono meno risultano il Giappone e l'Italia (4,7%), la Grecia (3,7%), la Turchia (2,4%). Più specificamente, per l'istruzione primaria la spesa media dei paesi dell'OCSE corrisponde all'1,5% del PIL, mentre per l'istruzione secondaria è del 2,2%. Tali dati, per quanto significativi, riflettono la situazione di un solo anno, il 1995. Se si tiene presente una scala storica più ampia, ci si accorge che detti valori cambiano all'interno delle singole realtà in conseguenza di fattori variamente incidenti, quali la diminuzione della popolazione in età scolare per effetto della contrazione delle leve demografiche, l'attivazione in tempi diversi delle politiche volte a incrementare la frequenza di più alti livelli di istruzione, la disponibilità di risorse finanziarie in relazione a fenomeni di crescita o di rallentamento delle economie. Si può peraltro intravedere una tendenza alla convergenza delle spese pubbliche per l'istruzione nei paesi dell'OCSE.
Altro indicatore significativo è quello relativo alla spesa per studente in rapporto al PIL pro capite. Tale spesa aumenta sensibilmente, un po' dovunque, con il salire del grado di istruzione: per quella prescolare, la spesa media per studente è del 18% (il valore per l'Italia è il 17%, ma concerne soltanto la spesa degli istituti pubblici); per l'istruzione primaria è del 19% (del 24% in Italia); per l'istruzione secondaria è del 27% (come in Italia). Inutile ricordare che la parte predominante dell'impegno finanziario è costituita da spesa corrente (media OCSE 92%), sulla quale incidono principalmente i costi del personale.
Non minore rilievo assume il rapporto studenti/docenti secondo i diversi livelli di istruzione. Nell'istruzione primaria pubblica, il rapporto in questione varia dal 31,2 della Repubblica di Corea all'11,2 di Italia e Danimarca (la media OCSE è di 18,3); nell'istruzione secondaria inferiore, il rapporto va da 25,5 nella Repubblica di Corea a 9,2 in Austria (media 14,8, dato italiano 10,8); nell'istruzione secondaria superiore, il rapporto oscilla tra 23,1 della Repubblica di Corea e 8,5 dell'Austria (media 13,7, dato italiano 9,8). Le differenze sono dovute non soltanto alla diversità degli ordinamenti didattici e alle modalità di utilizzazione del personale docente, ma anche alla distribuzione più o meno capillare delle istituzioni scolastiche sul territorio e alla presenza nelle s. di servizi di supporto e di personale specializzato.
Livelli di scolarità
Per le ragioni dette all'inizio, le politiche scolastiche manifestano un interesse crescente ad ampliare le opportunità di studio dei giovani e a elevare nel contempo i livelli individuali di istruzione. Ormai sono tanti i paesi (Australia, Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda, la maggior parte dei paesi europei) nei quali oltre il 60% della popolazione in età compresa fra i 5 e i 29 anni risulta iscritto a corsi formali di istruzione. Il dato di maggiore rilevanza non è certo quello relativo alla frequenza della s. di base, che almeno nei paesi dell'OCSE interessa quasi dovunque l'intera popolazione di età corrispondente. Le iscrizioni cominciano a diminuire per lo più dopo il sedicesimo anno di età. I sistemi che prevedono più anni di s. dell'obbligo dimostrano di riuscire a trattenere i giovani a s. fino alla fine della secondaria superiore. In tali casi, però, la maggioranza degli studenti delle secondarie superiori segue corsi di tipo professionale, ivi compresi quelli collegati a forme di lavoro. Persino la mancanza di alternative in campo occupazionale può di fatto contribuire a mantenere elevato il tasso di partecipazione a detto livello di istruzione.
L'indicatore più significativo della produttività dei sistemi di istruzione è rappresentato dalla percentuale dei giovani che conseguono il diploma di s. secondaria superiore in rapporto all'intera popolazione che ha l'età giusta per completare tale tipo di studi. Secondo i dati del rapporto OCSE 1998 (Education at a glance. Indicators 1998) i tassi di conseguimento del diploma di istruzione secondaria superiore avevano raggiunto nel 1996 il 72% negli Stati Uniti, il 73% in Canada e Spagna, il 79% in Italia e Irlanda, fra l'81% e l'86% in diversi paesi europei (Svezia, Svizzera, Danimarca, Paesi Bassi, Francia, Germania, Austria, Ungheria), l'88% in Russia, oltre il 90% in Nuova Zelanda, Polonia, Finlandia, Giappone. Fra i paesi che fanno registrare ancora tassi inferiori al 40% figurano la Cina, il Brasile, l'Argentina, l'Indonesia, il Messico. Tuttavia i dati sui tassi di conseguimento del diploma, ancor più degli altri dati sull'istruzione, devono essere interpretati con molta prudenza, dal momento che i corsi di istruzione secondaria, sia quelli di formazione generale sia quelli di formazione tecnico-professionale, variano fra i diversi paesi sotto molteplici profili: diversità di durata dei corsi, del tipo di impegno o di frequenza, dei contenuti degli insegnamenti, degli indici di difficoltà degli studi. Del resto si comincia a disporre di misurazioni internazionali che rivelano come in alcuni paesi una percentuale consistente di giovani, pur avendo conseguito il diploma di secondaria superiore, non raggiunga in effetti livelli adeguati persino nelle competenze di base. E ciò rappresenta, naturalmente, una notevole causa di preoccupazione per i governi, anche in relazione alle ripercussioni che tale deficit formativo finisce per avere negli studi superiori e universitari (v. università, in questa Appendice) e quindi sulle aspettative di rinnovamento dei quadri necessari alla ricerca, alle professioni superiori, alla dirigenza economica e amministrativa. Si comprende pertanto come proprio in riferimento alla fascia dell'istruzione secondaria, vera cerniera dei sistemi formativi, finisca per porsi il delicato problema di individuare un giusto equilibrio tra sviluppo quantitativo della scolarizzazione, compreso l'innalzamento dei tassi di conseguimento del diploma, e qualità degli studi e dell'insegnamento impartito nelle s., rilevata in termini di capacità e di competenze effettivamente acquisite dagli studenti. Su tale nodo fondamentale la discussione è quanto mai aperta, soprattutto nelle aree a economia avanzata. Di ciò si dirà più avanti. Intanto si danno qui di seguito notizie aggiornate sui processi di scolarizzazione nel nostro paese (a questo proposito, v. anche tab. 2).
Secondo i dati pubblicati nel 32° Rapporto del CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) sulla situazione sociale del paese (1998), nel 1997-98 la s. materna nel suo complesso ha ospitato 1.594.062 bambini (dei quali 917.881 hanno frequentato sezioni di s. materna pubblica). Il relativo tasso di scolarità (iscritti per cento coetanei) si aggira ormai da più anni intorno al 95%. In tale s. comincia a essere apprezzabile la presenza di alunni stranieri (6,6 su mille iscritti). Nella s. dell'obbligo (elementare e media) la tendenza di lungo periodo alla diminuzione degli iscritti sembra essersi arrestata nel 1996-97, considerato che il dato provvisorio del 1997-98 relativamente alle elementari è di segno positivo. In ogni caso la piena scolarizzazione della corrispondente fascia di età, raggiunta da tempo (come era naturale attendersi per una s. dell'obbligo), consente di affermare che le variazioni del numero degli iscritti sono da riferire ormai esclusivamente all'andamento demografico. Significativi risultano invece i dati relativi alla diminuzione del numero delle unità scolastiche, delle classi e anche dei docenti, mentre trovano incremento i rapporti alunni per classe e alunni per docente. Si tratta di segnali ormai certi che i processi di razionalizzazione in atto da alcuni anni stanno producendo effetti positivi. In progressivo aumento in questa fascia di istruzione è anche il numero degli alunni stranieri, che già nel 1995-96 figuravano essere 8,5 ogni mille iscritti alla s. elementare e 5,0 ogni mille iscritti alla s. media. Di particolare rilievo è l'incremento del tasso di passaggio dalla s. media alla s. secondaria superiore: dall'88,7 dell'anno scolastico 1992-93 al 92,5 del 1996-97. Con il prolungamento di un anno dell'obbligo scolastico, disposto dalla l. 20 genn. 1999 n. 9 (v. oltre), tale tasso dovrebbe raggiungere il 100% già dall'anno scolastico 1999-2000. Nonostante questo dato positivo, la popolazione scolastica complessiva della s. secondaria superiore è venuta diminuendo negli ultimi anni, passando da 2.858.221 nel 1991-92 a 2.648.535 nel 1996-97. Tuttavia la propensione verso questo livello di istruzione si rivela in aumento: il tasso di scolarità è progressivamente cresciuto da 70,8 del 1991-92 a 81,1 del 1996-97. Le misure di razionalizzazione si fanno sentire anche nella secondaria superiore, dove il numero di studenti per classe è ormai pari a 22 e quello di studenti per docente è pari a 10. Modesta è ancora la presenza di studenti stranieri (pari a 2,4 su mille iscritti) in questa fascia di istruzione. Fra i tipi di s. secondarie, gli istituti tecnici dei differenti indirizzi, pur accogliendo tuttora la più elevata quota percentuale di studenti col 40,6% nel 1997-98, fanno registrare un'utenza in progressivo calo. Stazionaria è la situazione degli istituti professionali, col 19,0%, e degli istituti d'arte e licei artistici, col 3,6%. Sono invece in progressivo aumento gli studenti dei licei scientifici (passati dal 18,0% del 1991-92 al 19,6% del 1997-98) e dei licei-ginnasi (passati dall'8,1 al 9,0%). Questo incremento degli studenti liceali è di buon auspicio anche per l'aumento del numero dei laureati in Italia, se si considera la circostanza, già registrata in passato (v. scuola, App. V), per la quale dai diplomati dei due licei - di fatto meno di un terzo del totale dei diplomati di secondaria superiore - provengono quasi tre quarti dei laureati dell'università italiana.
Insuccesso scolastico e qualità dell'istruzione
Si è già detto che l'impegno delle politiche scolastiche è diretto a innalzare i livelli di scolarità, per far sì che la maggior parte dei giovani (tendenzialmente tutti) giunga a conseguire un diploma di istruzione secondaria superiore, e che una parte di costoro, più consistente che in passato, possa arrivare a usufruire almeno di un primo grado di istruzione superiore o terziaria. Naturalmente lo sforzo per il conseguimento di tali obiettivi dovrà risultare più vigoroso in quei paesi che presentano ritardi storici in detto settore. Nella prospettiva indicata, una condizione prioritaria è rappresentata dalla necessità di definire strategie opportune per porre rimedio al problema dell'insuccesso scolastico, che persiste in tutti i paesi, sia pure in forme e dimensioni diverse, e che non si esaurisce nei fenomeni di ripetenza, interruzione o abbandono anzitempo degli studi, ma riguarda anche, come sempre meglio si riconosce, l'insufficiente profitto anche da parte di chi giunge a completare gli studi secondari. In altri termini, la qualità dei processi di istruzione appare oggi non meno scadente degli standard quantitativi della scolarizzazione.
È noto che l'insuccesso scolastico è spesso frutto dell'interazione di fattori diversi: le caratteristiche personali degli studenti, i condizionamenti dell'ambiente familiare e sociale, il tipo di organizzazione scolastica, le modalità dell'insegnamento impartito. Ora, sembra chiaro che lo svantaggio espresso da deficit personali, nella misura in cui può essere affrontato, richiede necessariamente interventi specialistici, integrativi o sostitutivi, da definire caso per caso. È altresì evidente, come mostrano le politiche perseguite negli ultimi decenni, che lo svantaggio derivante da fattori ambientali può essere almeno in parte corretto da misure di sostegno e da programmi nazionali o locali di diritto allo studio (v. oltre: Democrazia scolastica). Non appare invece altrettanto chiaro, per il momento, in quale modo affrontare il problema dell'insufficiente profitto degli studenti e, più in generale, il nodo complessivo della qualità dell'istruzione.
Il tema, per la verità, non è nuovo. Si pensi, per es., allo shock provocato negli Stati Uniti, verso la fine degli anni Cinquanta, dal lancio dei primi sputnik sovietici, che ha fatto dubitare gli americani dell'efficacia della preparazione scientifica fornita dalle loro s. e università. Negli ultimi decenni, in molti paesi, si sono seguite varie vie di intervento nel tentativo di conciliare l'estensione-innalzamento dei livelli di scolarizzazione con l'esigenza di mantenere buoni standard di preparazione degli studenti. La revisione dei curricoli, la sperimentazione e gli aggiornamenti della didattica, le nuove forme di partecipazione e di gestione, secondo i suggerimenti incalzanti della cosiddetta pedagogia dell'innovazione, hanno migliorato per alcuni versi la situazione scolastica e le modalità dell'insegnamento, ma, nel complesso, hanno fatto prevalere pressoché dovunque la via della riduzione e della semplificazione degli impegni di studio, insistendo più sulle procedure che sui contenuti dell'insegnamento, più sulla comunicazione e la socializzazione degli allievi che sulle conoscenze e le strutture dei saperi. Si è inteso, inoltre, delegare via via alla s. compiti educativi della più varia natura (per le cosiddette molte educazioni, v. educazione, in questa Appendice), che, oltre a disorientare i docenti chiamati a responsabilità che solo in parte competono loro, hanno contribuito ulteriormente ad allentare l'attenzione sulle funzioni specifiche dell'istruzione.
Molti di questi nodi oggi sono venuti al pettine. Tra i governi e gli organismi internazionali è cresciuta la consapevolezza della necessità di imboccare nuove vie. Si è ripreso a discutere, finalmente, dei contenuti, dei saperi che la s. deve trasmettere. E tuttavia le opinioni di politici, intellettuali ed esperti appaiono ancora contraddittorie, quando non risultano addirittura controproducenti rispetto all'obiettivo primario di ridare serietà e nuova efficacia ai corsi di istruzione.
Alcuni documenti elaborati negli ultimi anni testimoniano gli sforzi e al tempo stesso la difficoltà di trovare soluzioni coerenti per la s. del prossimo futuro. Il Libro bianco su istruzione e formazione della Commissione europea, pubblicato nel 1996 per iniziativa dei commissari É. Cresson e P. Flynn, sottolinea la necessità che il rinnovamento dell'istruzione e della formazione debba essere tale da corrispondere alle tre grandi sfide che si prospettano: la competitività imposta dalla globalizzazione delle economie, l'accelerato sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, la diffusione planetaria degli strumenti di informazione e comunicazione. Con l'aumento della complessità nelle situazioni di vita, c'è il rischio che la società "si divida fra coloro che possono interpretare, coloro che possono soltanto utilizzare e coloro che sono emarginati in una società che li assiste". La risposta per ridurre il divario fra tali gruppi, secondo i citati commissari europei, dovrebbe consistere nello 'sviluppo della cultura generale', in una 'formazione polivalente', fatta di cultura insieme letteraria e scientifica, filosofica, tecnica e pratica, di apprendimento di almeno due lingue straniere, di iniziazione generalizzata alle tecnologie dell'informazione. Su questa base si dovrebbe innestare l'acquisizione di nuove competenze tecniche in sede di formazione professionale prima, di formazione continua dopo, nell'arco di tutta la vita. Secondo questa pedagogia dell'innovazione (come qui è chiamata) sarebbe eccessiva la 'normalizzazione dei saperi' oggi praticata nella s., perché essa può indurre "a pensare che tutto debba essere strettamente logico" e che la "padronanza di un sistema deduttivo, fondato su nozioni astratte" possa risultare "paralizzante e uccidere l'immaginazione". Sono affermazioni gravi per quanti ritengono necessaria anche per il futuro un'istruzione fondata sul sapere critico, razionale, scientifico.
Il documento dei commissari Cresson e Flynn contiene, peraltro, qualche proposta interessante, quale quella che suggerisce la creazione di un sistema di crediti (le 'tessere personali delle competenze') per il riconoscimento delle competenze parziali acquisite, di modo che anche i giovani che falliscono nei corsi scolastici si sentano incoraggiati a sviluppare le loro abilità in contesti formativi diversi (per es., nell'impresa, in altre esperienze di studio o di lavoro, nelle università popolari ecc.). Tale sistema dovrebbe valere anche per gli adulti, rendendo così più concrete le prospettive aperte dalle iniziative proprie della formazione continua (v. formazione continua, in questa Appendice).
Nella loro Education policy analysis (1997), gli esperti dell'OCSE riuniti nel CERI (Center for Educational Research and Innovation) sembrano disegnare bene lo scenario futuro quando scrivono: "Nel Ventunesimo secolo, il successo scolastico non si misurerà più sulla base del numero degli anni di studio, e il diploma conseguito non sarà più un passaporto valido per tutta la vita. Al contrario, ci si aspetterà che gli studenti seguano con successo itinerari di apprendimento differenziati e siano disposti ad acquisire nuove competenze lungo l'intero arco della vita" (OECD 1997; trad. it. 1998, p. 84). È da sottolineare il collegamento qui stabilito fra 'successo scolastico' e frequenza di 'itinerari di apprendimento differenziati', una proposta che pare sottintendere la presa di coscienza dei gravi limiti dell'opposto indirizzo (corsi prolungati per tutti di cultura generale), largamente seguito in Europa e altrove. Lo stesso documento, però, continua, non senza contraddizione con quanto prima affermato, auspicando 'passaggi' o 'tappe' del processo educativo più 'agevoli' da attraversare e metodi d'insegnamento consoni alle esigenze di 'tutti' gli studenti. Ciò, evidentemente, finirebbe per compromettere la coerenza e l'efficacia formativa dei pur auspicati itinerari differenziati. In altri termini, persiste l'equivoco che si possa migliorare il profitto senza elevare, o quanto meno mantenere, i livelli di difficoltà dei corsi di istruzione.
L'enciclopedia dei saperi e la scuola
Sul tema dei contenuti dell'insegnamento e dei saperi che la s. dovrà trasmettere si è aperto di recente in Francia e in Italia un dibattito interessante e assai delicato. In riferimento al tema Quels savoirs enseigner dans les lycées?, discusso agli inizi del 1998, E. Morin ha sottolineato la necessità della rottura delle frontiere disciplinari, che isolano le discipline fra loro e i loro oggetti di studio. Come mostrano quei campi di studio della ricerca scientifica contemporanea che vanno sotto i nomi di cosmologia, scienze della terra, biologia molecolare, teoria dell'informazione, e come mostra la stessa scienza storica attuale, accanto alla linea della disciplinarità si è ormai imposta quella della inter-trans-poli-disciplinarità. Sarebbero varie le circostanze che hanno fatto progredire le conoscenze spezzando l'isolamento delle discipline: la circolazione di concetti chiave, l'emergenza di altri schemi cognitivi, di nuove ipotesi esplicative e organizzative che permettono di articolare diversi domini disciplinari in sistemi teorici più ampi. "Le discipline sono pienamente giustificate intellettualmente a condizione che esse mantengano un angolo visuale che riconosca e concepisca l'esistenza dei legami di solidarietà" (Morin 1998, pp. 17 e segg.). Morin confida che stia emergendo un 'paradigma cognitivo' in grado di stabilire dei ponti tra le scienze e le discipline non comunicanti. In ogni caso, sarà necessario tener conto di tutto ciò che è loro contestuale. Queste segnalazioni di Morin, in sé valide e corrette, riflettono più direttamente la situazione della ricerca scientifica e possono suggerire modelli organizzativi all'insegnamento universitario, ma non si vede come possano tradursi nell'insegnamento secondario, soprattutto in considerazione del fatto che l'apprendimento dei diversi ambiti disciplinari, nelle loro strutture interne e nei loro metodi specifici, non può che essere preliminare a ogni approccio di tipo inter-, trans- o polidisciplinare. L'ipotesi di elaborare per l'istruzione secondaria programmi 'più condensati' intorno a grandi temi unitari (Mondo, Terra, Vita, Umanità ecc.), come prospettato nelle Giornate tematiche organizzate a Parigi nel marzo 1998, se per un verso potrebbe valere a stimolare la capacità dei ragazzi a 'contestualizzare' le conoscenze, per altro verso potrebbe rendere più concreto il rischio di approssimazione e di improvvisazione proprio in una fase formativa in cui è indispensabile assicurare basi culturali solide e rigorose agli apprendimenti.
Orientamenti simili sono affiorati in Italia con la pubblicazione del documento di 'sintesi' (il cosiddetto documento dei 'saggi') dei lavori della commissione tecnico-scientifica (gennaio-maggio 1997) incaricata dal ministro della Pubblica Istruzione di individuare 'le conoscenze fondamentali' per l'apprendimento dei giovani nella s. dei prossimi decenni. Nel documento si afferma che la s., attenta ai caratteri della 'società dell'informazione' e alla "costante revisione dei quadri istituzionali delle conoscenze", dovrà necessariamente "operare un forte alleggerimento dei contenuti disciplinari" per aprirsi a "una visione di tipo reticolare" ("dei saperi trasversali e dei collegamenti fra le diverse aree"), "orientata a individuare criteri più mobili di aggregazione delle future conoscenze e competenze dei giovani". Al riguardo si invoca "la centralità dell'epistemologia propria di ogni area di sapere" e si sottolinea l'utilità degli strumenti multimediali intesi "come ambienti di formazione dell'esperienza e della conoscenza" che, tra l'altro, consentirebbero di valorizzare "forme di intelligenza intuitiva, empirica, immaginativa, assai diffuse fra i giovani" (Sintesi dei lavori, 1997). Tali linee sono state sostanzialmente ribadite nel successivo documento su I contenuti essenziali per la formazione di base, presentato dal ministro della Pubblica Istruzione nel marzo 1998.
Il documento dei 'saggi' ha incontrato forti critiche in ambienti intellettuali e fra i docenti, con riguardo sia alla sua impostazione generale sia alle indicazioni relative ai diversi ambiti disciplinari. Nel libro Segmenti e bastoncini (1998), L. Russo ha denunciato il rischio di cadute irrazionalistiche a cui sta andando incontro la cultura scolastica, non solo in Italia; in particolare, ha stigmatizzato la spinta che il documento citato darebbe alla 'deconcettualizzazione' e 'deverbalizzazione' degli insegnamenti, dal momento che mostra scarsa fiducia nell'apprendimento di concetti astratti delle discipline scientifiche e nelle strutture proprie della lingua scritta, mentre manifesta eccessiva fiducia nell'uso dei linguaggi non verbali, immaginativi, multimediali. Il pericolo, denunciato da altri, riguarda anche un certo orientamento verso la destoricizzazione di molti insegnamenti, con le conseguenze facili da prevedere per la formazione critica dei giovani. Una spia in questa direzione è apparso il provvedimento di riperiodizzazione dei programmi di storia (d.m. 4 nov. 1996 nr. 682), il quale, per destinare l'ultimo anno dei corsi alla storia del Novecento, ha finito per concentrare in tempi ridottissimi lo studio della storia antica, e quindi per sacrificare una delle dimensioni essenziali alla comprensione del mondo classico. Più in generale, in difesa dei valori formativi della cultura classica (con specifico riferimento allo studio non preteribile delle lingue greca e latina), come pure in difesa dell'impianto storico di insegnamenti fondamentali quali la filosofia e le letterature, hanno preso posizione molti studiosi e varie associazioni sia in Italia (fra gli altri V. Branca, B. Gentili, D. Antiseri, diverse consulte universitarie, l'associazione di docenti Prisma) sia in Francia (fra gli altri J. de Romilly, M. Fumaroli, l'associazione Sauvegarde des enseignements litteraires). Forse anche in relazione a tali preoccupazioni, i ministri dell'istruzione italiano e francese hanno pensato di sottoscrivere, il 2 luglio 1998 a Siena, un comunicato congiunto "sulla cultura classica come fondamento per un rinascimento europeo". Su altro fronte, gli insistenti richiami, in Italia e altrove, all'utilità in campo educativo delle tecnologie multimediali sono apparsi alquanto esagerati, poiché se è vero che quelle offrono nuove opportunità in quanto 'strumenti', è però vero che la fertilissima tecnologia potrebbe favorire un gioco che in fin dei conti si esaurisce in se stesso. È sorprendente come certi esponenti della cultura e della pedagogia progressiste arrivino a scoprire nella multimedialità "rivoluzioni epistemologiche, soli dell'avvenire, nuove felici possibilità esistenziali" (Ferroni 1997). Come denuncia G. Sartori (1997), se si fa coincidere l'istruzione con la comunicazione e si riempiono le scuole di televisori e word processors, la s. finisce per rinforzare il video-bambino invece di contrastarlo: in altri termini, si arriva a far perdere la consapevolezza che il pensiero razionale, il sapere critico, la cultura scientifica sono una conquista laboriosa, tutta in salita.
Bisogna osservare che tanto le indicazioni contenute nei documenti francesi e italiani sopra richiamati quanto quelle espresse nei testi degli organismi comunitari di cui si è detto in precedenza si muovono lungo una linea politico-culturale non chiarita fino in fondo. Per un verso, quelle indicazioni ripropongono, senza accorgersene, vecchie formule, quali quelle di 'cultura generale', 'comune', 'polivalente', comprensive un po' di tutte le forme di sapere (dalle lettere alle scienze, dagli studi sociali alle lingue straniere, dall'educazione civica a quella visiva e artistica, dalla filosofia alle discipline tecnico-professionali), formule su cui hanno a lungo indugiato le politiche scolastiche degli ultimi decenni, con esiti che pure sono apparsi spesso assai deludenti. Per altro verso, gli stessi progetti credono di poter saltare d'un balzo la funzione antica della s. come sede precipua della trasmissione dei saperi consolidati (da cui eventualmente muovere per nuove acquisizioni e avanzamenti) e propongono invece di imboccare senz'altro la via di una s. come 'centro di ricerca', aperta all'innovazione continua, e per la quale basterebbero nuove 'mappe' concettuali, 'reti' pluridisciplinari, conoscenze 'trasversali', alleggerite delle rigorose logiche disciplinari, e però più adatte a servirsi di quei linguaggi asistematici e di quelle forme d'intelligenza intuitiva e pratico-operativa che appartengono all'esperienza dei giovani di oggi e sono favorite dagli strumenti odierni della comunicazione.
Eppure, già da qualche tempo, come ricorda G. Ferroni (1997), non pochi osservatori hanno denunciato i danni recati alla cultura scolastica dalla politica e dalla pedagogia nel nome della 'democratizzazione'. Fra i tanti, F. Canfora ha stigmatizzato gli interventi legislativi fatti "per non dispiacere", il rifiuto acritico della selezione, l'avversione preconcetta al nozionismo, l'insistenza unilaterale sull'interdisciplinarità e la sperimentazione. J.-C. Milner (1984; trad. it. 1986) ha sottolineato le minacce che gravano sull'autonomia dei docenti come intellettuali, la tendenza 'populista' a mettere fuori gioco i saperi astratti e complessi e a insistere invece sui 'metodi'. Secondo la tradizione laico-illuminista, opportunamente richiamata da J. Muglioni (1991), preservare l'indipendenza della s. rispetto alla società esterna significava preservare l'avvenire e insieme prepararlo. Compito della s. non era di adattarsi alla vita presente: la s., piuttosto, voleva essere il luogo dove si apprendeva a essere lucidi e liberi nei confronti della società, dei suoi pregiudizi, delle sue ingiustizie. E.D. Hirsch (1996) ha messo in luce il collasso dell'istruzione negli Stati Uniti per effetto delle teorie pedagogiche progressiste e dei suoi facili slogan, quali quelli sul project method e sulla student- centered education, che puntavano a creare nella s. condizioni di soddisfazione e di benessere dei giovani, favorendo però per tal via la diffidenza verso i saperi scientifici e il rigore delle conoscenze. Neppure i problemi attuali del globalismo, della società multietnica, dell'interculturalismo potrebbero essere affrontati, come osserva lo stesso Ferroni, senza "un punto di riferimento comune", rappresentato dalla tradizione culturale occidentale che si è venuta costruendo attraverso la civiltà classica, il medioevo latino, l'umanesimo, l'illuminismo, la scienza e la filosofia moderne, e che si è fatta portatrice di quei valori universali di razionalità, di laicità, di tolleranza, che soli possono garantire dalle chiusure fideistiche e integraliste.
Dovrebbe ormai essere chiaro che per corrispondere in modo plausibile alle difficoltà socio-ambientali della contemporaneità, per riuscire a orientarsi di fronte al sorprendente sviluppo scientifico e tecnologico, per trovare un senso nell'odierna enciclopedia culturale dai multiformi messaggi, occorre che la s. riscopra e al tempo stesso rinnovi la sua precipua funzione intellettuale, riporti cioè al centro del suo impegno i contenuti dei saperi fondamentali, che richiedono apprendimento lento e sistematico, e al tempo stesso li specifichi progressivamente in modo da far sì che diventino patrimonio personale, determinato ma solido, e proprio perciò suscettibile di nuovi acquisti e sviluppi in direzioni diverse. È necessario imboccare la via maestra della progressiva specificazione del corso degli studi, per cui, dopo un'istruzione comune di base di congrua ma non lunga durata, i percorsi di istruzione secondaria si differenzino nel senso che ciascuno di essi si concentri su una grande area di sapere (storico-letterario, scientifico, socio-economico, artistico, musicale) che assicuri il possesso dei rispettivi strumenti di conoscenza e consenta al giovane di acquisire una chiave di lettura della realtà, di cui servirsi per orientarsi nella complessa esperienza di sé e del mondo. Il possesso effettivo di una chiave di comprensione del mondo vale, comunque, assai più della pur generosa illusione di possederle tutte. Programmi d'insegnamento onnicomprensivi o poco specificati, per cui tutti studiano un po' di tutto, sono forse quanto di più deleterio possa pensarsi per la formazione dei giovani di oggi e del prossimo futuro.
A imboccare una tale via, suggerita da non pochi intellettuali, non sembrano ancora preparate le attuali politiche scolastiche. Per es., il rapporto in 49 punti consegnato al ministro francese C. Allegre il 28 aprile 1998 dal comitato presieduto da Ph. Meirieu in seguito al colloquio nazionale Quels savoirs enseigner dans les lycées? fa largo richiamo a una 'cultura comune', con 'programmi indifferenziati' nelle diverse 'filiere' liceali, mentre in sostanza limita alle ultime due classi gli insegnamenti che specificano gli indirizzi; lo stesso criterio dell'orientamento è concepito in modo tale che non deve assumere carattere irreversibile e per contro deve prevedere frequenti passerelle tra le 'filiere'. Il disegno di legge di "riordino dei cicli dell'istruzione" del ministro italiano L. Berlinguer, deliberato dal Consiglio dei ministri nel giugno 1997, si muove in una prospettiva non molto dissimile, pur nel quadro di una riforma organica del sistema di istruzione. Accolto dal Parlamento con sostanziali modifiche, il disegno è diventato la legge quadro in materia di riordino dei cicli dell'istruzione 10 febbr. 2000 nr. 30. In base a tale legge il sistema educativo comprende: a) la scuola dell'infanzia, di durata triennale, destinata ai bambini di età compresa fra i tre e i sei anni (l'ultimo anno di corso coinciderà con l'inizio dell'obbligo scolastico); b) il ciclo primario o scuola di base, della durata di sette anni, caratterizzato da un percorso educativo unitario che si conclude con un esame di Stato avente anche finalità orientativa; c) il ciclo secondario o liceo, della durata di cinque anni, articolato in indirizzi rientranti nelle aree classico-umanistica, scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale (nei primi due anni viene garantita la possibilità di passare da un modulo all'altro anche di aree e di indirizzi diversi).
Innovazioni nel sistema scolastico italiano
Dopo anni di tentativi defatiganti e di sostanziale immobilismo, la politica scolastica italiana è entrata dal 1996 in una fase di grande movimento propositivo, che ha già prodotto importanti provvedimenti, mentre altre iniziative di rilievo sono in via di definizione.
Il provvedimento di maggiore peso, destinato a modificare sensibilmente l'organizzazione e il funzionamento delle istituzioni scolastiche, è quello che prevede l'attribuzione a dette istituzioni della personalità giuridica e dell'autonomia organizzativa e didattica, disposta dall'art. 21 della legge delega 15 marzo 1997 nr. 59, nel quadro del più generale riordinamento delle competenze fra Stato, Regioni ed enti locali. La gestione dei servizi di istruzione sarà via via trasferita alle istituzioni scolastiche che raggiungono i requisiti dimensionali fissati nel successivo d.p.r. 18 giugno 1998 nr. 233, e definiti sulla base di piani provinciali di dimensionamento. Contestualmente all'acquisto della personalità giuridica e dell'autonomia da parte degli istituti scolastici viene conferita ai capi di istituto la qualifica dirigenziale secondo la disciplina prevista dal d. legisl. 6 marzo 1998 nr. 59. Intanto, a decorrere dall'esercizio finanziario 1997, è stato istituito un fondo per l'arricchimento e l'ampliamento dell'offerta formativa e per gli interventi perequativi (l. 18 dic. 1997 nr. 440). L'atteso regolamento, che disciplina l'autonomia delle istituzioni scolastiche, è stato emanato con d.p.r. 8 marzo 1999 nr. 275. Esso riserva al ministro soltanto la definizione degli obiettivi generali e specifici dell'apprendimento, delle discipline costituenti la quota nazionale dei curricoli, dell'orario annuale complessivo dei curricoli, degli indirizzi generali circa la valutazione degli alunni e il riconoscimento dei crediti e debiti formativi. Ogni istituzione scolastica, con la partecipazione di tutte le sue componenti, predispone il Piano dell'offerta formativa, che esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa delle singole scuole. Nell'ambito dell'autonomia didattica le s. possono adottare l'articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna disciplina, definire unità di insegnamento non coincidenti con l'unità oraria della lezione, attivare percorsi didattici individualizzati, realizzare iniziative di recupero, sostegno e orientamento. L'autonomia organizzativa può riferirsi anche alle modalità di impiego dei docenti, agli adattamenti del calendario scolastico, alla flessibilità dell'orario complessivo fermi restando l'articolazione delle lezioni in non meno di cinque giorni settimanali e il rispetto del monte ore previsto per le singole discipline. Alle s., singolarmente o tra loro associate, è riconosciuta altresì autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo, che le autorizza a curare l'innovazione metodologica e disciplinare, l'aggiornamento del personale scolastico, la promozione di accordi di rete per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali.
Complessivamente considerato, detto disegno autonomistico, in vigore dal 1° sett. 2000, rompe positivamente con le rigidità centralistico-burocratiche e apre le strutture scolastiche a una realtà sociale mobile e diversificata. Esso, peraltro, corre il rischio grave di sommergere, quanto meno di mortificare, l'autonomia culturale e professionale del singolo docente nell'attivismo programmatorio dei gruppi organizzati all'interno della comunità scolastica.
Altra iniziativa di rilievo è quella concretatasi nell'abolizione dell'esame di maturità introdotto nel 1969 e ora sostituito (l. 10 dic. 1997 nr. 425) con un "esame di Stato conclusivo dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore". Bandito pertanto l'equivoco concetto di 'maturità', il nuovo esame si profila più tecnicamente provveduto nel proporre, secondo la definizione adottata dal legislatore, "l'analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato in relazione agli obiettivi generali e specifici di ciascun indirizzo di studi". L'esame comprende tre prove scritte e un colloquio. La prima prova scritta è diretta ad accertare la padronanza della lingua italiana, nonché le capacità espressive, logico-linguistiche e critiche del candidato; la seconda ha per oggetto una delle materie caratterizzanti il corso di studio seguito; la terza, a carattere pluridisciplinare, verte sulle materie dell'ultimo anno di corso e consiste nella trattazione sintetica di argomenti, nella risposta a quesiti ovvero nella soluzione di problemi o nello sviluppo di progetti. Il colloquio si svolge su argomenti di interesse multidisciplinare relativi alle materie dell'ultimo anno. Il voto finale complessivo in centesimi è il risultato della somma dei punti attribuiti alle prove scritte (fino a un massimo di 45) e al colloquio (fino a 35) e dei punti del 'credito scolastico' (non superiore a 20) relativo agli scrutini finali degli ultimi tre anni. Il punteggio complessivo minimo per superare l'esame è di 60/100. La commissione è composta da non più di otto membri (il 50% interni e il 50% esterni), più il presidente esterno. Disposizioni più dettagliate sono contenute nel regolamento adottato con il d.p.r. 23 luglio 1998 nr. 323. Il nuovo esame, se non risulterà alterato dalle disposizioni amministrative di attuazione e dalla prassi seguita dalle commissioni esaminatrici, potrebbe essere inteso come un segnale di svolta verso il ripristino di condizioni di serietà e di coerenza degli studi di istruzione secondaria superiore.
L'insegnamento e la stessa programmazione dell'attività didattica sono stati interessati all'uso delle nuove tecnologie multimediali, sulla scia di un rapporto sul tema Software didattico e multimedialità elaborato per iniziativa di alcuni commissari europei. In Italia, la direttiva del ministro della Pubblica Istruzione nr. 318 del 4 ott. 1995 aveva individuato le linee di sviluppo delle tecnologie didattiche nel sistema scolastico, linee successivamente precisate e rese operative per il periodo 1997-2000. Anche il variegato campo delle attività didattiche integrative e complementari ha trovato una disciplina unitaria nel regolamento emanato con d.p.r. 10 ott. 1996 nr. 567.
È stato anche varato, fra qualche polemica e rilievi critici, lo Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria (d.p.r. 24 giugno 1998 nr. 249). Nell'art. 1, la s. viene definita quale "luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l'acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica". Si parla anche della s. quale "comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni". Un ampio ventaglio di diritti, aspettative e possibilità di partecipazione attiva degli studenti alla vita della s. è contemplato dall'art. 2 dello statuto, mentre dei doveri, comportamenti e responsabilità degli studenti si parla all'art. 3. Riguardo alla disciplina, lo statuto demanda ai regolamenti delle singole istituzioni scolastiche l'individuazione delle mancanze disciplinari, le relative sanzioni (che devono essere sempre di natura temporanea) e gli organi competenti a erogarle. Si afferma che i provvedimenti disciplinari in ogni caso hanno finalità educativa e che nessuna infrazione connessa al comportamento può influire sulla valutazione del profitto.
Il tema del prolungamento dell'obbligo scolastico, ampiamente dibattuto nel corso degli ultimi decenni, ha trovato una provvisoria soluzione con la l. 20 genn. 1999 nr. 9. Questa, pur prevedendo l'elevazione di detto obbligo da otto a dieci anni, dispone che fino all'approvazione del riordino generale del sistema scolastico e formativo l'obbligo di istruzione ha durata novennale. La stessa legge, poi, accenna alla prospettiva di estendere l'obbligo fino al diciottesimo anno di età, al termine del quale i giovani dovrebbero acquisire un diploma di scuola secondaria superiore. In alternativa, l'art. 68 della l. 17 maggio 1999 nr. 144 ha previsto l'obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo anno di età, da assolvere in percorsi anche integrati di istruzione e formazione professionale o nell'esercizio dell'apprendistato.
Dopo cinquant'anni di dibattiti e di scontri politici è stata varata la legge sulla parità scolastica (l. 10 marzo 2000 nr. 62), per la quale le scuole non statali che conseguono la parità, nel rispetto di alcune regole fondamentali, entrano a far parte del "sistema nazionale di istruzione".
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Democrazia scolastica
di Aldo Lo Schiavo
Con espressioni come 'diritto allo studio', 'democratizzazione dell'educazione', 'democrazia scolastica', si fa riferimento, in primo luogo, alla promozione delle condizioni che consentano a tutti i cittadini di fruire dell'istruzione ai suoi diversi livelli, al fine di conseguire il pieno sviluppo della persona umana e il consapevole esercizio dei diritti civili, sociali e professionali; in secondo luogo, alle forme e modi di partecipazione alla gestione della s. da parte degli utenti e degli altri soggetti interessati al suo funzionamento, nel quadro di un orientamento volto ad avvicinare i servizi educativi alle esigenze dei singoli e della comunità, superando o quanto meno attenuando i vincoli del centralismo burocratico. Si tratta di due dimensioni in qualche misura fra loro complementari: l'una pone in rilievo l'uguaglianza di fronte ai processi dell'istruzione, l'altra sottolinea la partecipazione comune al governo delle istituzioni educative.
L'evoluzione storica
Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, in seguito alla cosiddetta contestazione giovanile, che ha preso di mira l'autoritarismo delle istituzioni scolastiche e la selettività dei tradizionali sistemi di istruzione, ha assunto particolare rilievo sotto il profilo politico-sociale il principio della partecipazione. Il concetto dell'uguaglianza, invece, quello dell'estensione della scolarità e del diritto-obbligo di tutti all'istruzione, ha origini assai più lontane, già nelle istanze dei regimi illuminati del Settecento e negli esiti costituzionali della Rivoluzione francese, e interessa un processo tuttora in corso di proporzioni ormai planetarie e di orientamenti molto più avanzati. Dopo che la rivoluzione industriale (con i conseguenti fenomeni di trasferimento di popolazioni dalle campagne, la nascita di un proletariato urbano, le continue innovazioni tecnologiche applicate alla produzione) aveva reso del tutto evidenti i limiti della formazione di tipo artigianale, i governi interessati all'evoluzione in corso cominciarono a porre in termini più concreti il problema di un'istruzione di base generalizzata. Questa si esauriva, ancora nella prima metà del Novecento, in quella alfabetizzazione primaria che in sostanza costituiva l'asse della cosiddetta educazione popolare e alla quale era destinata la s. elementare di quattro-sei anni. L'istruzione secondaria e universitaria restava di fatto limitata a una minoranza, aumentata via via nel tempo e tuttavia ancora d'impronta elitaria e di fatto selettiva, nonostante le forme di assistenza e altre provvidenze pubbliche introdotte nel frattempo. Per i ceti meno favoriti, dopo la s. primaria, non c'erano che i modesti canali di formazione professionale che avviavano direttamente al lavoro. I termini del diritto all'istruzione cominciarono a cambiare radicalmente dopo la Seconda guerra mondiale, in sintonia con l'accelerazione dei processi di democratizzazione dei paesi europei e americani e altresì della formazione di nuovi Stati in Africa e Asia a seguito del fenomeno della decolonizzazione. Il diritto all'educazione venne universalmente riconosciuto con l'art. 26 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, adottata dall'assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948. Detto articolo, oltre a proclamare che almeno l'insegnamento elementare dev'essere obbligatorio e gratuito, afferma pure che "l'accesso agli studi superiori deve essere aperto a tutti, in piena uguaglianza, in funzione del merito". Il diritto dei singoli diventa, in questo campo, un obbligo per lo Stato, che deve garantire le condizioni di uguaglianza per l'esercizio di quel diritto. E tale è, in sostanza, il criterio adottato dall'art. 34 della Costituzione della Repubblica italiana, promulgata nel 1947. Tuttavia, più che le enunciazioni di principio, sono state le migliorate condizioni di vita e le aspettative di avanzamento sociale di vasti strati di popolazione a promuovere negli anni Cinquanta-Settanta la progressiva e quasi sorprendente espansione della scolarizzazione, anche verso l'istruzione secondaria e postsecondaria. Nei paesi a economia più avanzata, dall'America del Nord all'Europa, al Giappone e altrove, si realizzarono le condizioni di una s. di massa, la spesa per l'istruzione aumentò sensibilmente (nel 1953, la spesa media dei paesi OCSE era del 5,3% del PIL), la stessa durata dell'obbligo scolastico venne estesa quasi dovunque alla prima fascia della s. secondaria e in taluni casi anche oltre (per es., fino al 17° anno di età negli Stati Uniti, fino al 18° in Germania e in Belgio). Dagli Stati Uniti si diffuse la teoria del 'capitale umano', secondo cui la spesa per l'istruzione va considerata una forma d'investimento non solo per i singoli ma per l'intera società, in particolare per lo sviluppo dei sistemi economici. Dove le condizioni di partenza risultavano diverse, si registrarono prospettive e si progettarono piani d'intervento, nazionali e internazionali, che denotavano la volontà di muoversi il più presto possibile nella predetta direzione. Nel 1977, una conferenza dei ministri dell'educazione e dei ministri della pianificazione economica degli Stati arabi si pronunciò in favore della democratizzazione dell'educazione, che implica, fra l'altro, l'uguaglianza di accesso e la diversificazione dell'offerta educativa. Parimenti, nel 1978, una conferenza regionale dei ministri di Asia e Oceania pose fra i punti da discutere all'ordine del giorno la "uguaglianza di accesso all'educazione nella prospettiva della democratizzazione".
Le direzioni degli interventi
Presto, però, anche nei paesi economicamente avanzati l'esperienza e le statistiche arrivarono a dimostrare che, nonostante le forti politiche di espansione e di sostegno pubblico, la possibilità di accesso all'istruzione riconosciuta a tutti non assicurava una corrispondente riuscita negli studi. Permangono dovunque ineguaglianze sostanziali, dovute in larga misura alla persistenza di ordinamenti i quali di fatto finiscono per privilegiare gli allievi provenienti da ambienti socialmente e culturalmente più provveduti rispetto a quelli provenienti da ambienti meno dotati. Teorici dell'educazione, sociologi e politici da un lato denunciano i costi umani e socioeconomici dell'insuccesso scolastico (dovuti soprattutto ai fenomeni di privazione o di deficit culturale), dall'altro prospettano strategie di largo spettro volte a consentire pari opportunità non solo riguardo l'accesso all'istruzione ma anche, per quanto possibile, riguardo la riuscita o il successo negli studi. In effetti, un po' dovunque vengono elaborate misure e attuate riforme che, pur nella diversità delle situazioni, si muovono lungo alcune direzioni prioritarie.
Una di queste concerne l'estensione dell'educazione prescolare, nella convinzione che proprio durante la prima infanzia sia possibile rimediare alle condizioni di svantaggio scaturite dagli ambienti di provenienza. Appare necessario però superare il modello tradizionale di s.-asilo, luogo di 'parcheggio' per bambini di genitori impegnati in attività di lavoro, e realizzare invece una s. per l'infanzia con specifici compiti educativi al fine di promuovere le abilità fisiche e mentali dei bambini e la loro socializzazione, come auspicato dalla Convenzione dei diritti del fanciullo approvata dall'assemblea delle Nazioni Unite nel 1989. Alcuni paesi si sono mossi con anticipo, e fra questi l'Italia, con l'istituzione nel 1968 della s. materna statale. Altri paesi si sono incamminati sulla stessa strada con minore decisione. Ancora nel 1989, una risoluzione adottata dai ministri dell'educazione dell'Unione Europea impegnava gli Stati membri a "rafforzare la scolarizzazione preelementare in quanto contribuisce a una migliore scolarizzazione ulteriore, specie per i bambini provenienti da situazioni svantaggiate".
L'altra pur rilevante linea di tendenza consiste nel rimandare più avanti nel tempo la scelta degli studi secondari, principalmente attraverso la creazione di un tronco comune comprendente i primi livelli di scolarità, come nel caso della Comprehensive school britannica o della Gesamtschule nella Repubblica Federale di Germania e di altre iniziative in Svezia e in Finlandia. In Russia l'istruzione secondaria è generale e obbligatoria. Altrove, lo stesso prolungamento dell'obbligo scolastico finisce per incidere come ulteriore fattore di unificazione o quanto meno di avvicinamento dei corsi di studio. Alla specificazione degli indirizzi, in alcuni paesi (Danimarca, Belgio, Francia, Paesi Bassi, Portogallo), vengono riservati soltanto gli ultimi due anni di s. secondaria superiore. Il criterio degli esami fra un ciclo e l'altro di istruzione è posto in discussione o è del tutto abbandonato; il passaggio all'anno di corso successivo e quello da un corso all'altro vengono in vario modo facilitati; l'accesso all'istruzione superiore o universitaria viene in taluni casi liberalizzato. La logica che ispira tali misure risponde, da un lato, alla necessità di superare le strozzature interne degli ordinamenti scolastici e di favorire così la fruizione generalizzata dell'istruzione secondaria (i dati pubblicati nell'edizione 1996 del rapporto OCSE, Education at a glance, indicano che il tasso medio di scolarizzazione raggiunto dai paesi aderenti era l'87,5% per i giovani al 16° anno di età, il 78,3% per quelli al 17° anno, il 64,6% per quelli al 18° anno), dall'altro lato all'esigenza di promuovere una formazione generale comune, per quanto possibile polivalente, nella presupposizione che tale tipo di formazione possa meglio rispondere ai bisogni di orientamento culturale delle nuove generazioni, nonché alle richieste di rapida conversione professionale da parte del mondo del lavoro.
La terza, più variegata e problematica, linea di tendenza, nella direzione stessa della democratizzazione dell'istruzione scolastica, consiste nel progressivo ampliamento delle funzioni educative della s. e nella forte innovazione delle modalità organizzative dell'insegnamento. Nel primo caso, sotto la pressione di istanze politico-sociali tutt'altro che omogenee, la s., specialmente quella dell'infanzia e quella dell'istruzione comune di base, ha visto crescere la pressione per la sua apertura verso momenti o aspetti dell'educazione che vanno ben al di là dei tradizionali compiti di acquisizione di abilità cognitive e di trasmissione di saperi consolidati, e che finiscono per delegare alle istituzioni scolastiche compiti un tempo riservati alla famiglia, ovvero per attribuire alle stesse istituzioni nuove responsabilità in relazione ai problemi esistenziali e di orientamento giovanile postisi nelle attuali società complesse (v. educazione). Sull'altro fronte, quello della mediazione didattica e della sua efficacia rispetto alle esigenze espresse da una s. di massa, la ricerca psicopedagogica e sociopedagogica è venuta elaborando, a partire dagli anni Sessanta, strategie educative complesse (si pensi, per es., alla costruzione di tassonomie degli obiettivi formativi, alle teorie della progettazione curricolare, ai modelli di mastery learning e, per ultima, alle ipotesi di didattica modulare; v. didattica: Didattica modulare), ovvero proponendo la sperimentazione di nuove metodologie d'insegnamento, di più corretti criteri di misurazione e valutazione del profitto (v. oltre: Valutazione scolastica), di più avanzate tecnologie educative, soprattutto di quelle suggerite dagli strumenti informatici e dalle procedure della comunicazione multimediale (che, non a caso, figurano nel programma di governo adottato nel 1997 dal primo ministro britannico T. Blair).
Una quarta linea, di più recente individuazione, richiama l'attenzione delle politiche nazionali sui problemi della 'formazione continua', ben al di là cioè della formazione iniziale affidata ai cicli di istruzione scolastica, nell'intento di garantire ai cittadini il diritto all'educazione durante tutta la vita (v. formazione continua). La vecchia ottica in cui si muovevano la cosiddetta educazione degli adulti e l'educazione ricorrente, con l'obiettivo prevalente di consentire ai lavoratori di rientrare nella formazione scolastica o professionale (si pensi, per es., alla Convenzione del 1974 con cui l'Ufficio internazionale del lavoro enunciava il diritto dei lavoratori dipendenti a ottenere permessi di studio retribuiti), è stata riletta e rilanciata nel corso degli anni Novanta da diversi organismi internazionali nella più ampia prospettiva di un lifelong learning, che può diventare una possibilità concreta nella misura in cui verrà favorita l'integrazione o comunque un collegamento funzionale fra le differenti opportunità formative esistenti (s., università, formazione professionale, agenzie di educazione non formale, servizi e infrastrutture culturali di vario tipo, pubbliche e private). L'esigenza del learning throughout our lives è stata segnalata dal Consiglio dei ministri dell'educazione europei del giugno 1993. In Italia, nel febbraio 1994, il Ministero della Pubblica Istruzione e la conferenza dei presidenti delle regioni hanno sottoscritto un'intesa generale che prevede, fra l'altro, la necessità di un raccordo fra le diverse iniziative formative attivate sul territorio nazionale. L'invito più autorevole in tale direzione proviene dalla 5ª Conferenza mondiale sull'educazione degli adulti, promossa dall'UNESCO nel luglio 1997. Vi si raccomanda di "assumere come obiettivo per il prossimo secolo l'affermazione del diritto minimo universale di un'ora al giorno" che ciascun soggetto deve poter dedicare liberamente al suo sviluppo intellettuale o a promuovere la propria socialità. In altri termini, pur nella diversità delle situazioni rispettive, tutti i paesi sono chiamati a muoversi in una direzione più ampia di quella tradizionalmente ancorata agli ordinamenti scolastici, a provvedere cioè 'sistemi integrati' di educazione. A tal fine vengono raccomandati curricoli scolastici più flessibili, modalità non penalizzanti di rientro nei diversi segmenti del sistema, nuovi criteri di organizzazione dei servizi offerti e di certificazione dei saperi comunque acquisiti, anche per il tramite di 'crediti' spendibili in differenti contesti.
Limiti e rilievi critici
Largamente condivisa fra gli esperti dei processi educativi è la prima delle linee d'intervento sopra richiamate, vale a dire la scolarizzazione della prima fascia di età infantile. Tale scelta, ovviamente, si accompagna alla consapevolezza dei suoi limiti oggettivi. La s. materna o dell'infanzia, anche la meglio strutturata e aggiornata negli obiettivi e nei metodi, non può riuscire a risolvere del tutto i deficit derivanti da ambienti fortemente deprivati o da situazioni di grave emarginazione. Tuttavia è opinione diffusa, del resto comprovata da iniziative pilota in Italia e all'estero, che una buona organizzazione scolastica a detto livello di età riesce, entro certi limiti, a facilitare la socializzazione dei bambini, a disciplinarne gli stati emotivi, a promuovere abilità che altrimenti rimarrebbero compresse o di più lenta e difficile esplicazione. Ancora controverso è il problema ulteriore se sia opportuno o meno interessare gli stessi bambini a compiti più impegnativi dal punto di vista cognitivo in funzione preparatoria del primo ciclo di istruzione in senso proprio.
Problemi molto più delicati e controversi fanno sorgere le politiche di riforma degli ordinamenti scolastici, poste in essere al fine di evitare o spostare più avanti possibile la selezione, di contenere i fenomeni di insuccesso e di abbandono e di favorire così una scolarizzazione generalizzata almeno fino al diploma di s. secondaria superiore. Già il memorandum Gardner del 1983, A nation at risk, curato da una commissione costituita dal presidente degli Stati Uniti, stigmatizzava quella logica della socializzazione e dell'uguaglianza dei corsi di istruzione, quasi esclusivamente preoccupata della tutela e poco o nulla interessata all'eccellenza. L'ipotesi del prolungamento dell'obbligo, che pure continua a essere ritenuta una delle vie maestre da perseguire per la democratizzazione dell'educazione, non è tale da garantire di per sé una crescita corrispondente dei reali livelli di apprendimento. Nel 1981 R. Girod denunciava come illusoria la supposizione che l'innalzamento del livello formale d'istruzione (studi più lunghi, più diplomi) equivalga a un progresso reale e durevole delle conoscenze. Negli Stati Uniti si è posto a più riprese il problema del fallimento dei programmi di educazione compensativa. Una rassegna degli 'appuntamenti mancati' dalle politiche scolastiche dei paesi industrializzati è stata pubblicata nel 1986 da N. Bottani. La tendenza a rendere omogenei i curricoli o addirittura a unificare i percorsi di studio, allargando il ventaglio comune delle proposte educative, ma rinviando nel contempo l'inizio della specificazione degli indirizzi di istruzione secondaria, ha contribuito a fare della cultura scolastica un caleidoscopio di temi e di suggestioni, inadatto a consolidare le conoscenze di base e a portare al padroneggiamento delle competenze specifiche relative ai differenti ambiti del sapere. La formazione un po' vaga che ne risulta è apparsa ulteriormente indebolita da metodologie e didattiche innovative, tese a privilegiare la comunicazione, la partecipazione e il dialogo educativo, a volte anche le tematiche esistenziali dei giovani, spesso facendo passare in secondo piano i contenuti di istruzione e le abilità cognitive. Nel 1992, il ministro francese della Cultura, J. Lang, in un documento che ha avuto vasta eco in Europa, ha lanciato un accorato richiamo ai maestri delle elementari a riscoprire l'efficacia dei metodi tradizionali, a cominciare dalla lettura dei classici, dallo studio a memoria delle poesie, dalla redazione frequente di testi scritti; successivamente negli Stati Uniti è nata una polemica sull'insegnamento della matematica tramite calcolatori e computer, che avrebbe messo in soffitta la ginnastica mentale del calcolo.
In Italia, sotto la guida di un'amministrazione politica della s. di ispirazione cattolico-sociale fortemente sostenuta dalla sinistra socialista e comunista, le riforme postsessantottesche dell'esame di maturità e degli accessi universitari (la cosiddetta liberalizzazione), fino ad arrivare all'abolizione degli esami di riparazione prima (1977) nella s. media e poi (1995) nella s. secondaria superiore, hanno rappresentato dei chiari messaggi nel senso della facilitazione dei percorsi scolastici, messaggi condivisi da molti presidi e docenti e soprattutto dalle famiglie. Dello spostamento d'interesse da un'etica propria dell'istruzione e dell'impegno coerente negli studi, spesso oggi bollata come meritocratica o aristocratica (nonostante fosse stata evocata da A. Gramsci), a una asserita etica democratica che pone l'accento su una s. comunità educante, accogliente e socializzante, è documento indicativo, fra gli altri, il Progetto giovani '92 del Ministero della Pubblica Istruzione, col quale si suggerisce alle s. secondarie - come scrive il suo ispiratore, L. Corradini (1990, pp. 258-59) - di ripensare "al curricolo scolastico sulla base di due punti focali, che sono altrettanti problemi-valori avvertiti dal mondo giovanile contemporaneo: l'identità personale e la mondialità solidale"; il diritto allo studio "passa anche attraverso lo sforzo di rendere l'atmosfera scolastica più respirabile e più attraente sul piano relazionale e sul piano culturale". Data la piega assunta dalla politica scolastica negli ultimi decenni, che pure incontra ancora largo seguito, non sorprende lo scontento diffuso fra molti intellettuali (un migliaio dei quali, qualche anno fa, ha sottoscritto un manifesto in favore di una ripresa seria, più coerente e selettiva, dell'istruzione) e fra quelle famiglie che non pensano alla s. come a un 'diplomificio' o come a un luogo di accoglienza e di generica formazione. Anche fra gli insegnanti c'è chi stigmatizza i limiti della democratizzazione scolastica quale si è venuta realizzando nel nostro paese. Scrive uno di loro: "Sì, diciamo pure che in una democrazia la scuola è, per definizione, per tutti; ma questo suona pericolosamente prossimo a per nessuno" (Salzano 1997). Non mancano, tuttavia, segnali di una prospettiva più equilibrata fra le esigenze di tutela sociale delle aspettative (il 'diritto allo studio') e il riconoscimento dei meriti acquisiti attraverso corsi di istruzione impegnativi (il 'dovere verso lo studio'); di una prospettiva, cioè, che tenga conto dei bisogni educativi dei giovani nelle società democratiche complesse, ma nel quadro di una s. responsabile che recuperi i valori dell'istruzione nel suo nesso prioritario con i saperi, le scienze, la cultura critica.
La partecipazione al governo della scuola
La corresponsabilizzazione dei docenti e di altre figure di esperti (psicologi, tecnici di programmazione, di orientamento ecc.) alla progettazione e verifica dei processi educativi era auspicata da alcune teorie del curricolo, le quali, con particolare riferimento alle aree di tradizionale autonomia delle istituzioni scolastiche, prevedevano anche il coinvolgimento di rappresentanti delle comunità locali e di responsabili dell'economia e del lavoro (v. curricolo, teorie del, App. V). Il problema era invece nuovo per paesi nei quali vigevano da antica data sistemi scolastici centralizzati, come in Francia e in Italia. Il sommovimento generato dalla contestazione giovanile ha generalizzato e allargato l'esigenza partecipativa, richiedendo con forza la presenza degli studenti stessi nella gestione delle istituzioni educative. Questa partecipazione dei giovani alle decisioni che li riguardano direttamente solleva dovunque problemi d'ordine politico e istituzionale e implica conseguenze di vario genere sia all'interno, sia all'esterno dei sistemi educativi (Hummel 1981, p. 327). Peraltro le soluzioni trovate o semplicemente proposte sono state diverse in relazione ai differenti contesti sociopolitici e culturali.
Ci si sofferma qui sulle soluzioni adottate in Italia. La decretazione delegata del 1974, conseguente alla l. delega 30 luglio 1973 nr. 477, ha provveduto a un radicale riordinamento degli organi collegiali, molti dei quali di nuova istituzione, nell'intento di aprire la s. alle istanze espresse dalla comunità locale e, nel contempo, di rendere quest'ultima partecipe del funzionamento delle istituzioni educative. In tale quadro, alcune funzioni direttive e di gestione in precedenza riservate al direttore didattico e al preside, sono state attribuite a un organo di nuova istituzione, il Consiglio di circolo o di istituto, presieduto da uno dei rappresentanti eletti dai genitori e composto, oltre che da tali rappresentanti, da preside, docenti e personale non docente, e da rappresentanti eletti dagli studenti (questi ultimi limitatamente alle s. secondarie superiori). Anche nei Consigli di classe è presente un rappresentante dei genitori e altresì degli studenti (con la limitazione di cui sopra). La funzione docente, pur nella libertà d'insegnamento formalmente riconosciuta a ciascun insegnante, viene inserita nel quadro della programmazione didattica deliberata dal Collegio dei docenti. Per il dibattito ed eventuali proposte su temi di loro interesse, agli studenti è consentito riunirsi in assemblee di classe o in quella generale d'istituto. Alla "partecipazione democratica delle comunità locali e delle forze sociali" è stato riservato il Consiglio scolastico distrettuale, avente competenza propositiva o programmatoria in materia di localizzazione delle istituzioni, di orientamento, di assistenza, di educazione permanente; materie, queste, che rientrano anche nelle competenze del Consiglio scolastico provinciale (v. consiglio: Consigli scolastici, App. V). È da notare che, dopo le prime esperienze dei suddetti organi, il livello di partecipazione si è alquanto attenuato, specie con riferimento alla componente genitori e a quella studentesca, componenti rimaste in parte deluse dalla frammentazione, sovrapposizione e anche modesta rilevanza delle competenze attribuite dal legislatore a tali organi. In forza del d. legisl. 30 giugno 1999 nr. 233, la rappresentanza e partecipazione delle componenti della s. e dei soggetti interessati alla sua attività è assicurata, a livello centrale, dal Consiglio superiore della pubblica istruzione (considerato, ora, organo di garanzia dell'unitarietà del sistema nazionale di istruzione e di supporto tecnico-scientifico delle funzioni di governo nel campo dell'istruzione); a livello regionale, dal Consiglio regionale dell'istruzione (istituito, con compiti consultivi e di supporto, presso ogni ufficio regionale dell'amministrazione scolastica); a livello locale, dal Consiglio scientifico locale (istituito in corrispondenza di ciascuna articolazione territoriale dell'amministrazione, e che sostituisce i già ricordati Consigli scolastici distrettuale e provinciale).
Un nuovo e differente istituto di democrazia scolastica è stato introdotto nel 1995 (d.l. 12 maggio 1995 nr. 163, convertito nella l. 11 luglio 1995 nr. 273). Ogni istituzione scolastica è ora tenuta ad adottare la Carta dei servizi scolastici, con la quale vengono recepiti e pubblicizzati i principi di uguaglianza, imparzialità e regolarità nell'erogazione del servizio, vengono definite le forme di accoglienza e di integrazione degli studenti, è assicurata altresì l'efficienza dell'attività didattica, educativa e organizzativa della scuola. Particolare richiamo è fatto al rispetto dei diritti e degli interessi degli studenti. Viene previsto che fra docente e studente si stabilisca un contratto formativo, consistente in una dichiarazione esplicita di impegni, in virtù della quale lo studente assume consapevolezza degli obiettivi didattici perseguiti e del percorso per raggiungerli, mentre l'insegnante precisa la propria proposta formativa ed esplicita le strategie, gli strumenti di verifica e i criteri di valutazione che intende adottare. La Carta fa riferimento ad altri documenti significativi: il Progetto educativo di istituto (PEI), in cui devono essere precisate le scelte educative e organizzative effettuate dall'istituto, nonché i criteri di utilizzazione delle risorse; il Regolamento di istituto, concernente, fra l'altro, le norme di comportamento degli alunni, di utilizzazione degli spazi, dei laboratori e della biblioteca, di conservazione delle strutture e delle dotazioni, le modalità d'incontro di studenti e genitori con i docenti. Nel quadro della democratizzazione delle istituzioni scolastiche può essere letto anche lo Statuto delle studentesse e degli studenti della s. secondaria emanato con d.p.r. 24 giugno 1998 nr. 249.
L'ultimo e più incisivo intervento del legislatore concerne il riconoscimento a tutte le istituzioni scolastiche ed educative della personalità giuridica e dell'autonomia organizzativa, finanziaria, didattica, di ricerca, sperimentazione e sviluppo. Tale iniziativa, preceduta e accompagnata da un lungo e tormentato dibattito, che ha interessato oltre alle forze politiche e sindacali anche il mondo studentesco, preoccupato fra l'altro che tale riconoscimento potesse favorire gli istituti operanti in zone economicamente avanzate e finire così per dar luogo di fatto alla distinzione fra s. di serie A e di serie B, ha trovato una prima definizione normativa nell'art. 4 della legge 24 dicembre 1993 nr. 537, e successivamente una più puntuale disciplina nella legge delega 15 marzo 1997 nr. 59 (v. anche sopra: Innovazioni nel sistema scolastico italiano).
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Valutazione scolastica
di Michele Tortorici
Il concetto di valutazione scolastica è stato inizialmente formulato e studiato in Inghilterra, intorno alla fine del 19° secolo, in relazione al campo piuttosto circoscritto del valore delle prove d'esame, ed è stato poi a lungo identificato con il compito dell'attribuzione di un giudizio sul livello di apprendimento dei singoli allievi rilevato dal docente (o dai docenti) attraverso prove di verifica di vario tipo. Per giudizio valutativo si deve intendere sia quello espresso mediante una scala numerica comunque codificata (da 1 a 10, da 1 a 5 o, che è lo stesso, da E ad A, e così via) sia quello contenente l'enunciazione per esteso dell'andamento dell'allievo: enunciazione che, a sua volta, può essere organizzata sulla base di precisi indicatori (come è accaduto in Italia nella s. dell'obbligo, attraverso l'uso di schede strutturate, a partire dal 1977) o essere formulata in termini prestabiliti (con indicazioni del tipo 'insufficiente', 'sufficiente', 'buono', 'distinto', 'ottimo', che vengono usate per il titolo finale della s. dell'obbligo e, dal 1996, anche nelle schede di cui sopra) o, infine, essere riferita in forma libera (come è accaduto per l'ammissione agli esami di maturità a partire dal 1970).
Nel 1979 G. De Landsheere, nel Dictionnaire de l'évaluation et de la recherche en éducation, attribuiva al termine valutazione il significato di procedimento sistematico che mira a determinare in quale misura gli obiettivi sono stati conseguiti dagli allievi. Nel corso degli ultimi decenni del 20° secolo, tuttavia, il concetto di valutazione scolastica ha subito una significativa dilatazione: esso, a partire dall'allievo, è stato esteso prima alla s. e infine all'intero sistema di istruzione. La valutazione scolastica può dunque essere definita oggi come il procedimento in virtù del quale, attraverso l'uso di specifici strumenti per l'acquisizione dei dati informativi e la conseguente formulazione di appositi giudizi, il processo di insegnamento-apprendimento e i prodotti intermedi e finali di tale processo vengono posti in relazione di congruità con una scala di valori considerati discriminanti per definire la qualità dell'azione didattica, del sistema scolastico in cui questa si svolge, nonché del sistema di istruzione visto nel suo complesso. I risultati valutativi conseguiti per mezzo di tale procedimento hanno il fine di determinare le decisioni che si rivelano necessarie a tutti i livelli per garantire la pertinenza, l'efficacia e l'efficienza dell'azione didattica in rapporto all'ambito in cui essa è praticata, ai soggetti che vi sono coinvolti e ai requisiti generali di contesto (norme, strutture, risorse finanziarie e umane) che costituiscono il presupposto e la condizione del suo svolgimento.
Questa definizione si fonda su una sostanziale corrispondenza (evidente anche nel termine adoperato: valutazione in italiano, così come evaluation, sia pure accanto ad assessing, in inglese, évaluation in francese, Bewertung in tedesco, e così via) tra il concetto di valutazione scolastica e quello di valutazione economica fondato sulla nozione di valore a suo tempo elaborata degli economisti classici: in questo senso "l'atto del valutare", nel campo dell'istruzione, "può a ogni effetto considerarsi come una vera e propria attribuzione di 'valore' a fatti, eventi, oggetti e simili, in relazione agli 'scopi' che colui che valuta intende perseguire" (Domenici 1993). Ciò richiede tuttavia una spiegazione preliminare, necessaria anche per rimuovere un equivoco piuttosto diffuso. Fu lo stesso A. Smith, nella sua Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), a individuare la distinzione tra 'valore di scambio' e 'valore d'uso': il primo si determina oggettivamente in base alla quantità variabile di un bene che è necessario dare in cambio per ricevere una quantità data di un altro bene; il secondo si determina invece soggettivamente in base al giudizio di utilità formulato da un individuo nei confronti di un bene. In quest'ultimo caso l'individuo decide di acquisire il bene in questione solo se il sistema di valori cui egli si ispira lo spinge a considerare l'utilità superiore al costo. In questa prospettiva si può dire, semplificando, che il concetto di valutazione (cioè di attribuzione di valore), mentre è stato elaborato in ambito economico prevalentemente in funzione di quei beni che hanno un valore di scambio e ha quindi comportato la definizione di una serie di elementi oggettivi che concorrono a valutare una merce, nella s. è stato applicato a beni (l'apprendimento, la qualità dell'istruzione ecc.) dal tipico valore d'uso, e pertanto la valutazione scolastica non può che essere fondata su elementi soggettivi, su giudizi di utilità discendenti da sistemi di valori a loro volta coerenti con gli scopi perseguiti da chi valuta e determinati in base a scelte. Nell'ambito del sistema formativo queste ultime saranno operate, a seconda dei casi e ai diversi livelli, dai singoli insegnanti, dai consigli di classe, dai collegi dei docenti, dagli organismi rappresentativi di vario grado interni al sistema stesso (consigli d'istituto, di distretto ecc.), dal Parlamento, dal governo, nonché da specifiche istituzioni comuni dell'Unione Europea. Vi sono dunque motivi intrinseci, alla radice stessa del concetto di valutazione scolastica, in base ai quali è difficile pensare che questa possa essere realmente oggettiva. È invece possibile individuare almeno un aspetto che consenta "di qualificare una determinata pratica di valutazione come oggettiva, ed è costituito dalla eliminazione, o quanto meno da una drastica riduzione, dei margini di arbitrarietà nell'apprezzamento della qualità delle prove degli allievi" (Vertecchi 1993, p. 92).
In rapporto ai due nodi problematici finora individuati, la storia del concetto di valutazione scolastica - che non a caso prende le mosse dall'iniziativa di un economista - è essenzialmente riconducibile ai due grandi filoni del progressivo ampliamento degli oggetti da sottoporre al procedimento di 'attribuzione di valore' e della graduale riduzione del margine di arbitrarietà connesso con la soggettività delle scelte relative ai sistemi di valori discriminanti. L'inglese F.Y. Edgeworth, esperto in analisi dei prezzi, appartenente alla Scuola di Cambridge, già nel 1881, dimostrando nel volume Mathematical psychics la misurabilità delle sensazioni umane di piacere e di pena, aveva cercato di provare, tra l'altro, come l'applicazione di metodi e calcoli matematici alle scienze sociali consentisse la 'misurazione dell'utilità', cioè proprio del sistema di riferimento dei beni dotati di valore d'uso. Successivamente, dopo aver condotto studi pionieristici sulla misurazione statistica, nel volume Statistics of examinations (1888), rilevò scientificamente per primo la variabilità - e quindi l'arbitrarietà - del rapporto tra votazioni e profitto degli allievi nelle prove d'esame. Le posizioni di Edgeworth si diffusero nei decenni a cavallo del secolo sia in Francia, dove trovarono un fertile terreno di sviluppo nella psicologia di stampo positivistico, sia negli Stati Uniti, dove si intrecciarono con gli studi pedagogici di J. Dewey e caratterizzarono un indirizzo rimasto a lungo assai vivo della ricerca educativa d'oltre Atlantico. In Francia lo psicofisiologo H. Piéron condusse nel 1922, insieme a H. Laugier, un'approfondita analisi sulle valutazioni delle prove degli esami per la licenza elementare, giungendo a conclusioni assai simili a quelle di Edgeworth e coniando il termine docimologie (v. docimologia, App. V) per designare l'atteggiamento di ricerca critica volto al miglioramento delle tecniche valutative scolastiche. Negli Stati Uniti la Carnegie Corporation di New York promosse nel 1931 un'indagine internazionale sulle prove d'esame attraverso apposite commissioni di ricerca formatesi in numerosi paesi (quella francese fu presieduta da Piéron).
La pubblicazione, nel corso degli anni Trenta, dei lavori di queste commissioni favorì a sua volta un notevole fiorire di studi docimologici in Inghilterra, Belgio e Svizzera, oltre che, naturalmente, in Francia e negli Stati Uniti. L'imponente insieme di questi studi mise definitivamente in evidenza un dato di fatto incontrovertibile, e cioè la mancanza di validità e di affidabilità della valutazione intuitiva negli esami, nei concorsi e nella s.: seguendo l'intuizione di Edgeworth, la docimologia si poneva in realtà l'ambizioso obiettivo di estendere all'ambito dei processi di apprendimento il campo delle sensazioni misurabili, mutuando a questo fine dalla psicologia sperimentale l'uso dei test teorizzato in quegli anni, tra gli altri, dal medesimo Piéron nel Traité de psychologie appliquée (1926). La docimologia si candidava così a rivestire il decisivo ruolo di braccio operativo della valutazione scolastica, superando la propria funzione di coscienza critica e presentandosi come vera e propria scienza delle tecniche di valutazione.
Il grande sviluppo raggiunto dagli studi docimologici nei decenni successivi ha poi consentito di tarare e validare una quantità enorme di prove oggettive relative alla quasi totalità delle discipline di studio, e di costituire un archivio di tecnologie valutative dal quale oggi è impossibile prescindere. Non si può tuttavia trascurare il fatto che, per un lungo periodo, il terreno proprio della docimologia ha finito col togliere spazio, fin quasi a sovrapporsi, a quello proprio della valutazione scolastica. Ciò ha prodotto conseguenze non positive, in particolare in Italia negli anni Sessanta. Qui infatti, per merito soprattutto di tre studiosi, A. Visalberghi, L. Calonghi e M. Gattullo, si cominciò a porre in termini scientifici il problema della valutazione e, in quest'ambito, venne affrontato quello della misurazione del profitto. La traduzione nel 1965 di un volume riassuntivo delle esperienze di Piéron, Examens et docimologie (1963), e l'irruzione tanto improvvisa quanto tardiva degli studi docimologici che erano stati elaborati durante i decenni precedenti nel resto d'Europa ebbero un doppio effetto: da una parte, quello decisamente proficuo di far compiere un salto di qualità alle ricerche svolte in ambito accademico; dall'altra, però, anche quello di separare per un lungo periodo su questo tema decisivo la ricerca universitaria dal mondo della s. e della didattica militante: un mondo che, non avendo partecipato alla lenta maturazione del problema da tempo in atto altrove, provò una diffidenza di fondo nei confronti della somministrazione di test e della introduzione di prove oggettive, considerati astratti tecnicismi destinati a spersonalizzare il rapporto didattico.
D'altro canto in quegli anni un nuovo gigantesco fenomeno determinò una profonda correzione della rotta che abbiamo fin qui delineato. A partire dagli Stati Uniti, il cui sistema formativo risultava messo in crisi dai positivi risultati ottenuti dall'URSS nei lanci spaziali (1957-1961), si affermò nel mondo sviluppato la consapevolezza tanto della necessità di una diffusione di massa dell'istruzione quanto della inadeguatezza, a questo fine, delle metodologie seguite fino ad allora. Si trattava in sostanza di rifondare in Occidente il rapporto tra democrazia e istruzione a partire, paradossalmente, dai risultati conseguiti nei paesi dell'area comunista (clamoroso il caso dell'alfabetizzazione a Cuba) all'interno di sistemi formativi totalizzanti. In quest'opera di rifondazione il problema della valutazione assumeva un ruolo centrale: da una parte, perché era quello rispetto al quale la professionalità docente mostrava generalmente la corda; dall'altra, perché lo squilibrio nel rapporto tra arbitrarietà e soggettività del giudizio valutativo era avvertito dall'utenza in crescita - e in gran parte nuova - come uno strumento di selezione adoperato da un sistema formativo concepito a misura della middle class per colpire coloro che di essa non facevano parte. Non a caso il problema della valutazione, e quello connesso della selezione, furono collocati al centro sia della riflessione di don L. Milani e della sua scuola di Barbiana (nella famosa Lettera a una professoressa, 1967), sia della battaglia - non sempre soltanto metaforica - ingaggiata contro i sistemi d'istruzione dei paesi occidentali dai movimenti giovanili affermatisi nel 1968 e negli anni successivi. Negli anni Sessanta, insomma, la questione della valutazione scolastica assunse nel mondo sviluppato una dimensione squisitamente politica che soprattutto in Italia, per il ritardo che abbiamo prima sottolineato, si pose in aperta contraddizione con l'offerta di strumenti docimologici sempre più raffinati. Si registrò allora non tanto un rifiuto della valutazione attraverso il cosiddetto voto politico (in quegli anni mitizzato, ma di fatto sporadico), quanto un diffuso atteggiamento di clemenza che tendeva a costituire la valutazione stessa come presa d'atto di presunti limiti naturali o sociali nelle attitudini scolastiche, limiti che avrebbero dovuto sollevare gli allievi- e gli insegnanti - da ogni responsabilità di rendimento nel curricolo scolastico. Questo atteggiamento era speculare a una ristretta propensione alla severità che semplicemente rovesciava il significato di quella presa d'atto, considerandola decisiva per la permanenza o meno degli allievi nell'ambito dei regolari curricoli scolastici. Entrambe queste linee di tendenza escludevano che la valutazione potesse essere usata come strumento diagnostico per la modifica dei dati di rendimento rilevati.
Negli stessi anni, tuttavia, una critica radicale del sistema formativo degli Stati Uniti, e quindi dei paesi che si misuravano con il problema della diffusione di massa dell'istruzione, veniva da un versante più specialistico, in particolare dalla scuola psicologica di Harvard. J.S. Bruner, fondatore nel 1960 del Center of Cognitive Studies della Harvard University, convinto della necessità di rinnovare il sistema scolastico sulla base degli stadi dei processi cognitivi da lui studiati, pose come obiettivo di un insegnamento efficiente una quota del 75% di alunni con un rendimento superiore alla media. La diffusione delle sue teorie, avvenuta soprattutto in seguito alla pubblicazione del volume Toward a theory of instruction (1966), fornì una base teorica alla pratica del mastery learning, pratica presto adottata in Europa a partire dall'Inghilterra e approdata in Italia nella seconda metà degli anni Settanta con il nome di programmazione didattica. In questo tipo di strutturazione dell'attività di insegnamento, che comporta la definizione di unità didattiche connotate da precisi obiettivi e organizzate in percorsi individualizzati, la valutazione ha assunto una doppia funzione: quella di strumento per l'individualizzazione dei percorsi stessi, attraverso una frequente azione di verifica del raggiungimento degli obiettivi intermedi e una continua retroazione di modifica delle unità didattiche (valutazione formativa); e quella di verifica finale, al termine dello sviluppo di una singola unità, relativa al conseguimento individuale degli obiettivi (valutazione sommativa).
L'ordinamento italiano relativo alla valutazione dell'alunno
A partire dagli anni Settanta, l'ordinamento italiano ha cominciato a risentire delle novità che stavano emergendo in campo internazionale. Tuttavia le norme sulla valutazione dell'alunno poggiano ancora, almeno in parte, sull'art. 79 del r.d. 6 maggio 1923 nr. 1054, che prevede la classificazione del profitto scolastico su scala decimale, e sugli artt. 77, 78 e 79 del r.d. 4 maggio 1925 nr. 653, in cui si stabilisce il principio della collegialità della valutazione trimestrale e finale e si afferma che "i voti si assegnano, su proposta dei singoli professori, in base ad un giudizio brevemente motivato desunto da un congruo numero di interrogazioni e di esercizi scritti, grafici o pratici, fatti in casa o a scuola, corretti e classificati durante il trimestre o durante l'ultimo periodo delle lezioni". Il d. legisl. 16 apr. 1994 nr. 297, T.U. delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione relative alle s. di ogni ordine e grado, ha poi accolto per la s. dell'obbligo le nuove norme sulla valutazione (per le quali v. oltre), mentre per tutto il resto (classificazione in decimi nella secondaria superiore e congruo numero di verifiche) non ha cancellato le norme del 1923 e del 1925.
La circolare ministeriale 20 sett. 1971, contenente "istruzioni programmatiche e precisazioni per gli adempimenti didattici ed organizzativi", pur non portando innovazioni "per quanto riguarda i sistemi di valutazione del profitto", auspica che "si introduca gradualmente nella scuola un metodo di più ampia considerazione dei fattori concorrenti alla valutazione dei risultati parziali di avanzamento e profitto in corso di anno scolastico, prendendo conoscenza di sistemi e modi valutativi più idonei a rispecchiare gli effettivi avanzamenti conoscitivi. In tal modo la valutazione finale tenderà a configurarsi come il risultato di un processo continuo e coerente di accertamento e riconoscimento dell'andamento degli studi; processo del quale deve assumere consapevolezza, nella massima misura possibile, lo stesso allievo". L'art. 4 del d.p.r. 31 maggio 1974 nr. 416 sulla istituzione degli organi collegiali della s. indica come compito primario del Collegio dei docenti la "programmazione dell'azione educativa", con tutto quello che tale concetto comporta in termini di valutazione formativa e diagnostica. L'art. 1, 2° co., del d.p.r. 10 ott. 1996 nr. 567, disciplinando le "iniziative complementari" e le "attività integrative" nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, introduce il principio che la partecipazione a tali attività possa "essere tenuta presente dal Consiglio di classe ai fini della valutazione complessiva dello studente". Nei fatti questo principio non risulta essere stato applicato.
Scuola dell'obbligo
La l. 4 ag. 1977 nr. 517, abolendo gli esami di riparazione nell'intera s. dell'obbligo e introducendo nella programmazione educativa "attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare", ha dettato nuove norme sulla valutazione, tra le quali anche quella che prevedeva l'impegno per l'insegnante (s. elementare) o per il Consiglio di classe (s. media) a "compilare ed a tenere aggiornata una scheda personale dell'alunno contenente le notizie sul medesimo e sulla sua partecipazione alla vita della scuola nonché le osservazioni sistematiche sul suo processo di apprendimento e sui livelli di maturazione raggiunti" (artt. 4 e 9). Le circolari applicative nr. 236 e 237 del 14 sett. 1977 precisavano che tale scheda doveva costituire "per l'insegnante […] uno strumento operativo capace di realizzare un rapporto dinamico tra valutazione e programmazione". Il dibattito prodotto dall'introduzione della scheda è ancora in atto e ha prodotto, nel corso di un ventennio, alcune modifiche delle norme. Particolarmente significativo si è rivelato il varo di un nuovo modello di scheda con il d.m. del 5 maggio 1993 per la s. media e con l'ordinanza ministeriale 3 ag. 1993 nr. 236 per la s. elementare. Tale nuovo modello, che prevedeva giudizi analitici espressi mediante l'attribuzione di un punteggio (da E ad A) a criteri, o parametri, propri di ciascuna disciplina, è stato infine sostituito, con la circolare ministeriale 7 ag. 1996 nr. 491, da un altro modello fondato sull'attribuzione di "giudizi sintetici" (non sufficiente, sufficiente, buono, distinto, ottimo) per ciascuna disciplina, in armonia con quanto previsto dalla prova finale per il conseguimento del diploma di licenza media.
Scuola secondaria superiore
La l. 5 apr. 1969 nr. 119, trasformando radicalmente le modalità di svolgimento degli esami di maturità, è stata la prima a introdurre nuove norme sulla valutazione nella s. secondaria superiore, almeno relativamente alla valutazione finale dei candidati: in tali norme, premesso che "l'esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato considerato con riguardo anche ai suoi orientamenti culturali e professionali" (art. 5), il voto è considerato "integrativo" di un motivato giudizio di maturità formulato "sulla base delle risultanze tratte dall'esito dell'esame, dal curriculum degli studi e da ogni altro elemento posto a disposizione della commissione" (art. 8). In questo contesto lo scrutinio finale di ammissione "è inteso a valutare il grado di preparazione del candidato nelle singole materie di studio dell'ultima classe e consiste nella formulazione di un giudizio analitico sul profitto conseguito in ciascuna di dette materie". La l. 10 dic. 1997 nr. 425, innovando le procedure d'esame, non prevede più la formulazione di un giudizio, ma stabilisce che "a conclusione dell'esame di Stato è assegnato al candidato un voto finale complessivo in centesimi, che è il risultato della somma dei punti attribuiti dalla commissione d'esame alle prove scritte e al colloquio e dei punti per il credito scolastico acquisito da ciascun candidato".
La circolare ministeriale 19 apr. 1990 nr. 109, avviando la sperimentazione nei bienni della s. secondaria superiore dei programmi delle discipline dell'area comune elaborati dalla commissione presieduta dall'on. B. Brocca, introduceva per la prima volta in modo sistematico il concetto di programmazione in questo grado di scuola. La sperimentazione dei programmi e degli indirizzi della commissione Brocca, regolamentata successivamente con la circolare ministeriale 14 nov. 1992 nr. 338, comportava infatti attività di programmazione, verifica e valutazione concepite - così precisava la Nota preliminare - come "un unico processo, articolato in più fasi e connotato da diverse esigenze, ma pur sempre organico e coerente nelle finalità, nelle motivazioni, nello svolgimento, nei risultati". In particolare, per quanto riguarda la valutazione, veniva sottolineato che essa "non va considerata un momento isolato, sia pure nel contesto di una serie di acquisizioni richieste a fini giuridici, bensì anch'essa un processo, che si svolge sotto il segno della continuità, controllata via via nel tempo e sistematicamente confrontata con le acquisizioni precedenti, con l'efficacia degli strumenti predisposti e con il raggiungimento o meno dei traguardi assegnati. […] In questa logica, e sempre nel rispetto della responsabile autonomia del docente, può rientrare l'impegno di chiarire agli studenti i criteri della valutazione […]".
L'abolizione degli esami di riparazione e l'introduzione, con la l. 8 ag. 1995 nr. 352, degli interventi didattici ed educativi integrativi (più noti come corsi di recupero) ha profondamente modificato l'assetto della valutazione nella s. secondaria superiore avvicinandolo a quello della s. dell'obbligo per quanto riguarda il legame con la programmazione, e realizzando le condizioni per l'innesto in un corpo non ancora riformato del concetto di debito formativo (ordinanza ministeriale 27 maggio 1997 nr. 330).
Il campo della valutazione del profitto degli allievi ha subito negli ultimi anni profonde modifiche dovute alla tendenza (propria di numerosi paesi europei e oggi anche dell'Italia) a strutturare i sistemi di istruzione come veri e propri 'sistemi formativi integrati' nell'ambito dei quali la s. interagisce con tutti gli altri erogatori di formazione e considera valide anche esperienze maturate nel mondo del lavoro. Perché si raggiunga una piena ed effettiva integrazione del sistema, questo deve essere organizzato per moduli, ciascuno dei quali dia adito a un credito formativo: in un sistema nel quale tale credito può essere conseguito dentro la s. così come fuori di essa il problema della valutazione, pur portando con sé tutti i problemi tecnici e docimologici già evidenziati, si trasforma in quello della certificazione del percorso compiuto (di qui una rivalutazione della 'valutazione sommativa') e dell'autorità (o delle autorità) cui spetta l'esercizio di tale funzione. In Italia l'introduzione di un'organizzazione modulare della didattica e la conseguente formulazione del concetto di credito formativo si è avuta con la l. 15 marzo 1997 nr. 59 e in particolare con l'art. 21, 8°, 9° e 10° comma.
La questione che Bruner aveva posto alla fine degli anni Sessanta riguardava solo in parte la valutazione del profitto degli allievi, mentre entrava con forza sul terreno dell'efficienza del sistema: da questo punto di vista, essa è decisamente sfuggita alle dimensioni di una questione di metodo ed è diventata il più importante nodo problematico della valutazione alla fine del 20° secolo. Al di là delle variabili relative alla gestione scolastica, per la quale in Italia e altrove si è posta l'esigenza variamente affrontata di coniugare efficienza e democrazia, autonomia e pari opportunità educative, curricoli flessibili e standard uniformi, è diventata infatti centrale la necessità di valutare la produttività del sistema quantificando appunto, attraverso opportuni indicatori, l'efficienza, l'orizzonte delle opportunità educative offerte e, infine, l'uniformità degli standard. Già le indagini comparative internazionali svolte dall'IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement), un'associazione di pedagogisti sorta negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta, se all'inizio si presentavano come raffronti di vere e proprie verifiche di profitto - sia pure svolte con metodi raffinati -, hanno affrontato nell'ultimo decennio del secolo uno studio sempre più ampio delle variabili che incidono sul profitto stesso (circa 500 quelle individuate per ciascun allievo nell'indagine sui 'Livelli di alfabetizzazione nella lettura' svolta negli anni 1988-92), costituendo in tal modo un primo archivio di indicatori per la valutazione dei sistemi. Seguendo una linea diversa, nel 1972 l'UNESCO Office of Statistics è riuscito a mettere a punto un primo modello di analisi del prodotto scolastico (A statistical study of wastage at school), fondato sugli indici di 'costanza' (rapporto tra gli allievi che concludono un corso e quelli che si erano iscritti al primo anno) e di 'permanenza' (rapporto tra il totale degli anni scolastici frequentati da una determinata leva di allievi e il numero di quelli che hanno portato a termine gli studi, diviso il numero degli anni di corso).
A partire dalla fine degli anni Ottanta il CERI (Centre for Educational Research and Innovation), costituitosi all'interno dell'OCSE, ha avviato il progetto INES (International Indicators and Evaluation for Educational Systems) che, dopo un primo utile approfondimento del concetto stesso di indicatori (insieme di dati statistici funzionali alla valutazione della qualità dell'educazione) e dopo un ampio dibattito sui criteri di scelta e sulle capacità di retroazione degli stessi (dalle decisioni politiche fino all'efficacia didattica in classe), ha realizzato un sistema di Indicatori internazionali dell'istruzione strutturato in sette ambiti: 1) contesto demografico, sociale ed economico dell'educazione; 2) costi dell'istruzione e risorse umane e finanziarie; 3) accesso all'istruzione, scolarizzazione e sviluppo; 4) ambiente scolastico e procedimenti all'interno della s.; 5) risultati dell'istruzione (diplomi e lauree); 6) risultati degli studenti e livello di literacy (alfabetizzazione) degli adulti; 7) risultati dell'istruzione sul mercato del lavoro.
L'ordinamento italiano relativo alla valutazione del sistema
L'art. 4 del d.p.r. 31 maggio 1974 nr. 416 sulla istituzione degli organi collegiali della s., cogliendo in pieno una sensibilità e un indirizzo di analisi allora appena agli albori, stabilisce già che il Collegio dei docenti "valuti periodicamente l'andamento complessivo dell'azione didattica per verificarne l'efficacia in rapporto agli orientamenti e agli obiettivi programmati, proponendo, ove necessario, opportune misure per il miglioramento dell'attività scolastica". In questo caso si deve dire che la norma ha preceduto l'instaurarsi di una prassi didattica senza riuscire a condizionarla. La valutazione del sistema scolastico è, infatti, ancora di là da venire, come confermano recenti ricerche svolte su questo aspetto specifico dell'applicazione della Carta dei servizi. Quest'ultima, introdotta nella s. con decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 7 giugno 1995, prevede esplicitamente ancora una volta la valutazione della qualità del servizio, pur senza precisare gli indicatori da utilizzare. La già citata l. 15 marzo 1997 nr. 59, infine, conferma per tutti gli istituti scolastici "l'obbligo di adottare procedure e strumenti di verifica e valutazione della produttività scolastica e del raggiungimento degli obiettivi".
Per quanto riguarda la valutazione dell'intero sistema, l'art. 603 del T.U. ha attribuito al Ministero della Pubblica Istruzione il compito di provvedere "alla determinazione di parametri di valutazione dell'efficacia della spesa che tengano conto dei vari fenomeni che, condizionando l'attuazione del diritto allo studio, si riflettono sui livelli qualitativi dell'istruzione". Il Ministero ha assolto tale compito con la direttiva 21 maggio 1997 nr. 307, mediante la quale ha formato un comitato di coordinamento per "formulare proposte in ordine all'individuazione degli obiettivi dell'azione di valutazione assicurando unità di indirizzo" e per "elaborare le linee di intervento nei diversi settori scolastici nonché in quelli di comune interesse", e ha istituito presso il CEDE (Centro Europeo Dell'Educazione) un Servizio nazionale per la qualità dell'istruzione avente lo scopo fondamentale di valutare l'efficacia del sistema formativo del paese nelle sue articolazioni e a tutti i suoi livelli. In questa direzione viene individuato come strumento primario quello dell'autovalutazione, concepita come "elemento innovativo di verifica del processo educativo nel suo complesso e delle attività didattiche ai vari livelli". Lo stesso CEDE, con d. legisl. 20 luglio 1999 nr. 258, è stato trasformato in Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell'istruzione, con il compito fra l'altro di inquadrare la valutazione nazionale nel contesto internazionale, nonché di essere di supporto alle singole s. anche mediante la predisposizione di archivi informatici liberamente consultabili.
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