SELCE (lat. silex "ciottolo")
Varietà litoide e opaca di calcedonio (v.), costituita dall'aggruppamento di resti organici, scheletri di radiolari, ecc., frequenti nel calcare giurassico e cretacico. Ha colore grigio, giallo, rosso bruno e per riscaldamento si trasforma in un vetro incolore. Ha lucentezza resinosa, cerosa, mai vitrea e frattura ondulata, squamosa o concoide. Due pezzi di selce strofinati emettono luce rossastra (onde il nome di selce piromaca) e odore speciale.
Pietra dura largamente utilizzata dall'uomo paleolitico e neolitico (v. appresso) con pietra cornea (Hornstein), altra varietà di calcedonio e quarziti, oltre a giadeite, nefrite e serpentine.
Gli strumenti di selce.
Le genti preistoriche trassero i manufatti più robusti e più perfezionati dalla selce piromaca, fino a quando non divennero di uso generale il rame e il bronzo. Avvertasi che non è sempre possibile determinare se un oggetto litico sia stato utensile o arme, specie se delle fogge più primitive: lo stesso oggetto poté servire volta a volta per l'uno e l'altro uso.
La selce cominciò a venire raccolta quale ciottolo fluitato nelle alluvioni dei fiumi e dei torrenti, quale arnione di strati calcari in processo di disgregazione. Non si conoscono miniere di selce il cui sfruttamento risalga oltre a tempi eneolitici o, al più, neolitici recenti. Tenaci quarziti, in natura più diffuse della selce, talora la sostituirono, in modo particolarmente largo nei tempi paleolitici. Durante questi stessi tempi con il lentissimo progresso della tecnica della scheggiatura, con lo svilupparsi delle relazioni tra famiglie e tribù, gli oggetti di quarzite vennero, in genere, via via diminuendo di numero, finché in proporzione prevalsero quelli di selce. Esempio di giacimenti in cui questa evoluzione sia perspicua sono i depositi paleolitici delle grotte di Grimaldi o dei Balzi Rossi nella Liguria occidentale (v. liguria: Preistoria).
Le fogge degli oggetti litici si raggruppano in tre grandi classi o "cicli", estesi nel tempo e nello spazio, determinati da U. Rellini e da O. Menghin: a) ciclo dell'"amigdaloide"; b) ciclo della "scheggia ritoccata"; c) ciclo delle "lame svelte e strette".
Gli amigdaloidi (fogge dette di Chelles e di Saint-Acheul), propriamente paleolitici, furono ottenuti con la tecnica della scheggiatura bifacciale: la stessa tecnica, che, perfezionata, si ritrova nei più recenti utensili detti di Campigny (accette, "tranchets", ecc.), i quali raggiunsero in qualche luogo i tempi eneolitici. Pure paleolitiche furono le punte ed i raschiatoi di "selce diroccata" su di una sola faccia, delle fogge di Le Moustier, le quali per la loro semplicità si ripeterono a lungo durante lo stesso neo-eneolitico. Miolitiche di origine furono le industrie delle "lame strette e svelte" (industrie di Grimaldi, ecc.), protrattesi a lungo durante il neo-eneolitico (v. le voci paleolitica, chelléana, acheuléana, moustériana, miolitica, campignana, civiltà).
Col Neolitico, e più ancora con l'Eneolitico, la tecnica dello scheggiare la selce raggiunse grandissima perfezione: si possono addurre le cuspidi di freccia (v. le voci neolitica, eneolitica civiltà), i lunghi pugnali, di forme perfette, ottenuti con il manico completo a mezzo di accuratissima scheggiatura bifacciale, degli ultimi tempi dell'età litica nella Danimarca. La perfezione della tecnica appare grandissima nell'Eneolitico egiziano (seghe, figurette di animali, ecc.).
Le asce, accette, gli scalpelli di pietra levigata, di serpentina, giadeite, nefrite, ecc., si raccolsero insieme agli oggetti di selce, particolarmente frequenti nelle regioni dove la natura forniva la materia prima (ad esempio, nel Piemonte).
Di vere industrie e del commercio della selce, a mezzo di scambî, si cominciano ad avere dati sicuri solo per i tempi neo-eneolitici. La selce in natura è distribuita inegualmente. I copiosi giacimenti delle isole baltiche di Schönen e di Rügen la diffondevano nelle regioni nordiche. I prodotti delle officine del Grand Pressigny nella Francia centrale (Indre et-Loire) pervenivano fin nella Bretagna, nella Svizzera occidentale, nella Savoia. Queste officine, di facies nell'insieme neolitica, si estendevano per quasi dodici chilometri di lunghezza: i ricercatori ritrovarono quei campi tutti copiosamente disseminati degli enormi caratteristici nuclei, i quali vengono detti sul luogo "livres de beurre".
Quali esempî di officine nelle quali veniva lavorata la selce in tempi neo-eneolitici, vanno addotte, per l'Italia, quelle riconosciute da C. Rosa nella Valle del Vibrata (Teramo) e da U. Rellini in alcuni luoghi delle Marche: depositi-officina piuttosto che stazioni all'aperto, dove grande era la copia di oggetti di selce. Fra questi sono eccezionali i prodotti completi, finiti, mentre non sono rari gli abbozzati. Soprattutto abbondante la materia prima ivi chiaramente adunata dall'uomo, gli arnioni, i nuclei, le schegge di rifiuto. La lavorazione della selce era allora diffusa dappertutto, e vari talora da luogo a luogo erano i procedimenti di essa.
L'arte del cavatore appare anteriore alla conoscenza della metallurgia. Appare pure che i primitivi in varie regioni amarono utilizzare la selce tratta da cave appositamente praticate, come quella meglio adatta alla lavorazione per l'acqua che conteneva, anziché raccoglierne i ciottoli sul greto dei torrenti. Si possono citare, ad es., le cave neolitiche di Spiennes (Belgio), dove pozzi verticali scendevano talora a profondità superiore alla dozzina di metri, e dove sulle pareti dei pozzi stessi si aprivano gallerie orizzontali. Vestigia di simili cave vennero in luce anche in Francia e in Inghilterra. Utensile da cavatore di largo uso in esse era la zappetta di corno cervino.
In Italia conosciamo soltanto, come cave di selce, quelle di Monte Tabuto presso Comiso (Sicilia) e di Tagliacantoni sul Gargano.
A Monte Tabuto, in tempi approssimativamente eneolitici e del principio del bronzo (primo periodo siculo della classifica di P. Orsi), fioriva un'industre colonia mineraria. Le cave erano state aperte sul fianco del monte a mezzo di pali acuminati di durissimo legno, di mazzuoli e asce basaltiche. La selce, che giaceva in sottili strati e arnioni, veniva in parte lavorata sul posto, in parte messa in commercio ancora grezza. Molto scarso è infatti il materiale siliceo di lavoro finito lasciato sul posto. Il processo di rifinitura doveva eseguirsi fuori, nei villaggi dove la selce grezza veniva esportata (P. Orsi, in Bull. paletn. ital., XXIV, 1898).
A mezza costa del colle di Tagliancantoni sul Gargano affiorano strati calcari quasi orizzontali, tra i quali sono altri di calcare detritico contenente cogoli e arnioni silicei: questi venivano estratti, in tempi approssimativamente eneolitici, a mezzo di caratteristici picchi silicei da minatore.
Fu accertato che una lavorazione della selce, almeno parziale, era eseguita sul posto (U. Rellini, in Bull. di paletnol. ital., LIV, 1934).
L'uso delle armi e utensili di selce perdurò copioso durante le prime fasi della età del bronzo; nelle ultime fasi lenta, graduale e infine completa fu la sostituzione del bronzo alla selce (v. palafitte).
Bibl.: U. Rellini, Successione probabile delle industrie pleistoceniche europeo-africane, in Riv. di Antropologia, XXVII (1926); id., Materiali neolitici ed eneolitici della Marca Alta, in Bull. paletn. ital., XXV-XXVI (1909-10).