senato
(dal lat. senatus, der. di senex «vecchio, anziano») Nella Roma antica, nome del supremo consiglio dello Stato, costituito, almeno in origine, da persone anziane. Il nome è attribuito, per analogia, anche ad altri consessi di anziani del mondo antico, con funzioni affini. Nel Medioevo fu nome di varie magistrature: a Venezia, per es., dal sec. 13° al 18° era un consiglio di magistrati che esercitava l’effettivo governo dello stato. A Roma, invece, durante l’Alto Medioevo, indicava in modo informale il complesso dei membri dell’aristocrazia cittadina; poi divenne una magistratura comunale. Nel diritto pubblico moderno, nome con cui viene indicata la Camera alta in taluni Stati a parlamento bicamerale.
Come consiglio di anziani il s. è conosciuto in Grecia già nell’età omerica, poi a Sparta e, più tardi, nelle città grecizzate dell’età ellenistica e romana (➔ gerusia): anche a Cartagine esisteva un organismo analogo. Ma fu a Roma che il s. divenne una delle istituzioni fondamentali dello Stato e per lungo tempo il principale responsabile della politica estera e interna. Secondo una tradizione, il S. originario, istituito da Romolo, ebbe 100 membri, ma il numero normale dei senatori in età storica fu di 300, e tanti dovevano essere in realtà anche in età regia, corrispondendo il numero allo schema ternario dell’antichissimo Stato romano (tre tribù e trenta curie). Con Silla il S. fu portato a 600 membri, nel periodo dei triunvirati arrivò a più di 1000; Augusto tornò a 600, ma la cifra nei secoli seguenti subì ancora delle variazioni. Il S. era in origine il consiglio del re, e (come dice il nome) il criterio della sua composizione era, come in analoghe istituzioni greche, l’età (più di 60 o, secondo altri, di 46 anni); prevalse però in seguito un criterio diverso, quello della dignità che al cittadino veniva dall’aver coperto una magistratura, sì che nella tarda repubblica e nell’impero l’età richiesta per l’appartenenza al S. coincise con l’età minima per la prima delle magistrature (questura). Poiché il primitivo S. era reclutato solo tra i patrizi, il nome di questi (patres) fu applicato ai senatori; con l’apertura della magistratura ai plebei (inizi dell’età repubblicana) le genti plebee entrarono nel S., nel quale peraltro si mantenne una distinzione tra senatori patrizi (patres in senso stretto) e plebei (conscripti «senatori aggiunti»); i primi mantennero a lungo privilegi negati agli altri, a poco a poco ridotti a mera formalità. Nei tempi più antichi, del S. fecero parte di diritto i capi di determinate genti; poi fu costituito su libera scelta del re o del console, finché con la legge Ovinia (propriamente un plebiscito), della fine del 4° sec. a.C., la scelta dei senatori (lectio senatus) fu assegnata ai censori, consolidandosi sempre di più il principio che l’aver ottenuto dal popolo una magistratura rendeva il cittadino particolarmente atto a essere scelto per far parte del S., sicché nel 1° sec. a.C. già la scelta censoria era divenuta pressoché superflua. Durante l’impero, essendo deferita al S. la nomina dei magistrati, il S. prese a integrarsi per cooptazione, ma la crescente influenza della volontà del principe nelle elezioni rese costui arbitro di fatto della composizione del senato. La riunione del S. era regolata secondo una procedura costante; si poteva riunire solo dietro iniziativa del magistrato che poi lo presiedeva (magistrati cum imperio, poi anche i tribuni della plebe e infine l’imperatore). L’intervento alle sedute era obbligatorio, e tutti i giorni erano adatti per la convocazione, ad esclusione, dal 1° sec. a.C., di quelli in cui si tenevano comizi popolari. La procedura delle discussioni e della votazione era minuziosamente regolata, fermo restando sempre il principio (a cui si ovviò spesso di fatto con espedienti) che l’iniziativa delle proposte dovesse venire solo dal magistrato, e mai dai senatori stessi (nel che si conservava il primitivo carattere consultivo dell’assemblea). Il deliberato era di due sorte: o auctoritas patrum, cioè ratifica dei deliberati dell’assemblea popolare; o deliberazione comune del magistrato e del S. e detta allora decretum (con riguardo all’autorità del magistrato) e poi senatus consultum (con maggior riguardo per l’autorità del S. stesso). Le sedute non erano pubbliche, e i tribuni della plebe potevano assistervi solo rimanendo fuori del locale in cui si tenevano. Due tra le funzioni proprie del S. erano riservate alla parte patrizia di esso: l’auctoritas patrum (questa ratifica dal 339 a.C. doveva precedere, non più seguire, le deliberazioni popolari); e la nomina nel proprio seno degli interré, quando la suprema magistratura si rendeva vacante. Il compito prevalente del S. in ogni tempo fu però quello di emanare senatoconsulti, cioè di dare pareri al magistrato che ne richiedesse, pareri in teoria non vincolanti, e di fatto tali soprattutto in età regia, quando il potere della magistratura suprema era saldo e unitario. Ma quando alla monarchia vitalizia si sostituì il collegio di magistrati annui, col diritto di reciproca intercessione, e la magistratura fu ancora indebolita dal moltiplicarsi delle cariche, dalla limitazione delle competenze e dal dualismo delle cariche patrizie e plebee, il parere del S. acquistò grande peso; quando poi l’entrata nel S. cominciò a dipendere dalla gestione della magistratura, e pertanto l’assemblea rappresentò il corpo degli ex magistrati, cioè dei cittadini che avevano sicura competenza degli affari di Stato, i magistrati dovettero tenere sempre maggior conto dei deliberati del S., anche perché essi stessi erano interessati al prestigio di un’assemblea della quale sarebbero poi entrati a far parte. Questa potenza del S. caratterizza tutta la matura età repubblicana; con un processo che nelle linee essenziali era già compiuto all’inizio delle guerre puniche, esso divenne così in Roma il vero e proprio governo, con requisiti di stabilità, continuità, autorità e competenza che lo resero di fatto assai superiore ai magistrati temporanei. In generale, la tutela del S. non si esercitava sugli atti di ordinaria amministrazione del magistrato; questo perciò, in via normale, non doveva chiederne il consiglio se non per atti previsti dalla costituzione, che fossero però di carattere straordinario. Tale tutela del S. si indicava con la parola auctoritas intesa in senso lato (cum potestas in populo, auctoritas in senatu sit, Cicerone). Per questa via il S. giunse a controllare tutti gli atti fondamentali della vita dello Stato e a dirigere la politica imperiale di Roma. Esso discuteva delle proposte da presentarsi al popolo o alla plebe; interveniva nella formulazione di criteri fondamentali in materia di giustizia civile e penale, specie per i processi che avevano ramificazioni fuori dei confini romani; dava il suo parere sulla mobilitazione dell’esercito e della flotta, stabiliva i contingenti militari che gli alleati dovevano fornire, determinava i teatri di guerra degli eserciti consolari, prorogava i comandi e ne creava di straordinari; così, benché non s’ingerisse nella condotta tecnica delle guerre (della quale però doveva essere informato), fu il vero organizzatore delle grandi conquiste. In connessione con questi suoi effettivi poteri, divenne presto arbitro delle finanze romane; dal suo parere dipendevano le percezioni dei tributi e le molte liberalità (distribuzioni di terre ecc.); soprattutto, controllava le spese, dando assenso agli ordini di pagamento che il magistrato mandava all’erario. Pure dal S. dipendeva la monetazione urbana. Nella politica estera il S. fu a lungo il vero governatore (il popolo si limitava ad approvare la guerra o la pace); riceveva le ambascerie, spesso trattava direttamente, sanzionava i trattati internazionali e le leges emanate dai magistrati nei territori nuovamente acquistati o riordinati. All’interno, sovrintendeva di fatto alla vita religiosa, vigilava sui comizi e sulle assemblee, sorvegliava tutte le forme di vita sociale, concedeva onori; all’estero, dirimeva le controversie tra le comunità alleate o autonome. La tendenza del S. a sostituirsi ai magistrati e al popolo si accentuò sempre di più nel corso della storia repubblicana, fino a che alla fine del 2° e col 1° sec. a.C., con i violenti contrasti di classe che videro il S. roccaforte degli interessi degli ottimati e perciò ormai incapace di rappresentare efficacemente tutto lo Stato, il declino della sua autorità divenne inevitabile. Dopo le guerre civili, durante l’impero, pur conservando sempre la sua autorità (in molti campi non solo nominale), una serie di limitazioni legali, e soprattutto lo stabilirsi sempre più forte del potere del principe come potere assoluto, gli tolsero ogni capacità di autonomia e d’iniziativa nella vita dello Stato. La storia del S. sotto l’impero coincide con la storia della collaborazione o della resistenza della nobiltà e dei ceti ricchi all’assolutismo monarchico, con alternarsi di successi e costante declino generale delle possibilità di ripresa. Il S. ebbe ancora efficacia, grazie al suo ordine permanente, al complesso di capacità tecniche e di valori ideali che impersonava, e infine alla potenzialità economica dei suoi membri, ma come fonte di potere e come diretto organo della politica imperiale, soprattutto nell’amministrazione provinciale, non contò quasi più.
I ricordi di un’attività del S. romano dopo la ricostituzione fattane da Giustiniano sono molto scarsi. Dopo un’attestazione del 603, all’epoca di papa Gregorio Magno, è certo che il S. antico, in quanto istituzione formale, cessò di esistere a Roma, pur essendo ancora usata saltuariamente la parola s. per indicare l’insieme dell’aristocrazia o dei suoi capi, in occasione di riunioni o altri eventi della vita politica e sociale cittadina. Al contrario, esso sopravvisse a Costantinopoli, dove continuò ad avere una notevole influenza sugli affari politici, pur non avendo una fisionomia ben determinata ma, in certi casi, funzioni puramente rappresentative, in altri consultive, in altri di corpo sovrano. A Roma le cose cambiarono di nuovo subito dopo la morte di Innocenzo II (1143), allorché a capo del comune costituitosi contro l’alta nobiltà fu istituita una magistratura collettiva, detta Senato. I senatori erano nominati, anno per anno, da un’assemblea che dovette corrispondere all’arengo delle città dell’Italia settentrionale e centrale. Il numero variava intorno ai 50. Nel S. si riunivano i poteri amministrativo, giudiziario, finanziario; esso batteva moneta, amministrava la giustizia civile e criminale ecc. Il S. non esercitava però il potere in modo assoluto, dovendo talora avere per affari importanti l’assenso dell’assemblea generale del popolo romano. Spesso in contrasto con la potestà sovrana del pontefice, il S. romano andò decadendo verso la fine del sec. 12°. Nel 1191 si nominò, per un triennio, un senatore solo; nel 1194-95 fu ristabilito il S. di 56 membri; nel 1204 fu di nuovo nominato un solo senatore, da parte del papa. Tale sistema continuò d’allora in poi con il solo mutamento che, in certi periodi, anziché uno furono nominati due senatori. I rapporti tra la Santa Sede e questi senatori furono regolati da Nicolò III con la costituzione del 18 luglio 1278. Da allora la magistratura del senatore (o dei due senatori) di nomina papale, affiancata da magistrature di nomina popolare (tribuni, riformatori, banderesi, conservatori), durò sino al sec. 19°, sebbene dalla metà del sec. 15° in poi essa perdesse ogni effettiva autorità. Di tutt’altra natura fu il S. veneziano, che si costituì all’inizio del sec. 13°. Si trattava di un consiglio (Consilium rogatorum «Consiglio de’ pregadi»), formato da 60 persone nominate dal Maggior consiglio. Incaricato della trattazione di molti affari dello Stato che mal si prestavano a essere discussi e decisi dal troppo numeroso Maggior consiglio, il S. vide continuamente aumentare la propria competenza e si rinforzò via via di numero. Ne facevano parte sin dall’origine, e ne costituivano l’elemento direttivo, il doge e il suo consiglio; ma poi vi entrarono man mano gli avogadori del comune e le quarantie, i tre ordini di savi che costituivano il potere esecutivo della Repubblica, il Consiglio dei Dieci e numerosissimi altri magistrati. Verso il 1500 esso abbracciava così circa trecento persone. La sua competenza era giudiziaria e politica: era tribunale supremo in materia amministrativa e a esso erano demandati i rapporti con le potenze straniere e con le province suddite. Poi via via l’autorità del s. si estese anche alla materia militare, all’amministrativa, alla finanziaria, a quelle del commercio e della navigazione, venendo così esso a esercitare l’effettivo governo dello Stato. I pregadi ordinari, nominati dal Maggior consiglio, duravano un anno; per gli altri la nomina durava quanto la carica, ma sul finire della Repubblica si limitava in ogni caso a tre anni. Facevano eccezione, oltre al doge, i procuratori di S. Marco, che appartenevano di diritto al S. per tutta la vita. Il S. veneziano durò fino alla caduta della Repubblica nel 1797, e rimase sempre, durante i secc. 14°-18°, il corpo nel quale s’accentravano i maggiori poteri della Repubblica. I s. che sorsero nel Milanese e negli Stati della Casa di Savoia dalla fine del sec. 15° in poi si costituirono invece a imitazione dei parlamenti del regno di Francia, come corpi di carattere più amministrativo che politico. Il S. milanese sorto nel 1499 dalla fusione del Consiglio segreto e del Consiglio di giustizia del duca di Milano aveva attribuzioni giudiziarie, giudicava le cause dei feudatari ed era sede d’appello nelle cause criminali di maggiore importanza. Inoltre aveva le importanti funzioni di registrazione degli atti del potere regio, spettando al S. esaminare l’atto e presentare osservazioni al sovrano se esso comportava irregolarità o contraddiceva ad altri diritti. I sovrani spagnoli non consentirono però l’esercizio di tale potere, se non con estrema difficoltà. Anche il S. piemontese, residente a Torino, ebbe potestà giudiziaria, ma particolare importanza vi assunse il diritto di «interinazione», cioè di esame e trascrizione degli atti sovrani. Il diritto di interinazione fu sostenuto dal S. piemontese con molta fermezza, tanto che questo diritto d’esame dei provvedimenti governativi da parte del S. piemontese diede una particolare fisionomia al diritto pubblico della monarchia di Savoia. I S. (di Torino e di Chambéry) della monarchia sabauda, ristabiliti dopo il 1814, furono soppressi per il rinnovamento dell’amministrazione dello Stato attuato nel 1848.
Non in tutti gli Stati la Camera alta è indicata col termine s.: è detta Camera dei consiglieri in Giappone, Lagting in Norvegia, Prima camera nei Paesi Bassi; negli Stati federali o fortemente decentrati spesso il nome rispecchia la struttura costituzionale, e così si ha il Bundesrat o Consiglio federale nella Repubblica federale di Germania e in Austria, il Consiglio degli Stati in Svizzera e in India. Un carattere particolare tra le camere alte riveste la Camera dei lord in Gran Bretagna, l’unica Camera ereditaria oggi esistente. I diversi criteri seguiti per la formazione del s. sono, in linea generale, i seguenti: nomina dei senatori da parte del capo dello Stato o eventualmente dal suo rappresentante (governatore generale del Canada); sistema cosiddetto misto, cioè i senatori sono in parte eletti, in parte nominati dal capo dello Stato (Repubblica sudafricana, Iran, Turchia); sistema completamente elettivo, attualmente il più seguito. Negli Stati in cui il s. è in tutto o in parte elettivo, le modalità per l’elezione sono sostanzialmente diverse da quelle per l’elezione della camera bassa. Il numero dei membri è sempre minore di quello dei membri dell’altra camera; negli Stati federali, dove il s. risponde all’esigenza di garantire l’eguaglianza degli Stati membri, i senatori sono di solito eletti in un numero fisso per ogni Stato membro indipendentemente dalla sua popolazione (così gli USA hanno due senatori per Stato). Anche gli Stati unitari, ma fortemente decentralizzati, seguono lo stesso sistema (Cile, Bolivia ecc.). Altre differenziazioni dalla camera bassa sono date: dall’estensione dei collegi elettorali, che per il s. è sempre più vasta; dalla diversità delle condizioni richieste per l’elettorato attivo e passivo (in genere è prescritta un’età più elevata); dalla durata dell’ufficio, di solito più lunga (negli USA i senatori restano in carica 6 anni contro i 2 dei membri della Camera dei rappresentanti); dalla differente procedura elettorale (talvolta sono adottati sistemi di suffragio universale indiretto: per es. in Francia e nel Belgio per i 48 senatori eletti dai consigli provinciali e per i 24 scelti per cooptazione dai senatori stessi). In molti Stati si è cercato di differenziare le attribuzioni del s. e della camera bassa. Così negli USA, mentre qualsiasi progetto finanziario deve essere presentato prima alla camera bassa, il S. ha delle attribuzioni di controllo su alcune funzioni politiche esercitate dal presidente della Repubblica (per es. nella ratifica dei trattati internazionali). Altri Stati pongono invece il s. o la camera alta in una posizione d’inferiorità rispetto all’altro ramo del Parlamento, consentendo alla Camera alta di emettere solo voti non vincolanti (Irlanda), oppure dando al voto della Camera alta solo carattere sospensivo (Camera dei lord in Gran Bretagna) o sottraendo a essa l’iniziativa legislativa (Prima camera nei Paesi Bassi).
In Italia il S. dal 1848 al 1947 (data in cui fu formalmente soppresso) era di nomina regia e i senatori dovevano essere scelti fra le 21 categorie indicate all’art. 33 dello Statuto; inoltre facevano parte di diritto del S. i principi reali. Le sue attribuzioni legislative erano identiche a quelle della Camera dei deputati, con l’unica eccezione che le leggi d’imposizione dei tributi o di approvazione dei bilanci e dei conti dovevano essere prima presentate alla Camera (art. 10 Statuto). Il S. regio aveva anche attribuzioni giurisdizionali: riunito in Alta corte di giustizia, esso era competente a giudicare i crimini di alto tradimento, di attentato alla sicurezza dello Stato (nella pratica non si sono mai avuti procedimenti di questo tipo) e i ministri accusati dalla Camera (Giolitti nel 1895, Crispi nel 1897 e Nasi nel 1907), e aveva competenza esclusiva per giudicare dei reati imputati ai suoi membri (artt. 36 e 37 Statuto). Il S. attuale presenta caratteristiche notevolmente diverse. Esso è quasi completamente elettivo, in quanto il presidente della Repubblica può nominare solo 5 senatori a vita fra «cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» (art. 59 Cost.). Fanno parte di diritto del S. a vita, salvo rinuncia, gli ex presidenti della Repubblica. Nella prima legislatura (1948-53) fecero parte del S. anche 106 senatori di diritto appartenenti a diverse categorie espressamente elencate nella III disp. trans. della Costituzione. A differenza della Camera dei deputati, composta da 630 deputati, il S. è composto di 315 senatori eletti su base regionale. L’età richiesta per l’elettorato attivo e passivo è rispettivamente di 25 e 40 anni (per la camera 18 e 25). La durata dell’ufficio, che era di 6 anni, è stata ridotta a 5 con la l. cost. 3 febbr. 1963, n. 2, che ha unificato la durata delle due camere legislative. Peraltro, le prime due legislature del S. erano durate 5 anni in quanto sia nel 1953 sia nel 1958 il S. era stato sciolto anticipatamente alla scadenza della legislatura della Camera. Le attribuzioni del S. sono eguali a quelle della Camera dei deputati, in quanto la Costituzione repubblicana non ha ammesso, come faceva lo Statuto albertino, la prevalenza della Camera dei deputati in materia finanziaria. Anche per la concessione della fiducia ai nuovi governi dal Parlamento, si è instaurata la prassi che nella relativa discussione abbiano la precedenza alternativamente una volta la Camera dei deputati e una volta il Senato. Questa parità di attribuzioni indica chiaramente che la Costituzione italiana ha accolto il sistema del bicameralismo puro. Va ricordato che in Italia al presidente del S. sono attribuite le funzioni di presidente della Repubblica in ogni caso in cui questo non possa adempierle.