Seneca e lo stoicismo latino
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Seneca è una figura centrale dello stoicismo di età imperiale. Come filosofo dimostra una profonda padronanza della dottrina cui aderisce, che gli consente di dialogare addirittura con i fondatori della Stoà portando il suo contributo innovativo in campo etico e psicologico. Come politico esercita per alcuni anni un ruolo di particolare influenza accanto a Nerone, dimostrandosi in grado di reinterpretare in modo convincente e originale i principi della sua filosofia anche alla luce della contingenza politica. La sua vita è segnata dallo sforzo costante di costruire uno spazio in cui le due anime, quella politica e quella filosofica, possano convivere.
Nella sua monografia su Seneca, lo storico francese Paul Veyne parla di “morale di semplificazione dell’io” (Seneca, 1999) a proposito di quei filosofi cinici che rinunciavano a ogni bene materiale in nome della dottrina professata. Seneca si trova agli antipodi di tale modello; negli anni centrali della sua vita egli riveste infatti una molteplicità di ruoli: scrittore di successo, politico influente, filosofo stoico, munifico e dinamico uomo d’affari.
Lucio Anneo Seneca nasce a Córdoba fra il 4 e l’1 a.C., e muore a Roma per ordine di Nerone nell’anno 65 della nostra era. La prima parte della vita di Seneca è scarsamente documentata. Di famiglia agiata, è condotto a Roma dal padre, Lucio Anneo Seneca detto il Retore, intorno al 5 d.C. Dopo aver svolto studi di grammatica e retorica, ha per maestri i filosofi Papirio Fabiano e Sozione, della scuola dei Sestii, e lo stoico Attalo. I discepoli di Quinto Sestio, fondatore dell’unica scuola filosofica romana, trasmettono al giovane Seneca un insegnamento di tipo pratico, incentrato su una serie di esercizi spirituali e ispirato a un severo rigorismo morale. In comune con la Stoà, la scuola di Sestio presenta anche uno spiccato interesse per la filosofia della natura e la medicina, mentre da quella si differenzia per la concezione non materialistica dell’anima, l’astensione dal mangiar carne e la pratica dell’esame di coscienza serale: tutti elementi che l’accostano, invece, al pitagorismo. L’adesione di Seneca alla setta stoica si deve quindi all’entusiasmo con cui accoglie la lezione di Attalo, benché anche quest’ultimo si allontani dall’ortodossia, trascurando gli aspetti più tecnici della dottrina (logica e ontologia) e prediligendo la dimensione pratica dell’etica, di cui accentua le tendenze ascetiche.
Lucio Anneo Seneca
Lettere a Lucilio, Ep. 108
Non c’è niente di più facile che indirizzare giovani spiriti all’amore dell’onestà e della giustizia. Docili e non ancora guasti, essi sono conquistati dalla verità, se essa ha trovato un degno avvocato. Io, almeno, quando ascoltavo Attalo inveire contro i vizi, i disordini, i mali della vita, ho avuto spesso un senso di commiserazione per il genere umano e ho giudicato quel maestro un essere sublime, superiore a tutto ciò che c’è di grande sulla terra. […] Quando si metteva a fare l’elogio della povertà, a mostrare come tutto ciò che accende i nostri bisogni è un peso inutile e faticoso a portarsi, spesso io avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a sferzare i piaceri, a lodare la continenza, la sobrietà nei cibi, la purezza di un’anima che si astiene non solo dai piaceri illeciti, ma anche da quelli superflui, ero pronto a proibirmi ogni peccato di gola e di sensualità. Di queste lezioni, o Lucilio, mi è restato qualcosa. Mi ero accinto con grande ardore a realizzare tutto il suo programma; poi, tornato alla vita di ogni giorno, ho serbato pochi dei miei buoni propositi iniziali. Di qui la mia rinunzia per tutta la vita alle ostriche e ai funghi. Non sono cibi, ma servono solo a stuzzicare la gola anche quando si è sazi […]. Di qui il mio rifiuto per tutta la vita di usare profumi, poiché il miglior odore di un corpo umano è di non averne alcuno. Non bevo più vino, né faccio bagni caldi: cuocere il corpo e spossarlo con sudori mi è sembrato un’inutile mollezza.
Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di G. Monti, Milano, BUR, 2002
Il filosofo Seneca entra in senato poco meno che quarantenne. La carriera politica di Seneca è tardiva, ma rapida e tumultuosa: vicino alla famiglia regnante, sotto Caligola, è esiliato in Corsica all’avvento di Claudio nel 41, per poi esserne richiamato, otto anni più tardi, con l’incarico di soprintendere all’educazione del figliastro dello stesso Claudio, Lucio Domizio Enobarbo Nerone. Quando nel 54 Nerone assume il potere imperiale, Seneca si trova dunque nella posizione di realizzare il sogno che fu di Platone: influire da filosofo sul detentore del potere politico, convertendo il giovane principe alla filosofia o dirigendone le scelte attraverso la persuasione. Seneca esercita il proprio ruolo di amicus principis cercando di conciliare stoicismo e opportunità politica, ma i successi iniziali, documentati dagli storici antichi, sono forse da attribuirsi, più che all’efficacia di un programma educativo, alla giovane età di Nerone e all’appoggio del potente prefetto del pretorio, Sesto Afranio Burro. Col passare degli anni, infatti, Nerone diviene sempre più smanioso di affermare la propria “esuberante” personalità. Gli incidenti politici dovuti alla sua iniziativa personale si fanno sempre più frequenti e drammatici – fino all’assassinio della madre Agrippina – e con la morte di Burro, avvenuta agli inizi del 62, Seneca realizza di aver perduto ogni ascendente sul proprio pupillo e chiede il permesso di ritirarsi a vita privata.
Nonostante il rifiuto del principe di dispensarlo dai suoi obblighi di amicus, a partire dal 62 Seneca riduce progressivamente le proprie attività pubbliche: dietro il pretesto di una salute malferma, si sottrae ai clientes e abbandona di rado la propria abitazione, completamente immerso nella redazione dei suoi scritti. Nel 64, anno del grande incendio di Roma, una seconda richiesta di dimissioni si risolve ugualmente in un nulla di fatto: perso il diritto di allontanarsi da Roma, vive ormai da recluso in una villa appartata nei dintorni dell’Urbe. I suoi ultimi anni sono trascorsi nello studio e nella meditazione e, quando nella primavera del 65 è travolto dal fallimento dell’ennesima congiura antineroniana, Seneca è pronto all’estremo gesto di resistenza a disposizione di uno stoico: il suicidio.
Gli ultimi istanti della vita di Seneca sono stati resi immortali da una celebre pagina degli Annali: il filosofo è ritratto da Tacito mentre, ormai esangue, offre libagioni a Giove liberatore (Iuppiter liberator).
Publio Cornelio Tacito
Annales, Libro XV, 63-64
[…] Seneca, poiché il suo corpo di vecchio, indebolito dal poco sostentamento, non consentiva il rapido defluire del sangue, si fa aprire anche le vene delle gambe e delle ginocchia; prostrato dalle atroci sofferenze, per non togliere coraggio alla moglie col proprio patire e per non perdersi d’animo egli stesso al vedere le sofferenze di lei, la persuase a ritirarsi in un’altra camera. E non venendogli meno l’eloquenza neppure in quell’estremo momento, chiamò a sé gli scrivani e dettò loro pensieri che io mi astengo dal rivestire d’altra forma, perché si sono divulgati colle sue stesse parole. […] intanto poiché l’attesa si prolungava e la morte era lenta a venire, pregò Stazio Anneo, della cui lunga amicizia e della cui arte medica aveva fatto esperimento, di versargli il veleno preparato da tempo, quello stesso con cui si estinguevano in Atene i condannati per sentenze popolari. Gli fu recato, ma lo bevve inutilmente; ché aveva gli arti già freddi e precluso il corpo all’azione del veleno. Da ultimo, si fece mettere in una vasca di acqua calda, e spruzzandone i servi più vicini disse ancora che egli offriva quella libagione a Giove liberatore. Messo infine in un bagno a vapore, fu soffocato dal caldo, e venne cremato senza alcuna cerimonia funebre. Così aveva disposto per testamento quando, ancora ricchissimo e al colmo della potenza, pur già pensava alla sua fine.
Tacito, Annali, a cura di A. Arici, Torino, UTET, 1969
Questo gesto non deve trarci in inganno; non dobbiamo pensare che uno stoico consideri il corpo una prigione per l’anima, alla maniera dei platonici (che però vietavano di darsi la morte), né che ricorra al suicidio per liberarsi dall’oppressione. La resistenza che interessa gli stoici è tutta interiore, e riguarda i principi. In particolari circostanze, qualora giudichi che ogni altra possibilità di agire secondo la retta ragione gli sia preclusa, lo stoico sceglie di lasciare volontariamente la vita per ribadire il principio cardine della sua dottrina: “solum bonum, honestum; solum malum, turpe” (“esiste un unico bene, la virtù, e un unico male, il vizio”).
Seneca è il primo filosofo stoico di cui possediamo gli scritti. Di coloro che lo hanno preceduto, e che per tre secoli hanno animato il dibattito interno ed esterno alla scuola, non restano che citazioni e compendi di seconda mano. L’opera di Seneca ha conosciuto un più felice destino: della sua vasta produzione filosofica ci sono pervenuti due trattati, De clementia e De beneficiis, i cosiddetti Dialoghi, e le 124 Lettere a Lucilio; oltre ai sette libri delle Naturales Quaestiones, a nove tragedie e a un’operetta di satira politica, l’Apokolokýntosis.
Sotto il titolo di Dialoghi (o più precisamente L. Annaei Senecae dialogorum libri XII) sono raccolte 10 prose morali che comprendono alcuni fra gli scritti più noti al lettore moderno: De ira, De providentia, De constantia sapientis, De brevitate vitae, De vita beata, De tranquillitate animi, De otio, oltre alle tre consolatorie Ad Marciam, Ad Helviam matrem e Ad Polybium. La cronologia delle opere di Seneca resta incerta, vi è però un ampio consenso nel considerare la Consolatio ad Marciam come la più antica, mentre apparterrebbero agli anni dell’esilio le altre due Consolationes e il De ira. Il trattato De clementia risale agli inizi del principato di Nerone ed è indirizzato al giovane principe; Tacito (Annali XIV, 52) collega la redazione delle tragedie all’interesse dello stesso Nerone per tale genere letterario, e pertanto la loro composizione andrebbe distribuita nel corso degli anni Cinquanta; le Naturales Quaestiones (una sorta di compendio di scienze naturali, basato su osservazioni e appunti raccolti in precedenza) e le Epistulae sono certamente state scritte a partire dal 62, dopo il ritiro di Seneca dalla scena politica.
L’opera di Seneca si distingue innanzitutto per la lingua in cui è scritta: il latino. In quegli anni, a Roma, la lingua della filosofia è ancora il greco: scrive in greco lo stoico Anneo Cornuto, contemporaneo di Seneca; in greco si svolge l’insegnamento di Musonio Rufo; e al greco affiderà le proprie riflessioni l’imperatore-filosofo Marco Aurelio. La predilezione di Seneca per il latino, dunque, viene recepita da alcuni critici come un indizio della sua personalità di scrittore; in altre parole, egli sarebbe un letterato che si occupa anche di argomenti filosofici, e non un filosofo con una buona formazione e uno spiccato talento retorici. Eppure, a una lettura non pregiudiziale della sua opera si rafforza l’impressione opposta. La consolatio, per esempio, è sì un genere letterario codificato, interpretato al meglio dal Seneca scrittore; ma nella consolatoria Ad Marciam, è con l’autorità del filosofo che egli si rivolge alla sua interlocutrice (una nobildonna romana cui era morto un figlio), e non esita a ricorrere ad argomenti complessi della propria dottrina, come la teoria dei cicli cosmici dell’eterno ritorno. Altri scritti, più tardi, documentano l’interesse e la competenza di Seneca nel misurarsi con gli aspetti più tecnici della riflessione filosofica, quali la teoria della causalità (Ep. 65), l’ontologia platonica (Ep. 58) e i sofisticati tecnicismi dell’etica stoica (Epp. 121-124).
Prende corpo, dunque, un’interpretazione alternativa che pone in primo piano l’originalità del contributo senecano. Il caso di Seneca, infatti, si distingue dal precedente offerto da Cicerone. Cicerone scrive opere di filosofia in latino con un intento divulgativo, sforzandosi di creare un lessico di base per tradurre presso il pubblico romano idee filosofiche greche. Seneca, invece, scrive in latino perché è il latino la lingua in cui pensa, arrivando ad arricchire il corredo concettuale della sua scuola, come nel caso del termine e dell’idea di voluntas. Alla do-manda “Che cosa ti occorre per essere buono?”, Seneca risponde: “La volontà” (Ep. 80, 4). Questo rompe sia con la tradizione socratica cui si rifanno gli stoici – Socrate avrebbe risposto: “Conoscere le virtù” – sia con la teoria dell’azione aristotelica. Secondo Aristotele, la volontà (boúlesis) stabilisce il fine delle nostre azioni, che è sempre un bene per noi ma non è necessariamente un bene di per sé. Il fatto che ciò che si persegue come un bene sia davvero tale dipende infatti dal carattere dell’agente, che può essere virtuoso o vizioso; a influire sulla formazione del carattere non è però la volontà ma la phrónesis (“saggezza”), ovvero una virtù intellettuale.
La centralità attribuita da Seneca alla volontà, in quanto principio dell’azione, ha in larga parte una funzione retorica, di esortazione all’autotrasformazione e al progresso morale: per esempio, nella Lettera 80, l’autore intende dire che per prendersi cura della propria anima non c’è bisogno di risorse esterne – a differenza di quanto avviene per il corpo, che richiede palestre, cibi e unguenti tonificanti – ma è sufficiente volerlo. Alcuni, tuttavia, ritengono che, introducendo il termine voluntas, Seneca abbia modificato la concezione monista dell’anima propria degli stoici, perché accanto alla ragione verrebbe a trovarsi una seconda facoltà, quella del volere. L’originalità della posizione senecana, a partire dal tema della voluntas, è stata recentemente ripresa in esame da Brad Inwood. Secondo lo studioso canadese, l’opera di Seneca rappresenta un “raro esempio di filosofia latina di prim’ordine” (Reading Seneca: Stoic Philosophy at Rome, 2005), espressione di una temperie culturale estremamente circoscritta (Inwood parla di micro-climate) ma feconda, quella dell’entourage dei discepoli di Sestio. In questa cerchia, che si estende alla generazione di intellettuali romani educata da uomini quali Papirio Fabiano e Sozione, il giovane Seneca trova innanzitutto i modelli letterari e umani cui ispirarsi (si pensi in particolare alla figura di Fabiano, retore convertitosi alla filosofia e molto apprezzato da Seneca il Vecchio); quindi un pubblico sufficientemente edotto e numeroso cui destinare i propri scritti.
Nel mondo greco-romano, per essere considerati filosofi non è necessario insegnare o scrivere opere di filosofia; occorre invece professarsi, per esempio, stoici o epicurei, platonici o scettici, e naturalmente vivere secondo i dettami della propria scuola. A Roma, ai tempi di Seneca, alcuni esponenti della “setta” stoica si distinguono per la loro posizione critica nei confronti del principato, costituendo la cosiddetta “opposizione filosofica” a Nerone.
Aulo Persio Flacco
Satira
Satire, III, 66-87
Imparate, o sventurati, e prendete coscienza delle cause del reale:
che cosa siamo, perché mai nasciamo alla vita, quale ordine
ci è stato assegnato, […]
quale misura dare alle ricchezze, […]
quanto sia lecito assegnare alla patria ed ai cari parenti, come Dio
ti ha imposto di essere e in qual parte dell’umanità sei stato collocato.
Impara, e non invidiare che puzzino nella ricca dispensa
molti orci, compenso per aver difeso grassi Umbri,
e prosciutti pepati, ricordo di un cliente marsico,
e che ancora le sardelle non sian calate dall’orlo del barile.
E qui qualcuno della caprina stirpe dei centurioni
direbbe: “Quello che so, a me basta: io non ci tengo
ad essere come Arcesilao e quei tormentati Soloni,
a capo chino, lo sguardo fisso in terra,
mentre rodono fra sé e sé mormorii e rabbiosi silenzi
e soppesano le parole al labbro sporto in fuori,
meditando i vaneggiamenti di quel vecchio malato, che nulla
può generarsi dal nulla, ed in nulla nulla può risolversi.
È questo il motivo per cui sei tanto pallido? La ragione per cui qualcuno non pranza è questa?”.
A queste parole il popolo ride e la gioventù muscolosa
moltiplica le tremule sghignazzate, arricciando il naso.
Persio, Satire, a cura di I. Ramelli, Milano, Bompiani, 2008
Si tratta per lo più di membri dell’aristocrazia senatoria, fra cui vanno ricordati i nomi di Rubellio Plauto (esiliato e poi fatto uccidere da Nerone nel 62), del console Trasea Peto e di Barea Sorano, console suffetto durante il patronato di Agrippina. Sotto la loro influenza si forma un nipote dello stesso Seneca, il giovane Marco Anneo Lucano, allievo di Cornuto e autore del poema storico-filosofico Pharsalia.
Qual è il ruolo di questi uomini negli anni in cui Seneca esercita il suo ministero di amicus principis? Benché si parli di opposizione stoica al principato, non bisogna pensare a una formazione politica organizzata, né che fra loro vi siano dei cospiratori seriamente determinati a restaurare la repubblica. Ciò a cui aspirano questi senatori, dopo i molti abusi perpetrati da Claudio, è il ripristino della normale procedura nei rapporti tra il principe e il senato. In particolare, essi si ergono a custodi della libertas senatoria e della morale pubblica, minacciate dal dispotismo neroniano. In caso di dissenso, tuttavia, la loro opposizione non può che limitarsi alla coraggiosa testimonianza. Nel 59, per esempio, nei momenti febbrili che seguono l’assassinio di Agrippina, Trasea abbandona l’aula in segno di protesta; egli è il solo a prendere apertamente posizione contro la menzogna ufficiale, che vorrebbe Agrippina promotrice di una cospirazione ai danni dell’imperatore. Con il suo gesto, osserva desolatamente Tacito, Trasea “procurò a se stesso motivo di pericolo, mentre agli altri non poté offrire principio alcuno di libertà” (Annali XIV, 12).
Radicalmente diversa è la posizione assunta da Seneca nel trattato Sulla clemenza. Seneca si fa carico di un’apologia del principato, cui viene riconosciuto il ruolo di istituzione-garante della pace e della sicurezza dei cittadini. Il De clementia traccia un ritratto del principe virtuoso secondo la tradizione dei trattati ellenistici Sulla regalità (Perì basileias), dove il monarca viene paragonato agli dèi sia per il potere illimitato che detiene, sia per la giustizia e la benevolenza con cui dovrà esercitarlo. Il filosofo pone l’accento sulla virtù della clemenza, poiché soltanto grazie alla moderazione nell’esercizio dei poteri – in particolare nell’assegnazione di pene e punizioni – il principe dimostra di governare innanzitutto se stesso e si differenzia così dal tiranno. Nel rivolgersi direttamente a Nerone, Seneca adotta una strategia che combina insieme lode e ammonimento. Da un lato, attraverso la finzione dello speculum principis, rimanda a Nerone l’immagine virtuosa che, in effetti, si augura che questi farà propria; dall’altro, gli ricorda come solo l’esercizio della clemenza gli varrà l’amore dei cittadini, che agli occhi di Seneca costituisce l’unico baluardo sicuro per la sua incolumità.
Il filosofo trova nell’azione della natura una conferma della propria tesi: guardando alla fisiologia delle api, nota come il re si distingua non solo per una corporatura maggiore, ma soprattutto per la mancanza di uno strumento offensivo (il pungiglione). Per essere in accordo con la norma naturale, dunque, il principe dovrà riprodurre lo stesso comportamento non-violento nei confronti dei propri sudditi (De clementia, I 19, 3). E ciò gli risulterà semplice, secondo Seneca, se penserà all’impero come al proprio corpo: poiché il principe è la mente che governa l’impero, di conseguenza i sudditi – ovvero ciò che quella mente governa – sono il suo stesso corpo. Quindi il filosofo ammonisce Nerone a trattare quelli come tratterebbe le proprie membra: “Infatti se […] tu sei l’anima dello stato ed esso è il tuo corpo, vedi bene, credo, quanto sia necessaria la clemenza: risparmi, infatti, te stesso, quando sembra che risparmi qualcun altro” (De clementia,I 5, 1).
Il ruolo di apologeta del sovrano, benché allontani Seneca dagli stoici suoi contemporanei, non è incompatibile con l’ortodossia della scuola. Crisippo di Soli, terzo scolarca della Stoà e il più insigne tra gli stoici antichi, sosteneva che “il sapiente si fa carico volontariamente della potestà regia, traendone profitto; e se non può egli stesso essere re, farà vita in comune col re e combatterà al suo fianco” (Stoicorum veterum fragmenta, III 691). Il passo, riportato da Plutarco, è tratto da uno scritto Perì bion (Sugli stili di vita) e dimostra come Crisippo concepisse uno spazio di azione per il saggio anche all’interno di una monarchia. Il coinvolgimento diretto del saggio nelle vicende politiche della città e, più in generale, il suo impegno al servizio dell’interesse comune – quale che sia il regime vigente – sono alla base del pensiero politico dell’antica Stoà, che invece attribuiva un’importanza soltanto secondaria ai problemi di organizzazione costituzionale dello stato. Anche secondo Stobeo, un altro testimone della dottrina sociale stoica, il saggio si dà alla politica (politeuesthai); in particolare lo fa “sotto quei regimi che mostrano un qualche progresso verso la perfezione”, ma ciò non significa che vincoli la propria azione a una determinata forma di governo, per esempio alla democrazia piuttosto che all’aristocrazia o alla monarchia. Stobeo cita infatti come proprie del saggio diverse attività che prescindono dal tipo di regime vigente, come stabilire le leggi ed educare gli uomini; inoltre il saggio “acconsente al matrimonio e a generare figli a proprio vantaggio e a vantaggio della patria”, e per questa a sopportare fatiche e persino a morire (Stoicorum veterum fragmenta, III 611).
Ai tempi di Seneca, il tema della partecipazione del sapiente alla vita pubblica è un argomento particolarmente sentito, oggetto di un acceso dibattito non solo tra le fazioni avversarie degli stoici e degli epicurei (i seguaci di Epicuro raccomandano l’astensione dall’arena politica, in quanto fonte di turbamento e pericoli), ma all’interno della stessa scuola stoica. La questione presenta due aspetti, il primo di carattere filosofico più generale e il secondo strettamente legato alla figura del saggio: (1) se la “vita pratica” (bios praktikos) sia da preferire alla “vita teoretica” (bios theoretikos) e (2) se vi siano delle ragioni che possono impedire al saggio la partecipazione alla vita pubblica, ovvero se quest’ultima vada considerata una sorta di imperativo categorico oppure se si debba ammettere una serie di condizioni da soddisfare per renderla possibile. Entrambi questi aspetti sono presenti nell’opera di Seneca, in particolare in due scritti appartenenti alla raccolta dei Dialoghi, il De tranquillitate animi e il De otio. Nel De tranquillitate, il filosofo prende posizione contro Atenodoro, uno stoico vissuto nel I secolo a.C., il quale, pur apprezzando l’impegno a vantaggio dei concittadini, sosteneva che in condizioni di particolare corruzione dello stato sia meglio ritirarsi da ogni incarico pubblico e attività sociale. Seneca replica che al contrario la constantia impone al saggio di non ritirarsi troppo in fretta, e mai del tutto, dalla scena politica: “[...] chi si arrende con le armi in pugno è più rispettato e garantito dagli stessi nemici” (4, 1). E comunque – aggiunge Seneca – il saggio troverà sempre il modo di agire secondo giustizia, come mostra l’esempio di Socrate nell’Atene dei Trenta Tiranni: “Poteva vivere in pace quella città, in cui vi erano tanti tiranni quanti normalmente sarebbero gli sgherri del tiranno? Non poteva offrirsi ai cuori nemmeno la speranza di riacquistare la libertà, né si vedeva la possibilità di porre rimedio a così gravi mali [...] Tuttavia là in mezzo c’era Socrate, a consolare i senatori affranti e ad esortare quanti disperavano delle sorti dello stato [...] Socrate offriva a quanti avessero voluto imitarlo un esempio altissimo, procedendo libero fra i trenta padroni. [...] Ti dico questo perché tu sappia che, anche quando lo stato è oppresso, l’uomo sapiente ha l’opportunità di mostrare il suo valore (in afflicta re publica esse occasionem sapienti viro ad se proferendum)” (5, 1-3).
Considerando la passione civile trasmessa da queste righe, il lettore potrà restare sorpreso nel constatare che il secondo “dialogo” in questione, il De otio, altro non è se non l’esortazione a una vita ritirata, dedita alla filosofia e alla contemplazione della natura. Nelle parti dell’opera accessibili al lettore moderno – il De otio ci è pervenuto mutilo dei primi paragrafi e di tutta la sezione conclusiva – Seneca mira a dimostrare che si può preferire la vita teoretica senza per questo cessare di dirsi stoico. Da un lato il bios theoretikos non è, in senso stretto, in contrasto con la regola dell’impegno civile, dal momento che questa – ricorda Seneca – prevede delle eccezioni già nella formulazione riconducibile a Zenone, il fondatore della Stoà, e Crisippo: “Il sapiente si darà alla politica, a meno che qualcosa non glielo impedisca” (lex Chrysippi, SVF III 697). Dall’altro la fondamentale dottrina stoica della filantropia, secondo la quale “l’uomo è nato con il compito di curare e proteggere i propri simili” (Cicerone, De finibus, III 68), è ribadita, e non contraddetta, dalla scelta di una vita di studi.
Lucio Anneo Seneca
De otio, III, 5
All’uomo si richiede appunto questo, che giovi agli altri uomini; se è possibile, a molti, se no, a pochi, se neanche questo può avvenire, giovi a chi gli è più vicino, se non è possibile, a sé stesso. Difatti, quando si rende utile agli altri, compie un’opera di interesse comune.
Seneca, La vita ritirata, a cura di N. Lanzarone, Milano, BUR, 2001
Chi si adopera per migliorare se stesso, infatti, giova anche agli altri, “poiché prepara un uomo che in futuro potrà essere loro utile” (De otio, 3, 5). Non solo. Seneca osserva che gli stoici ammettono l’esistenza di due res publicae (4, 1): la prima corrisponde alla città storica in cui a ciascuno è dato in sorte di nascere; la seconda coincide col mondo ed è la casa comune di uomini e dèi, ovvero di tutti gli esseri dotati di ragione. Ebbene, attraverso una vita libera dagli incarichi pubblici e dalle occupazioni mondane, possiamo renderci utili proprio a questa seconda res publica, la più grande.
Lucio Anneo Seneca
De otio, IV, 1-2
Rappresentiamoci con la mente due repubbliche, l’una grande e veramente pubblica, che contiene in sé gli dèi e gli uomini, nella quale non guardiamo a questo o a quell’angolo, ma con il corso del sole misuriamo i confini della nostra città, l’altra, alla quale ci ha assegnati il destino della nostra nascita; questa sarà la reppublica o degli Ateniesi o dei Cartaginesi o di qualche altra città che non appartiene a tutti, ma solo a certi uomini. Alcuni si applicano nello stesso tempo ad ambedue le repubbliche, alla maggiore e alla minore, altri soltanto alla minore, altri ancora soltanto alla maggiore. A questa repubblica più grande possiamo dedicarci anche conducendo vita ritirata, anzi, per la verità, non so se meglio proprio in una vita ritirata […].
Seneca, La vita ritirata, a cura di N. Lanzarone, Milano, BUR, 2001
Quando ci interroghiamo su “che cosa sia la virtù, se sia una o più d’una, se sia la natura o un’arte a rendere gli uomini virtuosi” (4, 2), offriamo ai nostri simili un servizio impareggiabile, poiché ci occupiamo di quelle realtà che sono non soltanto un bene per tutti ma, dal punto di vista stoico, costituiscono il solo vero bene. Contemplando il cosmo, del resto, rendiamo un servizio al dio, poiché non lasciamo che il suo operato resti senza testimoni. Seneca giustifica quest’ultima affermazione mostrando grande familiarità con il modo di ragionare tipico degli stoici. Nel dotarci di un carattere curioso, della consapevolezza del bello, e di una struttura anatomica che ci consente di guardarci tutto intorno (la testa elevata su di un collo flessibile), in fondo è la natura stessa a rivelarci che la contemplazione, accanto all’azione, rientra tra i fini per i quali ci ha generato.
Dobbiamo dunque pensare a un radicale cambiamento di fronte da parte di Seneca? Da sostenitore dell’impegno a ogni costo a fautore della vita ritirata (otium)? Benché il De otio con buona probabilità segua cronologicamente il De tranquillitate, questa non sembra la spiegazione migliore, anche perché entrambe le opere precedono il ritiro di Seneca dalla scena politica. È plausibile, invece, che egli abbia sempre apprezzato l’otium come condizione che permette al filosofo di esercitare la propria attività caratteristica, ovvero la speculazione. Lo stesso vale per i filosofi della prima Stoà; questi infatti riconoscevano il talento filosofico straordinario di alcuni come giustificazione accettabile per il disimpegno, accanto alla non idoneità del carattere e alle condizioni politiche particolarmente avverse. Nel De otio Seneca fa propria tale giustificazione, quando scrive che Zenone e Crisippo dedicandosi alla filosofia “hanno compiuto imprese più grandi che se avessero guidato eserciti, ricoperto cariche pubbliche, proposto leggi” (6, 4), e ancora che “trovarono il modo in cui la loro quiete giovasse agli uomini più del correre qua e là e delle fatiche degli altri” (6, 5). D’altra parte, poco prima che il dialogo si interrompa, Seneca respinge l’eccezione alla regola dell’impegno basata sullo stato di decadenza della res publica, esattamente come nel De tranquillitate. Miriam Griffin, nel suo studio seminale su Seneca e la politica (Seneca: A Philosopher in Politics, 1976), osserva giustamente che i due testi sono soltanto all’apparenza contraddittori. In realtà possiamo leggerli come complementari. Nel De tranquillitate si discute della scelta di un’occupazione che sia adatta alla propria indole: a chi ha scelto la carriera politica, per esempio, si consiglia di non ritirarsi troppo in fretta (e mai del tutto), anche qualora la corruzione dello stato renda difficile mantenere una condotta integra; chi non ha un carattere idoneo, perché troppo timido o irascibile, è invece invitato ad astenersi dalla vita pubblica. Il De otio mette in primo piano l’elemento nuovo dell’utilità dell’otium e insieme chiarisce le riserve espresse da Seneca a proposito di un’astensione che si basi sulla corruzione dello stato. Il filosofo nota come nessuno stato storico presenti condizioni adatte alla natura del saggio; di conseguenza, ammettendo l’astensione per ragioni politiche, si renderebbe l’otium necessario anziché oggetto di scelta e la posizione stoica sull’impegno civile risulterebbe autocontraddittoria: “Se qualcuno afferma che la cosa migliore è navigare, e poi dice che non bisogna navigare in quel mare nel quale sono soliti avvenire naufragi e spesso si verificano improvvise tempeste che trascinano il timoniere in direzione contraria, suppongo che costui mi proibisca di sciogliere gli ormeggi, benché elogi la navigazione” (8, 4).
SVF III 694
Di Crisippo. Crisippo, ad uno che gli chiedeva perché non partecipasse alla vita politica, rispose: “Perché se uno amministra male scontenta gli dèi, se amministra bene scontenta gli uomini”.
SVF III 694, in Stoici antichi: Tutti i frammenti raccolti da Hans von Arnim, a cura di R. Radice, Milano, Bompiani, 2006
In entrambi i testi Seneca respinge la giustificazione del disimpegno basata su cause esterne, cioè sullo stato di decadenza della res publica, piuttosto che su un attento esame delle proprie inclinazioni naturali. Questo lascia intuire come dietro le ragioni teoretiche agisca in qualche misura la cautela politica del filosofo, preoccupato di non passare per detrattore di chi governa la res publica. Anche sul tema della partecipazione politica, egli prende dunque le distanze dall’atteggiamento degli “stoici “ presenti in senato, i quali ricorrono all’astensione come strumento di censura morale nei confronti del principe. Il caso più noto è quello di Trasea, che si oppose alla versione ufficiale, mendace, in occasione dell’assassinio di Agrippina, e da quel momento rifiutò di partecipare alle sedute del senato, limitandosi a svolgere in privato attività utili ai concittadini. Seneca invece, anche nel momento del ritiro, cerca di salvare le apparenze mantenendo in varia misura i contatti con l’imperatore e la sua corte. Per esempio, continua ad appoggiare i congiunti che ricoprono incarichi istituzionali, in particolare il fratello Mela e l’amico Lucilio, che mantiene il suo incarico in Sicilia ancora nel 64. Infine, le Lettere 49, 57 e 77 testimoniano di un suo viaggio a Napoli e sulla costa campana sempre nel 64, probabilmente al seguito della corte imperiale: altre fonti ci informano infatti della presenza di Nerone a Napoli nello stesso anno – il principe vi si era recato per esibirsi nel teatro cittadino.
Le Lettere rappresentano l’opera più influente di Seneca, per l’impatto che hanno avuto sulla tradizione letteraria successiva e per il ruolo che hanno giocato, in tempi moderni, nel modellare la sua immagine filosofica. Si pensi alla facilità con cui identifichiamo il pensiero di Seneca con la sua riflessione morale; in questo modo finiamo per attribuire all’intera opera una caratteristica propria delle Lettere, dimenticando che il loro autore si è occupato anche di filosofia naturale nei sette ponderosi libri delle Naturales Quaestiones. L’intera raccolta delle lettere è scritta da Seneca nei suoi ultimi anni di vita; si tratta di un’opera che ci è giunta incompleta – malgrado disponiamo di ben 20 libri – e che presenta un carattere fittizio. In altre parole, non è una corrispondenza reale ma un componimento destinato alla pubblicazione, come suggerisce la promessa di immortalità letteraria fatta da Seneca all’unico destinatario, l’amico Lucilio: “Ti porterò l’esempio di Epicuro. Scrivendo a Idomeneo per volgerlo da una vita appariscente [...] a una gloria sicura e durevole gli dice: “Se brami la gloria, ti daranno maggior fama le mie lettere che tutte queste brighe che ti tengono occupato e per le quali godi di un prestigio così effimero”. [...] Ciò che Epicuro ha potuto promettere al suo amico, io lo prometto a te, o Lucilio: io troverò favore presso i posteri, e posso trarre con me dall’ombra nomi di amici che vivranno a lungo” (Ep. 21, 3-5). Del resto sarebbe stato alquanto improbabile uno scambio epistolare che non tenesse conto dei tempi naturali di spedizione: per spedire 32 lettere in 40 giorni, come risulta dagli indicatori temporali presenti in una parte dell’opera, Seneca avrebbe dovuto rassegnarsi a scriverle prima di conoscere le risposte di Lucilio.
A differenza di altri epistolari filosofici (per esempio la corrispondenza attribuita a Epicuro), le Lettere a Lucilio presentano un peculiare carattere dialogico: Seneca stabilisce di volta in volta il tema da trattare immaginando reazioni e domande del suo destinatario a missive precedenti. Inoltre, la voce di un anonimo interlocutore polemico interviene nei punti più salienti allo scopo di avanzare possibili obiezioni che fanno procedere l’argomentazione. Questa natura dialogica, che accomuna le Lettere senecane ai dialoghi platonici, ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore. Il lettore ideale delle Epistulae, infatti, è portato a identificarsi con il destinatario, cioè con un uomo in procinto di intraprendere il cammino di conversione alla filosofia e di progresso morale, in modo simile a come il lettore platonico, rispecchiandosi nell’interlocutore di Socrate, è invitato a prendere coscienza delle proprie credenze. Le due prospettive sono in effetti complementari. L’elenchos socratico è la condizione per intraprendere il cammino: attraverso l’elenchos, chi dialoga con Socrate realizza di doversi prendere cura di sé ma, come lamenta Clitofonte nel dialogo omonimo, Socrate non si preoccupa di essere più esplicito quanto ai modi per procedere in questo percorso di autotrasformazione. Gli stoici, che rivendicano un’ascendenza socratica, sembrano voler colmare tale lacuna proponendo la loro techne perì ton bion (letteralmente, “arte della vita”), un insieme di pratiche ed esercizi volti a raggiungere una completa guarigione dell’anima – per cui lo storico Pierre Hadot ha potuto parlare di “esercizi spirituali” anche per la filosofia antica. Le Lettere di Seneca sono un esempio e una componente essenziale di questo insieme.
Nonostante le singole lettere affrontino temi diversi, si può riconoscere proprio in questa concezione della filosofia come pratica terapeutica il tratto distintivo dell’intera raccolta.
Lucio Anneo Seneca
Lettere a Lucilio, Ep. 21
Credi di aver briga con quelle persone di cui mi hai scritto? In realtà ti danno più da fare i crucci che ti procuri da te stesso. Non sai con chiarezza quello che vuoi; ti è più facile lodare la virtù che seguirla; vedi dove sta la felicità, ma non osi raggiungerla. E poiché non riesci da solo a distinguere ciò che ti impedisce di progredire, te lo dirò io. Tu dai troppa importanza a quello che devi lasciare, e dopo aver vagheggiato la tranquillità che ti proponi di raggiungere, non sai distaccarti dal falso splendore di questa tua vita; come se poi dovessi cadere in una vita bassa e oscura. Sbagli, caro Lucilio: dalla tua vita presente a quell’altra si sale. Fra le due condizioni di vita passa la stessa differenza che c’è fra una cosa che brilla di luce riflessa e un’altra che ha in sé la sua fonte luminosa. La prima riflette una luce che viene dall’esterno, e chiunque si interpone subito proietta una fitta ombra; la seconda è illuminata dalla sua viva luce. Il culto della filosofia ti farà risplendere di questa luce.
Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di G. Monti, Milano, BUR, 2002
Confrontarsi con le Lettere è già di per sé un esercizio: “Mi accorgo, caro Lucilio, che non solo mi vengo correggendo, ma mi sto anche trasformando” (6, 1). Esse sono pensate da Seneca come un percorso per arrivare a interiorizzare le verità dello stoicismo: formulare una verità morale, per esempio che solo la virtù è un bene, non è sufficiente per comportarsi di conseguenza, ma occorre impadronirsi del principio calandolo nelle diverse situazioni concrete; solo così si arriverà a conoscerlo veramente. Durante una trasferta fuori città in cui si trova a viaggiare su mezzi di fortuna, Seneca osserva: “Sono sistemato alla meglio su un carretto di campagna; le mule mostrano di essere vive solo perché camminano ancora; il mulattiere va scalzo [...]. Mi sento proprio a disagio se gli altri pensano che questo sia il mio equipaggio [...] e, ogni qualvolta ci imbattiamo in una carrozza elegante, arrossisco; e questo dimostra che non ho ancora ben ferme e radicate nell’animo tutte quelle lodevoli massime di cui mi vanto” (87, 4). Se l’unico vero bene è la virtù, allora Seneca non dovrebbe vergognarsi – né d’altra parte compiacersi – di un oggetto “indifferente” come il mezzo su cui si trova a viaggiare. Per uno stoico, infatti, cose come la salute, la ricchezza o la comodità del viaggio hanno valore, cioè sono “preferibili” rispetto ai loro contrari, ma solo la virtù è un bene, perché solo la virtù può determinare la nostra felicità. Per arrivare a sentire questa verità occorre però “fare esercizio”, per esempio meditare sulle questioni affrontate nelle lettere, confrontarle con il proprio vissuto, sforzarsi di tenere presenti i principi dello stoicismo nelle situazioni concrete – tale sarà, per esempio, la funzione del Manuale di Epitteto. In questo modo si agisce su di sé, trasformando progressivamente se stessi, superando se stessi (intellego quantum te ipse […] superieceris, 34, 1), diventando finalmente padroni di se stessi (nos nostri esse coeperimus, 71, 36).
La riflessività del linguaggio senecano ha incontrato l’interesse degli studiosi contemporanei sensibili alla cosiddetta “filosofia del sé”, cioè all’insieme delle questioni riguardanti temi specifici come l’identità personale nel tempo (che cosa ci fa continuare a essere quelli che siamo malgrado i cambiamenti) e, più in generale, il modo in cui ogni essere umano è cosciente di sé e del mondo. In particolare, Michel Foucault ha creduto di poter rintracciare nelle pratiche stoiche di autotrasformazione un modello del rapporto con se stessi alternativo alla ricerca di un sé profondo, professata per esempio dalla psicoanalisi. La sua proposta, benché continui a sollevare accese polemiche, ha senz’altro avuto il merito di liberare le Epistulae dall’etichetta di lettura edificante, ricollocandole nell’orizzonte socratico della cura di sé.