Abstract
Viene analizzata la prima fase del procedimento che conduce i coniugi verso lo scioglimento del matrimonio, ossia la separazione. Occorre, però, tenere ben presente che la separazione allenta ma non scioglie il vincolo matrimoniale. Infatti, la separazione può anche costituire un rimedio alternativo per quelle coppie che per vari motivi non intendano poi passare alla seconda fase dello scioglimento del matrimonio, ossia al divorzio. Nel nostro ordinamento la separazione si ottiene necessariamente attraverso un provvedimento del giudice ed è irrilevante a fini legali la separazione di fatto. Inoltre, sono previste due forme di separazione, quella giudiziale in cui vi è l’accertamento costitutivo da parte del Giudice dei fatti che rendano intollerabile la convivenza e quella consensuale che si verifica per mutuo consenso dei coniugi.
Fino ad un passato non molto remoto, nell’ordinamento italiano fortemente permeato dai principi dell’ordinamento canonico, vigeva il principio di ‘indissolubilità del matrimonio’ alla luce del quale, il vincolo matrimoniale poteva sciogliersi solo con la morte di uno dei due coniugi.
La figura della separazione legale dei coniugi, invece, era riconosciuta sia dall’ordinamento civile che da quello canonico. La ratio di questo istituto era quella di impedire che i coniugi riacquistassero la libertà dello stato coniugale pur mantenendo tra loro quella distanza non evitabile. Negli anni che precedevano la riforma in tema di divorzio, tanto nell’ordinamento giuridico, quanto nel contesto sociale, si stavano verificando una serie di mutamenti che rendevano questo istituto desueto e lacunoso. Infatti, si manifestava sempre più spesso l’esigenza di ovviare a tutte quelle situazioni in cui l’intollerabilità della convivenza dipendeva da fatti sopravvenuti che rendessero impossibile la prosecuzione della stessa, come ad esempio una malattia contagiosa che il coniuge aveva contratto in circostanze turpi o una grave condanna penale. In questi casi era eccessivo il potere concesso al coniuge a cui non fosse addebitabile la colpa, il quale era l’unico a poter decidere se allontanare l’altro coniuge da sé o se negargli la possibilità di separarsi.
Si prese quindi in considerazione di introdurre una separazione ‘per giusta causa’.
I riformatori si trovavano di fronte ad un bivio, o aggiungere alla separazione per ‘colpa’ una separazione per ‘giusta causa’ o sostituire al vecchio modello uno nuovo, fondato sul controllo giudiziale dei fatti che rendevano impossibile il protrarsi della convivenza.
Prima che si potesse pervenire ad una scelta in tal senso, fu introdotto il divorzio con la l. 01.12.1970, n. 898 e poi cinque anni dopo entrò in vigore la riforma del diritto di famiglia, che ebbe effetti incisivi soprattutto nel regolamento della separazione dei coniugi. La disciplina introdotta con la l. 19.05.1975 n. 151 è stata applicata anche ai matrimoni celebrati prima dell’entrata in vigore della stessa, sulla base del principio che legge civile non retroattiva si applica ai rapporti ‘non esauriti’, quando anche questi siano conseguenza giuridica di un atto anteriore alla legge stessa.
Nell’ordinamento civile italiano, al matrimonio canonico nei pubblici registri dello stato civile, lo Stato riconosce effetti civili. Attualmente è regolato dall'art. 8 della l. 25.03.1985, n. 121, che apporta modifiche al Concordato Lateranense dell'11.02.1929 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede e dall'art. 4 del Protocollo addizionale che costituisce parte integrante dell'accordo. Pertanto, è interessante comprendere come la separazione sia regolata nel diritto canonico.
Il codice di diritto canonico nei canoni 1151-1155 «De separatione manente vinculo» prevede la possibilità per i coniugi di separarsi, fermo restando il loro vincolo matrimoniale. I coniugi hanno il dovere e il diritto di conservare la convivenza coniugale, eccetto che siano scusati da causa legittima. Il vincolo, infatti, è stato contratto di fronte a Dio ed è permanente fino alla morte di uno dei coniugi e indissolubile dall’uomo.
L’ordinamento canonico raccomanda che ciascun coniuge, mosso da carità cristiana e premuroso per il bene della famiglia, non rifiuti di perdonare la comparte adultera; tuttavia, ove ciò non fosse possibile, ha il diritto di sciogliere la convivenza coniugale. La separazione, dunque, non scioglie il vincolo e fa in modo che essi restino genitori nell’ambito del vincolo consortile, anche se vivono in due dimore separate. Essa comporta la sospensione della comunità di vita, del dovere di vivere insieme e dei diritti e doveri coniugali.
L’adulterio è causa di separazione perpetua, mentre cause di separazione temporale si avverano nel caso in cui uno dei due coniugi comprometta gravemente il bene sia corporale che spirituale dell’altro o della prole, oppure renda troppo dura la vita comune.
La separazione è sancita per decreto dell’Ordinario del luogo o per decisione propria del coniuge se vi è pericolo nell’attesa.In tutti i casi, cessata la causa della separazione, si deve ricostituire la convivenza coniugale, a meno che non sia stabilito diversamente dall’autorità ecclesiastica. Anche se in forza di separazione, si deve provvedere al debito sostentamento e all’educazione dei figli. Il coniuge innocente può sempre rinunciare alla separazione.
La scelta del legislatore italiano si esprime nell’art. 150 c.c., secondo cui la separazione legale può essere ‘giudiziale’ o ‘consensuale’, e nell’art 158 c.c., che dispone che il solo consenso dei coniugi a separarsi non ha effetto legale senza l’omologazione del giudice.
Pertanto, la separazione di fatto presenta lo stesso identico schema delle forme di separazione riconosciute dall’ordinamento, ma non è formalizzata, perché non si basa su una sentenza o su un decreto di omologazione, ma sull’iniziativa unilaterale o bilaterale dei coniugi di interrompere la convivenza. Solamente quando è entrata in vigore la l. n. 898/1970 si è attribuita rilevanza alla separazione di fatto iniziata due anni prima dell’entrata in vigore della legge, vale a dire nel 1968; si è trattato, perciò, di una disciplina transitoria non più adottata, ma che agli esordi fu tra le più invocate cause di divorzio.
Essendo pienamente regolata dalla sola volontà dei coniugi e non da leggi, la separazione di fatto può sostanziarsi in uno stato permanente o transitorio prima della separazione legale. Nel tempo si è prestata a forme più o meno complesse di regolazione pattizia patrimoniale tra i coniugi. Tuttavia, in base al principio di assoluta indisponibilità dei diritti derivanti dal matrimonio, non si può attribuire qualsivoglia valore giuridico a detti patti, seppur essi prosperino nella realtà del diritto vivente. Sul punto è intervenuta la Suprema Corte, con la sentenza 14.06.2000 n. 8109, stabilendo che l’unico effetto ad essi ascrivibile è l’obbligo del giudice di tenerne conto per ricostruire l’esatta condizione dei coniugi quale parametro di determinazione dell’assegno di divorzio.
La separazione consensuale si basa sul mutuo consenso dei coniugi omologato dal Tribunale, questo perché la riforma del diritto di famiglia ha voluto estendere e valorizzare il ruolo svolto dell’autonomia privata nei rapporti familiari attraverso l’introduzione di un nuovo modello di famiglia, non più fondato sull’autorità del capo, ma sull’eguaglianza dei suoi membri.
Per questo, è ormai pacifico in giurisprudenza che la separazione trova la sua unica fonte nel consenso dei coniugi, mentre il provvedimento giudiziale è esclusivamente diretto ad attribuire efficacia esterna all’accordo di separazione, «assumendo la funzione di condizione sospensiva della produzione degli effetti di pattuizioni stipulate tra i coniugi, già integranti un negozio giuridico perfetto ed autonomo» (in tal senso, Cass., 30.11.2003, n. 17607).
Pertanto, l’intervento del giudice in sede di omologazione assolve una funzione di mero controllo sugli accordi patrimoniali e, per quanto attiene all’accordo di separazione in senso stretto, il giudice non ha potere di cernita delle ragioni che determinano la crisi, ma solo quello di saggiarne la consistenza nel corso del tentativo di conciliazione.
Inoltre, il giudice può rifiutarsi di omologare l’accordo di separazione solo quando questo appaia in contrasto con gli interessi dei figli ed è escluso che possa modificarlo o integrarlo, perché una diversa soluzione finirebbe per svilire la ratio di un istituto che si basa sul principio del consenso dei coniugi di separarsi rispettando le loro reciproche volontà.
L’accordo di separazione viene generalmente integrato da patti relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli e da accordi patrimoniali, mentre per quanto riguarda quelli relativi ai rapporti personali tra i coniugi, vi sono particolari difficoltà dato che l’autonomia pattizia non può incidere su diritti e libertà fondamentali della persona.
Le statuizioni di natura economica possono essere riviste su accordo delle parti, oppure mediante ricorso al giudice, in tutti i casi in cui sopravvengono circostanze che alterano l’originale equilibrio influendo nei redditi dell’uno o dell’altro coniuge. Invece, per quanto attiene alle pattuizioni riguardanti i figli, essendo considerate più delicate, gran parte della dottrina ritiene che debbano necessariamente passare per il vaglio del giudice anche le modifiche pattuite. Tuttavia, attualmente, nell’ambito del cosiddetto ‘affidamento condiviso’, dopo la separazione l’esercizio congiunto della potestà genitoriale costituisce la modalità normale di rapportarsi tra genitori e figli e quindi l’accordo rappresenta la regola fondamentale di decisione. Nel caso in cui manchi il consenso, vi è sempre la possibilità di ricorrere al giudice per giustificati motivi secondo l’art. 156 co. 7, c.c., si instaura quindi un procedimento di revisione camerale previsto dall’art. 710 c.p.c.
Il procedimento di separazione consensuale è disciplinato dall’art. 711 c.p.c., che richiama l’art. 158 c.c., secondo cui il ricorso va presentato da entrambi i coniugi (ma la norma ammette che possa essere anche uno solo a presentarlo), deve essere sottoscritto dalle parti personalmente o da un procuratore legale munito di mandato, mentre ovviamente, il ricorso non può essere presentato da terzi; il contenuto dello stesso non è prefissato tassativamente dalla norma.
È competente il Tribunale in cui vi era l’ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza, del luogo in cui il convenuto ha residenza o domicilio, in caso d’irreperibilità di un coniuge o di residenza all’estero, nel foro del luogo di residenza del ricorrente, in caso di residenza all’estero di entrambi i coniugi qualsiasi tribunale della Repubblica. Il presidente, ricevuto il ricorso, fissa con decreto in calce allo stesso la comparizione delle parti; ovviamente se il ricorso è presentato da una sola parte, il ricorrente dovrà notificare l’avviso all’altra. Il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente tentando la conciliazione; in merito all’atteggiamento che deve assumere il Presidente del Tribunale nel gestire il procedimento di separazione consensuale, il codice non prevede alcuna norma.
Se la conciliazione non riesce, se ne dà atto nel verbale d’udienza in cui si riportano altresì le condizioni da essi stabilite in merito ai loro rapporti personali, patrimoniali e con i figli, e al termine della redazione dello stesso i coniugi lo sottoscrivono. Come già accennato, la separazione acquista efficacia con il decreto di omologazione del tribunale, il quale provvede in camera di consiglio su relazione del Presidente, tale decreto può essere reclamato dalle parti entro dieci giorni dalla comunicazione.
Secondo l’articolo 151 c.c., la separazione giudiziale può essere chiesta quando si verifichino «fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza» o «da arrecare grave pregiudizio all’educazione della prole».
Pertanto, sono venute meno le cause tassative contenute nella disciplina previgente che ammettevano la separazione solo in caso di adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie gravi, condanne penali superiori ai cinque anni e mancata fissazione della residenza ad opera del marito.
È evidente quindi, come ad una concezione sanzionatoria, che collegava la separazione in un rapporto di causa effetto a queste gravi violazioni dei doveri familiari, si sostituisce una concezione diversa fondata sul consenso, cosicché, nel caso il cui consenso, che è la base del matrimonio, venga meno, si allenta il vincolo matrimoniale e tale situazione giustifica la pronuncia di separazione. Non si valuta l’elemento della colpa, perché è impossibile distinguere le colpe reciproche e sovente la responsabilità del fallimento del matrimonio è comune.
Nella pronuncia della sentenza di separazione, il giudice, se è stato richiesto, può addebitarla ad uno dei coniugi, ma solo qualora questi abbia tenuto comportamenti contrari ai doveri nascenti dal matrimonio.
Nell’elaborazione giurisprudenziale, l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza è l’unica vera e propria causa di separazione. Dopo annose questioni interpretative relative al vero senso attribuibile a questa espressione e sul se si dovesse considerare l’intollerabilità dal punto di vista soggettivo o oggettivo, la Suprema Corte ha affermato che «il rapporto coniugale è incoercibile e collegato al perdurante consenso di ciascun coniuge», pertanto il giudice nel pronunciare la sentenza di separazione deve verificare «in base ai fatti obiettivi emersi, compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare attenzione alle risultanze del tentativo obbligatorio di conciliazione e a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile allo stato la convivenza” (Cass., 09.10.2007 n. 21099).
La causa di separazione descritta al comma secondo dell’art. 151 c.c., ossia il grave pregiudizio all’educazione della prole, rimane, invece, più oscura da interpretare; essa è relitto storico del diritto canonico che prevede nel canone 1153 una motivazione identica.
In dottrina oltre che in giurisprudenza si ritiene che questa non costituisca un’autonoma causa di separazione dotata di una propria individualità, anche perché il nostro ordinamento prevede una serie di strumenti di tutela per proteggere la prole sicuramente più confacenti ed incisivi della separazione.
L’addebito può essere invece pronunciato a danno di un coniuge che ha violato i doveri matrimoniali, anche se per il giudice non è semplice stabilire quali ne siano le cause, dovendo tenere in considerazione la relazione dei coniugi nella sua globalità. Secondo giurisprudenza costante, la separazione si può addebitare al coniuge che con il suo atteggiamento errato abbia determinato la crisi del rapporto, ossia a colui che ha causato la rottura. Infatti, la giurisprudenza ormai si è orientata sul criterio dell’esistenza del nesso di causalità e il corretto onere probatorio di esso determina l’esito della lite.
La casistica delle condotte che possono costituire causa di addebito è molto amplia ma di solito con maggior frequenza si presenta il caso dell’adulterio.
Gli effetti dell’addebito si sostanziano nel mancato diritto al mantenimento, ma solo agli alimenti (156 c.c.), a carico del coniuge separato con addebito e nella non assunzione della qualità di erede del coniuge defunto, ma nel suo mero diritto ad un assegno vitalizio a carico dell’eredità se al momento dell’apertura della successione il coniuge a cui è stata addebitata la separazione godeva del diritto agli alimenti a carico del defunto.
Il procedimento di separazione giudiziale è regolato dagli artt. 706 e ss. c.p.c. ed è escluso dal codice di procedura civile che si possano far decidere da arbitri le controversie riguardanti la separazione personale dei coniugi.La competenza territoriale del Tribunale a cui si propone la domanda di separazione giudiziale è la stessa sopra descritta in caso di separazione consensuale. Il ricorso ha la funzione di esporre i fatti su cui si fonda la domanda, deve contenere necessariamente le proprie dichiarazioni dei redditi, l’esistenza dei figli e le richieste che vengono espresse da ciascun coniuge. Il presidente, entro cinque giorni dal deposito dello stesso, fissa con decreto la data di comparizione delle parti davanti a sé che dovrà tenersi entro 90 gg. dal deposito e fissa altresì il termine per la notifica al convenuto, oltre che il termine entro cui lo stesso potrà depositare la propria memoria difensiva che deve presentare gli stessi requisiti del ricorso introduttivo.
All’udienza presidenziale i coniugi devono comparire personalmente con l’assistenza del proprio difensore: infatti, la ratio di detta norma è l’avere un rapporto immediato con le parti che devono essere ascoltate, prima disgiuntamente e poi congiuntamente, per poi esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione; nel caso in cui la conciliazione fallisca, la fase presidenziale si conclude con un’ordinanza con cui il presidente detta i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse della prole e dei coniugi, ciò può accadere anche d’ufficio, ed avverso tali provvedimenti si può proporre appello entro dieci giorni dalla notifica del provvedimento.
Nell’ordinanza si fissa anche l’udienza di comparizione delle parti davanti al giudice istruttore, fase che ha le caratteristiche dell’ordinario procedimento contenzioso civile, pertanto, se non si presenta il ricorrente, la domanda non ha effetto, se non si presenta il convenuto il presidente può fissare una nuova comparizione ordinando il rinnovo della notifica. Il procedimento si conclude con la sentenza di primo grado che è impugnabile come un’ordinaria sentenza.
La separazione personale dei coniugi produce diversi effetti personali:
a) I coniugi hanno il diritto di divorziare dopo tre anni dall’udienza di prima comparizione degli stessi davanti al Presidente del Tribunale; non esiste nessun rapporto che giustifichi una pronuncia di litispendenza nel giudizio di divorzio in attesa della decisione nel giudizio di separazione, essendo i due procedimenti autonomi e separati.
b) La separazione legale impedisce che i coniugi possano accedere all’adozione legittimante, non possedendo più il requisito necessario di idoneità. Se i coniugi si separano nel periodo pre-adottivo, l’adozione può essere pronunciata nei confronti di uno o di entrambi i coniugi.
c) La presunzione di paternità non vige più passati trecento giorni dall’udienza di comparizione delle parti dinanzi al presidente del Tribunale.
d) Il coniuge che intenda legittimare il figlio per provvedimento del giudice, non deve più chiedere l’assenso dell’altro.
e) Il coniuge separato non è più incluso nel novero delle persone che il Giudice può designare amministratore di sostegno dell’altro coniuge.
f) La separazione legale impedisce l’acquisto della cittadinanza italiana dell’altro coniuge per matrimonio.
g) Il coniuge separato non può opporsi all’espianto degli organi del cadavere dell’altro coniuge a scopo di trapianto.
h) Il giudice può vietare alla moglie il cognome del marito se tale uso sia per lui o per lei gravemente pregiudizievole.
i) L’affidamento condiviso dei figli, successivamente all’entrata in vigore della l. 08.02.2006 n. 54, può essere derogato solo ove la sua applicazione risulti pregiudizievole per gli interessi dei minori. Pertanto, l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo deve basarsi su specifiche ragioni che devono essere congruamente motivate dal giudice. L’affidamento condiviso, infatti, ha come scopo quello di permettere ai genitori separati di condividere la responsabilità e la potestà genitoriale sui figli, affinché gli stessi vengano traumatizzati il meno possibile dalla separazione dei genitori e possano contare sulla guida di entrambi. Non esiste un preciso schema secondo cui prende vita l’affido condiviso ma è il giudice che si adatta di volta in volta alla molteplicità di situazioni che si trova a regolare. In tale situazione sono fondamentali gli accordi che i genitori prendono tra loro affinché i figli possano ottenere il miglior giovamento possibile dagli stessi.
l) Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo conto dell’interesse dei figli tenendo conto degli eventuali rapporti economici tra i genitori e del titolo di proprietà.
m) La prole ha diritto a mantenere rapporti significativi con ascendenti e parenti di entrambi i genitori separati.
Gli effetti patrimoniali tra i coniugi, regolati principalmente dall’art. 156 c.c. sono i seguenti:
a) Il coniuge a cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a ricevere dall’altro quanto sia necessario per il suo mantenimento qualora egli non abbia adeguati redditi propri; l’entità di tale somministrazione è determinata in base alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Anche dopo la riforma del diritto di famiglia che ha parificato la posizione dei coniugi rispetto al diritto di mantenimento in caso di separazione, non è venuta meno la differenza tra il mantenimento e gli alimenti. Pertanto, il mantenimento è la prestazione di tutto ciò che è necessario per la conservazione del tenore di vita che deve essere corrisposto al coniuge a cui non è addebitabile la separazione e che non disponga dei mezzi sufficienti per sopperire a queste esigenze, ovviamente deve essere corrisposto in proporzione alle sostanze dell’obbligato. Al contrario, la prestazione degli alimenti presuppone uno stato di totale assenza dei mezzi di sostentamento dell’alimentando e la sua impossibilità di provvedere a sé stesso. È valida la pattuizione tra i coniugi che sostituisca l’attribuzione periodica dell’assegno di mantenimento con l’attribuzione definitiva a titolo di proprietà di beni mobili, immobili o di capitali in denaro. La pensione di reversibilità va riconosciuta al coniuge separato che ha diritto all’assegno di mantenimento e anche al coniuge separato per colpa o per addebito, perché la stessa svolge la funzione di sostentamento.
b) Ciascuno dei genitori provvede al mantenimento del figlio in misura proporzionale al proprio reddito tramite un assegno periodico, salvo che i coniugi sottoscrivano liberamente tra loro accordi diversi. Il mantenimento deve essere adeguato alle attuali esigenze del figlio e commisurato al suo precedente tenore di vita in costanza di convivenza con entrambi i genitori, considerando altresì le risorse economiche e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. La cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento del figlio può avvenir solo mediante la procedura di cui all’art. 710 c.p.c., pertanto, il raggiungimento della maggiore età dello stesso e la raggiunta autosufficienza economica non sono di per sé condizioni sufficienti a legittimare la mancata corresponsione dello stesso o la sua unilaterale riduzione. Nel caso in cui al momento della separazione i figli siano maggiorenni, il giudice può disporre a favore degli stessi, se non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico che deve essere versato direttamente a loro; mentre, nel caso di figli maggiorenni ma portatori di handicap grave ai sensi della l. 05.02.1992 n. 104, si applicano le disposizioni previste in favore dei figli minori. In merito al riparto delle spese straordinarie, essendo queste difficilmente quantificabili, è prassi che si pongano al 50% a carico di ciascun genitore, esse riguardano fatti di carattere eccezionale e periodico ma non fisse, come ad esempio l’acquisto del corredo scolastico, le spese mediche e sportive, la partecipazione ai viaggi di educazione.
c) Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Al contrario, il coniuge cui è stata addebitata la separazione (oppure nel caso sia stata addebitata ad entrambi) ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio; se al momento della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto, tale assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero di eredi legittimi. La morte del coniuge durante il giudizio di separazione determina la cessazione della materia del contendere.
d) La separazione dei coniugi non fa cessare il fondo patrimoniale – le uniche due cause di cessazione dello stesso sono, infatti, il divorzio e l’annullamento del matrimonio (art. 171 c.c.) – perché con essa non cessa il coniugio.
e) Dalla separazione dei coniugi non deriva in via automatica la cessazione dell’impresa familiare.
La riconciliazione dei coniugi è regolata dall’art 154 c.c. che statuisce la stessa comporta l’abbandono della domanda di separazione già proposta. La riconciliazione rileva più dal punto di vista esteriore che da quello psicologico, infatti, implica il completo ripristino della convivenza coniugale mediante la ripresa dei rapporti matrimoniali. Questa norma del codice, quindi, si occupa di disciplinare la fase riconciliativa avvenuta dopo l’avvio del giudizio, ma prima della sua conclusione. Per cui in questo caso vi sarà l’abbandono della domanda di separazione consensuale o giudiziale proposta, lo stesso accadrebbe nel caso in cui il tentativo di riconciliazione esperito dal Presidente del Tribunale sfociasse in un esito positivo.
L’art. 157 c.c., invece, regola il caso della riconciliazione avvenuta dopo la pronuncia di separazione. In questo caso essa fa cessare gli effetti della separazione senza un successivo intervento del giudice: è sufficiente a tal fine che vi sia un’espressa dichiarazione o un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.
La riconciliazione preclude l’accesso al divorzio, dato che la separazione utile ai fini dello scioglimento del matrimonio deve protrarsi per almeno tre anni dall’udienza di comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale. La sola parte convenuta può eccepire l’interruzione della separazione, e a tal fine è sufficiente dimostrare la rinnovata coabitazione.
Canoni 1151-1155, Codice diritto canonico; l. 01.12.1970, n. 898; l. 19.05.1975 n. 151; l. 25.03.1985, n. 121; l. 08.02.2006 n. 54; l. 05.02.1992 n. 104; artt. 150-158 c.c.; artt. 706 -711 c.p.c.
Arrieta, J.I., Codice di Diritto Canonico commentato, Roma, 2004, 769 ss.; Azzolina, U., La separazione personale dei coniugi, Torino, 1966, 248 ss.; Bessone, M.-Alpa, G.-D’Angelo, A.-Ferrando, G.-Spallarossa, M.R., La famiglia nel nuovo diritto, Bologna, 2002, 127 ss.; Cicu, A., Il diritto di famiglia, Roma, 1914, 230 ss.; Dogliotti, M., Separazione e divorzio. Il dato normativo. I problemi interpretativi, Torino, 1988, 8 ss.; Falzea, A., La separazione personale dei coniugi, Milano, 1943, 33 ss.; Ferrando, G.-Lenti L., La separazione personale dei coniugi, in Alpa, G.-Patti, S., diretto da, Trattato teorico pratico di diritto privato, Milano, 2011, 3 ss.; Franceschelli, V., La separazione di fatto, Milano, 1978, 4 ss.; Grassetti, C., La separazione personale dei coniugi. Problemi di diritto sostanziale, in Giust. civ., 1964, IV, 3 ss.; Grassi, L., La separazione personale dei coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1975, 13 ss.; Mandrioli, C., Il procedimento di separazione consensuale, Torino, 1962, 93 ss.; Olivero L., La separazione di fatto dei coniugi, Milano, 2006, 9 ss.; Rossi Carleo L., La separazione e il divorzio, in in Tratt. Bessone, IV, t. 1, Torino, 1999; Santosuosso, F., Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, 288 ss.; Scardulla, F., La separazione personale dei coniugi e il divorzio, Milano, 2003, 27 ss.; Zatti, P., I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, Torino, 1982, 200 ss.