Abstract
Viene analizzato l’iter del giudizio di separazione personale dei coniugi dinnanzi al tribunale, (artt. 706 ss. c.p.c.) nelle sue fasi (presidenziale, avanti all’istruttore, decisoria), dando evidenza dei più rilevanti snodi problematici ed elementi di criticità e dell’apporto interpretativo di dottrina e giurisprudenza.
Nel nostro ordinamento, sino a epoca recente (quando le norme in tema di negoziazione assistita e procedure dinnanzi al sindaco non erano in vigore), separazione e processo erano concetti inscindibilmente correlati: l’istituto della separazione non poteva invero trarre origine in via esclusiva da un atto di autonomia privata dei coniugi, ma necessitava di un più o meno ampio intervento giurisdizionale. Ancora oggi, malgrado la portata innovativa della l. 10.11.2014, n. 162 di conversione del d.l. 12.9.2014, n. 132, la separazione è ancora strettamente correlata al processo nei suoi due modelli giudiziari previsti ex lege: la separazione giudiziale e la separazione consensuale.
La prima viene pronunciata ad esito di un giudizio di natura contenziosa che presenta, rispetto al giudizio ordinario di cognizione, diversi elementi di specialità. È disciplinata dagli artt. 706 ss. c.p.c. e, negli anni, è stata oggetto di diversi interventi legislativi, che hanno ridisegnato quasi integralmente la normativa processuale dell’istituto. Un notevole impatto ha poi avuto la l. 8.2.2006, n. 54 sul cd. affidamento condiviso.
La separazione consensuale, invece, non è stata oggetto di riforme e continua a essere regolata dall’art. 711 c.p.c.
La l. 14.5.2005, n. 80 ha introdotto per la separazione un nuovo criterio di competenza territoriale, ancorato all’«ultima residenza comune dei coniugi» (art. 706, co. 1, c.p.c.). La terminologia impiegata ha suscitato un primo e rilevante dubbio sull’effettivo significato da attribuire al criterio, potendo lo stesso alludere esclusivamente a parametri giuridici (e tener conto, in altri termini, delle sole risultanze anagrafiche delle parti) ovvero in alternativa ricollegarsi alla dimensione materiale e concreta del nucleo familiare (legata alla presenza di una dimora principale e stabile, definibile a tutti gli effetti come casa coniugale, nonché a ulteriori elementi, come ad esempio la località dove i coniugi effettivamente lavorano o dove i figli frequentano la scuola).
Diverse, al riguardo, sono state le criticità, come ad esempio la circostanza per cui l’interpretazione in chiave strettamente “anagrafica” del criterio della residenza comune, potrebbe non soltanto mancare (non essendo previsto per i coniugi un obbligo formale in tal senso), ma altresì rivelarsi in alcune ipotesi di fatto irrilevante, oppure, ancora, se le risultanze anagrafiche non fossero state più coincidenti per essersi trasferito altrove il coniuge ricorrente, il criterio in esame nulla avrebbe apportato rispetto al criterio generale.
Per questi motivi, è apparso preferibile ritenere che il legislatore abbia inteso esprimere, con il concetto in esame, un riferimento allo svolgimento concreto della vita familiare (Cass., ord. 19.7.2013, n. 17744; Cass., ord. 4.8.2011, n. 16957; Trib. Napoli, 4.6.2008; Trib. Trento, 18.4.2008), poiché soltanto questo criterio si è rivelato idoneo a tutelare in modo equanime l’attore e il convenuto, tanto nelle ipotesi di mancata fissazione di una residenza formale comune, quanto in quelle di improvviso trasferimento unilaterale.
Il co. 2 dell’art. 706 c.p.c. prevede poi i criteri per l’individuazione del tribunale competente nel caso in cui il convenuto, ovvero entrambi i coniugi, siano residenti all’estero (e quindi, nel primo caso, il «tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente», mentre nel secondo «qualunque tribunale della Repubblica»).
Nulla, invece, il legislatore dispone per quanto attiene alla separazione consensuale. Al riguardo, poiché per il divorzio congiunto è rimasta invece immutata la chiusa dell’art. 4, co. 1, l. 1.12.1970, n. 898 – che autorizza la proposizione della domanda al tribunale «del luogo di residenza o di domicilio dell’uno o dell’altro coniuge» – è possibile ritenere che continui ad applicarsi analogicamente quest’ultima norma anche alla separazione.
Il quadro è divenuto ulteriormente complesso per effetto della l. n. 54/2006, che ha introdotto l’art. 709 ter c.p.c., relativo alle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o alle modalità di affidamento. Se la prima parte di tale norma si limita in sostanza a confermare le regole sopra descritte («Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso»), di maggiore interesse è la chiusa della disposizione, secondo la quale «Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore».
Per i giudizi di modifica delle condizioni di separazione è stato quindi stabilito un nuovo criterio di competenza, individuato nel luogo di residenza del minore. Anche la predetta previsione non è esente da profili critici, posto che potrebbero ingenerarsi eventuali conflitti qualora alle domande di modifica del regime di affidamento siano cumulate ulteriori domande di ordine patrimoniale. In questo caso, infatti, il foro della residenza del minore coinciderebbe con il foro dell’obbligazione soltanto parzialmente (per quanto attiene al luogo dove l’obbligazione deve essere eseguita, ma non necessariamente per quanto attiene al luogo dove l’obbligazione è sorta). Eventuali dubbi potrebbero essere risolti attribuendo carattere privilegiato alla competenza speciale, poiché nella misura in cui quest’ultima sia inderogabile (ex art. 28 c.p.c.), anche la proposizione congiunta di ulteriori domande per le quali in astratto varrebbero diversi criteri di competenza non può esprimere valenza attrattiva.
Il procedimento prende avvio mediante ricorso, che deve contenere «l’esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata» (art. 706, co. 1, c.p.c).
Ulteriori prescrizioni riguardano poi l’obbligo di indicare «l’esistenza di figli di entrambi i coniugi» (per utilizzare la nuova formulazione introdotta a seguito delle riforme in tema di filiazione del 2013), nonché di allegare «le ultime dichiarazioni dei redditi presentate» (art. 706, co. 3 e 4, c.p.c.).
Il contenuto tipico dell’atto introduttivo del giudizio, con la compiuta enunciazione degli elementi identificativi della domanda, viene invece (in potenza) differito a un momento successivo, e precisamente alla memoria integrativa, da depositarsi nel termine previsto dall’ordinanza presidenziale prima dell’udienza avanti al giudice istruttore (art. 709 c.p.c).
La formula di legge che delinea il contenuto necessario dell’atto introduttivo in termini assai sintetici ha portato alcuni autori a ritenere che anche l’onere di costituzione dell’attore debba essere differito dopo il deposito della memoria integrativa davanti all’istruttore.
In senso contrario, tuttavia, milita l’inalterata scansione delle attività iniziali del giudizio, la persistente necessità dell’impulso di parte nella formalizzazione del rapporto tra il soggetto che assume l’iniziativa processuale e il giudice, unite a intuibili esigenze di organizzazione dell’ufficio e alla natura comunque contenziosa della fase presidenziale. Elementi, questi, che inducono a considerare come preferibile la tesi volta a ritenere che la costituzione del coniuge ricorrente si perfezioni con il deposito del ricorso introduttivo.
Quanto agli effetti sostanziali e processuali della domanda, maggioritario è l’orientamento che riconosce all’atto della proposizione della domanda in giudizio la produzione dei relativi effetti, ancorando questi ultimi al deposito del ricorso, e considerando che il giudizio sia a tutti gli effetti pendente a partire dal deposito del ricorso.
In merito alla costituzione del convenuto il legislatore del 2005 ha assunto una posizione netta, nell’evidente intento di rinnegare il rito “ambrosiano” e (ri)affermare la necessità di una costituzione del coniuge convenuto unicamente di fronte all’istruttore.
Anche dal punto di vista della ricostruzione delle attività proprie del convenuto si prospettano in ogni caso alcune criticità. E così, posto che nel proprio decreto il presidente assegna un termine al coniuge convenuto per il deposito di eventuale memoria difensiva e documenti, sorge in primo luogo un problema di ordine temporale. Invero, qualora il resistente intenda avvalersi della suddetta facoltà, quest’ultimo sarebbe tenuto a farlo nello specifico termine assegnatogli, non potendovi provvedere né successivamente né in sede di udienza (alla quale potrebbe partecipare, limitandosi però a svolgere le proprie difese sul piano orale). In senso contrario, è stato peraltro rimarcato che anche l’avvenuto decorso del termine assegnato dal presidente non dovrebbe precludere al convenuto la facoltà di deposito di una memoria difensiva, non essendo il relativo termine di legge qualificato come perentorio.
Ma soprattutto, posto che un obbligo di costituzione vero e proprio sorge per il convenuto unicamente avanti al giudice istruttore, si pone il problema se, nel valersi della facoltà di deposito della memoria difensiva, il convenuto possa o meno esercitarla personalmente, senza l’assistenza di un difensore. Al riguardo, pare preferibile una risposta negativa, considerato da un lato che il rapporto processuale è già costituito anche in fase presidenziale, dall’altro che l’ordinanza presidenziale incide sui diritti di entrambe le parti.
Il rispetto del diritto di difesa e della regola della parità delle armi tra le parti impedisce pertanto che l’attore debba stare in giudizio in questa fase del processo con il necessario ministero del difensore, mentre il convenuto possa limitarsi a una difesa sui generis, anche personale.
Come detto, tra le attività complementari alla redazione degli atti introduttivi, la l. n. 80/2005 ha previsto la produzione delle rispettive dichiarazioni dei redditi delle parti.
Purtroppo, però, l’espressione generica del testo legislativo non precisa in alcun modo né come debba essere qualificata l’attività di produzione dei documenti fiscali, né quali siano le possibili sanzioni in casi di inadempimento.
Al riguardo appare doveroso assegnare ad essa una specifica valenza precettiva, riconoscendo che la mancata produzione debba essere tenuta in considerazione dal presidente anche quale comportamento valutabile ai fini dell’emanazione dei provvedimenti provvisori e urgenti.
A questo riguardo, tra l’altro, ad evitare che l’apparente lacuna del dettato normativo consenta di fatto al convenuto di presentarsi in udienza senza la documentazione in esame (così rendendo necessario un eventuale rinvio della pronuncia dei provvedimenti economici che dovrebbero regolare in via immediata o quantomeno celere la vita familiare) è possibile ritenere che il giudice possa comunque assegnare un termine, riservando i provvedimenti presidenziali all’esito di tale produzione.
Da ultimo, è necessario chiarire il significato del richiamo alle «ultime» dichiarazioni dei redditi. Una prima soluzione potrebbe essere quella di limitare l’obbligo di produzione all’ultima dichiarazione di entrambi i coniugi, anche se è evidente come tale documento possa risultare di fatto scarsamente significativo. Meglio quindi configurare l’obbligo come ricollegato a un numero plurimo di dichiarazioni, integrato se del caso da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio redatta dai coniugi contenente l’indicazione di circostanze inerenti al reddito e al patrimonio di ciascuno dei coniugi (Trib. Roma, 25.11.2011).
I termini di cui all’art. 706, co. 3, c.p.c. consentono uno snellimento dei tempi per arrivare all’udienza di comparizione delle parti. Si prevede infatti che entro cinque giorni dal deposito del ricorso il presidente debba fissare con decreto la data dell’udienza di comparizione avanti a sé e che entro novanta giorni dal deposito del ricorso l’udienza presidenziale debba avere effettivamente luogo.
Si tratta tuttavia di termini meramente ordinatori, e dunque, in caso di eventuali necessità di organizzazione del ruolo, sicuramente derogabili senza possibilità di correttivo o sanzione.
Per quanto invece attiene ai termini che devono intercorrere tra la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza e l’udienza stessa, in mancanza di una disposizione espressa, deve ritenersi che essi debbano tendere a contemperare l’esigenza di poter disporre celermente dell’udienza con il diritto di difesa che al convenuto deve ovviamente essere assicurato.
Con riferimento all’udienza presidenziale, la disciplina legislativa si riferisce in primo luogo alle ipotesi patologiche di assenza della parte (art. 707 c.p.c.).
In particolare, se «non si presenta o rinuncia» il coniuge ricorrente «la domanda non ha effetto» (ciò che conduce a una pronuncia di estinzione del giudizio).
Tale anticipata conclusione, peraltro, non può essere imposta nell’ipotesi in cui il convenuto abbia depositato memoria difensiva contenente specifiche domande o richieste di tutela, poiché in tal caso, dovendo lo stesso, per quanto visto, considerarsi costituito in giudizio e avendo dimostrato uno specifico interesse alla prosecuzione di questo, la pronuncia di estinzione non può prescindere dalla sua accettazione. La norma relativa al coniuge ricorrente va in ultima analisi considerata come riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui il convenuto sia rimasto inerte nella fase presidenziale, non invece qualora lo stesso abbia già deciso di prendere attivamente parte al giudizio.
Qualora invece non si presenti il coniuge convenuto, l’art. 707, co. 3, c.p.c. prevede che «il presidente può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata».
Relativamente allo sviluppo “fisiologico” dell’udienza presidenziale, i coniugi devono comparire personalmente, ai fini dell’esperimento del tentativo di conciliazione. Con questo termine non si allude verosimilmente più, come nell’impianto originario del codice, alla riconciliazione delle parti, ma solo alla trasformazione del rito in consensuale. Certo è che tale incombente non modifica la natura già contenziosa della fase presidenziale, suffragata anche dal fatto che i coniugi devono comparire all’udienza presidenziale assistiti dal proprio difensore (art. 708, co. 3, c.p.c.).
Le modifiche apportate dalle riforme suggeriscono altresì un ripensamento per quanto attiene al formale modus procedendi relativo all’udienza presidenziale, e in particolare alla sua verbalizzazione, per la quale appare più adeguato un modello analitico, nel quale riportare le dichiarazioni delle parti nonché le istanze e deduzioni dei rispettivi difensori. Questo regime risponde fondamentalmente all’esigenza di garantire certezza all’ordinanza presidenziale, soprattutto attesa la sua reclamabilità.
Il contenuto dell’ordinanza presidenziale, è sancito dagli artt. 708 e 709 c.p.c. In particolare, essa deve contenere:
a) «i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole»;
b) la nomina del giudice istruttore e la fissazione dell’udienza di comparizione e trattazione avanti a questi;
c) l’assegnazione al ricorrente di un termine perentorio entro il quale notificare l’ordinanza al convenuto eventualmente non comparso all’udienza presidenziale;
d) l’assegnazione al ricorrente di un termine perentorio «per il deposito in cancelleria di memoria integrativa, che deve avere il contenuto di cui all’articolo 163, terzo comma, numeri 2), 3), 4), 5) e 6)»;
e) l’assegnazione al convenuto di un termine per la sua «costituzione in giudizio ai sensi degli articoli 166 e 167 primo e secondo comma, nonché per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio»;
f) l’avvertimento al convenuto «che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all’articolo 167 e che oltre il termine stesso non potranno essere proposte le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio».
Come nel passato il presidente continua ad essere chiamato a disciplinare la nuova vita della famiglia con un provvedimento fondamentale in quanto immediatamente efficace (ed esecutivo) e tale da mantenere la propria valenza anche in caso di estinzione del giudizio.
Il regime di stabilità dell’ordinanza presidenziale ha subito nel tempo profonde mutazioni. La l. n. 80/2005 nulla aveva disposto circa la sua reclamabilità, rinvigorendo antichi contrasti di vedute, che hanno trovato definitiva composizione con la n. 54/2006 sull’affidamento condiviso, che ha inserito in chiusura dell’art. 708 c.p.c. la previsione per la quale «Contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello che si pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione del provvedimento».
L’espresso riconoscimento dell’ammissibilità del reclamo rappresenta una conquista, sintonica con il sistema di garanzie costituzionali offerte dall’ordinamento e con l’esigenza di assicurare il diritto di impugnazione contro tutti i provvedimenti (anche sommari) dotati di efficacia su diritti e direttamente incidenti su di essi. Per quanto riguarda la disciplina positiva, la legittimazione spetta a entrambe le parti, nella misura in cui lamentino l’illegittimità o erroneità nel merito del provvedimento assunto dal presidente. Nell’ipotesi in cui il convenuto non si fosse ancora costituito nell’udienza presidenziale, nel giudizio di reclamo egli dovrà inevitabilmente partecipare con l’assistenza di un difensore e con questo costituirsi.
Il punctum dolens è invece rappresentato dal mancato coordinamento tra reclamo e potere di revoca e modifica dei provvedimenti presidenziali.
Una prima interpretazione è nel senso di negare la possibilità di una modifica/revoca da parte del giudice istruttore del provvedimento emesso in sede di reclamo. Questa soluzione potrebbe essere fondata su un argomento letterale (il potere di modifica e revoca è dall’art. 709, co. 4, c.p.c. ricollegato ai soli «provvedimenti temporanei ed urgenti assunti dal presidente con l’ordinanza di cui al terzo comma dell’articolo 708») nonché, da un punto di vista sistematico, sul principio generale che di regola impedisce a un giudice di grado inferiore di modificare provvedimenti emanati da un giudice di grado superiore. Sennonché entrambi gli argomenti non sono insuperabili. Ed invero, se per quanto riguarda il testo dell’art. 709, co. 4, c.p.c. (norma creata quando ancora il reclamo non era stato introdotto nel sistema) esso potrebbe considerarsi come implicitamente contenente un richiamo per relationem a tutti i provvedimenti comunque sostitutivi dell’ordinanza presidenziale, dal punto di vista della gerarchia tra uffici giudiziari non può essere revocato in dubbio che quanto meno il tribunale, nella decisione finale del giudizio, ha sicuramente il potere di intervenire nei confronti dell’ordinanza presidenziale, anche se modificata dalla corte d’appello.
Deve quindi ritenersi che la possibilità di modifica, integrazione o revoca anche del provvedimento emesso dalla corte d’appello in sede di reclamo non possa essere negata, e ciò anche per la fondamentale considerazione che la disciplina dettata tramite i provvedimenti in esame (siano emessi dal presidente, ovvero dalla corte) è comunque sempre provvisoria e rispondente a un assetto di interessi dei componenti del nucleo familiare che può fisiologicamente subire alterazioni o variazioni.
Come visto, ulteriore e significativo compito dell’ordinanza presidenziale è quello di disciplinare le successive attività del processo e operare il raccordo tra la fase presidenziale e la fase avanti all’istruttore (v. supra, § 7, punti sub b, c, d, e, f).
Sub b): il presidente provvede in primo luogo a fissare l’«udienza di comparizione e trattazione» avanti al giudice istruttore, avendo cura che tra la data dell’ordinanza (ovvero la data della notifica al convenuto non comparso) e la data dell’udienza intercorrano i termini di cui all’art. 163 bis c.p.c. ridotti a metà.
È importante soprattutto che i termini siano congruamente distanziati tra loro, a tutela del diritto di difesa del convenuto; questo dovrebbe favorire interpretazioni meno rigide per cui i termini possano anche essere superiori, intendendo la formula di legge unicamente come rispetto del limite minimo inderogabile. Così ragionando, il presidente potrà disporre di un lasso di tempo più adeguato per l’assegnazione di termini (al ricorrente e al convenuto) effettivamente congrui per la messa a punto delle attività difensive previste dalla norma.
Sub c): è stata reinserita nella legge la previsione dell’obbligo di notifica dell’ordinanza presidenziale, a cura dell’attore, al convenuto non comparso. Questa previsione potrebbe sollevare un delicato interrogativo, essendo la formulazione dell’art. 709, co. 1, c.p.c. pericolosa e ambigua. Quid iuris infatti nell’ipotesi in cui il ricorrente non ottemperi all’ordine (perentorio) di notifica dell’ordinanza? Certamente non potrebbe ritenersi che, per effetto di tale mancanza, il processo si estingua, poiché detta soluzione potrebbe favorire l’adozione di tattiche illegittime da parte del ricorrente che abbia ottenuto provvedimenti presidenziali a sé favorevoli (e, come noto, dotati di ultrattività rispetto all’eventuale estinzione del processo).
Alla luce di ciò, la soluzione più ragionevole potrebbe essere quella di considerare l’onere di notifica come condizione stessa di efficacia dell’ordinanza presidenziale nei confronti del convenuto non comparso, o quanto meno come condizione per l’operare dell’art. 189 disp. att. c.p.c. e della regola della ultrattività.
Sub d), e), f): l’ordinanza presidenziale è deputata a regolamentare le ulteriori attività delle parti, dovendo il presidente assegnare termine al ricorrente per il «deposito di memoria integrativa che deve avere il contenuto di cui all’articolo 163, terzo comma, numeri 2, 3, 4, 5, e 6», nonché termine al convenuto «per la costituzione in giudizio ai sensi degli artt. 166 e 167 nonché per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio». A quest’ultimo riguardo, l’ordinanza deve inoltre contenere «l’avvertimento al convenuto che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all’articolo 167, primo e secondo comma, e che oltre il termine stesso non potranno più essere proposte le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio».
Per quanto riguarda la posizione del ricorrente, la disposizione deve essere coordinata con la disciplina prevista per il contenuto del ricorso. Come già accennato, le disposizioni risultano poco coerenti sul piano della tecnica processuale, atteso che la memoria in esame dovrebbe rappresentare un atto processuale dotato di funzione meramente “integrativa” (come il termine stesso lascerebbe intendere), ma di fatto può divenire la sede in cui il ricorrente in concreto formuli nuove domande (la lettera della legge è estremamente chiara in tal senso). Non è invero possibile obiettare che detta soluzione comporterebbe una illegittima violazione del diritto di difesa del convenuto, in quanto non vi sarebbe legale conoscenza della memoria integrativa dell’attore, segnatamente per il convenuto non comparso all’udienza. Se da un lato tanto il convenuto costituito quanto quello non costituito hanno comunque notizia del termine assegnato all’attore per il deposito della memoria (nel primo caso per essere direttamente presente in udienza, nel secondo caso per essergli notificata l’ordinanza presidenziale), dall’altro e soprattutto la conoscenza legale dell’atto si ha in linea generale con la facoltà di accesso al fascicolo, che spetta anche alla parte non ancora costituita.
Con riferimento invece alla posizione del convenuto, deve in primo luogo ribadirsi che l’assegnazione di uno specifico termine per la sua costituzione non dovrebbe essere imprescindibile (malgrado il disposto di legge), potendo in concreto mancare nelle ipotesi in cui il convenuto si sia già costituito in giudizio in sede presidenziale.
Per quanto più specificamente attiene alle attività da compiersi, il regime si presenta per il convenuto molto rigoroso, avendo in sostanza reintrodotto quel “principio di eventualità” che gli fa carico di esplicitare fin dal primo atto ogni sua difesa.
Infine, quanto alla possibilità di chiamata in causa di un terzo, la stessa continua a configurarsi come difficilmente attuabile, ma non impossibile (si consideri ad esempio il potenziale ruolo attribuito ai figli maggiorenni: Cass., 19.3.2012, n. 4296).
Avanti al giudice istruttore il giudizio riprende lo schema del processo ordinario. Le parti si presentano avanti all’istruttore già costituite e l’art. 709 bis c.p.c. stabilisce che «all’udienza davanti al giudice istruttore si applicano le disposizioni di cui agli articoli 180 e 183, commi primo, secondo, e dal quarto al decimo. Si applica altresì l’articolo 184».
È da ritenersi che il giudice istruttore mantenga sempre e comunque il potere di disporre la comparizione personale delle parti, per interrogarle liberamente e tentare la conciliazione.
All’udienza, se richiesto, il giudice istruttore assegna alle parti i termini perentori di cui all’art. 183, co. 6, c.p.c. per la definitiva fissazione del thema decidendum e di quello probandum.
Nei processi di separazione (e divorzio), così come nei procedimenti relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, l’autorità giudiziaria è chiamata a provvedere a tutte le esigenze del nucleo familiare in crisi. Questo delicato ruolo assume particolari connotati allorquando la vicenda sottoposta alla cognizione del giudice travalica i rapporti di coppia e coinvolga i figli minori. In questi casi il giudice, che pure mantiene sempre la funzione di arbiter volta alla composizione del conflitto attraverso un intervento articolato e disteso, assume al contempo, nel persistente conflitto tra le parti, una più incisiva auctoritas, essendo sempre tenuto a salvaguardare il superiore interesse del minore, anche al di là di quanto specificamente richiestogli (e quindi anche in deroga ai principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c.). Il ruolo del giudice deve pertanto essere connotato da ampi margini di discrezionalità, come testimonia l’art. 337 ter, co. 2, c.c., da un lato con la precisazione per la quale «il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa», dall’altro con la formula di chiusura per la quale il giudice «adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole»; vi è quindi un potere assai ampio, allorquando si tratti di determinare i profili inerenti all’affidamento e alle modalità di frequentazione dei figli ancora minorenni, e più in generale all’educazione, istruzione, e mantenimento degli stessi.
Tale conclusione vale sia per i provvedimenti provvisori, che per la sentenza definitiva, e altresì sul piano istruttorio (per il quale le riforme della filiazione del 2012 e 2013 hanno portato avanti i propositi espressi nella legge sull’affidamento condiviso, insistendo in particolar modo sull’istituto dell’ascolto del minore). È altresì opportuno segnalare che i poteri istruttori officiosi del giudice della separazione si raccordano con tutte quelle previsioni (art. 337 ter, co. 6, c.c.; art. 706, co. 3, c.p.c.; art. 4, co. 6, e art. 5, co. 9, l. div.) che – con diverse forme e modalità – prevedono la possibilità per il giudice di accertare la capacità patrimoniale e reddituale delle parti.
Ulteriore fondamentale regola in materia è quella rappresentata dall’art. 709 ter, co. 2, c.p.c., in base al quale «A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende».
Soprattutto queste ultime previsioni rafforzano, e non di poco, il ruolo del giudice, nella convinzione che la corretta attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento non può che essere demandata allo stesso giudice della cognizione, munendolo di strumenti effettivi.
Quanto al regime di stabilità di tali provvedimenti, la chiusa della norma «I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari» ha ingenerato dubbi interpretativi (per tradizione con la dizione «modi ordinari» il legislatore indica i mezzi di impugnazione ordinariamente previsti avverso le sentenze, id est appello e ricorso per cassazione); ma è evidente che nella fattispecie, la norma deve essere interpretata come riferita ai mezzi tradizionali e comuni previsti per quel particolare provvedimento.
L’art. 710 c.p.c. consente di richiedere in ogni tempo la modifica dei provvedimenti che regolano la vita dei coniugi separati; ciò in forza dell’operare della clausola rebus sic stantibus che li informa e li rende pertanto modificabili al variare degli elementi di fatto che hanno contribuito a determinarli.
Possono essere sottoposti a modifica sia i profili economici (assegni di mantenimento dei figli e del coniuge), sia gli aspetti relativi all’affidamento e anche all’assegnazione della casa coniugale.
La competenza, qualora vi siano figli minori, spetta al tribunale del luogo di residenza di questi e il relativo procedimento è retto interamente dalle forme camerali.
La legittimazione, invece, è prerogativa dei coniugi e non vi sono dubbi sulla necessaria assistenza di un difensore. La presenza del p.m., in origine non prevista, è stata poi istituita dalla Corte costituzionale (C. cost., 9.11.1992, n. 416).
Il procedimento prende avvio mediante il deposito di un ricorso, il quale – a seguito del decreto di fissazione dell’udienza – deve essere notificato alla controparte.
Ai sensi del secondo comma «Il tribunale, sentite le parti, provvede alla eventuale ammissione di mezzi istruttori e può delegare per l’assunzione uno dei suoi componenti». Come si evince dalla stessa norma, quindi, è richiesta la partecipazione personale delle parti, e ciò anche ai fini dell’eventuale adozione, qualora «il procedimento non possa essere immediatamente definito», dei provvedimenti provvisori, i quali comunque potranno essere modificati nel corso del procedimento.
Il procedimento si conclude con un decreto motivato, il quale avrebbe efficacia immediatamente esecutiva (in virtù del richiamo all’art. 4, co. 13, l. div., ritenuto applicabile al giudizio di separazione e alle relative modifiche, v. App. Milano, 25.2.2004). Avverso il suddetto decreto, è poi esperibile reclamo in corte d’appello, entro dieci giorni dalla notifica ai sensi dell’art. 739 c.p.c. (Cass., 16.4.2003, n. 6011).
Del tutto autonomo è il procedimento di separazione consensuale (art. 711 c.p.c.), pur volto a realizzare effetti analoghi a quelli della sentenza di separazione. Si presenta come un procedimento di volontaria giurisdizione, avviato mediante ricorso da parte dei coniugi che hanno già raggiunto un accordo tanto sulla separazione quanto sugli aspetti personali e patrimoniali, anche se il presidente è comunque giuridicamente tenuto a sentirli e a esperire un tentativo di conciliazione (art. 711, co. 1, c.p.c.).
Nella formulazione della norma manca un richiamo esplicito a proposito della allegazione delle ultime dichiarazioni dei redditi. Sebbene quindi questo adempimento non sia necessario, è pur vero che nella prassi diversi tribunali ne richiedono comunque la presentazione nel caso in cui sia previsto il versamento di un assegno di mantenimento a favore del figlio non economicamente autosufficiente.
All’udienza di comparizione avanti al presidente, i coniugi – se non rispondono positivamente al tentativo di conciliazione – confermano la volontà di separarsi alle condizioni pattuite e il verbale così redatto viene quindi sottoposto al controllo del tribunale, il cui decreto di omologazione perfeziona la separazione (art. 711, co. 4, c.p.c.).
Il tema dei rapporti tra l’accordo raggiunto dai coniugi e il decreto di omologazione ha dato adito a tesi assai diversificate. La dottrina privatistica mostra un chiaro percorso evolutivo, muovendo da ricostruzioni che escludevano quasi del tutto rilievo al consenso dei coniugi (e ricollegando al solo decreto di omologazione il momento costitutivo della separazione), attraverso tesi “intermedie”, che hanno considerato entrambi gli elementi come necessari per la costituzione del nuovo status, per assestarsi di recente verso posizioni volte a rivalutare come essenziale il ruolo del consenso dei coniugi, in relazione al quale il decreto di omologazione finirebbe per assurgere a mero requisito legale di efficacia ma non di validità.
Nella dottrina processualistica, invece, si ritrovano posizioni di stampo prettamente pubblicistico, che escludono che l’accordo raggiunto tra i coniugi possa considerarsi dotato di una sua immediata e diretta rilevanza.
Queste distinzioni permettono di valutare diversamente anche il profilo relativo alla revoca del consenso.
Mentre la revoca congiunta del consenso pare non porre alcun problema, la revoca operata in via unilaterale ha dato luogo a diverse interpretazioni, che spaziano dal ritenere manifestabile la revoca sino all’udienza presidenziale (ma non in seguito, nelle more dell’omologazione, poiché il passaggio tra la fase presidenziale e quella innanzi al tribunale avviene per iniziativa dell’ufficio) (Trib. Busto Arsizio, 30.10.2009; Trib. Messina, 4.10.2015), al ritenerla invece possibile sino al momento dell’omologazione essendo la separazione consensuale una fattispecie a formazione progressiva, culminante proprio nel decreto di omologa del tribunale (App. Reggio Calabria, 2.3.2006; App. Brescia, 18.5.2000).
In nessun caso, comunque, la manifestazione della revoca del consenso potrà determinare la conversione del titolo del procedimento, da consensuale a giudiziale.
Artt. 706-711 c.p.c.
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