Abstract
La presente voce si propone di esaminare in astratto e in concreto il principio di separazione dei poteri da un lato fornendone una ricostruzione in chiave filosofico-giuridica, evidenziando la differenza fra la concezione moderna e quella classica, dall’altro, attraverso l’analisi nel loro concreto funzionamento di alcune tra le più importanti forme di governo: quella inglese e francese, mostrando come, negli ordinamenti contemporanei, possa esistere, al di là delle formali proclamazioni, un problema di effettività di questo principio.
La ragione più profonda che sintetizza la grande importanza del principio della divisione dei poteri, è quella già enunciata da Locke e Montesquieu e ripresa poi da Kant, a cui se ne deve la più compiuta elaborazione, ossia la creazione di un sistema che prevenga il dispotismo e garantisca il più possibile le libertà individuali.
Nella storia del pensiero politico e giuridico moderno il principio della separazione dei poteri viene infatti generalmente ricondotto all’opera di J. Locke, sebbene in quest’autore tale principio si presenti parzialmente diverso da come è oggi conosciuto. Per Locke nello Stato dovrebbero distinguersi tre poteri: il legislativo, l’esecutivo ed il federativo, ossia il potere di dichiarare la guerra e fare la pace (all’epoca il potere giudiziario era considerato parte del potere esecutivo).
Per il filosofo inglese di questi tre poteri, mentre quello esecutivo e quello federativo non avrebbero potuto essere divisi, la separazione avrebbe dovuto invece costituire la regola nel disciplinare i rapporti fra il potere legislativo e quello esecutivo.
Osserva in proposito Locke: «Per le persone che hanno il potere di fare le leggi può essere una tentazione troppo grande, rispetto alla fragilità umana, così pronta a impadronirsi del potere, avere nelle mani anche il potere di eseguirle; e, con questo, esonerare se stessi dall’obbedienza alle leggi che fanno, e adattare la legge, sia nel farla che nell’eseguirla, al loro interesse privato, arrivando così ad avere un interesse distinto da quello del resto della comunità, contrario al fine della società e del governo. Perciò in una comunità politica bene ordinata, nella quale il bene del tutto è considerato nella misura dovuta, il potere legislativo è posto nelle mani di persone diverse … C’è un altro potere in ogni comunità politica che si potrebbe chiamare naturale, perché è quello che risponde al potere che ogni uomo naturalmente ha prima di essere entrato in una società, … questo potere contiene il potere di guerra e di pace, di stipulare leghe e alleanze, e di fare tutte le transazioni possibili con tutte le persone e le comunità fuori dell’unione politica; e questo potere può essere chiamato federativo, se a qualcuno così piace. … Sebbene, come ho detto, il potere esecutivo e il potere federativo di ogni comunità siano realmente distinti in se stessi, tuttavia essi possono difficilmente essere separati, e collocati, nello stesso tempo, nelle mani di persone distinte. Infatti entrambi, nel loro esercizio, richiedono la forza della società, ed è quasi praticamente impossibile collocare la forza della comunità politica in mani distinte e non subordinate l’una all’altra, o collocare il potere esecutivo e quello federativo in persone che possono agire separatamente, sicché la forza del pubblico sarebbe collocata sotto comandi diversi; il che potrebbe condurre un giorno o l’altro a causare disordine e rovina» (Locke, J., Two Treatises of Government, London, 1821, 313-316).
È, però, a Charles De Secondat barone di Montesquieu che si deve sia la tripartizione del potere, poi divenuta classica, in legislativo, esecutivo e giudiziario sia la lucida identificazione delle ragioni che giustificano la rigida separazione di questi tre poteri. A questo proposito osserva il filosofo francese: «Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile … Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente esecutivo dello Stato. La libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurezza; e, perché questa libertà esista, bisogna che il governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino. Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni e quello di giudicare i delitti e le liti dei privati» (De S. Montesquieu, C., De l’esprit des lois, in Oeuvres complètes de Montesquieu, Paris, 1859, 130).
È a Kant che si deve tuttavia l’ulteriore razionale sistemazione della teoria della separazione dei poteri. In ogni organizzazione politica – egli osserva – ci sono tre poteri, «vale a dire la volontà universalmente congeniata in una tripla persona (trias politica): il potere sovrano (sovranità) nella persona del legislatore, il potere esecutivo (dopo la legge) nella persona del governo, ed il potere giudiziario (come riconoscimento del mio di ciascuno secondo la legge) nella persona del giudice (potestas legislatoria, rectoria et judiciaria) … Colui che comanda il popolo (il legislatore) non può dunque essere allo stesso tempo colui che lo governa; perché questo secondo è sottomesso alla legge, è obbligato da essa, in conseguenza della virtù di un altro, del sovrano. Il sovrano può togliere a colui che governa il suo potere, deporlo, riformare la sua amministrazione, ma non punirlo … Se il governo dovesse essere punito, bisognerebbe che lo facesse da se stesso, perché è ad esso che appartiene in special modo il potere di coercire conformemente alla legge … Infine colui che comanda e colui che governa non possono giudicare, ma solamente istituire dei giudici, come magistrati. Il popolo si giudica da se stesso per mezzo di quelli tra i suoi concittadini che sono eletti liberamente e che sono come i suoi rappresentanti, ma solamente per ciascun atto particolare relativo all’oggetto per il quale sono stati nominati» (Kant, E., Principes Métaphysiques du Droit, in Id., Principes Métaphysiques du Droit au quels ont été ajoutés le projet de paix perpetuelle et l’analyse trés détaillée de ceux deux ouvrages par Mellin, trad. francese di J. Tissot, Paris, 1837, 168-169 e 175).
Kant tuttavia riconduce al principio della separazione dei poteri un quid pluris rispetto a quanto affermato da Montesquieu, ritenendo che, per il conseguimento di una pace perpetua fra gli Stati, sia necessario che questi si fondino su una Costituzione repubblicana.
Affermazione la cui stretta attinenza con l’oggetto del discorso dipende dal fatto che Kant distingue la forma imperii (oggi diremmo la forma dello Stato che viene ricondotta alle tre forme dell’autocrazia – in cui il potere supremo è nelle mani di uno solo – dell’aristocrazia – in cui il potere è nelle mani di una pluralità – e della democrazia – in cui il potere supremo è esercitato da tutti) dalla forma regiminis (la forma di governo) che invece sarebbe riconducibile a due soli tipi quello repubblicano e quello dispotico, dove per repubblicano Kant intende quel tipo di governo in cui si attua il principio repubblicano (in pratica il principio della separazione dei poteri), vale a dire «il principio politico secondo il quale si separa il potere esecutivo dal legislativo». Principio che per il filosofo tedesco può realizzarsi solo attraverso forme di governo rappresentative. Per quanto si dirà qui appresso vale ulteriormente la pena di sottolineare che per Kant «il potere legislativo non può che appartenere alla volontà collettiva del popolo» (Kant, E., Principes, cit., 169), così come i giudici devono essere «eletti liberamente» dai cittadini fra i cittadini (Kant, E., op. cit., 175), mentre il potere esecutivo può anche essere espressione dell’elemento monarchico ed aristocratico della società (Kant, E., Projet de Paix Perpetuelle, in Id., Principes Métaphysiques, cit., 293), visto che la monarchia (autocrazia) e l’aristocrazia permettono forme di governo rappresentative e sono quindi compatibili con il principio repubblicano.
All’interno di questo breve excursus storico un interrogativo interessante sta nel chiedersi se l’idea che nell’ottima repubblica i poteri debbano essere separati fosse già presente nel pensiero classico. Nei limiti di quanto si dirà si può propendere per la risposta affermativa. Anticipando quanto emergerà dalle considerazioni qui di seguito svolte, si può affermare che il pensiero classico conosceva il principio della separazione dei poteri, ma sub specie e come conseguenza della distribuzione del potere fra i diversi elementi costitutivi del gruppo sociale organizzato a Stato.
Si sta facendo riferimento ai cosiddetti governi misti, cioè a quei governi in cui il potere sovrano risultava essere o si ipotizzava avrebbe dovuto essere ripartito fra i diversi elementi della società. In queste forme di governo è agevole osservare che la partecipazione al potere dei diversi elementi sociali viene infatti necessariamente colta e descritta come una divisione del potere.
È nei limiti di questa precisazione che, per chi scrive, si può affermare che il principio della separazione dei poteri fosse già presente nel mondo e nel pensiero classico.
Aristotele, probabilmente per primo, aveva lucidamente distinto i tre poteri dello Stato, osservando che in tutte le forme di governo (politia) si trovano tre elementi politici su cui il saggio legislatore deve fissare lo sguardo «per definire ciò che meglio ad ognuna di quelle convenga …: il primo è l’autorità deliberante sui comuni negozi; il secondo le varie magistrature …; il terzo elemento politico è finalmente la potestà giudiziaria» (Aristotele, Trattato della politica, volgarizzamento dal Greco per Matteo Ricci con note e discorso preliminare, Firenze, 1853, 309-310).
Il filosofo di Stagira aveva inoltre suddiviso l’elemento sociale sulla base di due distinti criteri, l’uno fondato sulle diverse funzioni sociali che ciascun membro del gruppo avrebbe potuto rivestire, l’altro basato sulla condizione sociale ed intellettuale dei membri della collettività distinti in forza della nascita, del merito e del censo.
È noto che Aristotele in linea di massima ha distinto tre forme buone di governo: monarchia, aristocrazia e politia e tre forme cattive o guaste: tirannia, oligarchia e democrazia.
In realtà la divisione aristotelica delle forme di governo è assai più complessa, visto che ogni forma di governo al suo interno ne ricomprende una pluralità: così, ad esempio, della monarchia vengono distinte cinque specie, riducibili principalmente a due la monarchia assoluta e quella temperata, in cui al re è affidato esclusivamente il comando militare (Aristotele, op. cit., 158-164); così dell’oligarchia viene notato che ne esistono di quattro specie, di cui quantomeno una accostabile all’aristocrazia (Aristotele, op. cit., 285) e gli esempi potrebbero continuare. Non è inutile notare che il termine politia, che Aristotele utilizza per designare una delle tre forme buone di governo, nella lingua greca era correntemente utilizzato come nome comune di qualsiasi forma di organizzazione politica, sì che non è raro trovarlo più volte usato in questo senso anche nello stesso Trattato. Fatto di cui dà conto lo stesso filosofo (Aristotele, op. cit., 289).
Ed è proprio questa molteplicità di tipi che ogni singola forma di governo può assumere che spiega perché ciascuna di esse (sia le buone, sia le degenerate), ad eccezione della politia che può essere solo un governo misto, nella riflessione aristotelica costituisce tanto una forma di governo pura (ossia in cui il potere è concentrato in un solo elemento sociale) quanto una forma di governo mista (ossia in cui il potere è distribuito fra i vari elementi della società).
Si consideri inoltre che per Aristotele l’oligarchia e la democrazia non individuano due forme di governo il cui tratto distintivo è rappresentato dal numero dei governanti, bensì due forme di governo il cui elemento caratterizzante è il censo dei governanti: l’oligarchia è infatti per questo filosofo il governo dei ricchi (generalmente pochi) sui poveri (di solito molti), mentre la democrazia è il governo dei poveri (abitualmente molti) in danno dei ricchi (in genere pochi) (Aristotele, op. cit., 131-132).
Tutto ciò premesso Aristotele ritiene l’assoluta superiorità dei governi misti sui governi puri ed in special modo da un lato della politia, in cui l’elemento oligarchico e quello democratico si accordano in virtù dell’esistenza di una forte classe media (Aristotele, op. cit., 298-303) e dall’altro di alcune forme di governo aristocratiche in cui libertà d’origine, ricchezza ed ingegno armonicamente convivono (Aristotele, op. cit., 293).
A margine di questa rapida ricostruzione del pensiero aristotelico rimane da notare che l’idea del governo misto non è una scoperta di questo filosofo, ma era assai diffusa nel pensiero greco. Le più celebrate Costituzioni dell’antica Grecia, quella spartana a quella cretese, venivano abitualmente riconosciute come esempi di governi misti.
Dopo Aristotele, l’idea che la miglior forma di governo sia da individuare in quelle forme di governo in cui l’elemento monarchico, quello aristocratico e quello democratico risultano fra loro ben bilanciati, si ritrova in Polibio. Dato istituzionale su cui lo storico greco (oltre che su elementi etici e di costume) fonda la superiorità della Repubblica romana su tutte le altre repubbliche antiche, peraltro evidenziando la prevalenza dell’elemento aristocratico (il Senato) su quello democratico (i Comizi) e su quello monarchico.
Da notare che anche a Roma, come in Grecia, al modo di far partecipare al potere le classi sociali e dunque al concreto realizzarsi di una divisione del potere, era sostanzialmente estranea l’idea di organizzare la repubblica mantenendo separati il potere esecutivo da quello legislativo e da quello giudiziario (Polibio, Le storie, in Polibio historico greco tradotto per M. Lodovico Domenichi, con due fragmenti ne i quali si ragiona delle repubbliche e della grandezza dei romani, Venezia, 1545, Lib. VI, 307-312).
Probabilmente è attraverso Polibio che l’idea della superiorità del governo misto trapassa nel pensiero latino, venendo fatta propria e condivisa da Cicerone, il quale nel De republica, dopo aver fatto dire a Scipione che delle tre forme di governo della res publica (monarchica, aristocratica, democratica) «determinatamente tolte così separate» non ne approva nessuna, perché ad esse egli antepone «quella che si compone di tutte le tre», passando a trattare di questa forma di governo – ritenuta pertanto la migliore – osserva che gli piacerebbe «vedere nella repubblica un non so che di eminente e di regale; alcuna cosa compartita all’autorità dei grandi, altra riservata al giudizio ed al volere della moltitudine», poiché «una simigliante Costituzione avrebbe in sé tanto grande eguaglianza, che per essa non potrebbero i popoli mancar giammai di esser liberi» (Cicerone, Sulla Repubblica, in Frammenti della Repubblica di Cicerone volgarizzati da T. Carniani Malvezzi, Bologna, 1827, 50 e 65).
A sua volta Tacito, se segue la tripartizione polibiana e ciceroniana («nam cunctas nationes et urbes populus, aut primores, aut singuli regunt»; «infatti tutte quante le nazioni e città o il popolo o gli aristocratici o i singoli governano»), osserva: «delecta ex his et consociata reipublicæ forma laudari facilius quam evenire, si evenit, haud diuturna esse potest», osserva cioè che «un governo formato dalla combinazione di questi tre elementi e più facile da lodare che da stabilire e se lo si trova stabilito non può essere duraturo» (Tacito, Gli Annali, in Caio Cornelio Tacito: Tutte le opere con note italiane di A. Vannucci, in Biblioteca dei classici latini, Prato, 1860, IIa ed., vol I, Lib. IV, cap. XXXIII, 263).
Vale a dire che Tacito, mentre mostra di condividere la tesi che la forma di governo misto sia astrattamente la migliore, nondimeno si pone criticamente rispetto ad essa, ritenendola una forma ideale, incapace di sfidare l’usura del tempo.
Quanto appena esposto dimostra con una certa sicurezza come al pensiero classico non fosse affatto ignota l’idea che dividere il potere fosse un fatto grandemente giovevole per lo Stato, solo che detta divisione veniva concepita come una distribuzione del potere fra i diversi elementi sociali.
Questo perché nel pensiero classico la divisione dei poteri non veniva concepita come il principio di organizzazione del governo; nei governi del mondo antico ciascuno dei tre poteri era esercitato da più soggetti od era diviso fra più magistrature, sicché il punto non era quello di dividere la sovranità statale in tre poteri, affidandoli separatamente ai tre diversi elementi sociali dominanti, quanto piuttosto quello di garantire che tutti gli elementi sociali esercitassero una frazione del potere ovvero a ciascuno di essi fosse riconosciuta la possibilità di accedere a certe magistrature e dunque all’esercizio di una certa frazione del potere.
Quadro questo rispetto al quale si può conclusivamente osservare tutta l’importanza della razionalizzazione del principio della separazione dei poteri operata da Kant, il quale nello stesso tempo ne fa il principio di organizzazione del governo (forma regiminis) e, sulla scorta del pensiero classico, il principio di distribuzione del potere fra gli elementi sociali, ritenendo che al popolo dovesse spettare l’esercizio del potere legislativo e di quello giudiziario ed all’elemento monarchico ed aristocratico quello del potere esecutivo.
Per comprendere se in concreto nelle attuali forme di governo democratiche e liberali il principio della separazione dei poteri, al di là del suo universale e formale accoglimento, come risulta da tutte le Costituzioni che allocano i tre poteri sovrani legislativo, esecutivo e giudiziario in organi o complessi di organi fra loro distinti e pariordinati (per solito Parlamento, Governo, Magistratura), sia davvero alla base del funzionamento delle istituzioni non è sufficiente fermarsi agli schemi formali di distribuzione del potere presenti nelle Carte fondamentali, ma occorre svolgere un’indagine assai più complessa, sebbene nel presente lavoro limitata ai poteri c.d. politici, ossia il potere legislativo e quello esecutivo.
L’analisi delle forme di governo può infatti essere svolta sia sul piano strettamente formale, prendendosi in considerazione esclusivamente lo schema legale di distribuzione del potere fra gli organi che costituiscono l’apparato centrale di governo dello Stato, così come previsto dalle costituzioni ovvero dalle consuetudini vigenti (per i rari casi di ordinamenti in cui, come quello inglese, gran parte della forma di governo trova la sua disciplina in norme non scritte), sia anche sul piano politico-sostanziale, prendendo in esame, oltre lo schema legale-costituzionale di distribuzione del potere, il reale atteggiarsi del sistema per la presenza di altri fattori condizionanti come i partiti politici, il sistema elettorale, il sistema dei media, la forza e la volatilità dell’opinione pubblica, il modus operandi dei gruppi di interesse, la presenza di associazioni private politicamente trasversali, potentissime ed irresponsabili di fronte ai cittadini, la presenza di organizzazioni religiose, così radicate da orientare in modo più o meno ampio l’opinione pubblica ed i processi decisionali, etc.
Ora è ovvio che una disamina delle forme di governo non può ritenersi soddisfacente ove si fermi ad una analisi puramente formale, senza tener conto almeno dei principali fattori condizionanti, intendendosi come tali quantomeno i partiti politici ed il sistema elettorale, senza di che non potrebbe realmente capirsi come funziona in concreto ciascun sistema politico-istituzionale.
Non è necessario dilungarsi nel fare esempi, bastando a tale scopo osservare come una forma di governo presidenziale formalmente in tutto simile a quella degli Stati Uniti, sarebbe nondimeno diversissima se al suo interno dominassero partiti politici inautonomi rispetto alla volontà dei candidati alla carica di Presidente. Così come è altrettanto evidente che la forma di governo parlamentare inglese sarebbe del tutto diversa da quella che è se il suo sistema elettorale fosse proporzionale e non maggioritario.
Sono queste (partiti e sistema elettorale) delle variabili (le principali attualmente) che, pur non incidendo minimamente sul modo in cui è formalmente distribuito il potere fra gli organi che costituiscono l’apparato centrale di governo dello Stato, tuttavia ne modificano radicalmente le modalità di esercizio.
È indiscutibile d’altronde che i partiti politici nella grande maggioranza degli ordinamenti siano divenuti e siano la principale causa di erosione del principio di separazione dei poteri.
In particolare ciò è rimarcabile soprattutto in quegli ordinamenti in cui i partiti politici si sono strutturati in forme rigidamente piramidali, in forza dell’applicazione di schemi basati sull’osservanza di una penetrante disciplina interna.
L’unità del partito, garantita dalla disciplina interna, travasata all’interno degli organi dello Stato, ha di fatto concorso ad alterare in modo rilevante l’operatività del principio di separazione dei poteri ovvero, in presenza di sistemi in cui è più facile che si formino governi di coalizione, a modificare il modus operandi degli organi dello Stato, divenuti mere casse di risonanza di decisioni prese altrove.
In altre parole l’esistenza di partiti politici ben disciplinati è in non pochi ordinamenti uno dei principali e spesso il principale fattore di un processo di razionalizzazione-riunificazione del potere del quale non si può non tener conto nell’analisi della forma di governo e senza il quale non se ne capirebbe l’evoluzione.
Nell’attuale sistema di governo francese, cd. semipresidenziale, si è realizzata una forma di unificazione del potere con al vertice del potere politico un organo monocratico, il Presidente della Repubblica – che è anche il capo dello Stato – in cui la separazione dei poteri si presenta in forma molto attenuata, anche più di quanto non avvenga per solito nel modello parlamentare, da cui in detto sistema viene mutuata la previsione del legame fiduciario fra Governo e Camera elettiva, con un legislativo istituzionalmente molto debole, così come emerge ad esaminare ambedue le fondamentali e tradizionali funzioni ad esso proprie: l’attività legislativa ed il controllo politico sul Governo.
Quanto alla prima va segnalato che nell’ordinamento francese la più generale funzione normativa è attualmente suddivisa in due domaines separés: le domaine de la loi, attribuito al potere legislativo, in cui rientra l’approvazione, delle c. d. leggi organiche e di quelle di cui alle materie specialmente enumerate dall’art. 34 C.f. e le domaine réglementaire, assegnato al Governo e concernente tutte le materie non rientranti nella funzione legislativa (art. 37 C.f.).
Questo significa che, come si ricava ad esaminare le leggi a cui la Costituzione conferisce il carattere di leggi organiche e l’elenco delle materie elencate nell’art. 34 C.f., il Governo francese gode di una vastissima competenza normativa esclusiva in tantissimi settori fondamentali, come quelli dell’economia, dell’industria, del credito, dei trasporti, dell’energia, per citarne alcuni.
Oltre a ciò è pure previsto che il Governo possa ulteriormente ampliare la già vasta sfera del proprio intervento normativo, essendo stabilito che per l’esecuzione del suo programma possa richiedere al Parlamento l’autorizzazione ad assumere con ordinanza, entro un termine predeterminato, delle misure che rientrano nella competenza legislativa del Parlamento (art. 38 co. 1 e 2 C.f.).
Inoltre l’iter legis dei testi di legge proposti dal Governo è largamente presidiato in tutte le varie fasi, da quella della presentazione a quella dell’approvazione, essendogli attribuiti poteri e prerogative formidabili. È inoltre prevista una procedura accelerata di approvazione che consente al Governo, già dopo la prima lettura, qualora le Camere non abbiano trovato un accordo sul testo della legge, di intervenire nell’iter legis con le modalità appena descritte. Procedura a cui il Governo può far ricorso ogniqualvolta lo ritenga necessario, salvo che, avverso l’attivazione della stessa, si pronuncino congiuntamente le Conferenze dei presidenti (dei gruppi) delle due Camere (art. 45, co. 2 C.f.).
Ovviamente non può sfuggire la capitale importanza di questa disposizione che è fondamentale per blindare l’attuazione del programma del Governo, consentendo allo stesso di superare l’eventuale predominanza dell’opposizione in Senato, visto che – sia detto di passata – le regole di formazione del Senato sono molto diverse da quelle previste per l’elezione dell’Assemblea nazionale e potrebbe quindi accadere che la maggioranza in Senato risulti diversa da quella presente in Assemblea.
Per quel che concerne la creazione delle norme primarie la forma di governo francese va dunque molto oltre i moduli delle forme classiche di governo parlamentare, dando al continuum maggioranza parlamentare – governo un’impronta tendenzialmente monista. Impronta che è sugellata e garantita da una rigida disciplina di partito, senza di che non si comprenderebbe appieno la stringente dominanza governativa, che lascia margini molto ristretti all’autonoma iniziativa politica della maggioranza parlamentare e ovviamente ancor meno a quella dell’opposizione.
E questa situazione di “minorità” del potere legislativo emerge anche a considerare la funzione di controllo politico che la Costituzione gli assegna.
Sostanzialmente espropriata del più classico e significativo potere di controllo politico, ossia il potere di concorrere a determinare i contenuti delle più importanti leggi che allocano il pubblico denaro, ossia la legge finanziaria e quella che finanzia il sistema di sicurezza sociale, rimane rispetto al Governo, per impegnarne la responsabilità politica, il tradizionale istituto della motion de censure, vale a dire la mozione di sfiducia, disciplinata dall’art. 49 C.f. (a cui deve parificarsi il voto negativo espresso nei confronti del Governo, quando lo stesso esplicitamente ponga la fiducia; artt. 49 co. 1 e 50 C.f.). Senonchè, in un sistema in cui i partiti sono rigidamente disciplinati, anche l’operatività di questo istituto risulta ormai del tutto marginale, de facto limitata alle rarissime ipotesi in cui il Presidente formi governi di minoranza a lui graditi, o se si vuole governi che godono della sua “fiducia”, ma non di quella dell’Assemblea nazionale, come invece dovrebbe essere, ovvero quando vi siano crisi all’interno della o delle forze che costituiscono la maggioranza parlamentare.
Ma se rispetto al Governo la Costituzione continua comunque ad assegnare al Parlamento un ruolo di controllo politico le cose cambiano radicalmente a considerare i rapporti con l’altro organo di vertice dell’esecutivo, ossia il Presidente della Repubblica.
Nell’ordinamento francese quest’organo, posto a capo dello Stato, è tratteggiato in modo del tutto originale sia perché gode di una legittimazione politica fortissima che gli deriva dall’elezione popolare diretta sia perché non c’è alcun reale contrappeso al potere riconosciutogli dalla Costituzione di sciogliere l’Assemblea nazionale, mentre questa non ha se non un eccezionale potere di destituzione «en cas de manquement à ses devoirs manifestement incompatible avec l’exercise de son mandat», il cui esercizio risulta peraltro molto difficile, a causa delle alte maggioranze richieste (due terzi di ciascuna Assemblea, ed ancora la medesima maggioranza dei due terzi dell’Alta Corte per sancirne la destituzione; art. 68 C.f.). Cosicché, quando si realizza le couplage fra maggioranza presidenziale e maggioranza parlamentare, il Presidente francese, in virtù della disciplina interna di partito, in realtà non incontra alcun serio ostacolo alla realizzazione del proprio indirizzo politico, avendo una larga dominanza tanto nei confronti del “suo” Governo, che controlla attraverso la maggioranza parlamentare, quanto nei confronti della “sua” maggioranza, che dirige attraverso il Governo, avendo lo stesso un tale potere nell’indirizzare e controllare l’attività legislativa, anche superando l’eventuale opposizione del Senato ai sensi dell’art. 45 C.f., che parlare di separazione dei poteri sembra davvero essere una finzione istituzionale.
Anche nella forma di governo inglese si nota un’erosione drammatica del principio di separazione dei poteri, ben oltre quella che sarebbe giustificata dalla natura parlamentare del sistema, che è quello, come accennato, in cui, almeno astrattamente, la separazione dei poteri si presenta in una forma più attenuata, basandosi su di una diuturna collaborazione fra legislativo ed esecutivo il cui principio cardine è quello della responsabilità collettiva del Governo e della responsabilità individuale dei Ministri innanzi al Parlamento.
Tuttavia, ad onta dell’affermata responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento, nell’ordinamento inglese è il Governo ad avere un larghissimo potere direttivo sul Parlamento, al punto da rendere del tutto evanescente la separazione fra questi due poteri.
Da una disamina che non tenesse conto della secolare storia inglese si sarebbe tentati di ritenere che la dominanza del Governo sul legislativo sia da ricondurre esclusivamente o quantomeno prevalentemente al peculiare assetto del sistema politico inglese, tendenzialmente bipartitico, basato sull’alternanza al Governo dei due principali partiti, attualmente quello conservatore (Conservative and Unionist Party o Tory Party) e quello laburista (Labour Party). Assetto largamente favorito sia dal sistema elettorale maggioritario a turno unico, sia ancora dal progressivo affermarsi nei partiti di una stringente disciplina interna.
In realtà se si considera la storia delle istituzioni inglesi è agevole osservare che quella che attualmente può tecnicamente rappresentarsi come predominanza dell’esecutivo sul legislativo, altro non è che il prodotto del monismo di questa forma di governo, realizzatosi gradualmente a partire dagli inizi del diciottesimo secolo con il superamento dell’esperienza della Monarchia costituzionale connotata dalla netta divisione del potere fra il Re (e il suo Governo) e il Parlamento.
Più precisamente il monismo del sistema di governo inglese è storicamente derivato da una duplice concomitante causa.
Se infatti è vero che i Ministri del Re, divenuti col tempo leading members del Parlamento, hanno costituito l’embrione della “fusione” fra questi due poteri, deve tuttavia evidenziarsi che questo processo non si sarebbe mai potuto concretamente realizzare senza il concomitante affermarsi del Cabinet e senza che da questo Committee fossero stati de facto progressivamente esclusi tutti coloro che non erano membri del Parlamento (attualmente per Convenzione costituzionale non può essere Ministro chi non appartiene alle due Camere).
Nato come un privato ristretto consiglio del Re, ossia come un Committee del Privy Council, il Cabinet a poco a poco è emerso come il vero organo di governo, the executive branch of government, contestualmente alla progressiva esclusione dal suo interno di coloro che non appartenevano al Parlamento e non godevano della sua fiducia.
La qual cosa ha storicamente condotto ad una strutturazione monista del potere con una forte predominanza del Cabinet, giustificata dal fatto che, attraverso di esso, il legislativo aveva sostanzialmente “conquistato” il governo del Re.
Osservava in proposito Bagehot nella sua English Constitution, scritta tra il 1865 e il 1867, «the efficient secret of the English Constitution may be described as the close union, the nearly complete fusion, of the executive and legislative power. No doubt by the traditional theory, as it exists in all the books, the goodness of our constitution consists in the entire separation of the legislative and executive authorities, but in truth its merit consists in their singular aproximation. The connecting link is the Cabinet. By last new word we mean a committee of the legislative body selected to be the executive body» (Bagehot, W., The English Constitution and other political essays, New York, 1889, 78 e 79).
Evidente peraltro come il richiamo fatto da Bagehot al principio della separazione dei poteri risulti già all’epoca essere più che altro un omaggio alla tradizione, all’opposto mettendosi in risalto come la novità della forma di governo inglese dovesse cogliersi nella sua evoluzione sostanzialmente monista.
Storicamente dunque nell’ordinamento inglese la dominanza del Governo sul legislativo non appare perciò nè un’acquisizione recente, legata all’evoluzione del sistema partitico, né esprime “l’annichilimento” del potere legislativo rispetto al potere esecutivo, diversamente essa si manifesta come la materiale conseguenza della “conquista” dell’esecutivo da parte del legislativo, divenendo per tale via il potere esecutivo un’emanazione diretta del Parlamento.
È l’evoluzione monista del sistema inglese la vera ragione della predominanza dell’esecutivo sul legislativo.
Dominanza che l’ulteriore sviluppo nella forma del “one party Government”, basato su di una rigida disciplina di partito, ha reso più completa ed efficiente.
Ovviamente quanto appena detto non è di per sé decisivo per spiegare un altro peculiare aspetto del rapporto fra legislativo ed esecutivo nell’ordinamento inglese, ossia quello della marginalizzazione dell’iniziativa legislativa parlamentare, a cui si salda quello della modesta capacità del Parlamento di incidere sul contenuto dei progetti di legge presentati dal Governo e quindi in definitiva, quello della scarsa partecipazione dell’Assemblea alle scelte fondamentali del policy output.
In proposito va infatti osservato che nell’ordinamento inglese l’iniziativa parlamentare delle leggi ha da molto tempo un carattere del tutto secondario. Non è sparita, ma è davvero relegata ai margini del sistema, considerando che è limitata ad un numero di venti Private Member’s Bills (che sono i disegni di legge di iniziativa di un membro del Parlamento), corrispondente al numero dei parlamentari estratti a sorte all’inizio di ogni sessione parlamentare (che – va precisato – è biennale), a cui è attribuita l’opportunità di farsi promotori di un proprio disegno di legge.
Questa, in apparenza anomala situazione di marginalità dell’iniziativa legislativa dei membri del Parlamento, ha un’origine storica abbastanza singolare, tale da esemplificare assai bene il pragmatismo inglese.
Nell’ultimo trentennio del 1800 a seguito della riforma elettorale del 1867, che aveva ampliato la platea degli aventi diritto al voto, il Parlamento si trovò a fare i conti con un duplice fenomeno, da un lato l’aumento incontrollato della «partecipazione dei deputati ai dibattiti», che rendeva assai «più difficile e più lento il funzionamento della macchina parlamentare», dall’altro «l’ostruzionismo deliberato e sistematico degli irlandesi» che nel 1876, sotto la guida di Parnell, «decisero di forzare il Parlamento, impedendogli di lavorare, fino a quando non avessero ottenuto» l’autonomia per l’Irlanda.
In special modo gli autonomisti irlandesi, utilizzando «la quasi illimitata libertà di parola allora esistente» ai Comuni, promuovevano «discorsi interminabili, che avevano o non avevano rapporto con la questione, prolungando le sedute fino a tutta la notte ed anche oltre». Di qui la necessità di «limitare la tradizionale libertà di parola nella Camera dei Comuni» attraverso taluni meccanismi, variamente soprannominati, introdotti nei regolamenti della Camera bassa il primo dei quali fu the closure (la chiusura) che consentiva «di tagliare, per voto della Camera, in qualsiasi momento e per un qualunque motivo, i dibattiti od un paragrafo di legge»; la guillotine (ghigliottina) che consentiva «la chiusura anticipata dell’ordine dei lavori», stabilendosi fin dall’inizio il tempo entro il quale avrebbe dovuto effettuarsi l’esame di ciascuna parte del progetto di legge, con la conseguenza che se «allo scadere del tempo stabilito fossero rimasti ancora dei paragrafi non esaminati, non si sarebbero discussi affatto, ma si sarebbero votati subito»; ed ancora the kangaroo (il canguro) che permetteva al Presidente di turno dell’Assemblea «di fare una scelta tra gli emendamenti presentati, sottoponendo alla discussione quelli che apparivano più rilevanti ed escludendo tutti gli altri» (Ostrogorski, M., La Costituzione inglese, Napoli, 1998, 109-112; la versione originale che era intitolata L’evoluzione della Costituzione inglese è del 1916).
In dottrina è stato esattamente osservato che è da quest’epoca che «la Camera dei Comuni ha smesso di essere un’Assemblea deliberativa o meglio è apparsa tale solo sporadicamente».
La qual cosa è ulteriormente esemplificativa di quanto sia estesa e profonda la dominanza del Governo sul legislativo. Dominanza che è peraltro resa effettiva e stringente da una serie di regole ed istituti che servono a garantire la coesione e la tenuta della maggioranza parlamentare al momento del voto. Si pensi al potere dei Government Whips, il cui ruolo è quello di assicurare che tutti i parlamentari del partito votino in accordo con le direttive date dallo stesso partito, ed ancora al payroll vote, una regola convenzionale che impone a tutti i parlamentari che ambiscono ad entrare nel Governo di sostenere e votare secondo le indicazioni del Governo.
Senza contare che la Collective Ministerial Responsibility impone a tutti i membri del Governo di votare con il Governo on whipped votes ovvero di dimettersi dal proprio incarico.
Si tratta di un principio della cui grande importanza ci si può esattamente rendere conto soltanto ove si consideri che l’intero Governo inglese, oltre i membri del Cabinet, il cui numero oscilla tra i 21 ed i 23, è composto da circa 100 altri Ministri.
D’altronde non si può fare a meno di osservare che la più rilevante funzione del Parlamento inglese, ossia il controllo sul Governo, è ormai di fatto ridotta ad un fantasma. Dal 1924 ad oggi il Governo è caduto per un voto negativo del Parlamento soltanto tre volte.
Da notare che in tutti e tre questi casi si trattava di governi di minoranza: nel primo caso a guida del partito conservatore negli altri due casi a guida del partito laburista. Non solo, ma in due dei detti casi la no confidence motion ha portato non già alle dimissioni del Primo Ministro e dell’intero Governo, quanto piuttosto allo scioglimento del Parlamento.
La qual cosa è indubitabilmente ricognitiva del limitatissimo peso rivestito dalla mozione di sfiducia nella vita politica inglese, avendo una qualche possibilità di essere azionata solo a fronte di governi di minoranza o di coalizione o formati a seguito di un Formal Inter-Party Agreement, come quello intercorso fra i liberali ed i laburisti nel 1977-1978. Osservazione che appare ad abundantiam confermata dalle vicende che hanno portato all’abbandono del n. 10 di Downing street da parte dei due più importanti Primi Ministri degli ultimi trent’anni: Margareth Thatcher e Tony Blair.
In ambedue questi casi le ragioni che hanno determinato le dimissioni e l’avvicendamento hanno avuto un’origine ed una soluzione extraparlamentare, rispetto alla quale la Camera bassa è stata un semplice e passivo spettatore.
La qual cosa conferma da un lato la marginalità dell’istituto della mozione di sfiducia che vieppiù si caratterizza come uno strumento da attivare in casi eccezionali, dall’altro l’assoluta dominanza del Governo sul potere legislativo, dominanza che peraltro non trova in verità alcun reale contrappeso.
Come si vede, al di là degli schemi formali di distribuzione del potere, non poche esperienze di governo (qui si sono esaminate solo quella inglese e francese) mostrano un sostanziale allontanamento dal principio di separazione dei poteri. Ciò dipende da una pluralità di fattori storici, politici ed economici, a cui deve aggiungersi anche la naturale delicatezza, rectius vulnerabilità di un principio la cui essenza consiste nel separare il legislativo dall’esecutivo. Separazione che infatti, secondo significativa dottrina, costituirebbe un’operazione alquanto ardimentosa, simile a quella di chi volesse far tirare una carrozza da due cavalli focosi senza dar loro un postiglione.
Questo perché l’idea di governo sarebbe per sua natura “monarchica” e tenderebbe ineluttabilmente a ritrovare la sua dimensione unitaria, sì che sarebbe del tutto naturale per il potere esecutivo cercare di riunire in sé il potere legislativo o comunque agire in modo da riconquistare la supremazia su detto potere, risospingendolo in uno stato di sostanziale subalternità. Difatti, mentre chi ha il potere di deliberare, ma non quello di eseguire, ha l’autorità, ma non la forza, colui al quale compete il potere di eseguire, ma non quello di decidere, attraverso la forza ha anche una qualche autorità (Seconds J.L., De l’art social ou des vrais principes de la société politique, Premier cahier, in Archives Parlementaires de 1787 à 1860, Première serie (1787 à 1799), Paris, 1902, tome LXII (du 13 avril 1793 au 19 avril 1793), 513 ss e 533 e ss.).
Fonti normative
Constitution de la République française du 4 octobre 1958 (version mise à jour en novembre 2016); The Cabinet Manual, London, 2010 (il Cabinet Manual è una pubblicazione ufficiale del Governo con la quale lo stesso si è proposto di rendere più trasparente di fronte ai cittadini il proprio modo di operare, fornendo una guida ricognitiva di tutte le norme e le convenzioni che ne regolano la struttura ed il funzionamento).
Bibliografia essenziale
AA.VV., Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, Atti del XIX convegno annuale dei costituzionalisti, Padova, 2008; Ackerman, B.A., La nuova separazione dei poteri: presidenzialismo e sistemi democratici, Roma, 2003; Aristotele, Trattato della politica, volgarizzamento dal Greco per Matteo Ricci con note e discorso preliminare, Firenze, 1853; Bagehot, W., The English Constitution and other political essays, New York, 1889; Casper, G., An Essay in Separation of Powers: some Early version and Practices, 30 Wm. & Mary L. Rev, vol. 30, n. 2, 1989; Cicerone (Marco Tullio), Sulla Repubblica, in Frammenti della Repubblica di Cicerone volgarizzati da T. Carniani Malvezzi, Bologna, 1827; Crosa, E., Marsilio da Padova e il principio di separazione dei poteri, Padova, 1942; De Secondat Montesquieu, C., De l’esprit des lois, in Oeuvres complètes de Montesquieu, Paris, 1859; Locke, J., Two Treatises of Government, London, 1821; Kant, E., Principes Métaphyliques du Droit, in Principes Métaphysiques du Droit au quels ont été ajoutés le projet de paix perpetuelle et l’analyse trés détaillée de ceux deux ouvrages par Mellin, trad. francese di J. Tissot, Paris, 1837; Kant, E., Projet de Paix Perpetuelle, in Principes Métaphysiques du Droit au quels ont été ajoutés le projet de paix perpetuelle et l’analyse trés détaillée de ceux deux ouvrages par Mellin, trad. francese di J. Tissot, Paris, 1837; Maranini, G., La divisione dei poteri e la Riforma costituzionale, Venezia, 1928; Mirkine-Guetzévitch, B., Alcune riflessioni sulla separazione dei poteri, Roma, 1949; Ostrogorski, M., La Costituzione inglese, Napoli, 1998, (la versione originale intitolata L’evoluzione della Costituzione inglese è del 1916); Polibio, Le storie, in Polibio historico greco tradotto per M. Lodovico Domenichi, con due fragmenti ne i quali si ragiona delle repubbliche e della grandezza dei romani, Venezia, 1545; Seconds, J.L., De l’art social ou des vrais principes de la société politique, Premier cahier, in Archives Parlementaires de 1787 à 1860, Première serie (1787 à 1799), Paris, 1902, tome LXII (du 13 avril 1793 au 19 avril 1793); Silvestri, G., La separazione dei poteri, Milano, 1979-1984; Tacito (Caio Cornelio), Gli Annali, in C. Cornelio Tacito: Tutte le opere con note italiane di A. Vannucci, in Biblioteca dei classici latini, Prato, 1860, IIa ed.; Troper, M., La separazione dei poteri e la storia costituzionale francese, Napoli, 2005; Vignudelli, A., Istituzioni e dinamiche del diritto: i confini mobili della separazione dei poteri, Milano, 2009; Zangara, V., Studio sulla separazione dei poteri, Padova 1952.