BISCARDI, Serafino
Nacque ad Altomonte, in provincia di Cosenza, nel 1643. Il padre era un cappellaio e fece molti sacrifici per mantenerlo agli studi, prima a Carolei, poi a Cosenza. Adolescente, si recò a Napoli e frequentò le scuole dei gesuiti. La sua educazione fu soprattutto letteraria, con esercitazioni di retorica, oratoria e poesia; secondo il Giustiniani, approfondì successivamente lo studio della storia e della filosofia, per poi passare al diritto. In questa ricostruzione della sua formazione sono impliciti gli elementi fondamentali della sua biografia intellettuale. Si laureò in legge il 29 nov. 1664.
La prima fatica letteraria fu una canzone posta all'inizio della tragedia Belisa del Muscettola (Lovanio 1664); un'altra epistola introduttiva scriveva per il Forensium certaminum specimen di D. De Rubeis; nel 1680, con lo pseudonimo di Alessandro Biraspi, pubblicava un dramma,L'Arsinda d'Egitto, per il genetliaco di Carlo II. Ma il letterato non impediva al giurista che era in lui di imporsi nel mondo forense napoletano: la lezione di Francesco d'Andrea, che reagiva in nome della storia a una concezione dogmatica del diritto e teorizzava la necessità di conoscere tutte le discipline fondamentali, ma soprattutto la storia, fu certamente alla base della sua preparazione professionale. Rispetto al d'Andrea, il B. è una figura di minor rilievo intellettuale e più legata, negli aspetti negativi, al mondo degli avvocati napoletani. L'attività forense gli rese molto, come dimostra fra l'altro il suo desiderio di esser affiliato ai Seggi dei nobili di Trani e Cosenza, soprattutto dopo il matrimonio del fratello Giacinto con la figlia di Paolo Anastasio, la quale portò in dote 50.000 ducati. Mentre otteneva facilmente la prima affiliazione, a Cosenza ci fu una notevole resistenza da parte della nobiltà locale, che si appellò a Napoli, contro tutti i tentativi del B., che comunque riuscì a imporsi, grazie alla sua influenza politica, ottenendo l'iscrizione. Dopo poco acquistò il feudo di Guardialfiera e il titolo di marchese.
Il B. prese parte ad alcune delle più celebri cause del tempo: la successione al ducato d'Andria, dopo la morte di Carlo Carafa, aveva creato infiniti problemi di eredità, ed egli vi partecipò sostenendo gli interessi di Emilia Carafa, sorella del padre di Carlo, contro Ettore Carafa, fratello del nonno, e pubblicando la sua allegazione Consultatio pro D.D. Aemilia Carafa Ducissa Magdaluni cum Hectore Carafa super successione ducatus Andriae (Neapoli 1672). Successivamente prese parte a una causa del conte Triventi contro il Regio Fisco, ugualmente apparsa a stampa: Iura pro comite Triventi cum Regio Fisco in causa devolutionis dicti comitatus (Neapoli 1676). Nel 1680, avendo la corte inviato il visitatore generale Danese Casati, la nobiltà, volendo impugnare il diritto a inquisire sui suoi componenti, si rivolse al B. e al fratello di lui Giacinto, perché prendessero le difese contro il visitatore e stendessero un memoriale per Madrid. Questo atto fu certamente importante nella carriera del B., che da semplice avvocato cominciava a diventare un influente personaggio della vita politica napoletana.
Nel settembre 1691 ricoprì la carica di Eletto del Popolo, contro la minaccia dell'Inquisizione e gli arresti abusivi nel famoso processo degli "ateisti". Di questa lotta con Roma egli fu uno dei protagonisti, con il Caravita, il Fusco, il Valletta e il Danio. Non solo scrisse un'Introduzione ad Amato Danio,Memoriale mandato alla maestà del re Carlo secondo per gli affari del tribunal del S. Officio della città e Regno di Napoli (Napoli, Bibl. Naz., ms. X F 63), ma partecipò direttamente, con una propria opera, alla polemica: Discorso per la città e Regno di Napoli,che nelle cause del S. Officio s'abbia a proceder per la via ordinaria,secondo le lettere del re Filippo II - 1693 (Napoli, Bibl. Naz., ms. XI C 1; un'altra copia ms. alla Nat. di Parigi [cfr. Mastellone, p. 163]).
Nominato fiscale della Regia Camera della Sommaria (1695), nel 1698 ne diveniva presidente. Sembra che godesse la protezione del luogotenente Sebastiano Cotes e del maestro di Zecca, poi luogotenente e reggente, Andrea Giovane.
È significativo notare che le cause del B. a stampa, che risalgono a questo periodo, sono quasi tutte in difesa del Regio Fisco, come lo Iuris responsum pro Regio Fisco,quo probatur manus mortuas ob feudis ab ipsis possessa ad servitia et quindenniorum solutionum teneri (Neapoli 1696); ancora, a proposito di una vendita arbitraria della propria carica da parte di un funzionario del viceregno, il B. intervenne: Iura pro Regio Fisco cum detentore officii... (Neapoli 1697). Queste allegazioni a stampa (a cui si aggiungono un Tractatus de quindennis [s.l. né d.] e lo Iuris responsum pro III. Marchionissa S. Morci [s.l. né d.]) corrispondono signifficativamente, più che alla disinvoltura tipica dell'avvocato, abituato a passare indifferentemente dalla difesa degli interessi privati a quelli pubblici, all'evoluzione dei tempi e alla partecipazione del B., sempre più impegnata, all'attività politica.
Gli ultimi viceré spagnoli, sia pure con molto velleitarismo, si muovevano infatti in una nuova dimensione pubblicistica, con i tentativi di ricompera degli arrendamenti e di difesa del patrimonio regio, in gran parte alienato, sollecitando alla collaborazione il ceto forense. Il B., malgrado tutte le contraddizioni, si inserisce d'altra parte in quell'evoluzione del pensiero giuridico e politico meridionale, che alla luce di Grozio e di Puffendorf passa da una concezione puramente privatistica (e di implicita difesa e collaborazione con il baronaggio) alla scoperta di un nuovo senso dello Stato e di una nuova nozione del diritto pubblico nel quadro delle fonti e degli istituti giuridici. Considerato uno dei più grandi giuristi del tempo, fu membro della giunta presieduta da F. Bulifon per redigere il codice filippino, uno dei tentativi (destinati a fallire) di mettere ordine nel caos legislativo meridionale.
Anche se il nome del B. non compare fra i relatori dell'Accademia Medina-Coeli egli partecipò, almeno in un'occasione, ai suoi lavori, quando recitò, nel giorno natalizio di Filippo V, l'Oratio habita in regiis aedibus in die natali Philippi V (pubbl. a Napoli nel 1705). Inoltre, fra i manoscritti dell'Accademia c'è un riferimento a lui: due serie di appunti di Vincenzo d'Ippolito e di Nicola Capasso, vivaci membri di questa Accademia, si riferiscono al problema dell'investitura facendo cenno al B. (Napoli, Bibl. Naz., ms. XIII B-73: Ragioni per l'investitura del regno di Napoli che si devono stendere in scrittura formata a S. Biscardo, nella raccolta Delle lezioni accademiche... recitate avanti l'Ecc.mo Sig.r Duca di Medina Caeli, III, cc. 167 ss.). Sembra quindi che i due giovani, destinati l'uno alla carriera universitaria come canonista, l'altro (il d'Ippolito) alla carriera politica, abbiano partecipato fornendo materiale, alla preparazione della più importante tra le opere scritte dal B.: l'Epistola pro Augusto Hispaniarum monarca Philippo V,qua et ius ei assertum successionis universae monarchiae et omnia confutantur quae pro investitura Regni Neapolitani et quo pro ceteris regnis a Germanis scripta sunt (Neapoli 1703).
È interessante notare che il nipote, Giovanni Biscardi, marchese di Guardialfiera, nel 1734 ristampò l'Epistola e l'Oratio, con dedica a Carlo di Borbone, figlio di Filippo: è anzi, l'edizione più diffusa. Comunque, quando il B. scriveva queste cose, era già stato avvocato del Regio Patrimonio, presidente della Regia Camera, oltre che reggente del Collaterale. Nell'Epistola è interessante anche notare come il B. valuti positivamente la scelta di Filippo V non solo con argomenti giuridici, ma prima di tutto come tentativo di salvare l'equilibrio europeo. Confuta gli scrittori di parte imperiale e rifiuta l'investitura come illegittima. Egli mette infatti in rilievo la differenza fra diritto pubblico e diritto feudale, e come il sovrano sia legato al primo e non al secondo.
Naturalmente, con la venuta degli Austriaci, il B. ebbe qualche difficoltà, per essere stato, con le sue impegnative orazioni e allegazioni, uno dei più zelanti servitori della Spagna. Come reggente, fra l'altro, era stato impegnato direttamente a perseguire i membri della congiura di Macchia. Si vide costretto fra l'altro a dare le dimissioni dal Collaterale. Ma fu solo un allontanamento temporaneo; presto fu integrato pienamente nel numero dei ministri napoletani: il 6 febbr. 1709 il sovrano austriaco approvava il pagamento di 1000 ducati che dovevano servirgli per un viaggio fino a Barcellona. Il 5 marzo dello stesso anno comunicava al viceré che il B. aveva avuto il posto di reggente nel Supremo Consiglio d'Italia. Rimase ancora qualche mese a Barcellona, dove il sovrano asburgico aveva raccolto un certo numero di funzionari napoletani, fra cui Alesssandro Riccardi; poi tornò a Napoli.
Qui, naturalmente, il vecchio avvocato e ministro era circondato da un certo gruppo di allievi e di amici: fra tutti, nuovo astro della politica vicereale austriaca, Gaetano Argento, che era stato suo allievo e che lo aveva in un certo qual modo sostituito, quando egli aveva dovuto trascurare il foro.
L'Argento, che con Gianvincenzo Gravina, fu il suo maggiore allievo, non dimenticò mai la lezione giuridica che aveva ricevuto dal B. e in qualche modo la trasmise a sua volta al Giannone. Inoltre, ora essi si incontravano ormai sullo stesso piano di dignità. Nel 1709, quando l'Argento fu nominato reggente, facevano parte del Consiglio - oltre al B., Nicola Gascon e Andrea Guerriero, che erano stati reggenti al tempo degli Spagnoli - anche Ottavio di Gaeta, Tommaso Mazzacara, Vincenzo de Miro e Carlo Antonio de Rosa.
Il B. spese gli ultimi anni della sua vita nel clima di tensione che si era creato a Napoli fra Giacinto Falletti di Barolo e Gaetano Argento. Era un conflitto che nasceva dai difficili rapporti fra un Collaterale, che pretendeva di essere il massimo organo di autogoverno, e la Regia Camera della Sommaria, che opponeva la propria autorità nelle cause riguardanti soprattutto il patrimonio regio. In realtà, la rivalità fra il Falletti e il B. era più antica, risalendo al giudizio negativo dato da questo ultimo sul Trattato del marchese Falletti nella corte di Roma (pubblicato più tardi, Colonia 1712). L'antipatia latente (legata fra l'altro a precedenti controversie fra il B. e il Di Fusco, maestro del Falletti) divenne qualcosa di più preciso quando il Falletti fu nominato presidente della Regia Camera e si moltiplicarono i conflitti di competenza.
In realtà, lo scontro aveva un doppio aspetto: da una parte era in gioco la funzione del Collaterale come magistratura principale del viceregno; e in questo senso il B. e l'Argento avevano probabilmente ragione a volerne difendere la supremazia. D'altra parte il Falletti stava tentando di restituire al Regio Patrimonio le sue dimensioni più ampie e certamente, nell'opposizione alla sua politica, agivano gli interessi dei baroni e degli arrendatori, sicuramente rappresentati nelle magistrature meridionali. In questo caso il conflitto aveva la funzione paralizzatrice di una politica fiscale e di ricompra degli arrendamenti che, sia pure con scarsa costanza ed efficacia, aveva un certo senso, reagendo non solo all'antica tradizione di alienare i beni demaniali, ma di arrendare le tasse e di impoverire lo Stato. Il B. - che nel 1695, per difendere il Regio Patrimonio, aveva avuto come avvocato avversario proprio l'Argento, difensore del monastero benedettino dei SS. Severino e Sossio (Zangari, p. 172) - ora si allineava invece con l'antico allievo per portare avanti una politica più vecchia e contraddittoria, in cui gli interessi privati venivano a soffocare quelli pubblici. Ma il Falletti ebbe il torto di servirsi di mezzi sleali per combattere il B., cercando di mettergli contro le Piazze, facendolo passare per uomo infido e odioso al pubblico. Ne seguì allora una censura degli Eletti, perché il B. non si occupasse più delle cause che riguardavano Napoli, a cui l'Argento dovette rispondere con una allegazione (Zangari, p. 178).
Nel mezzo di queste polemiche il B. moriva a Napoli l'11 ag. 1711.
Fra le opere mss. del B., oltre al Discorso per la città e Regno di Napoli..., è da segnalare il ms. XXIV, C 13, della Società napoletana di storia patria, che contiene le sue Allegazioni varie. Anche se mancano i grandi temi ed esse non possono competere per larghezza di interessi con le analoghe allegazioni dell'Argento, sono tuttavia un'altra testimonianza della partecipazione del B. alla vita politica e ai conflitti giurisdizionali.
Questa visione d'insieme della sua attività di giurista e di politico, se da una parte ci mostra un personaggio che non ha certo la forza intellettuale del proprio maestro, Francesco d'Andrea, né la capacità politica di Gaetano Argento, testimonia però a sufficienza di una partecipazione attiva e continua alla vita del viceregno, dagli Spagnoli agli Austriaci. È una figura minore, se vogliamo, di un mondo in cui emersero Gravina, Argento e, successivamente, Vico e Giannone. Più di tutti aveva portato nell'impegno politico lo scetticismo dell'avvocato, in modo che la sua attività risulta quasi contraddittoria, spezzettata in una serie di episodi che hanno se mai un solo filo di continuità, la tensione giurisdizionalistica. Ma anch'egli contribuì certamente al mondo in cui dovevano affermarsi uomini come il Giannone, mantenendo viva la lezione di Francesco d'Andrea, che il B. trasmise, direttamente e attraverso l'Argento, alla generazione successiva. Per questo il giudizio severo dello stesso d'Andrea, il quale nei suoi Avvertimenti ne parlava come di un bravo oratore, che però preferiva vincere le cause con i maneggi, deve essere corretto non solo dall'apprezzamento del Giannone, che gli dedica un garbato elogio prima nell'Istoria (cfr. l. XL, cap. V, p. 490, ed. 1723) e poi nell'Autobiografia (pp. 28-32), ma soprattutto dal giudizio di quel severissimo censore del mondo forense, che è stato il Galanti, il quale nel suo Testamento lo giudicava più solido dello stesso d'Andrea nel campo della dottrina giuridica, sottolineando il tributo che gli dovevano fra gli altri l'Argento e il Gravina.
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