Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La dodecafonia è un metodo compositivo ideato da Arnold Schönberg, incentrato sulla serie dodecafonica, in cui le dodici note della scala cromatica sono disposte in un ordine determinato (forma originale), dalla quale con varie operazioni è possibile derivare altre serie. Fino al 1945, la diffusione della dodecafonia è lenta e limitata. Negli anni Cinquanta, diversi compositori estendono i principi di non ripetizione insiti nella serialità dodecafonica agli altri parametri del suono (“serialità integrale”): il brano musicale viene concepito esplicitamente come una struttura.
La dodecafonia
Il termine “dodecafonia” indica il metodo per comporre con “dodici note che stanno in relazione soltanto fra di loro”, secondo la definizione del compositore austriaco Arnold Schönberg (1874-1951), che lo mette a punto intorno al 1920. Nello stesso anno, un altro autore austriaco, Joseph Mathias Hauer (1883-1959), definisce un sistema basato sull’impiego di tutte e dodici le note, ordinate in successioni prefissate, dette “tropi”. Nel 1924 Herbert Eimert presenta una propria teoria dodecafonica nel trattato Atonale Musiklehre. In Italia il termine dodecafonia viene coniato prima, nel 1911, da Domenico Alaleona (1881-1928), per indicare la suddivisione dell’ottava in dodici parti uguali. Alaleona propugna l’impiego di “accordi dodecafonici”, formati cioè da tutte le note della scala cromatica; se le sue ricerche hanno un impatto limitato nel mondo musicale italiano, tutto il contrario può dirsi del termine da lui inventato. Ben presto la critica definisce “dodecafonica” una musica molto cromatica o priva di riferimenti tonali riconoscibili, in particolare quella di Schönberg, la cui produzione all’epoca è però ancora all’insegna dell’atonalità. Anche per questo, ancora oggi il termine dodecafonia possiede una certa ambiguità semantica.
La dodecafonia propriamente detta nasce con l’ideazione, da parte di Schönberg, della “serie dodecafonica”, per cui la musica realizzata secondo questo sistema è detta anche seriale (una serie però può essere formata da un numero qualsiasi di note, purché l’apparizione delle note rispetti il principio di non ripetizione): peraltro, il musicista austriaco rifiuta sempre il termine “dodecafonia” e condanna le semplificazioni divulgative del suo metodo. Per lo stesso motivo, egli scrive poco sull’argomento e preferisce diffondere il metodo dodecafonico oralmente, come un “segreto di bottega”, tra i suoi allievi, i più importanti dei quali sono Alban Berg (1885-1935) e Anton Webern (1883-1945). Il primo impiega temi di dodici note negli Altenberg Lieder (1912) e nella passacaglia del Wozzeck (1922), prefigurando intuitivamente le future conquiste del maestro. Questi applica per la prima volta le serie dodecafoniche nei Cinque pezzi per pianoforte op. 23 e nella Serenata op. 24, realizzati tra il 1920 e il 1923. Webern giunge alle soglie della dodecafonia con i Tre piccoli pezzi per violoncello e pianoforte op. 11 (1914), per abbracciarla pienamente con i Tre canti popolari sacri op. 17 (1924).
La serie dodecafonica
Che cos’è la serie dodecafonica? Tutti i suoni che figurano in un brano di Bach, Haydn, Mozart o Beethoven possono essere riferiti, più o meno direttamente, alle sette note che formano la scala da cui la tonalità prende nome, per esempio Do maggiore, Re minore ecc. Nella dodecafonia, invece, il principio organizzatore non è più una tonalità, ma tutte le dodici note (corrispondenti a tutti i tasti bianchi e neri del pianoforte) comprese in un’ottava, ordinate dal compositore secondo una successione detta “serie dodecafonica”. Per esempio, la serie principale dei Sex carmina Alcaei (1946) di Luigi Dallapiccola (1904-1975) – una delle prime e più importanti opere dodecafoniche scritte in Italia – è la seguente: Do diesis, Mi, Fa diesis, Sol, Mi bemolle, Si bemolle, La, La bemolle, Fa, Re, Si, Do. Per evitare che qualcuna delle dodici note acquisti maggiore importanza, un principio basilare – ma non sempre rispettato – è che nessuna delle note ricompaia prima che siano state impiegate tutte le rimanenti. Spezzoni variamente ripartiti della serie possono formare brevi motivi, successioni di accordi, o sovvraposizioni polifoniche. Nella concezione schönberghiana, la serie stabilisce un nuovo criterio che supera la tradizionale distinzione tra un piano orizzontale, formato da melodie o motivi, e uno verticale, costituito da accordi o da un contrappunto di melodie; essa configura così un’unica dimensione: lo spazio sonoro. In tal modo, la base strutturale di un brano diviene la serie stessa e non più il riferimento diretto a elementi gerarchicamente ordinati esterni alla composizione, quali la tonalità, un determinato tipo di accordo. La serie, il cui ordinamento costituisce una sorta di precomposizione, viene successivamente dislocata nel brano, influenzandone la stessa morfologia. Ciascuna serie possiede caratteristiche peculiari, date dalla disposizione degli undici intervalli che la formano, e può essere trasposta su tutte le dodici note della scala cromatica. Il compositore austriaco applica alla serie anche i procedimenti di inversione (che modificano la direzione degli intervalli della serie, per cui a una quinta ascendente corrisponde una quinta discendente) e retrogradazione (le note della serie sono disposte a ritroso, dall’ultima alla prima), sicché ciascuna serie può assumere quattro forme – originale, inversa, retrograda e retrograda dell’inversa – che, assieme alle dodici possibili trasposizioni, danno un totale di 48 forme. Nulla vieta di impiegare serie diverse nello stesso brano – un procedimento adottato frequentemente da Berg, ma anche da Schönberg stesso – o addirittura simultaneamente.
L’idea della serie matura lentamente. Tra il 1913 e il 1923, Schönberg non pubblica alcuna nuova opera: dopo diversi lavori atonali, è alla ricerca di un nuovo principio ordinatore che sostituisca la tonalità. Nel 1915, mentre lavora a un oratorio sulla crisi religiosa nel mondo contemporaneo, La scala di Giacobbe (Die Jakobsleiter), rimasto incompiuto, il compositore si accorge di aver composto un brano con tutte e dodici le note della scala cromatica; nel 1917, impegnato ancora sulla stessa opera, pensa di creare dei motivi mediante la permutazione di una serie di sei note; nel marzo del 1920 abbozza una passacaglia orchestrale in cui figura una serie di dodici note. Parti dei Pezzi per pianoforte op. 23 e della Serenata op. 24 sono seriali e nella Suite per pianoforte op. 25 il metodo è impiegato in tutta l’opera. Nel 1924, attraverso l’allievo Erwin Stein, che scrive il saggio Nuovi principi formali (Neue Formprinzipien), Schönberg rese noti i principi del suo metodo dodecafonico.
Essendo un metodo, la dodecafonia rende possibile scelte stilistiche diverse; la distanza che corre tra le opere di Berg e di Webern ne è la testimonianza più evidente. In Berg, come in Dallapiccola, il metodo dodecafonico non rinuncia a riferimenti tonali, attraverso serie opportunamente costruite. Webern sceglie invece una via più radicale: le sue opere, brevi e rarefatte, costituiscono l’oggetto di riflessione e il punto di partenza delle avanguardie musicali del secondo dopoguerra. Al di fuori della cerchia di Schönberg, fino al 1945 pochi altri autori si accostano al metodo dodecafonico. Tra di essi Ernst Křenek (1900-1991) e Dallapiccola, tenace e coraggioso paladino della dodecafonia in Italia. Uno degli ostacoli principali alla diffusione del metodo di Schönberg, così come di altre tendenze dell’arte moderna (“arte degenerata”), sono i regimi fascista e nazista. Numerosi compositori, tra cui lo stesso Schönberg, sono costretti a espatriare negli Stati Uniti; nel suo periodo americano, egli abbandona in parte il principio precompositivo della preparazione della serie, a favore di un’esplicita trasformazione della serie in tema, facilmente percepibile dall’ascoltatore, alla stregua di un tema di una sonata o di una sinfonia classica. La nuova avanguardia del dopoguerra, in particolare Pierre Boulez (1925-), nell’articolo Schönberg è morto, non manca di segnalare che questa “ultratematizzazione”, e il conseguente collegamento alla tradizione sette-ottocentesca, rappresenta un aspetto regressivo.
Musica come struttura: la serialità integrale
Sul finire degli anni Quaranta vengono realizzate alcune composizioni – Three Compositions for piano (1947) di Babbitt e Mode de valeurs et d’intensité (1949) di Messiaen – che anticipano una nuova tendenza. I principi di non ripetizione e permutazione delle altezze della dodecafonia vengono estesi, in varia misura, a tutti i parametri del suono (dinamica, timbro, durata). Autori come Boulez (Structures, 1952), Luigi Nono, Henri Pousseur e Karlheinz Stockhausen (Kontra-Punkte, 1952) adottano in vario modo questa soluzione, che viene definita “serialità integrale”. Con questo sistema, il principio di non ripetizione impedisce la predominanza di qualsivoglia elemento.
In una composizione del genere, l’ascoltatore è invitato a seguire una successione di eventi la più eterogenea possibile, tesa ad annullare, in un certo senso, le sue capacità mnemoniche. Lévi-Strauss sostiene che la musica seriale non è un linguaggio di comunicazione, in quanto priva di un “livello di articolazione” primario, ossia di una grammatica che stabilisca una serie di regole per il compositore e di aspettative per l’ascoltatore. Questo aspetto delle opere seriali degli anni Cinquanta-Sessanta rappresenta, invece, per altri autori, un fatto positivo, come afferma Umberto Eco in Opera aperta: “Il musicista sceglie una costellazione di suoni da relazionare in modi molteplici, egli rompe l’ordine banale della probabilità tonale e istituisce un certo disordine che, rispetto all’ordine di partenza, è altissimo: tuttavia introduce nuovi moduli di organizzazione che, opponendosi ai vecchi, provocano una vasta disponibilità di messaggi, quindi una grande informazione, e tuttavia permettono l’organizzarsi di nuovi tipi di discorso, quindi di nuovi significati”. La composizione musicale viene intesa e realizzata come una struttura allo stato puro, che necessita di un’accurata progettazione matematica: al pari di una cupola geodetica, l’opera si sostiene da sé. Tagliati definitivamente i ponti con la tradizione classico-romantica, imperniata su forme, temi e motivi riconoscibili e memorizzabili, la musica di questo periodo stabilisce o riscopre relazioni con la filosofia, la linguistica, la matematica e la fisica.
A partire dagli anni Cinquanta, il serialismo – più o meno integrale – costituisce il terreno per le più importanti esperienze d’avanguardia. I corsi estivi di Darmstadt, in Germania, divengono il punto di incontro delle giovani generazioni di compositori. Anche autori come Stravinskij, inizialmente lontani dalla dodecafonia, ne adottano i principi piegandola alle proprie esigenze e riconoscendone implicitamente il valore (Agon, 1954-57).