Siena
S. è fra le città toscane, a parte Firenze, la più frequentemente ricordata da D., sia direttamente sia attraverso i vari personaggi senesi, gli episodi di cui sono protagonisti, i fatti storici o di cronaca cui il poeta fa riferimento, talora anche nei dettagli o magari soltanto attraverso allusioni.
La città, sorta da una colonia militare romana fondata da Cesare o dai Triumviri (Saena Etruriae o Saena lulia), crebbe rapidamente durante le invasioni barbariche, anche a motivo del sito, propizio a facile difesa, ove sorgeva. Il primo nucleo urbano cinto di mura si formò difatti sull'altura che oggi è detta Castelvecchio, prossima e sovrastante al luogo pianeggiante ove sorge il duomo, non lontana dal poggio Malavolti e dal poggio Valmontone, anch'essi fortificati. S., sede vescovile fin dal sec. VIII, fu retta da gastaldi sotto i Longobardi, da conti con l'avvento dei Franchi, mentre dall'inizio del sec. XI in poi si va gradatamente affermando l'autorità vescovile, alla cui ombra sorgono e si consolidano le istituzioni comunali. E il comune, che ha sostituito il governo dei consoli e quello del vescovo, ed è compiutamente formato sin dal 1179, persegue con energia e continuità una politica di espansione territoriale ed economica. Una delle ragioni prime della potenza e della ricchezza raggiunta dalla città nel sec. XIII, è da vedersi nell'acquisto, contemporaneo a quello di Staggia, delle vene argentifere di Montieri (1137), che consentì a S. la coniazione di monete sin da un'epoca assai antica. Spintesi le sue mire espansionistiche verso Poggibonsi e la Val d'Elsa, il comune senese venne presto a contrasto col fiorentino in un conflitto conclusosi nel 1141. E se l'urto degl'interessi dei due comuni non impedì l'ingresso di S. nella lega guelfa di San Genesio del 1197 e l'appoggio fornito a Firenze nella conquista di Simifonte (Pd XVI 62), si manifestò successivamente in una lunga serie di contese, durante un cinquantennio. Ma S. riuscì a estendere considerevolmente i suoi domini soprattutto nella Maremma, sottomettendone i feudatari Aldobrandeschi, Pannocchieschi, Ardengheschi, fino a Grosseto, conquistata nel 1224. Frattanto gli ordinamenti interni di S. si erano via via evoluti: il podestà sostituisce il governo dei consoli sin dal 1199, s'istituisce un consiglio, detto concistoro (1236), destinato a diminuire il potere delle grandi famiglie, si crea infine un capitano del popolo forestiero. Fedele a Federico II, S. assume ruolo di caposaldo, in Toscana, del partito ghibellino, in contrapposto a Firenze, di cui ha accolto i fuorusciti. Gravissimamente sconfitta da S. e alleati ghibellini nel 1260 a Montaperti, Firenze ottenne una clamorosa rivalsa nel 1269, con la battaglia di Colle Val d'Elsa, cui seguì in S. l'instaurazione di un governo guelfo. E se la pace del cardinal Latino (1280) comportò la riammissione in città dei ghibellini, il governo dei Nove, istituito nel 1282 (e durato fino al 1355), avviò una politica dichiaratamente filo-guelfa e favorì rapporti di buon vicinato con Firenze, instaurando un benefico equilibrio interno, che consentì il considerevole progresso economico della città, abbellita in questo periodo d'insigni monumenti che ancora l'adornano, e che D. certo conobbe.
Pur se mancano testimonianze documentarie relative a una sua permanenza nella città, non sembra dubbio che D. abbia conosciuto S. assai bene, forse meglio di altre città toscane; la sua familiarità con le cose senesi dovette anzi essere agevolata dagli accennati buoni rapporti politici che, nella fase storica interessata, intercorsero fra il comune di S. e il fiorentino. Il Boccaccio, raccontando il noto episodio del poeta per più ore assorto completamente nella lettura, sì da non accorgersi affatto della " grande armeggiata " che nel frattempo si veniva facendo in prossimità della " stazzone " dello speziale ove si trovava, e dei " grandissimi rumori " e dei " balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani ", afferma che ciò avvenne " egli, essendo una volta tra le altre in Siena ", implicitamente alludendo ad altri soggiorni senesi di D. (Trattatello, a. c. di P.G. Ricci, Milano-Napoli 1965, 611). Ma vaga e poco attendibile è la tradizione secondo la quale il poeta avrebbe studiato l'ortografia sotto la guida di un maestro senese. E anche il fatto, ipotizzato da vari studiosi senesi, che D. abbia in età giovanile frequentato lo Studio di S., già fiorente e assai noto sul finir del Duecento, sarà da considerare mera e sostanzialmente immotivata possibilità. Ma che nella primavera del 1294 egli, con altri giovani nobili fiorentini, si sia recato a S. e abbia trascorso nella città più giorni, quando vi si trattenne Carlo Martello, proveniente da Napoli e diretto a Firenze per incontrarvi il padre Carlo II, reduce dalla Provenza, è congettura non priva di plausibilità, pur se i rapporti fra D. e l'Angioino possano anche essere stati allacciati nel solo periodo di permanenza del principe a Firenze. Così, merita credito l'ipotesi che D., conclusa la sua missione presso Bonifacio VIII e trattenutosi prima a Roma e quindi a S. a seguito del rovescio subito dalla Parte bianca, sia stato proprio in S. raggiunto, il 27 gennaio 1302, dalla prima sentenza di condanna. Ed è ben verosimile che anche successivamente D. sia ritornato più volte nella città (ad esempio in occasione del convegno di Gargonza, a mezza via fra S. e Arezzo).
Della città D. mostra di ben conoscere, anche nei particolari, cose, fatti, luoghi. Ad esempio il preciso riferimento all'acquisto da parte dei Senesi del porto e del castello di Talamone (10 settembre 1303) e il sarcasmo che l'accompagna nelle parole di Sapia (Pg XIII 151-152), riecheggiano la derisione di cui il comune senese dové essere oggetto a Firenze e in Toscana a motivo degli scarsissimi benefici, non proporzionati ai danni e ai pericoli inerenti che S. trasse dall'impresa. E anche l'ironica allusione alla Diana (vv. 152-153), il fiume sotterraneo che i Senesi a lungo cercarono e mai riuscirono a trovare, si fonda sulla sicura nozione del fatto non certo leggendario come qualcuno ritenne (più delibere degli organi del governo del comune riguardano " aqua quae dicebatur Diana "), e del dileggio di cui la voce pubblica fece oggetto i reggitori di S., per l'insuccesso delle dispendiose ricerche esperite. Così D. mostra di avere diretta o indiretta conoscenza di luoghi famosi della città (che con le sue piazze e vie, le chiese, le case-torri, i suoi palazzi e " casamenti " aveva già, fra lo scorcio del Duecento e i primi del Trecento, assunto l'assetto urbanistico che il Costituto in volgare del 1309 riflette) quale il Campo (Pg XI 134) e del territorio senese a essa prossimo: da Montaperti (If X 85-86) al Toppo (XIII 121) a Monteriggioni (castello, quest'ultimo, evocato con immagine potente e suggestiva, che denuncia una personale e precisa nozione: XXI 40-41) a Colle di Val d'Elsa (Pg XIII 115) alle terre della Maremma senese (ad esempio Campagnatico: XI 66) a Chiusi (Pd XVI 75). E il poeta probabilmente conobbe di persona, in S. e altrove, vari cittadini senesi. Il rimatore Benuccio Salimbeni (marito di una Baldesca, figlia di Sapia) ad esempio, Bindo Bonichi, che, come suppone P. Rossi (D. e S., p. 32), poté forse fornire al Bambaglioli più particolari su cose e fatti senesi; Cecco Angiolieri (v.), col quale D. ebbe certo relazioni personali e dirette.
D. rivolse la sua attenzione anche alla lingua di S.; cita infatti i Senesi, con gli Aretini, quando, in un noto luogo del De vulg. Eloq., passa a considerare le varietà linguistiche municipali nell'ambito di una regione (I X 9), e poco oltre riprova, con idiotismi pisani, lucchesi, aretini, forme senesi quali onche, ee, chesto (XIII 2), rilevate in un testo che non è dato identificare, forse un endecasillabo con dieresi seguito da emistichio, dopo aver tacciato di municipalismo le rime di Mino Mocato (unitamente a quelle di Guittone, di Bonagiunta, di Gallo Pisano, di Brunetto Latini: VE I XIII 1); ma per una più specifica analisi delle nozioni e dei giudizi danteschi sulla lingua senese, V, oltre.
Folta è la schiera dei personaggi senesi (o che a S. vissero e operarono) presenti nella Commedia. È con ogni probabilità da identificarsi con Lano o Arcolano di Squarcia, della nota e cospicua famiglia dei Maconi, quel Lano (v.) che, col padovano Giacomo da Sant'Andrea, fugge attraverso la selva dei suicidi inseguito dalle cagne fameliche, così pagando la dissennata dissipazione dei propri beni, con gambe più veloci di quanto non fossero state a le giostre dal Toppo (If XIII 115-121); da Siena fu quell'Albero che, nipote o figlio di un vescovo senese, fece ardere come eretico l'alchimista aretino Griffolino (XXIX 109-111), e a S. fu arso il fiorentino (o senese) Capocchio, pure alchimista, che fors'anche per il supplizio subito nella città, conferma con acre sarcasmo la taccia di vanità attribuita da D. alla gente sanese, assimilata in questo alla francesca, cui l'avrebbero collegata comuni lontanissime origini (vv. 121-123), menzionando gli scialacquatori senesi Stricca de' Salimbeni (o secondo altri dei Tolomei o dei Marescotti), Niccolò, pure de' Salimbeni (o secondo altri dei Bonsignori), che la costuma ricca / del garofano prima discoverse, e Caccia degli Scialenghi da Asciano, che dissipò, nelle non eroiche imprese della brigata spendereccia, la vigna e la gran fonda, come il sodale Bartolommeo de' Folcacchieri, detto l'Abbagliato, vi proferse suo senno (vv. 125-132). S. fé la Pia (Pg V 133-136), della cui fine misteriosa e violenta si rese colpevole il non nominato marito, in quella Maremma senese che il gran Tosco Guiglielmo Aldobrandeschi e il figlio suo Omberto (XI 58-72) avevano signoreggiato. Fra i superbi, qual fu Omberto, D. incontra anche, nella prima cornice del Purgatorio, colui del cui nome Toscana sonò tutta, Provenzano Salvani, che paga cotal moneta per la presunzione che ebbe a recar Siena tutta a le sue mani (vv. 109-126), pur avendo risparmiato a lui, pentitosi a l'orlo de la vita, una lunga attesa nell'Antipurgatorio la generosa umiliazione che si era inflitto, riducendosi a mendicare nel Campo della sua città, per mettere insieme la somma necessaria a riscattare un amico, che par bene fosse il figlio di Mino de' Pagliaresi, prigioniero, coi figli di Bartolomeo Saracini, di Carlo d'Angiò (vv. 127-138). Fra gl'invidiosi invece D. trova la zia di Provenzano, Sapia (XIII 106-154), altro personaggio di gran nome nella S. della seconda metà del Duecento, nota per il suo vizio e il carattere aspro e risentito, ma anche per le sue opere di carità, causa certo non ultima delle sante orazioni del pio terziario francescano Pier Pettinaio o Pettinagno (vv. 127-129) da Campi in Chianti, ma senese di elezione, morto sul finire del secolo in odore di santità. E dovranno essere menzionati anche altri personaggi della Commedia, non senesi, ma che in S. vissero e operarono più o meno a lungo: dall'astrologo Guido Bonatti (If XX 118) a l'Aretin che da le braccia / fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte, Benincasa da Laterina (Pg VI 13-14), a Giovanni XXI (Pd 134-135), maestri nello Studio senese, al musico Casella (Pg II 76-114) che, come attesta un documento, si trattenne per qualche tempo nella città.
Da più indizi risulta essere stato assai precoce, in S., il culto di D. e assai diffusa la conoscenza della Commedia, sin da anni non troppo lontani dalla morte del poeta. Se abbia letto D. nella sua città quel maestro Nofrio da S. che un emissario degli Anziani e dei gonfalonieri del popolo di Pistoia cita in una sorta di relazione riguardante i più valenti maestri di grammatica, che intorno al 1360 professavano la loro arte nelle varie città toscane, non sappiamo. Ma è già significativo che di costui, operante nel 1360 a Colle Val d'Elsa e giudicato " sufficiente " più assai di ogni altro maestro che avesse mai insegnato a Pistoia, si dica che " leggie Vergilio, Lucano et tucti alteri vectera et anche lo Dante, a chi volesse udirlo ". Sì che par probabile che quel Giovanni di ser Buccio da Spoleto (v.) che i magnifici priori riuniti in concistoro, con delibera del 4 maggio 1396, " elegerunt... in Magistro gramaticae et rettoricae " con l'obbligo di leggere " diebus festivis publice volentibus audire librum Dantis debitis temporibus ", abbia avuto dei predecessori. Mancano notizie sui successori del grammatico di Spoleto in quel che specificamente riguarda la lettura di D.; ma l'assenza di una precisa menzione non significa necessariamente che la lettura dantesca tacesse del tutto: essa sarà stata forse curata dai vari maestri cui era affidato l'insegnamento della grammatica, della retorica e, genericamente, la lettura di testi letterari (il Felitiani, ad esempio, era tenuto a leggere " rettoricam de mane et unum poetam vel auctorem de die ").
Successivamente, mancano le testimonianze precise di un culto particolarmente rivolto a D. e all'opera sua. Ma il poeta fu ben presente agl'interessi dei letterati e degli storici senesi, specie nel Settecento (dal Gigli al Cittadini e ad altri ancora). Nel XIX secolo si avviano da parte di studiosi di storia locale (Carpellini, Aquarone) ricerche di notevole importanza, continuate nel XX a opera del Mori, del Lisini, del Mazzi, del Frittelli, del Rossi, del Ciacci e di altri. Il maggiore frutto di tale feconda attività è costituito dal volume D. e S., citato in bibliografia.
La fortuna di D. in S. è altresì testimoniata dalla potente suggestione che la Commedia esercitò su Simone Serdini (v.) detto il Saviozzo, figura di primo piano della letteratura senese della seconda metà del Trecento e dei primi decenni del Quattrocento. Il Serdini avrà certo alimentato i suoi interessi danteschi nel corso della sua vita girovaga in varie città italiane (Firenze, Bologna, Perugia, Napoli, ecc.), ma è ben probabile per non dir certo che quando, quasi trentenne, egli lasciò S., avesse già imparato ad amare D. e possedesse già una compiuta conoscenza del suo poema.
Nella seconda metà del Trecento D. fu noto altresì nell'ambito cateriniano. Echi ed energici moduli linguistici d'impronta dantesca sono presenti nel capitolo Spento è el lume che per certo accese, e anche in altri scritti di Neri de' Pagliaresi, segretario e confidente di Caterina (cui altro discepolo, Gionta di Grazia, richiede in restituzione, in una lettera, un " pezo del Dante " a lui imprestato).
Numerosi e di notevole importanza i codici danteschi senesi. Degni di particolare menzione i mss.: I VI 27, del sec. XIV, che offre il poema quasi integralmente; I VI 29, pure trecentesco, notevole per l'eleganza della grafia e dell'ornamentazione, contenente l'Inferno e i primi due canti del Purgatorio; I VI 31, della seconda metà del sec. XIV, contenente la prima cantica, i primi venti canti della seconda e due della terza (i primi undici canti dell'Inferno sono accompagnati dal commento latino di Graziolo de' Bambaglioli, in una lezione più corretta rispetto al noto ms. della Colombina di Siviglia, e i venti canti del Purgatorio da un commento anonimo, pure in latino, derivante da Benvenuto). Fra i codici quattrocenteschi vanno poi ricordati il ms. I VI 32, contenente la terza cantica corredata del commento laneo, non privo di varianti vernacole che ne denunciano l'origine senese e il ms. I VI 18 contenente rime di D., di Antonio Beccari, del Petrarca, del Serdini, di Fazio degli Uberti, di Antonio degli Alberti e di altri ancora. Oltre ai ricordati si conservano presso la biblioteca Comunale degl'Intronati i codici I VI 30, I VI 28, I VI 20 (riguardanti la Commedia), I VIII 36, H VI 36, H VI 31, H VI 23 (contenenti rime dantesche, frammiste ad altre scritture).
La stessa biblioteca conserva anche un certo numero di antiche edizioni dantesche degne di menzione. In particolare si notano la stampa veneziana della Commedia del 1477, corredata del commento landiniano, per Vendelin da Spira; la fiorentina, pure col commento del Landino, del 1481, impressa da Nicolò di Lorenzo della Magna; la stampa bonaccorsiana del Convivio (Firenze 1490) e, sempre del Convivio, l'edizione veneziana del 1521 (per Zuane Antonio e fratelli da Sabio), con postille marginali manoscritte di Celso Cittadini, che riportano varianti tratte da un testo a penna del 1462.
Anche l'Archivio di Stato di S. è ricco di testimonianze dantesche. A parte un frammento membranaceo contenente il canto IV e parte dei canti III, V, XIII, XIV del Purgatorio, attualmente irreperibile, numerosi e suggestivi sono i documenti senesi riferentisi a personaggi o a episodi menzionati nella Commedia: ad esempio a Farinata e alla battaglia di Montaperti, a Guido di Montfort, a Pier della Vigna, a Brunetto Latini, a Bonifacio VIII, a i frati Godenti (la bolla del 23 dicembre 1261 con la quale Urbano IV approva la regola dell'ordine), a Manfredi, alla battaglia di Campaldino, a Marzucco Scornigiani, a Carlo d'Angiò, a Nino Visconti, a Federico II, a Cunizza da Romano, a Onorio III (la relazione del dialogo fra s. Francesco e il pontefice), all'impresa di Simifonti, per non citarne che alcuni; a non parlare, naturalmente, delle ricche e importanti testimonianze documentarie relative ai vari personaggi ed episodi senesi.
Bibl. - C.F. Carpellini, Rapporto della Commissione istituita dalla Società sanese di Storia patria per la ricerca di tutto ciò che in S. si riferisce a D., in " Bull. Soc. Sanese St. Patria " I (1865); B. Aquarone, D. in S., città di Castello 1889; P. Rossi, La ‛ lectura Dantis ' nello Studio senese, in Studi giuridici dedicati e offerti a F.S. Schupfer, Torino 1898, 153-174; D. Mori, La leggenda della Pia, Firenze 1907; aa. vv., D. e S., in " Bull. Senese St. Patria " XXVIII (1921) (contiene gli studi: P. Rossi, D. e S., 1-86; G. Mengozzi, Documenti danteschi del R. Archivio di Stato di S., 87-182; F. Iacometti, Manoscritti ed edizioni dantesche della Biblioteca comunale di S., 183-237; V. Lusini, Note storiche sulla topografia di S. nel secolo XIII, 239-341; G. Chierici, La casa senese al tempo di D., 343-380; C. Mazzi, Folcacchiero dei Folcacchieri e l'" Abbagliato ", 381-413; D. Barduzzi, Di un maestro dello Studio Senese nel Paradiso dantesco, 415-429; G. Bellissima, Esecuzione dell'atto di cessione del porto di Talamone fatta alla Repubblica di S. dai Monaci di San Salvatore di Montamiata, 431-443; G. Chierici, Il restauro della chiesa di S. Cristoforo, 445 ss.); A. Lisini, D. e le sue relazioni con S., in " Diana " III (1928); G. Ciacci, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella D.C., Roma 1935; A. Lisini - G. Bianchi Bandinelli, La Pia dantesca, Siena 1939; M. Salem Elsheikh, Di uno o più Stricca senesi, in " Studi d. " XLVIII (1971) 45-66.
Lingua. - S. è la quarta città della Toscana di cui D. esamina criticamente il dialetto in VE I XIII 2, dopo averne rapidamente accennato in I X 9. La frase che caratterizza la parlata senese è Onche renegata avesse io Siena. Ch'ee chesto?, cioè " Avessi rinnegato una buona volta Siena. Che è questo? ", " Che succede? " (meglio che " Non avessi mai rinnegato Siena... "): e si tratterà certo di frase prosastica, non di coppia di versi (endecasillabo con dieresi su io più quadrisillabo), come propone e stampa il Marigo: ipotesi che, altri stiracchiamenti a parte, obbliga a supporre un endecasillabo con accento di quinta.
Specifica di S. antica, in Toscana, è la riduzione di KW (qu) a k nei dimostrativi e in una serie di avverbi e pronomi tra cui unque e composti, come registra anche il sonetto caricaturale Pelle chiabelle di Dio no ci arvai (attribuito oggi dubitosamente all'Angiolieri, ma anticamente a Lapo Gianni: cfr. Contini, Poeti II 400), vv. 12-13 " A le guagnele, carich'el somaio / e porta a Siena a vender chéste frutta ". Tutt'altro che specifica invece la forma con epitesi èe, pure senese certo ma anticamente anche fiorentina (e presente in D. stesso: v. LUCCA), mentre la mancanza di ‛ anafonesi ' in onche aveva riscontro anche a Firenze, e viceversa forme con ù si trovavano anche in zone toscane che non conoscevano l'anafonesi (v. A. Castellani, in " Studi Linguistici Italiani " II [1961] 32). Quanto ad avesse prima persona (ma il più autorevole codice, il Berlinese lat. folio 437, reca avess'io), era forma diffusa anche a Firenze, benché a S. fosse assai più salda e tale sia rimasta fino al Cinquecento.
Nello stesso capitolo (§ 1) D. cita per S., come poeta rimasto a un livello municipale, Minum Mocatum, cioè il Bartolomeo Mocati di cui il codice Vaticano lat. 3793 conserva una canzone, Nom pensai che distretto: canzone certo non ‛ illustre ' secondo i parametri danteschi, perché tutta o quasi contesta di settenari, ma il cui colorito linguistico non appare a noi municipale, ove si tolgano appunto le prime persone singolari dell'imprefetto congiuntivo in -sse.
Bibl. - D.A., De vulg. Eloq., a c. di P. Rajna, Milano 1896 (ediz. anastatica, ibid. 1965) 74; Marigo, De vulg. Eloq. 113; A. Schiaffini, Interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Roma 1963, 93. Per le forme del senese antico sopra discusse cfr. V. Hirsch, in " Zeit. Romanische Philol. " IX (1885) 563; X (1886) 430; Castellani, Nuovi testi 45, 156 ss.