SIENA
(lat. Saena Etruriae, Sena Iulia)
Città della Toscana, posta in una zona collinare tra le valli dell'Arbia e dell'Elsa.
Lo sviluppo urbanistico di S. in età medievale è materia estremamente complessa, che, allo stato attuale degli studi, può essere trattata solo a grandi linee e documentata con sufficiente grado di attendibilità essenzialmente nella sua fase finale, dal 13° al 15° secolo. Il territorio urbano notevolmente accidentato, la frammentazione istituzionale e sociale, il tumultuoso e spesso caotico estendersi dell'abitato - insieme alla scarsità di indicazioni topografiche certe, relative al periodo classico e ai primi secoli del Medioevo - rendono poco fruttuosa la mera descrizione delle successive fasi e dell'ampliamento progressivo dell'area racchiusa nella cinta difensiva. Su questo specifico argomento mancano ancora ricerche precise, capaci di aggiornare con puntualità e sulla base di riscontri oggettivi la preziosa cartografia seicentesca di Teofilo Gallaccini (Pianta degli otto circuiti di muraglie castellane che in epoche diverse sono stati fabbricati per sicurezza della città di Siena; Siena, Arch. di Stato). È invece più agevole, per il Tardo Medioevo, un'analisi dettagliata del tessuto urbano e delle sue componenti economiche e sociali, sulla base della Tavola delle possessioni, estimo della prima metà del Trecento; ed è straordinariamente interessante lo studio della costruzione degli edifici monumentali o comunque rappresentativi in relazione con lo spazio pubblico e con le rappresentazioni 'artistiche' della città, supportato da una dettagliata normativa statutaria, dalle cronache e da una moltitudine di altre fonti documentarie. Nonostante il forte condizionamento dell'orografia, le grandi architetture medievali e i relativi spazi di pertinenza - primo fra tutti la piazza del Campo - rivelano un attento e costante intendimento progettuale, aggiornato e spesso innovativo rispetto ad altre città comunali; tale, comunque, da consentire la nascita di una precoce vena estetica applicata all'ambiente urbano e al suo decoro.
In questa breve esposizione è preferibile quindi concentrare l'attenzione sulle scelte che hanno più chiaramente e durevolmente condizionato l'impianto cittadino e il suo rapporto con il territorio circostante, influendo in maniera determinante sia sulla sua fisionomia paesaggistica sia sui suoi caratteri funzionali squisitamente urbanistici.Alle origini della dinamica urbana di S. deve collocarsi la nuova centralità, maturata nell'Alto Medioevo, del percorso della via Cassia o Francigena, rispetto alle direttrici romane lungo le valli del Tevere e della Chiana e lungo il litorale (via Aurelia).Il colle fortificato della civitas vetus, con il complesso vescovile e l'ospedale di S. Maria della Scala, è precocemente collegato, tramite una grande via ad andamento sinusoidale (via di Città), di impianto anteriore al Mille e paragonabile alla romana via papalis, con l'asse N-S della via Francigena. Piccoli nuclei fortificati (castellari), borghi isolati e insediamenti religiosi nacquero in connessione con la rete viaria principale, a sua volta progressivamente diramata sui pendii collinari verso Firenze, Roma, la Maremma, la regione volterrana, l'Umbria.Con il consolidamento degli organi di potere cittadini, e a seguito di un forte incremento demografico, già nella seconda metà del sec. 12° S. espanse la propria influenza sul territorio, imponendo la sottomissione ai principali signori feudali e l'inurbamento ai contadini, e giungendo a costruirsi un vastissimo contado; ciò rese possibile, nei primi decenni del Duecento e sotto il più efficiente regime podestarile, una forte razionalizzazione e unificazione dell'insieme urbano. Come nella stragrande maggioranza delle città comunali, anche a S. gli interventi riguardarono soprattutto l'area centrale, la viabilità primaria, i servizi, le mura; il più significativo sembra consistere nell'ampliamento e nella ridefinizione del tracciato della via Francigena, che venne gradatamente inglobata nel nucleo urbano in espansione sia verso Firenze sia verso Roma. Pur mantenendo fede alla tradizionale funzionalità dei percorsi urbani, e quindi al loro andamento curvilineo (particolarmente adatto, tra l'altro, allo svolgimento di corse a cavallo, tra le quali il celebre Palio), la strada venne ridisegnata nel tratto centrale sotto forma di due rami simmetrici e confluenti verso la via di Città (Banchi di Sopra e Banchi di Sotto). Ciò consentiva di bloccare con un unico sbarramento (palizzata lignea, catene) eventuali aggressori che fossero riusciti a entrare nella città, impedendo l'accesso alla città vecchia. In effetti, il luogo di convergenza di questi percorsi, il trivio denominato Croce del Travaglio, costituì in seguito il centro funzionale e simbolico della S. medievale.Anche se, fino alla metà del sec. 13°, sembrano prevalere abitudini progettuali tradizionali e di tecnica artigianale, un documento del 1222-1223, relativo alla terminazione del borgo della Valle di S. Martino, dimostra la presenza di una rigorosa strumentazione agrimensoria e l'uso di picchetti e corde per la misurazione dei terreni e degli spazi pubblici. Da quel momento in poi furono sempre più frequenti gli interventi di ampliamento, di rettifica, di regolarizzazione applicati alle strade urbane e ai principali spazi pubblici; una grande attenzione ai problemi territoriali, urbanistici, igienici è dimostrata dagli Statuti del 1262 e ancora da quelli, in volgare, del 1309-1310; un'apposita magistratura, quella dei Viarii, possedeva già un proprio specifico corpus normativo alla fine del Duecento. Si imposero gradualmente anche a S. i nuovi principi di regolarità, geometria, comodità, e si formò anche un'originale esperienza nella fondazione di nuovi centri. Castelfranco di Paganico e Talamone, nella Maremma senese, sono i più noti; ma la progettazione o riprogettazione di insediamenti fortificati, di solito di estensione limitata ma di alte qualità formali, si estese e si prolungò in tutto il contado fino al 15° secolo.Talamone, progettato ex novo come centro portuale protetto da una robusta rocca, in concorrenza con Pisa e con l'appoggio di Firenze, nei primissimi anni del Trecento, rappresenta un unicum, anche perché se ne conserva la planimetria di progetto su pergamena (Siena, Arch. di Stato), il più antico documento grafico fino a oggi conosciuto relativo a un centro fondato, completo dei nomi degli assegnatari dei lotti edificabili e accompagnato da dettagliate relazioni relative alla divisione del territorio tra i nuovi abitanti.Tra le diverse componenti della nuova immagine della città, così come si configura negli ultimi secoli del Medioevo, meritano di essere segnalate le sedi degli Ordini mendicanti, la piazza del Campo, le mura. L'inserimento dei nuovi Ordini nel tessuto urbano, avvenuto nel corso del sec. 13°, ne ha profondamente modificato la struttura, più di quanto sia avvenuto in altre città. La successione degli insediamenti - S. Francesco, iniziato nel 1228 ca. sulla Castellaccia di Ovile, un'altura esterna alle mura, consacrato nel 1255 e ingrandito nel 1326; S. Domenico, edificato sul colle di Camporegio a partire dal 1255 e ricostruito nel Trecento; S. Agostino, edificato dal 1258 - dimostra la volontà di stabilire un esatto coordinamento spaziale tra le fabbriche dei tre principali Ordini e il centro cittadino. Dato che i nuovi monumenti sono situati in posizione dominante e ben visibile da ogni parte, è particolarmente evidente la loro interrelazione secondo uno schema triangolare che, tenendo come vertici l'intersezione tra navata e transetto delle tre chiese, determina come baricento geometrico la confluenza tra la via dei Banchi di Sopra e la via dei Banchi di Sotto (Croce del Travaglio), dove più tardi sorse la loggia dei Mercanti, monumento-simbolo, a sua volta, dell'unità cittadina. Lo schema a triangolo dei tre principali Ordini è il più diffuso nelle città medio-grandi, in campo europeo; lo si ritrova, tra l'altro, a Perugia, città-stato assai simile, anche nella struttura politica e urbanistica, a Siena. Ma la superiore chiarezza e leggibilità della soluzione senese scaturisce anche da altri fattori, come la posizione appartata della cattedrale, la separatezza del fulcro comunale di piazza del Campo e la suddivisione della città in Terzi, ciascuno dei quali veniva in tal modo a identificarsi in uno degli Ordini primari; del resto a Francescani, Domenicani e Agostiniani lo stesso Comune riconosceva elemosine (soprattutto in mattoni) eguali tra loro ma superiori rispetto a quelle concesse agli altri Ordini. I successivi inserimenti dei Serviti (S. Clemente in S. Maria dei Servi) e dei Carmelitani (S. Niccolò al Carmine) non modificarono sostanzialmente quello che può considerarsi uno dei più riusciti progetti di articolazione decentrata della monumentalità urbana, senza tuttavia rinunciare al senso dell'unità; e infatti la creazione dei nuovi poli non fece che rafforzare la centralità, arricchendo non tanto e non soltanto le vedute della città dall'esterno, ma anche e soprattutto gli accidentati e suggestivi paesaggi interni. In questo senso va valutata, per esempio, la svettante abside di S. Domenico che domina il paesaggio dalla città vecchia verso Valle Piatta.La piazza del Campo costituisce, nel suo complesso, la più originale realizzazione urbanistica senese, dove lo sforzo di integrazione tra l'architettura scenografica e monumentale del Palazzo Pubblico e lo spazio rappresentativo della vita cittadina raggiunge esiti di più alta qualità figurativa. Il grande invaso, creato nella seconda metà del Duecento attraverso una serie di espropri e demolizioni, occupa il declivio vallivo compreso tra il Palazzo Pubblico (rifatto in forme grandiose, sulla precedente dogana del Sale, fine sec. 13°-inizi 14°) e il grande asse di scorrimento costituito dalla via di Città e dalla via dei Banchi di Sotto, risultando comunque completamente isolato dalle correnti di traffico. La piazza doveva essere completamente definita nella sua forma elegantemente curvilinea già nel 1297, quando una rubrica statutaria ordinava di rispettare, nel costruire le case allineate sul nuovo limite dello spazio pubblico, la regola di aprire solo finestre 'a colonnelli' (bifore, trifore, polifore) e senza ballatoi.Se per la vastità (assi principali m 100 ´ 150 ca.) la piazza si qualifica come luogo deputato alle assemblee generali dei cittadini, essendo commisurata all'intera dimensione urbana, nella sua definizione formale essa si richiama al profilo del mantello della Vergine - la cui reliquia, conservata in S. Maria della Scala, veniva portata in battaglia issata sul carroccio - così come veniva rappresentato nell'arte senese del periodo. Si può quindi ragionevolmente pensare che il significato simbolico della piazza fosse connesso con la protezione della Vergine cui la città di S. era dedicata (Saena Civitas Virginis), e che aveva dato i suoi frutti nella celebrata vittoria di Montaperti (1260) sugli odiati Fiorentini. Il mantello, più tardi evoluto nel manto della Madonna della Misericordia che copre tutti i cittadini, protegge con il suo profilo acutamente disegnato non solo il Palazzo Pubblico, ma anche tutti coloro che, nelle occasioni pubbliche, riempiono lo spazio vuoto antistante: non solo dunque la civitas rappresentata dal suo monumento più importante, ma anche i cives. D'altra parte, la cura dedicata dai Senesi alla loro piazza - considerata la più bella del mondo - tra il sec. 14° e il 15° dimostra l'unicità e la perfezione estetica di questa impresa collettiva: il Campo, separato per mezzo di catene dal tessuto viario circostante, si arricchisce di ulteriori elementi artistici tipologicamente unici e destinati quindi a ribadirne e rafforzarne l'assoluta originalità: la Torre del Mangia (dal 1325), la Fonte Gaia (dal 1343, sbocco prestigioso del nuovo acquedotto comunale; rifatta nel 1419 da Jacopo della Quercia), la Cappella di Piazza (dal 1352; edificio votivo a seguito della peste del 1348), la pavimentazione a mattoni e pietra di impianto radiale, suddivisa in nove spicchi corrispondenti ai Nove del governo senese.Questa sorta di museo all'aperto, che ancora oggi conserva nonostante qualche manomissione gran parte del suo fascino, è già stato rappresentato nell'affresco con le allegorie e gli effetti del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, 1338-1340 (Siena, Palazzo Pubblico). Si tratta della veduta, dal palazzo, del lato verso monte della piazza, con estensione del panorama alla parte di città compresa tra il duomo e il palazzo Salimbeni: molti edifici monumentali sono perfettamente riconoscibili, e il Campo viene in tal modo consacrato come luogo privilegiato della più ricca ed elegante espressione della vita cittadina, consentita, appunto, dal buon governo.La questione delle mura senesi assunse una valenza dichiaratamente progettuale - svincolata cioè dai condizionamenti topografici e altimetrici - solo con la realizzazione dell'ultima cerchia (dal 1323-1326), che include i borghi e che si sviluppa in forme geometriche soprattutto verso S. Ma rimane aperta la possibilità che sia stato, in realtà, riutilizzato un progetto duecentesco: come avvenne in molte altre grandi città comunali, per es. a Bologna, nella prima metà del sec. 13° si programmò un nuovo circuito difensivo che nell'immediato venne costruito in legno e terra (palizzate, fossati, terrapieni), per essere poi tradotto in muratura un secolo più tardi. Nel caso di S., il documento del 1247 che descrive nuove mura nel settore meridionale sembra coincidere esattamente con il tracciato realizzato un'ottantina di anni dopo; è quindi molto probabile che lo slancio verso una nuova dimensione urbana e anche verso una più nitida forma geometrica del perimetro cittadino debba essere ricondotto al periodo federiciano, quando S., rigorosamente filoimperiale, e in un momento in cui Federico II aveva imposto la sua autorità perfino ai Fiorentini, poteva immaginare un deciso rinnovamento in chiave moderna della sua immagine. Comunque, la progettazione generale del 1326 prevedeva non solo la costruzione di nuove porte (porta Tufi, porta Giustizia, porta Romana o di S. Martino), ma anche l'edificazione del nuovo borgo di Santa Maria, ad andamento rettilineo, programmato tra la porta antica e la porta nuova di Val di Montone (o porta Giustizia). L'ambizione di creare nuovi modelli estetici in gara con le altre città è evidente in ciò che scrive di porta S. Martino il cronista Agnolo di Tura del Grasso: "grande e bella, di gran difitio più che porta che sia in Italia"; ma è tutta la precisa definizione architettonica delle mura che scendono a chiudere le valli e ostentano una loro cristallina poligonalità ad appartenere a una nuova sensibilità estetica che si fonda principalmente sulla geometria.I lavori alle mura subirono numerose interruzioni e sospensioni causate dalle crisi economiche e demografiche, ma anche dai diversi impegni di spesa assunti dal Comune nelle altre grandi imprese edilizie; molto a lungo restarono in funzione, come a San Gimignano, anche le cerchie interne più antiche, di cui naturalmente si tardava a smantellare le porte. Nel 1367 si avviò la costruzione del tratto di cortina tra la porta Laterina e la porta di Valle Piatta, mentre nel 1416 si compì l'ultima aggiunta all'area urbana, includendovi il complesso di S. Francesco: un riequilibrio necessario anche per completare, in direzione E, il controllo militare della principale arteria di attraversamento interno, la via Francigena.Un diverso esito avrebbe avuto la vicenda urbanistica senese se fosse stato possibile realizzare il Duomo Nuovo, imponente progetto portato avanti, in concorrenza con Firenze, tra il 1339 e il 1355. L'edificio - che avrebbe utilizzato come transetto la vecchia cattedrale rivolgendo verso S l'altissima facciata (che avrebbe dominato anche nella veduta del Palazzo Pubblico) - va interpretato come il tentativo vescovile di unificare nuovamente l'immagine urbana, dopo il consolidamento del centro comunale e l'articolazione periferica degli Ordini mendicanti. Il fallimento di questa impresa, imputato a difficoltà tecniche, ma causato dalla non sufficiente prevalenza del potere vescovile sulle altre componenti urbane, consentì poi di completare degnamente il vecchio duomo (1382) consolidandone, rispetto al polo comunale, la preziosa ricchezza artistica; lasciando però alla Torre del Mangia la funzione di riconoscibile segno dell'identità cittadina.
Bibl.:
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Letteratura critica. - L. Zdekauer, Le spese di selciatura e di riparazione della via di Malcucinato, Bullettino senese di storia patria 3, 1896, pp. 402-405; id., La vita pubblica dei Senesi nel Dugento, Siena 1897; F. Bargagli Petrucci, Le fonti di Siena e i loro acquedotti. Note storiche dalle origini fino al 1555, 2 voll., Siena 1906 (19742); R. Caggese, La repubblica di Siena e il suo contado nel sec. XIII, Bullettino senese di storia patria 13, 1906, pp. 3-120; V. Lusini, Note storiche sulla topografia di Siena nel secolo XIII, ivi, 28, 1921, pp. 239-341; G. Chierici, La casa senese ai tempi di Dante, ivi, pp. 343-380; G. Venerosi Pesciolini, La strada Francigena nel contado di Siena nei secoli XIII e XIV, La Diana 8, 1933, pp. 118-155; I. Imberciadori, Il catasto senese del 1316, Archivio Vittorio Scialoja 6, 1939, pp. 154-168; R. Rocchigiani, Urbanistica ed igiene negli Statuti senesi del XIII e XIV secolo, Studi senesi, s. III, 7, 1958, pp. 369-419; W. Braunfels, Mittelalterliche Stadtbaukunst in der Toskana, Berlin 19592 (1953); E. Guidoni, Il Campo di Siena, Quaderni dell'Istituto di storia dell'architettura, 1965, 71-72, pp. 1-52 (rist. Roma 1971); id., Arte e urbanistica in Toscana, 1000-1315, Roma 1970; P. Nardi, I borghi di San Donato e di S. Pietro a Ovile. ''Populi'', contrade e compagnie d'armi nella società senese dei secoli XI-XIII, Bullettino senese di storia patria 73-75, 1966-1968, pp. 7-59; T. Szabò, La rete stradale del comune di Siena. Legislazione statutaria e amministrazione comunale nel Duecento, MEFR 87, 1975, pp. 141-186; P. Cammarosano, V. Passeri, I castelli del Senese: strutture fortificate dell'area senese grossetana, Siena 1976, II, pp. 382-389; D. Balestracci, G. Piccinni, Siena nel Trecento. Assetto urbano e strutture edilizie, Firenze 1977; D. Balestracci, Approvvigionamento e distribuzione dei prodotti alimentari a Siena nell'epoca comunale. Mulini, mercati e botteghe, ArchMed 8, 1981, pp. 127-154; E. Guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, Roma-Bari 1981; L. Bortolotti, Siena, Roma-Bari 1982; Piazza del Campo. Evoluzione di una immagine. Documenti, vicende, ricostruzioni, a cura di L. Franchina, Siena 1983; A. Cairola, La torre del Mangia, Siena 1985; E. Guidoni, L. Pieroni, Talamone, Roma 1994; D. Balestracci, Il labirinto sotterraneo, in Storia di Siena, I, Dalle origini alla fine della Repubblica, a cura di R. Barzanti, G. Catoni, M. De Gregorio, Siena 1995, pp. 155-166.
La carenza di dati che caratterizza la storia più antica di S. emerge anche sotto il profilo architettonico, tanto che gli edifici medievali senesi più significativi si concentrano essenzialmente entro l'arco temporale che si colloca tra gli ultimi decenni del sec. 13° e la metà del successivo, segnato dal governo dei Nove (1287-1355).Le più antiche testimonianze architettoniche riscontrabili nel tessuto urbano di S. vanno pertanto ricercate in età romanica, ma subito emerge una contraddizione che è stata già messa in evidenza (Moretti, 1981; 1988-1989). Si tratta del fatto che, al contrario di ciò che accadde per altre città toscane (Lucca, Pisa, Firenze), alla ripresa economica, precoce perché stimolata dalla presenza della via Francigena, non fece riscontro un'adeguata fioritura di chiese.Nulla di certo è noto delle più antiche vicende della cattedrale senese e incerta appare la sua stessa ubicazione, che forse doveva trovarsi in Castelvecchio, ossia nel nucleo più antico della città. La deposizione del corpo di s. Crescenzio in una confessione dentro il duomo, nell'816, ha fatto supporre che fosse stata iniziata una nuova chiesa (Lusini, 1911, p. 6). Alcuni documenti informano che la facciata era rivolta verso l'od. via del Capitano e che era preceduta da un sacellum con il fonte battesimale, ancora esistente nel sec. 12° (Carli, 1979, p. 11). Non è noto quali caratteri avesse il duomo del sec. 9°-10°, tuttavia si è ritenuto che l'edificio fosse abbastanza consistente, in considerazione del fatto che nel 1058 vi si tenne il concilio che depose l'antipapa Benedetto X ed elesse Nicolò II (1058-1061). Si ipotizza (Carli, 1979), inoltre, che in questa circostanza sia stato maturato il proposito di costruire una nuova cattedrale, certamente più consona all'accresciuta importanza di Siena. Tuttavia, anche l'unico evento in grado di offrire un riferimento cronologico, cioè la solenne consacrazione del 18 novembre, non è provabile con certezza che sia avvenuta nel 1179, magari con il concorso del papa senese Alessandro III (1159-1181; Morandi, 1979; 1991; Marchetti, 1991; 1993). Stando alle attuali conoscenze è difficile stabilire se e quando, nel corso del sec. 12°, sia stata iniziata la costruzione della nuova cattedrale, tanto che da tempo si è messo in discussione se ciò sia avvenuto prima del Duecento (Toesca, 1921), cosicché viene da domandarsi a quale cattedrale dedicata a s. Maria si riferisca la descrizione del canonico Oderigo del 1215 (Ordo officiorum Ecclesiae Senensis; Siena, Bibl. Com. degli Intronati, G V 8).Mancando ogni sicuro riferimento alle strutture di una cattedrale più antica del sec. 13°, l'architettura romanica senese è rappresentata dai resti, peraltro assai modesti e cronologicamente tardi, di alcune chiese cittadine. L'unica tra queste che è noto aver avuto un impianto a tre navate era la chiesa del monastero dei Ss. Giacomo e Filippo - detto l'Abbadia Nuova e documentato dalla fine del sec. 12° -, dedicata a s. Chiara dal sec. 16° e distrutta per eventi bellici nel 1944. Dalla documentazione si deduce un edificio di non grandi dimensioni, spartito da pilastri e concluso da una scarsella quadrilatera che, insieme ai caratteri della semplice facciata (peraltro assai rimaneggiata tra i secc. 19° e 20°), mostrava di appartenere alla fase di transizione tra Romanico e Gotico.Le rimanenti chiese senesi, dove sono ancora leggibili strutture romaniche, ebbero tutte impianto a una navata e soltanto due di queste, S. Michele Arcangelo in Poggio San Donato e S. Cristoforo, si arricchirono di un transetto sporgente e di una cupola impostata sul capocroce e protetta esternamente da un tiburio. Nella prima, cui dovrebbe riferirsi una consacrazione nel 1147, tale schema icnografico, completato da una cripta di cui rimane traccia sotto il coro seicentesco, trova piena giustificazione nell'appartenenza dell'edificio, fin dall'origine, a un monastero vallombrosano. Nonostante le trasformazioni, si possono ancora leggere soluzioni costruttive di un certo interesse, come la copertura a botte, rinforzata da sottarchi, dei bracci del transetto (quello destro è parzialmente occupato dal campanile), mentre la navata dovette avere la struttura lignea del tetto sostenuta da archidiaframma impostati su semipilastri addossati alle pareti. Suggestioni lombarde traspaiono dalla massa quadrata del tiburio, che si trasforma poi in ottagono - in origine coronato da arcatelle intrecciate, ma rimaneggiato nella parte terminale -, posto a protezione di una cupola a spicchi, che si imposta su archi e su trombe rincassate, la cui originale policromia anticipava quella del duomo (Salmi, 1926, p. 19). La chiesa di S. Cristoforo, perduta la navata alla fine del sec. 18° (rifatta poi con facciata neoclassica), conserva solo la parte terminale, con l'abside semicircolare e i bracci del transetto. Ma la piccola cupola, posta sul capocroce e protetta esternamente da un tiburio ottagonale (ma con i lati di misure simmetricamente diverse), per analogie con la collegiata di S. Agata ad Asciano, fa apparire il complesso come opera ormai duecentesca.Meno caratterizzati sotto il profilo culturale appaiono i resti degli altri modesti edifici romanici religiosi. Il più completo e significativo di questi è la chiesa templare di S. Pietro alla Magione, presso porta Camollìa. Il suo impianto romanico, ancora perfettamente leggibile nell'unica navata conclusa da un'abside semicircolare, ebbe nella facciata l'insolita presenza di due portali gemini, tamponati quando furono sostituiti dall'unico portale trecentesco che ancora oggi dà accesso alla chiesa. Conserva l'impianto originale a navata unica absidata anche la chiesa di S. Andrea, pesantemente restaurata in stile. Le strutture che ancora si leggono sotto le trasformazioni tardocinquecentesche della chiesa dei Ss. Quirico e Giulitta indicano che la copertura lignea fu sostenuta da archidiaframma impostati su semipilastri con semicolonna addossati alle pareti laterali, soluzione costruttiva ispirata a usanze d'Oltralpe. Al periodo di transizione tra Romanico e Gotico è da riferire il campanile, interamente in cotto, della chiesa di S. Giorgio, che, con i suoi cinque ordini di aperture geminate, si è ritenuto potesse preludere a quello della pieve di S. Maria ad Arezzo (Salmi, 1926, pp. 62-63, n. 75). Una semplice impostazione di ricordo romanico presenta la facciata della chiesa di S. Pietro Ovile, assai restaurata, e altrettanto si può dire per S. Leonardo al Montone, che appartenne a un ospedale gerosolimitano, ma dove i rifacimenti appaiono ancor più radicali.Riconducibili alla cultura romanica sono anche le più antiche testimonianze dell'architettura civile, le torri, la cui cronologia spazia tra il sec. 11° e la metà del 13° e che per altezza (nessuna mantiene quella originale) e per numero - Pecci (Delle torri esistenti in Siena) ne ricordava cinquantasei, ma erano certamente molto più numerose - costituirono una nota dominante del paesaggio urbano (Rohault de Fleury, 1873, tavv. 2-3, 5). Si tratta di robuste costruzioni, di solito a pianta quadrata e con muri di consistente spessore, le più arcaiche delle quali, con caratteri marcatamente difensivi, presentano poche e piccole aperture, poste a livelli elevati: torri dei Forteguerri, dei Ballati, di S. Ansano, dei Montanini. Il loro arredo architettonico è ridotto all'essenziale, essendo prive di cornici marcapiano e di ogni altro elemento decorativo, ma in qualche caso rimangono tracce delle strutture di appoggio di ballatoi lignei, costituite da mensoloni di pietra.L'avvio della grande stagione gotica di S. è di certo da collegare per molti spunti alla presenza, nella campagna senese, dell'abbazia cistercense di San Galgano, la cui costruzione iniziò nel terzo decennio del Duecento, sebbene i suoi rapporti artistici con la città non siano ancora del tutto chiari. Certamente, dopo la metà del sec. 13° i conversi cistercensi subentrarono agli operai laici nel cantiere del duomo, a partire da fra Vernaccio, operaio nel 1258.Il duomo di S., alla cui ideazione non sembrerebbe estraneo Nicola Pisano, è stato definito "la prima cattedrale gotica su territorio italiano" (Middeldorf-Kosegarten, 1984, trad. it. p. 13), ma si tratta di un complesso (Duomo Vecchio, Duomo Nuovo, battistero di S. Giovanni Battista) che, così com'è giunto, risulta il frutto di interventi, non sempre coerenti, che si sono succeduti dai primi decenni del 13° agli ultimi del 14° secolo. La studiosa tedesca, nel suo lavoro relativo all'eccezionale apparato plastico dei capitelli del Duomo Vecchio, giungendo a una precisa definizione cronologica dei vari episodi che lo compongono, offre anche un contributo per fissare le tappe costruttive del monumento, che risulterebbe così una costruzione interamente gotica. La parte più antica appare essere l'esagono della cupola, iniziato intorno al 1250 e completato prima del 1263, mentre i capitelli del corpo della chiesa risultano collocabili nei decenni successivi, fino al 1280-1290 ca. (prima campata e controfacciata). Intanto, nel 1285, assieme alla sistemazione dello spazio antistante, si cominciò a sostituire la precedente facciata 'semplice' con quella attuale, opera per la quale Giovanni Pisano ottenne la cittadinanza e l'immunità, ma che condusse solo nella parte inferiore. La zona superiore viene comunemente attribuita a Giovanni di Cecco e assegnata alla seconda metà del sec. 14°, ma recentemente è stato proposto di anticipare la datazione entro il 1317, insieme al rialzamento della navata centrale (Middeldorf-Kosegarten, 1984, trad. it. pp. 45-55). Nel 1317 maturava l'idea di un ampliamento del transetto e di una prosecuzione del duomo verso Valle Piatta, ma gli interventi che ne scaturirono fecero nascere non pochi problemi, soprattutto di ordine statico, tanto che nel 1322 una commissione, di cui faceva parte Lorenzo Maitani (allora capomastro del duomo di Orvieto), oltre a Niccolò di Nuto e ai fiorentini Cino di Francesco, Tone di Giovanni e Vanni di Cione, giunse alla conclusione che era più opportuno realizzare una nuova chiesa pulcra, magnia et magnifica (Milanesi, 1854, nr. 35), gettando così le premesse per il futuro Duomo Nuovo. Soltanto con il fallimento dell'impresa di questo, dopo la metà del sec. 14°, si tornò a lavorare al Duomo Vecchio, completando l'ampliamento del transetto e la copertura delle volte del coro sopra il battistero.L'impianto, a croce latina, è a tre navate, come il coro aggiunto successivamente e il transetto (di forma più complessa di quella originale, a seguito degli ampliamenti), con cupola impostata sul primitivo capocroce; tuttavia, l'esagono su cui si basa (come si avverte in pianta) si raccorda male con lo schema della chiesa, dando l'impressione di un ripensamento o di una soluzione di ripiego. Il campanile, inserito al termine della navata destra, per la sua posizione irregolare denuncia che fu utilizzata in parte una struttura preesistente (torre dei Bisdomini); la sua esecuzione, che sembra posteriore a quella della cupola, presenta un'impostazione romanica, alleggerita dal tipo delle aperture, gradatamente più ampie verso la sommità coronata da una cuspide ottagonale. Tutto il complesso presenta un rivestimento marmoreo a bande bianche e nere - che riflette il motivo cromatico della balzana, lo stemma di S. -, la cui diversa composizione è uno degli indici più evidenti, all'interno come all'esterno, delle fasi costruttive del monumento. Comuni a tutte le parti di questo, compresi i resti del Duomo Nuovo, sono l'uso dell'arco a tutto sesto e la forma dei pilastri, a sezione quadrata con semicolonne addossate; fanno eccezione i sei pilastri che sorreggono il tamburo della cupola, di maggior sezione e di composizione più complessa. L'impostazione della cupola è attuata secondo la tradizione romanica: al di sopra degli arconi dell'impianto esagonale il numero dei lati viene raddoppiato mediante pennacchi e trombe angolari, cosicché i dodici spicchi della volta danno l'impressione di una forma semisferica, sensazione accentuata dalla successiva decorazione a finti lacunari. E anche la loggetta esterna che fascia il tamburo della cupola appare chiaramente ispirata al policromo chiostro romanico dell'abbazia della SS. Trinità e di S. Mustiola di Torri presso Sovicille. La copertura della chiesa è interamente ottenuta con volte a crociera (prevista e in parte attuata anche nel Duomo Nuovo), ma la parte più antica della costruzione, quella compresa tra la facciata e la cupola (questa oggi appare all'esterno 'affogata' tra la navata e il coro), poteva avere un diverso sistema di copertura, per es. con archi-diaframma impostati a livello della cornice longitudinale (quella che poi avrebbe ricevuto i busti dei papi), a sostegno della struttura lignea del tetto. Tra gli elementi che appaiono più coerenti con la cultura gotica sono da annoverare i grandi finestroni, specialmente quelli trifori aperti sulla parete di sopraelevazione della navata centrale e del coro, il cui arco presenta un'ogiva fortemente accentuata, nella foggia della quale è palese il riferimento a San Galgano. Anche la facciata, tricuspidata, esprime un forte senso gotico, ma, nel complesso, essa appare un elemento relativamente autonomo e costituisce un episodio dove il valore della decorazione plastica sovrasta nettamente il partito architettonico, che, per essere stato attuato in due tempi diversi, denuncia un'accentuata anomalia.Nel 1296 il governo dei Nove deliberava la costruzione di un nuovo battistero, che tuttavia si doveva realizzare presso il sito di quello vecchio, dando l'incarico a Giovanni Pisano. L'ampliamento del duomo verso Valle Piatta, iniziato nel 1317, fece optare per una sistemazione del battistero nella sottostruttura che, a mo' di cripta, si rendeva necessaria per compensare il forte scoscendimento del terreno. I lavori, tradizionalmente attribuiti a Camaino di Crescentino, dettero vita a una vasta sala rettangolare, coperta con volte ogivali a crociera, spartita da due grossi pilastri in tre navate di due campate; una grande nicchia semiesagonale fu aperta nella parete di fondo, per ospitare l'altare. La facciata, della quale si conserva un disegno su pergamena (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana; Carli, 1979, p. 25), condotta fino a lambire il grande occhio del coro, pur essendo rimasta incompiuta, costituisce uno degli esempi formalmente più compiuti dell'architettura gotica senese. Contenuta da forti risalti angolari, è spartita da due pilastri più leggeri in tre campate, nelle quali si aprono altrettanti portali fortemente strombati, come le sovrastanti finestre bifore (quella centrale richiusa nel sec. 16°) poste sopra una galleria di arcatelle pensili.La costruzione del Duomo Nuovo fu deliberata nel 1339 e iniziò sotto la direzione di Lando di Pietro, subito sostituito da Giovanni d'Agostino. Due piante su pergamena (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana; Carli, 1979, pp. 22-23), seppur diverse (in una è prevista una terminazione con deambulatorio e cappelle radiali), indicano chiaramente che il Duomo Vecchio doveva diventare il transetto della nuova grande chiesa, il cui corpo veniva a svilupparsi nel piano dei Manetti (o di S. Maria) fino alla facciata rimasta incompiuta (il 'facciatone'). La peste del 1348, che falcidiò fortemente la popolazione di S., ma soprattutto le gravi e irrimediabili deficienze tecniche - come l'esiguità dei pilastri chiamati a reggere grandissime arcate, per giunta a tutto sesto -, causa anche di crolli, portarono alla decisione del 1357 di sospendere definitivamente i lavori e demolire le parti pericolanti. La grande piazza, che oggi occupa lo spazio della navata centrale e di quella sinistra, dà un'idea eloquente della grandiosità dell'edificio progettato, del quale oggi rimane la navata destra, dove si apre il portale di Giovanni d'Agostino (1345) sulla scalinata che conduce al battistero.A testimoniare la dimensione urbana raggiunta da S. tra Duecento e Trecento concorrono anche le grandi chiese degli Ordini mendicanti, costruite con ampio e documentato contributo del Comune (Statuti del 1262 e del 1309-1310), che in pratica rappresentano gli unici episodi di architettura gotica religiosa. Le chiese mendicanti, che, date le dimensioni in rapporto all'orografia della città, richiesero in certi casi (S. Domenico, S. Francesco, S. Agostino) la presenza di una sottostruttura nella parte terminale, a mo' di cripta, ebbero tutte il semplice impianto a navata unica, coperta a capriate e illuminata da finestroni ogivali, innestata in un vasto transetto con coro e un numero variabile di cappelle a esso simmetricamente affiancate (uniche parti con volte a crociera), fatta eccezione per la chiesa di S. Niccolò al Carmine, conclusa semplicemente dal coro. Completamente realizzate in cotto, ebbero l'apparato decorativo ridotto all'essenziale: le cornici terminali costituite da filari alternati di mattoni per piano e per punta, le ghiere disposte intorno agli archi di finestre e portali, incise con motivi geometrici.La più significativa delle chiese mendicanti senesi è quella di S. Domenico, che scaturisce dall'ampliamento - iniziato verso la metà del Trecento - di un edificio che i Domenicani avevano realizzato nel secolo precedente sul poggio di Camporegio. L'esterno della tribuna, con la presenza di contrafforti angolari sulla linea di separazione delle cappelle (tre per parte), per contenere la spinta delle volte, denuncia chiaramente la derivazione dall'abbaziale di San Galgano e l'analogia si spinge fino alla ripetizione dello schema delle aperture nella parete terminale del coro.Altrettanto si può dire per la chiesa di S. Francesco, anche in questo caso ottenuta dal rinnovamento, a partire dal 1326, di un edificio duecentesco, forse quello raffigurato da Sano di Pietro nella Predica di s. Bernardino, conservata nella sala capitolare del duomo. Il transetto, i cui bracci si raccordano alla navata con ampie arcate, e che qui giunge a contenere ben otto cappelle, oltre a un grande coro quadrilatero, dimostra di essere più tardo e compiuto rispetto a quello domenicano (le cappelle furono terminate verso lo scadere del Trecento e la chiesa completata solo nel secolo successivo), ma evidente ne è la derivazione cistercense.La chiesa di S. Agostino, il cui interno fu rinnovato dopo l'incendio del 1747, riprende lo schema delle due maggiori chiese mendicanti di S., seppure con uno sviluppo più limitato del transetto, essendo il coro affiancato da due sole cappelle per parte. La sua costruzione era stata iniziata subito dopo la metà del Duecento e dovette durare a lungo, ma è all'inizio del sec. 15° che fu dato l'avvio alla realizzazione del transetto e del coro proteso verso la valle. In questa chiesa il transetto, raccordato alla navata da una grande arcata (come nel S. Domenico), dovette avere nella sua primitiva versione un'insolita copertura voltata (Die Kirchen von Siena, 1985, I, 3, tav. 7).Anche la chiesa di S. Maria dei Servi, nella redazione precedente all'attuale, che è attestata dai resti della facciata e che si stava costruendo subito dopo la metà del Duecento, dovette avere un impianto simile alle chiese mendicanti senesi già ricordate, sia pure di dimensioni più contenute (Lusini, 1908, pp. 4-5). Ma già nel primo Trecento si iniziava il rinnovamento della chiesa, che durò un paio di secoli e si concluse dando al corpo dell'edificio un impianto basilicale con cappelle lungo le pareti e caratteri rinascimentali. Il transetto è però di stampo gotico, aspetto questo accentuato dalla conclusione poligonale della cappella del coro, delle altre che lo affiancano (due per parte) e di quelle poste sulle testate dei bracci (una per parte). La terminazione poligonale delle cappelle è abbastanza insolita nelle chiese mendicanti toscane (Lucignano, S. Francesco) o sporadicamente limitata alla sola cappella del coro (Firenze, Santa Croce), mentre sembra avere una certa diffusione in Umbria.Più piccola delle altre chiese mendicanti, quella di S. Niccolò al Carmine, anch'essa due-trecentesca (interno rifatto in età moderna), appartiene alla tipologia più semplice della navata unica coperta a capriate e conclusa da un coro con volte a crociera.Per quanto concerne l'edilizia civile, il sec. 13° vide anche a S. il passaggio dalle torri a un tipo di dimora che doveva assolvere al tempo stesso il compito di abitazione e di luogo di lavoro, comunemente detta casa-torre. Si tratta di edifici di notevole sviluppo verticale (minimo due piani oltre a quello terreno), almeno in rapporto all'ampiezza della facciata che, nella maggior parte dei casi, appare limitata a due campate. Al piano terreno le ampie aperture, in genere a sesto acuto, sono sostenute da pilastri, mentre ai piani superiori si aprono grandi bifore, anch'esse di forma ogivale, più raramente monofore con arco a tutto sesto o a sesto ribassato. Molte case del genere si vedono nella parte più centrale della città, leggibili anche sotto gli interventi di età moderna: se ne segnalano alcuni esempi in via Stalloreggi nrr. 14-16, via del Porrione nrr. 61-63 e via di Città nrr. 113-115, ma in altri casi, come nel vicolo Magalotti nr. 4 o in via Stalloreggi nrr. 18-20, i due portali presentano dimensioni diverse, essendo il maggiore destinato alla bottega e il minore all'accesso dell'abitazione (Gabbrielli, 1995, p. 310). Pur mancando dati complessivi sulla sua reale diffusione in città, è interessante constatare che a S. questo tipo di edilizia residenziale - che sembrerebbe destinata a ceti intermedi - presenta un tipo di arredo architettonico (uso del cotto, tipologia delle aperture dei portali e delle finestre bifore, decorazione delle ghiere degli archi) per niente inferiore a quello dei maggiori palazzi, che forse anticipa.Abbastanza episodici sono alcuni edifici nella zona di Camollìa, come il palazzo Bandinelli, ritenuto del 1218 ca. (De Vecchi, 1949, pp. 4-5), che appaiono ispirati al modello della casa-torre pisana, essendo impostati su un'intelaiatura di pilastri di pietra, sia pure limitatamente ai piani inferiori. A questo schema appare riconducibile anche il palazzo Rinuccini (Gabbrielli, 1995, p. 310), forse uno dei più antichi della città, originariamente su tre livelli (Chierici, 1921, tav. III) e sviluppato in orizzontale su cinque campate. Alle altissime aperture del piano terreno, a sesto acuto e interrotte a metà da un arco a sbarra, seguivano due piani (l'ultimo realizzato in cotto) aperti ciascuno da tre ampie trifore (oggi prive della suddivisione delle luci), alternate da due più strette aperture, estese fino al livello del pavimento per dare accesso ai ballatoi lignei, coperti ognuno da una tettoia, anch'essa sostenuta da strutture lignee.Nell'edilizia civile senese un posto particolare è occupato dal palazzo Tolomei, sia per i suoi caratteri di originalità sia perché costituisce una sorta di spartiacque cronologico. L'aspetto attuale del palazzo, a parte le trasformazioni subìte e i restauri, è il frutto dei rifacimenti operati a seguito della distruzione ghibellina (1267) e iniziati subito dopo il 1270, quando si affermò a S. il partito guelfo cui appartenevano i Tolomei. A parte il problema dei resti delle strutture primitive - individuabili forse nelle parti posteriori, sulla via dei Termini -, il prospetto del palazzo, in pietra, annuncia una solida massa, accentuata dall'alta fascia basamentale, con un ampio portale affiancato da due minori, ma alleggerita ai piani superiori da cinque ampie bifore. Queste, illeggiadrite da una ricca ornamentazione nell'apparato di spartizione delle luci, presentano il motivo, unico a S. e di derivazione francese, costituito dalle due colonnine che si affiancano agli stipiti. L'arredo architettonico, nei suoi aspetti formali e decorativi (in particolare il portale principale), più che in ogni altro edificio civile senese mostra collegamenti con l'edilizia religiosa, in particolare con le chiese monastiche di San Galgano e della SS. Trinità e S. Mustiola di Torri. Va poi osservato che in alcuni archi acuti del palazzo Tolomei entra in uso quella foggia 'equilatera' che si affermò a S. tra Duecento e Trecento; anche il motivo della cornice continua a livello di davanzali e di imposta degli archi divenne poi una costante dei grandi palazzi senesi (Gabbrielli, 1995, pp. 318-322).Un altro importante edificio civile, almeno in parte databile e coevo a quello ricordato, è il palazzo del Rettore dello Spedale di S. Maria della Scala, nelle cui finestre bifore in cotto (ma anche in quelle del successivo ampliamento del 1290), sebbene con arco acuto 'compresso', si può già ravvisare la stessa morfologia di quelle del Palazzo Pubblico. Sostanzialmente simili sono anche le finestre, anch'esse in laterizio, della casa dei Gettatelli, costruita nel 1298.Un palazzo che più di ogni altro rappresenta la tipologia edilizia affermatasi a S. allo scadere del sec. 13° è il palazzo Lombardi, conservatosi alterato, ma senza quei rifacimenti ottocenteschi in stile subìti dai principali edifici privati. In esso sono presenti, si può dire, tutti gli elementi che contraddistinguono l'architettura senese dell'epoca, dalla parte basamentale in pietra ai livelli superiori in cotto, dalle finestre - una volta trifore - all'uso delle doppie cornici, al coronamento con arcatelle pensili ricassate e appoggiate su mensole a forma di piramide rovescia, una sorta di finto (data la poca profondità) apparato a sporgere sormontato da una merlatura (scomparsa nel caso in questione). Questo tipo di terminazione (Chierici, 1921, p. 369) divenne una costante delle architetture civili senesi, private e pubbliche, comprese anche le strutture più marcatamente difensive.L'analogia di palazzo Lombardi con la parte centrale del Palazzo Pubblico è così evidente da poter dire che in questo edificio, la cui prima fase costruttiva cade tra il 1298 e il 1310, si tese deliberatamente a riflettere e codificare tutti gli stilemi apparsi nell'edilizia cittadina, cosicché esso venisse "riconosciuto dalla cittadinanza tutta come luogo veramente pubblico" (Gabbrielli, 1995, p. 326). Il corpo centrale ebbe quattro campate e si distingue dai coevi palazzi privati per la presenza del quarto piano, dove si aprono solo due bifore a tutto sesto, cui fa riscontro nella parte posteriore una grande altana. In corrispondenza di questa parte del palazzo si trovano ai vari livelli le principali sale e la cappella. Le due ali che completano il palazzo, di tre campate ciascuna e con aperture e finestre analoghe a quelle del nucleo centrale - anche se un'analisi attenta può rivelare diversità costruttive (Gabbrielli, 1996) -, furono in origine limitate a un solo piano sopra quello terreno, come indica chiaramente la posizione del ricorso di arcatelle pensili che segnò il coronamento prima del rialzamento 'in stile' dei due corpi, nell'ultimo quarto del 17° secolo. Delle due ali, la prima a essere realizzata fu quella di destra (palazzo dei Nove), che sembra essere più o meno contemporanea al torrione, mentre quella di sinistra (palazzo del Podestà) rientrerebbe nella fase dei lavori iniziata nel 1325 con la fondazione della Torre del Mangia e l'impostazione di altre due campate, una delle quali venne poi nascosta dalla Cappella di Piazza, la cui costruzione fu deliberata nel 1352 e che, iniziata da Domenico di Agostino, venne terminata da Antonio Federighi con caratteri rinascimentali. Tutte le parti dell'edificio ebbero in alto il finto apparato a sporgere sostenuto da arcatelle su mensolette a piramide rovescia e sormontato da merli, che furono simbolicamente nove sul torrione centrale. Vari furono gli 'operai' del palazzo di cui rimane memoria del nome, a partire da quel Conte di Rifredo, ricordato nel 1298 (Siena, Arch. di Stato, Biccherna, 114, cc. 162v, 179r, 184v). All'ala sinistra, dove si apre il cortile, fu aggiunto un altro grande corpo di fabbrica allo scopo di ospitare i famigli del podestà, le prigioni e il salone del Gran Consiglio, trasformato in teatro nella seconda metà del 16° secolo. Nel 1325, in occasione della seconda fase dei lavori, fu iniziata anche la Torre del Mangia, alta m 87 e realizzata in cotto fino al coronamento sporgente, con la cella campanaria in travertino, attribuita ad Agostino di Giovanni, forse su disegno di Lippo Memmi.Certo è che se il Palazzo Pubblico compendiò i caratteri dell'architettura civile di S. a cavallo tra Duecento e Trecento, a sua volta esso divenne consapevolezza di un modello (le finestre che "si debiano fare a colonnelli"; Il Costituto, 1903, II, p. 29) che veniva imposto agli edifici del Campo, considerato dai Senesi la piazza "che è la più bela che si truovi" (Siena, Arch. di Stato, Concistoro, 2111, c. 197r; Braunfels, 19592, p. 254), e al quale si ispirarono i grandi palazzi magnatizi costruiti in seguito. Ciò si avverte soprattutto in quegli edifici che, seppur alterati, permettono ancora una buona lettura dei caratteri originali, come nella facciata del palazzo Sansedoni in via dei Banchi di Sotto, per la quale si conserva un eccezionale documento del 1340 (Toker, 1985).
Sorvolando sullo Spedale di S. Maria della Scala, una delle maggiori istituzioni del suo genere a livello europeo, le cui integrazioni durante un uso secolare ne fanno forse più un episodio urbanistico che architettonico, altri edifici pubblici si evidenziano a S.: le fonti, di costruzione prevalentemente duecentesca e che qui assumono connotati di grande monumentalità. Per il suo approvvigionamento idrico, la città fu dotata di uno dei più complessi e funzionali sistemi di canali sotterranei ('bottini') realizzati durante il Medioevo, il cui ramo principale giunse ad alimentare la grande fontana sul Campo, la Fonte Gaia, che venne rinnovata da Jacopo della Quercia nel secondo decennio del Quattrocento. Alcune delle maggiori fonti di S. (Branda, Nuova, d'Ovile, di Follonica, di Pescaia) ebbero una struttura architettonica a protezione delle vasche, costituita da un loggiato quadrilatero, con volte impostate su due o tre arcate a sesto acuto o a tutto sesto (Fonte di Pescaia), aperte sulla fronte principale, talora di grande eleganza formale (Fonte Nuova) da ricordare modelli cistercensi; in qualche caso l'edifico si conclude alla sommità con il solito ricorso di arcatelle pensili e merlatura, come nella più grande e forse più antica Fonte Branda (seppure con interventi di varie epoche) e nella Fonte di Pescaia, successivamente sopraelevata.Le mura che ancora racchiudono S. quasi per intero si configurano come il prodotto di addizioni avvenute tra la seconda metà del sec. 12° e il 15°, quando venne inglobato entro il perimetro murato il grande complesso francescano. Caratterizzate dal colore dei mattoni di cui sono realizzate, non appaiono fortemente munite, dato il numero ridotto di torri, ma i resti di un apparato a sporgere interno indicano la presenza di un cammino di ronda che doveva essere riparato da una merlatura. Per la maggior parte le porte (Camollìa, Fontebranda, Laterina, S. Marco, Tufi; quelle murate di Campansi, della Giustizia, di Monteguaitano) erano aperte nella cortina e per questo furono dotate di caditoie come se ne vedono ancora sopra la porta Tufi; ma la porta S. Marco ebbe una struttura quasi a torre e la porta Camollìa (oggi con caratteri seicenteschi) fu dotata dell'Antiporto, lungo varie centinaia di metri, con una grande porta ancora esistente. Le porte Romana, Pispini e Ovile ebbero una monumentale struttura a torre preceduta da un'antiporta, ma l'arredo architettonico appare molto restaurato, seppure fedele ai canoni originali.L'architettura delle fortificazioni senesi - e ciò vale anche per il contado - fu sempre attenta agli aspetti formali e decorativi: dalle cornici dei fornici (porta Tufi), alle edicole con affreschi (porta Romana, porta Pispini), agli inserti cromatici della pietra alternata al cotto (porta di Campansi, porta S. Marco). Soprattutto si pone in evidenza quel tipo di coronamento ad arcatelle pensili a sostegno delle murature, con ricorsi di mattoni messi di testa, che interessa edifici pubblici e privati e che è il segno che maggiormente distingue l'architettura civile di Siena.
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Il relativamente scarso rilievo dello stanziamento urbano di S. fino al pieno periodo romanico e la ben maggiore fortuna goduta dalla città nei secoli successivi hanno comportato l'esiguo numero di costruzioni monumentali, e dunque di apparati decorativi scolpiti, presenti dall'origine, e la scomparsa o ricostruzione di molti di essi, talché oggi sono in sostanza poco più di una decina gli episodi emergenti di scultura anteriori al periodo gotico in città e nel suburbio.Frammenti scolpiti della cattedrale, resi noti da Lusini (1911), ma rimasti peraltro sostanzialmente inindagati (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), provengono dagli edifici annessi alla chiesa episcopale, ricostruita nel sec. 12° e consacrata forse nel 1179; essi sembrano però in parte risalire all'antecedente costruzione altomedievale, che venne edificata in età carolingia e in seguito modificata, ma di cui si ignora finanche l'esatta posizione, sull'od. piazza o al di sotto della cattedrale gotica, che occupa il luogo della costruzione romanica (Carli, 1979). Tra queste sculture più antiche, va ricordato un capitello a cubo smussato con foglie frontali e angolari e alto collarino a intrecci. Ulteriori frammenti scolpiti, perlopiù rilievi (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), sono in accordo con la plastica comune in Toscana meridionale, fino al Duecento, pervicacemente attaccata a modelli toscano-lombardi diffusi sin dal tardo sec. 11°, a piatte raffigurazioni fito-zoomorfe dalla grafizzante e semplificata interpretazione. Semplici capitelli sono presenti in alcune costruzioni romaniche in città e negli immediati dintorni, nel primo caso nelle chiese di S. Donato, Ss. Quirico e Giulitta e nel chiostro di S. Cristoforo (Moretti, Stopani, 1981), nel secondo nell'abbaziale dei Ss. Salvatore e Cirino a Badia a Isola, con capitelli a cubo smussato con foglie lisce, oltre a uno figurato con oranti, mentre la scultura dell'ex pieve di S. Giovanni Battista a Fogliano ripropone in pratica motivi tratti dal non ancora superato vocabolario iconografico altomedievale, con piatti elementi vegetali, girali e nastri. Similmente arcaizzante è l'architrave del portale dell'ex chiesa di S. Desiderio, come pure quello della pieve di S. Lorenzo a Sovicille, dal rilievo schiacciato con un piccolo arciere che trafigge un drago, opera del primo 12° secolo. Più evolute si mostrano le piatte figure umane a intense rigature su un capitello della pieve di S. Giovanni Battista a Ponte allo Spino, chiesa peraltro architettonicamente di avanzata concezione tardoromanica, della seconda metà del secolo. Precoci influenze borgognone, unite a un più evidente classicismo pisano, arricchiscono la cultura lombarda degli artisti attivi alla Badia Berardenga, eretta negli stessi decenni. L'abbazia di Torri mostra un chiostro a paramento bicromo, poi rialzato su più livelli, dove pure sono evidenti le collaborazioni tra scultori di matrice lombarda e altri di educazione pisana, e che rimane tra le opere più notevoli del Romanico senese.La situazione cambia profondamente solo nel pieno Duecento: scultori di cultura tradizionale sono ancora attivi nei capitelli dei primi sostegni realizzati per la cattedrale, la cui ricostruzione ebbe forse inizio intorno al 1245 (Carli, 1979; Van der Ploeg, 1993), tanto da aver fatto pensare a una diversa e precedente fase edificatoria (Salmi, 1928). Ma subito, nel procedere dei lavori, emerse l'opera di maestranze di complessa cultura, aggiornata sui prototipi cistercensi che negli stessi decenni venivano offerti dall'abbaziale di San Galgano, da cui provenivano gli amministratori dell'Opera del duomo, e legata da inconfutabili indizi stilistici, iconografici e, meno sicuramente, documentari, alla figura di Nicola Pisano e alla sua scuola. È più che probabile che egli sia stato attivo alla direzione della ricostruzione dell'edificio sin dalle sue prime fasi e in ogni caso al più tardi subito dopo la metà del secolo, come proverebbero in particolare l'altissima qualità e la novità delle teste-mensola della cupola (Bagnoli, 1981; Cristiani Testi, 1986), risalenti al 1260 ca., in chiaro rapporto con esperienze federiciane di poco pregresse nella piena concezione volumetrica, nel naturalismo formale ed espressivo, negli stessi temi raffigurati, in parte di ricordo classico, oltre che preannuncianti, nello stile, le figure dei pulpiti nicoliani. La cupola è cinta da una loggia con capitelli a caulicoli di immediata derivazione cistercense, degli stessi anni. L'opera della decorazione architettonica del corpo delle navate della stessa cattedrale mostra di avere progredito più lentamente attraverso il terzo quarto del Duecento e oltre, e di essere frutto del lavoro collettivo di una nutrita bottega, capitanata verosimilmente dallo stesso artefice pisano, che può certo avere compreso in un primo tempo Arnolfo di Cambio e il giovane Giovanni Pisano tra gli altri, ma di cui resta ardua se non impossibile una suddivisione per mani - pure in passato tentata (Carli, 1941; 1979) - che potrebbe oltretutto non corrispondere alle modalità operative del cantiere: è infatti possibile che gli stessi elementi siano stati lavorati per fasi successive da differenti artefici. La scuola di Nicola Pisano deve avere parallelamente eseguito la recinzione presbiteriale della basilica, da collegare allo splendido pergamo autografo completato nel 1268, nonché un disfatto pulpito per la pieve di S. Giovanni Battista a Ponte allo Spino, nella Montagnola senese (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), e le sculture del fianco della vicina abbaziale di S. Mustiola a Torri (Garzelli, 1966-1967; 1969). La derivazione cistercense dei capitelli del duomo, frutto dei rapporti con San Galgano, non implica peraltro l'identità degli esecutori: simili iconografie sono risolte nella maggior parte dei casi con differenti rese formali, più secche e rigorose nell'abbaziale, più libere e meno omogenee da un punto di vista tanto interpretativo quanto anche iconografico e finanche qualitativo nella cattedrale senese.A partire dal 1285 va situata l'opera di Giovanni Pisano (v.) alla facciata, che comportò anche il riadattamento della prima campata della chiesa. Lasciata incompiuta nel 1297, al momento della sua improvvisa partenza - in seguito a contestazioni e a una inchiesta sui ritardi e la disorganizzazione dei lavori -, la metà inferiore della facciata costituisce purtuttavia, anche dal punto di vista scultoreo, un fondamentale testo del Gotico italiano e dovette essere riconosciuta dallo stesso geniale artefice come il proprio capolavoro, tanto che egli volle essere sepolto alla sua base. Sebbene il programma iconografico non sia oggi ricostruibile con certezza, stanti i completamenti successivi, i cambiamenti e le sostituzioni, già allo stesso livello delle sculture dei portali, con timpani e lunette ora ben lontani dall'originaria concezione, si può dire che una potente e complessa illustrazione della Glorificazione della Vergine, cui la cattedrale è dedicata, dovesse dispiegarsi per tutta la grande pagina scolpita della facciata. La nobile autorevolezza dei patriarchi e l'annuncio corale di profeti e sibille che sorgono liberi nei punti nodali della struttura architettonica proclamando con vigore i propri vaticini, statue i cui originali sono oggi al Mus. dell'Opera della Metropolitana, dovevano porre le basi per una raffigurazione centrale della Vergine con il Bambino in trono tra angeli e santi, parte sostanziale del programma, che Giovanni mai portò a termine. Dopo la sua uscita di scena, le sculture del duomo furono condotte innanzi dal capomaestro Camaino di Crescentino, che resse l'opera per decenni fin oltre il primo terzo del Trecento, e da una lunga serie di scultori, in parte di educazione pisanesca, di cui è pure estremamente difficoltoso isolare i singoli contributi e ancor più associare nomi a opere. Emergono ciò nonostante con relativa chiarezza differenti tendenze stilistiche: da un lato una più fedele interpretazione giovannesca, dinamicamente espressiva, delle figure, ma senza la grandiosa drammaticità del maestro, evidente soprattutto nelle statue di apostoli e santi (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana) destinate in origine probabilmente ai livelli superiori della facciata, cui è forse da associare il nome del successore di Giovanni, Camaino, padre di Tino; dall'altra una sempre più forte tendenza pittoricistica, in deciso contrasto con lo stile pisanesco, con figure dalle levigate superfici, dai morbidissimi tratti e netti panneggi, come già quelle dell'architrave del portale centrale, probabilmente notevole 'opera prima' di Tino di Camaino (v.), e più le teste umane e leonine sul lato interno dei portali laterali, disputate tra Gano da S. e Marco Romano.A questa generazione di artisti vanno riportate altre sculture di sorprendente modernità, come i rilievi di S. Francesco con la raffigurazione del rito di consacrazione del sepolcreto dello stesso convento, del 1298, e due storie del santo, opere preannuncianti, nella elegante libertà compositiva, nei morbidi e sinuosi grafismi, modernamente gotici, e nella efficace resa naturalistica e luministica, l'opera orvietana degli artisti senesi, e in specie di Lorenzo Maitani, il verosimile Maestro Sottile, che proprio in questi anni in patria si dovette formare.Il livello superiore delle sculture della facciata del duomo, e in particolare le statue della Madonna e dei santi dall'area intorno al rosone (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), per il solito ritenute risalire al Trecento avanzato, sono state riportate (Middeldorf-Kosegarten, 1984) ai primi anni del secolo, ma sono forse da situarsi nei due decenni successivi, periodo in cui il settore inferiore era sicuramente completato e si rialzava con nuove volte e finestre, subito citate nella Maestà martiniana (Van der Ploeg, 1998), la navata centrale dell'edificio.Negli stessi anni si andavano realizzando in città importanti monumenti funebri scolpiti, da quello del beato Gioacchino Piccolomini (Siena, Pinacoteca Naz.), attribuibile a Gano da S., al maturo ed elegantissimo sepolcro del cardinale Riccardo Petroni eretto da Tino di Camaino nel duomo (1317), raro esempio di tomba ad arca del primo Trecento pressoché interamente conservata.La nuova generazione di scultori, tra cui Goro di Gregorio (v.) e Agostino di Giovanni (v.), sembra ulteriormente ammorbidire le figure del coro di artisti che aveva mostrato di sottrarsi al richiamo giovannesco pur nel completare la sua opera, mentre dal punto di vista iconografico si assiste, come in pittura, a una più complessa e monumentale narratività. La scultura architettonica rielabora modelli di matrice cistercense che da Nicola Pisano e soprattutto da Arnolfo di Cambio in poi restano attraverso il Trecento finendo per costituire una delle caratteristiche proprie dell'architettura senese anche civile, dal precoce palazzo Tolomei, forse della fine del Duecento, al Palazzo Pubblico e a tutti quegli edifici che a quest'ultimo si ispirarono, in primis - dichiaratamente - il palazzo Sansedoni.Gli anni quaranta sono dominati dall'avventura del Duomo Nuovo, profondamente legato, dal progetto alla decorazione scolpita, al suo capomaestro Giovanni d'Agostino (v.), che ne dovette seguire direttamente ogni aspetto.Il secondo Trecento, oltre ad aver lasciato eleganti prove dell'abilità degli intagliatori senesi, per es. nei primi stalli del coro del duomo (post 1362), di Francesco e Giacomo del Tonghio e altri, ha visto a S. l'attività di numerosi architettiscultori, perlopiù di minor rilievo, come Domenico d'Agostino, che sostituì dopo la peste nera il fratello Giovanni alla testa del cantiere episcopale, dopo essere stato per anni suo collaboratore, e, successivamente, Giovannino di Cecco e Mariano d'Angelo Romanelli, la cui principale realizzazione è la Cappella di Piazza, posta sul Campo, alla base della Torre del Mangia, terminata solo nel Quattrocento. Essa resta l'episodio senese più chiaro tra le numerose sperimentazioni sul tema dell'edicola con statue e della campata a volta estradossata o a padiglione che a Firenze e a Lucca fornirono, soprattutto nella seconda metà del secolo, il terreno per l'elaborazione di uno stile grandiosamente e misuratamente tardogotico, sostanzialmente parallelo al preumanesimo letterario, e da vedere a diretta origine della cultura nuova di Filippo Brunelleschi e dei primi grandi maestri del Quattrocento, non ultimo il senese Jacopo della Quercia.
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Gli studi hanno da tempo evidenziato come carattere peculiare e costante dell'arte gotica senese sia la disponibilità degli artisti ad accettare prestigiose commissioni come incarichi modesti; ciò presuppone una concezione tipica della civiltà medievale, mantenuta fino al Rinascimento, che accordava assoluta unità e pari dignità a tutte le arti. Non esisteva quindi discriminazione tra capacità manuali e creatività, né fra arte e artigianato. Parimenti distintiva era la capacità di mutuare con estrema flessibilità mentale, traducendo in inflessioni e idioma locale, le più diverse esperienze e i più moderni stimoli delle altre civiltà figurative. Altro carattere peculiare appare il forte impegno civico degli artisti senesi, che li induceva a partecipare non solo a tutte le iniziative professionali, ma anche a tutte quelle di interesse generale.Le più antiche testimonianze pittoriche attestate a S. nel Duecento appaiono orientate decisamente verso i modi dell'Italia centrale, in particolare verso le scuole umbre e laziali. Ne è prova il Cristo benedicente della chiesa di S. Bartolomeo a S., che appare dipendente dalla cultura umbro-laziale. Anche il paliotto proveniente dalla Badia Ardenga (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 1), che reca la data 1215, e la poco più tarda Madonna dagli occhi grossi (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana) - riferibile con altre poche opere all'anonimo Maestro di Tressa, posta in origine sull'altare maggiore del duomo e davanti alla quale, alla vigilia della famosa battaglia di Montaperti (4 settembre 1260), fu pronunciato il solenne atto di donazione della città alla Vergine - testimoniano nell'uso della tecnica a sbalzo, mutuato dall'oreficeria, un gusto allineato sullo stile romanico-bizantino e la dipendenza dalla coeva scultura che, insieme all'architettura, manteneva a quel tempo una posizione di indubbia supremazia artistica.Il punto di rottura con le esperienze figurative legate alla civiltà romanica e alla tradizione bizantina e un nuovo indirizzo stilistico si realizzarono nella pittura senese per un influsso esterno che si data al 1261, quando il pittore fiorentino Coppo di Marcovaldo (v.), fatto prigioniero dai Senesi nella battaglia di Montaperti, dipinse la Madonna del Bordone per la chiesa di S. Maria dei Servi. Il soggiorno di Coppo segnò l'inizio di una fitta trama di rapporti e di interferenze reciproche - in passato misconosciute e sottovalutate dalla storiografia specialistica - tra i centri di Firenze e di S., mantenuti costanti per i secoli a venire. L'influsso dei ritmi aspri e patetici di Coppo di Marcovaldo, la sua forzatura violenta dell'arte di Bisanzio suscitarono una profonda eco sia sulla pittura sia sull'illustrazione libraria.La decorazione libraria, già assai fiorente a S., registra infatti un qualche riflesso dell'arte del pittore fiorentino, non tanto nei tre corali del convento di S. Maria dei Servi (antifonario E; graduale F; graduale G), datati al 1271 e intinti di modi bolognesi e francesi, quanto nelle più rustiche e partecipate immagini di un codice proveniente dal duomo (Siena, Bibl. Com. degli Intronati, F V 2), come in altri manoscritti (Siena, Bibl. Com. degli Intronati, G I 2; G III 2; Milano, Bibl. Naz. Braidense, Gerli 5). Ma fu nella pittura monumentale che le opere connesse al soggiorno di Coppo di Marcovaldo sortirono l'esito più moderno e innovatore. In Guido da S. (v.), infatti, la lezione fiorentina agì come stimolo che giunse a una personalissima e precoce sintesi fra lo stile di Coppo e l'ormai estenuata tradizione bizantina. Il percorso di Guido, il più geniale interprete della cultura figurativa duecentesca, si svolse dalla Madonna di S. Bernardino (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 16), riferibile in virtù di prove documentarie al 1262, alla Madonna conservata ad Arezzo (Mus. Statale di Arte Medioevale e Moderna), al paliotto già in S. Francesco a Colle di Val d'Elsa (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 7), alla Maestà conservata a San Gimignano (Mus. Civ.), fino alla Maestà per la chiesa senese di S. Domenico (Siena, Mus. Civ.), grandiosa tavola firmata agli anni 1275-1280, ritenendosi la data 1221, che vi compare, come commemorazione di un evento capitale per l'Ordine domenicano: la morte di s. Domenico. La Maestà era completata da una cimasa con il Redentore e da due sportelli con ventiquattro episodi della Passione. Di questi, dispersi in vari musei, ne rimangono solo dodici, riferibili a Guido da S. e a un suo dotato collaboratore, in cui è da ammirare l'estro narrativo e naturalistico. Al collaboratore di Guido sono stati avvicinati gli affreschi con Storie della Passione, scoperti nella primitiva cripta del duomo (Carli, 1977), uno tra i più antichi saggi di pittura murale a Siena. Essi richiamano le Storiette della Maestà di Guido da S., il cui stile informò largamente la cultura locale. Il suo influsso è avvertibile, infatti, sul Maestro delle Clarisse - identificato in Rinaldo da S., autore della tavoletta di biccherna del 1278 (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus.) e di un gruppo di opere che fa capo alla croce dipinta di San Gimignano (Mus. Civ.) -, su Vigoroso da S., cui spetta il solo dossale conservato a Perugia (Gall. Naz. dell'Umbria), firmato e datato 1291, e su Diotisalvi di Speme, documentato dal 1259 al 1291 (Bellosi, 1991a). Legato a Guido da S. appare anche il Maestro del Dossale di S. Pietro (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 15), autore anche del dossale con S. Francesco e storie (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 313) e delle illustrazioni del Tractatus de creatione mundi (Siena, Bibl. Comunale degli Intronati, H VI 31), identificato con Guido di Graziano (Bellosi, 1991b), che palesa una nuova sensibilità plastica in sintonia con la poetica classicamente evocativa di Cimabue.È infatti individuabile nella cultura figurativa senese del periodo 1280-1295 un rapporto con la coeva civiltà fiorentina di matrice cimabuesca. Esso si verifica sia nella pittura monumentale sia nella decorazione dei libri liturgici, che culminò nell'illustrazione dei sette corali per il duomo (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana, 46-2; Il Gotico a Siena, 1982). L'imponente complesso, eseguito nello spazio di pochi anni e con un'accertabile alternanza di interventi, palesa accanto a riflessi dell'arte di Cimabue una molteplicità di orientamenti legati allo stile locale come alle suggestioni del Gotico francese e bolognese, avvertibile anche in altri codici di destinazione periferica (Colle di Val d'Elsa, cattedrale, E; F; Cortona, Bibl. Com., graduale I; Arezzo, Arch. Capitolare, graduale D; Roma, BAV, Ross. 612).L'apertura verso un nuovo modo di intendere la pittura coincise a S. con l'apparizione di Duccio di Buoninsegna (v.), che, pur legato alla tradizione bizantina, costituì lo stimolo su cui si confrontarono i massimi artisti locali lungo il corso del Trecento. Documentato dal 1278 al 1319, l'artista dovette formarsi nel cantiere della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, in sintonia con gli affreschi di Cimabue, cui forse poté anche collaborare (Longhi, 1948). L'influsso di Cimabue, che insieme a Guido da S. rappresenta una delle fonti per la ricezione da parte di Duccio della cultura bizantina, marcò la sua fase giovanile, costituita dalla Madonna con il Bambino per S. Cecilia di Crevole (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), dal crocifisso del castello di Bracciano (Roma, Coll. Odescalchi) e culminante con la pala Rucellai (Firenze, Uffizi). Con l'approssimarsi del nuovo secolo, l'influsso di Cimabue - ancora presente nella grandiosa vetrata del duomo di S., databile agli anni 1287-1288 (Carli, 1946), per la quale l'artista eseguì il cartone preparatorio - si andò allentando nell'opera di Duccio di Buoninsegna, che in alcune opere (Madonna Stoclet, già Bruxelles, Coll. Stoclet, ubicazione attualmente ignota; Madonna dei Francescani, Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 20; Maestà, Berna, Kunstmus.; trittico con Madonna e ss. Domenico e Aurea, Londra, Nat. Gall.; Madonna, centro di un polittico, per S. Domenico di Perugia, Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria; polittico, Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 28, forse per la badia di S. Donato a S.) palesa una sempre più ampia sperimentazione del linearismo e del decorativismo gotico come un nuovo interesse per la rappresentazione dello spazio, che è da mettere in relazione con gli affreschi assisiati di Giotto. La Maestà firmata dall'artista (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), eseguita, come si evince dai documenti di pagamento, dal 1308 al 1311, per l'altare maggiore del duomo, segnò invece per Duccio di Buoninsegna una meditata riappropriazione dell'aulica tradizione bizantina, ricreata in puri valori ritmici e in sequenze narrative di eletta, evocativa evidenza. Il grandioso complesso (smembrato nell'Ottocento), a doppia faccia con predella e coronamento, che reca nel recto la Madonna in trono tra angeli e santi e nel verso ventisei episodi della Passione di Cristo, costituisce la fonte e la pietra di paragone per le successive vicende della pittura locale. Esso esaltava il ruolo della Vergine, eletta dopo la vittoria sui Fiorentini a Montaperti, patrona della città, nella cui devozione si fondevano sentimenti religiosi e appassionata esaltazione civica. La lezione di Duccio fu vasta sui contemporanei come sugli artisti della generazione successiva, che ne divulgarono le risultanze espressive non solo nelle chiese del contado, ma anche fino a Firenze e ad Arezzo.Segna di Bonaventura (v.), documentato dal 1298 al 1326, denuncia la stretta dipendenza dallo stile del grande caposcuola: la grandiosa Maestà nella collegiata di S. Giuliano a Castiglion Fiorentino (prov. Arezzo), firmata da Segna, sembra riecheggiare una perduta tavola di Duccio di Buoninsegna, eseguita nel 1302 per la cappella del Palazzo Pubblico di S., ma presenta già qualche riflesso del giovane Simone Martini.Ugolino di Nerio (v.), documentato dal 1317 al 1327, nei dipinti su tavola eseguiti per chiese cittadine o della provincia (Montepulciano, S. Maria dei Servi; San Casciano in Val di Pesa, chiesa della Misericordia) si rivela, insieme al Maestro di Città di Castello e al Maestro di Badia a Isola, il più famoso e brillante tra i seguaci di Duccio di Buoninsegna. Ugolino è l'autore di un polittico (perduto) per la chiesa di S. Maria Novella a Firenze, come di un monumentale complesso a due ordini (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.; Londra, Nat. Gall.; Filadelfia, Mus. of Art, Johnson Coll.; New York, Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.; Richmond, già Cook Coll.; Los Angeles, County Mus. of Art), databile al 1325, commissionato dai Francescani per l'altare maggiore della chiesa di Santa Croce a Firenze. Esso costituisce, dopo la pala Rucellai di Duccio per S. Maria Novella, un'ulteriore testimonianza del prestigio di cui godeva la pittura senese a Firenze.Mentre la pittura a S. appare dunque orientata a rielaborare, almeno fino alla metà del secondo decennio del Trecento, i modelli ducceschi, la vicina San Gimignano (v.), anch'essa in decisa ascesa economica e urbanistica, rivela un indipendente indirizzo stilistico. Diversamente da S., già dalla metà del Duecento vi era in uso la tecnica dell'affresco, con l'apertura verso la cultura figurativa dell'Italia meridionale. Ma fu con Memmo di Filippuccio (v.) che la città si aggiornò allineandosi alle novità giottesche dispiegate negli affreschi della basilica superiore di Assisi (Il Gotico a Siena, 1982). A questo nodo di cultura si lega il grandioso affresco nel Palazzo Pubblico di S., raffigurante la Resa del castello di Giuncarico, avvenuta nel 1314 (Seidel, 1982), la cui scoperta nel 1980 suscitò una vivace polemica attributiva sul suo autore; è stato proposto il nome di Duccio di Buoninsegna (Bellosi, 1982), ma anche di Pietro Lorenzetti, di Simone Martini e di Memmo di Filippuccio. La scena, il cui autore converrà mantenere nell'anonimato, che si segnala per una straordinaria capacità descrittiva e per la precisione di resa dei dettagli, inaugurò una peculiare rappresentazione dello spazio come ritratto topografico che costituì uno dei massimi contributi della pittura senese del primo Trecento, le cui tappe si svolgono sulle pareti del Palazzo Pubblico dal Guidoriccio da Fogliano, capolavoro recentemente riconfermato a Simone Martini (Simone Martini, 1988), al Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, alla Battaglia in Val di Chiana di Lippo Vanni.Nel 1315, nella stessa sala del Palazzo Pubblico senese, Simone Martini (v.) firmò e datò una grandiosa Maestà che propose una più articolata e moderna alternativa della grandiosa composizione di Duccio di Buoninsegna. Le scritte sui gradini colorano la raffigurazione di significato politico e di esortazione alla pace, cui il governo dei Nove, committente dell'affresco, aspirava in un momento che vedeva sopite le tensioni tra le opposte fazioni cittadine. La spiegata monumentalità delle figure, l'assimilazione dei ritmi gotici e delle sperimentazioni spaziali giottesco-assisiati e i riflessi dello stile duccesco hanno stimolato a ricercare nella bottega di Duccio gli esordi di Simone Martini anteriori alla Maestà. Le proposte più persuasive sembrano quelle che assegnano alla giovinezza di Simone la Maestà della cattedrale di Massa Marittima (Coletti, 1949) e la testa della Vergine nell'affresco ridipinto dell'oratorio di S. Lorenzo in Ponte a San Gimignano (Cecchini, Carli, 1962).In coincidenza con l'esecuzione della Maestà di Simone Martini, che segnò il superamento della tradizione pittorica locale, iniziò il periodo di massima espansione degli artisti senesi fuori dai confini della Repubblica, che si mantenne costante fino alla metà del Trecento.Le prime opere di Pietro Lorenzetti (v.) - tra cui i dipinti su tavola per le chiese del contado (Castiglione d'Orcia, pieve dei Ss. Stefano e Degna; Monticchiello, pieve dei Ss. Leonardo e Cristoforo, ora a Siena, Pinacoteca Naz.) e i frammentari affreschi con la Crocifissione e la Risurrezione della chiesa di S. Francesco a S. (in deposito a Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana) - si svolgono in sintonia con la mimica espressionistica che si palesa nell'oreficeria a smalto traslucido, che a S. aveva raggiunto un'altissima perfezione tecnica e formale.Anche Ambrogio Lorenzetti (v.), il più intellettuale degli artisti senesi, appare volto verso la cultura fiorentina e pronto ad assimilare gli stimoli dell'arte giottesca e gli esiti plastici di Arnolfo di Cambio. I quattro soggiorni fiorentini di Ambrogio, documentati dal 1321 al 1332, e le opere a essi connesse, mentre testimoniano il favore goduto dall'arte senese e l'adesione alla fase matura di Giotto, suggellano un profondo accordo tra le due grandi tradizioni figurative toscane.Nel decennio 1320-1330 la pittura a S. appare orientata su due fronti: rielaborare le idee di Duccio, come fecero Niccolò di Segna e Ugolino di Nerio, oppure verificarne la validità alla luce delle nuove conquiste raggiunte da Simone Martini e dai Lorenzetti. In questi anni si consolidò fuori di S. la fama di Simone e si coagulò intorno al suo riconosciuto prestigio e alla sua capacità imprenditoriale l'attività della sua affiatata bottega. A San Gimignano dovette avere inizio, intorno al 1317, la collaborazione tra Simone Martini e il figlio del pittore e miniatore Memmo di Filippuccio, Lippo Memmi (v.), che nella Maestà ad affresco del Palazzo Pubblico, firmata e datata 1317, si adeguò alle più moderne formulazioni martiniane, replicando con intelligenza la grandiosa Maestà del 1315.Dai primi anni venti del Trecento si individuano, insieme a Lippo Memmi, nell'affiatatissima bottega del maestro, alcuni seguaci che ne perpetuarono a lungo le invenzioni. Fra questi il Maestro della Madonna di Palazzo Venezia (v.) e il Maestro della Madonna Straus (v.), la cui vicinanza stilistica con Simone Martini ha fatto ipotizzare la possibilità di identificarlo con il fratello di questi, Donato, documentato a S. e ad Avignone dal 1318 al 1347 (De Benedictis, 1976a). Nel terzo decennio del secolo, mentre fuori della città gli allievi di Simone, a volte coadiuvati dal maestro, attuavano nei complessi su tavola di Lucignano d'Arbia (Siena, Pinacoteca Naz.), di Castiglione d'Orcia (chiesa di S. Maria Maddalena), di Montepulciano (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 595) e di Colle di Val d'Elsa (smembrato fra Siena, Pinacoteca Naz., inv. nrr. 48-49; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, inv. nr. 1067; Parigi, Louvre; New York, Metropolitan Mus. of Art; New Haven, Yale Univ., Art Gall.; Washington, Nat. Gall. of Art) una difficile conciliazione tra verticalità gotica e superfici compatte ed espanse e una prosecuzione delle ricerche di illusionismo spaziale già sperimentate negli affreschi di Assisi, a S. si affermavano le personalità fino ad allora divergenti dei Lorenzetti.Nel monumentale altare (Siena, Pinacoteca Naz.), firmato e datato 1329, per la chiesa di S. Niccolò al Carmine di S., che stimolò le ricerche naturalistiche e volumetriche della poco più tarda pala votiva del Beato Agostino Novello (Siena, Pinacoteca Naz.) di Simone Martini, Pietro Lorenzetti approfondì le ricerche assisiati di scultorea evidenza delle immagini e di più dilatata spazialità, che presupponevano la conoscenza della fase fiorentina di Giotto. Ambrogio Lorenzetti, di ritorno da uno dei soggiorni fiorentini, eseguì gli affreschi per la sala capitolare del convento senese di S. Francesco (Siena, S. Francesco, cappella Bandini Piccolomini), databili al 1324-1327 (Volpe, 1951a), memori, nella rigorosa collocazione spaziale dei volumi, dell'essenzialità compositiva degli affreschi giotteschi nella cappella Peruzzi di Santa Croce a Firenze. Ambrogio dispiega un accentuato interesse per il mondo esotico e una raffinata articolazione dello spazio prospetticamente definito e articolato su più livelli. Più tardi, nel trittico conservato ad Asciano (Mus. d'Arte Sacra) e proveniente da Badia a Rofeno, il pittore attuò un irripetibile accordo con le astratte eleganze lineari di Simone Martini - che culminarono nell'Annunciazione (Firenze, Uffizi) per il duomo di S., firmata da Simone e da Lippo Memmi e datata 1333 -, volgendosi poi, con il ricorso sapiente alle più diverse fonti classiche e medievali, alla rappresentazione degli effetti del Buono e del Cattivo Governo nel palazzo Pubblico di Siena.In questo ciclo vengono secolarizzati due concetti fondamentali etico-politici già adombrati da Simone Martini nella Maestà dello stesso Palazzo Pubblico: quello della giustizia e quello della subordinazione dell'interesse privato al bene comune. Le immagini si svolgono su due distinti piani tematici, che presuppongono una diversa chiave di lettura e di comprensione: esemplificativo-descrittivo il primo, allegoricosimbolico il secondo. Eccezionali appaiono le soluzioni compositive e la capacità di riprodurre gli aspetti del paesaggio urbano e campestre, cogliendone il significato poetico in rapporto con l'umanità che lo occupa, e di disciplinare lo spazio come se fosse un'architettura. Con questi affreschi - la cui commissione documentata negli anni 1338-1339 da parte del governo dei Nove sancì, com'era uso, il riconoscimento a S. del prestigio di Ambrogio - iniziò un'alleanza stilistica fra i Lorenzetti che data dal 1335, quando insieme con Simone Martini affrescarono sulla facciata dello Spedale di S. Maria della Scala gli episodi della Vita della Vergine, distrutti nel Settecento (Gallavotti Cavallero, 1987). Le sperimentazioni prospettico-spaziali di Pietro Lorenzetti continuarono secondo una linea coerente che si concluse con la Natività della Vergine (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), a lui commissionata nel 1335, ma firmata e datata 1342, per l'altare di S. Savino nel duomo. Il pittore modula lo spazio in cui si svolge il sacro evento in due dimensioni: slontanante e in obliquo nello scomparto di sinistra e disteso in un unico vano negli altri due, pervenendo a una mirabile fusione tra ambienti perspicuamente definiti e personaggi dalla statuaria evidenza rappresentativa. Nello stesso anno Ambrogio creò, per l'altare dedicato a s. Crescenzio nel duomo, un'opera altrettanto fondamentale per lo svolgimento della pittura senese: la Presentazione al Tempio (Firenze, Uffizi), firmata e datata 1342, che, sviluppando suggestioni compositive e volumetriche di matrice fiorentina, giunge a una rigorosa impostazione prospettico-spaziale mai più raggiunta dalla pittura del Trecento. Gli esperimenti spaziali di Ambrogio si conclusero con l'Annunciazione (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 88), ultima sua opera datata (1344), commissionata dai magistrati della Gabella per una cappella del Palazzo Pubblico.In questi anni si registra, oltre a una convergenza stilistica della fase estrema dei Lorenzetti che portò alla creazione di un'affiatata e operosa bottega comune (Zeri, 1971), anche un vuoto di potere artistico originato dalla partenza di Simone Martini per la Provenza, che dovette avvenire poco dopo il 1336, anno in cui è ancora documentato a Siena. Intorno a tale anno dovrebbe situarsi l'esecuzione del polittico della Passione, detto Orsini, con Angelo annunciante, Annunciata, Crocifissione, Deposizione (Anversa, Koninklijk Mus. voor Schone Kunsten), Andata al Calvario (Parigi, Louvre), Seppellimento di Cristo (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), dati i riflessi che di esso si registrano sulla cultura locale (De Benedictis, 1976a). Il prezioso, piccolo polittico, firmato dall'artista e destinato alla devozione privata del cardinale Napoleone Orsini, dovette esser dipinto a S. e poi portato ad Avignone, dove poté concorrere alla genesi dello stile gotico internazionale.Lippo Vanni (v.), formatosi nella bottega miniatoria di Niccolò di Ser Sozzo, concluse la sua fase giovanile con un soggiorno a Napoli documentato dal 1343 al 1344, dove rimangono testimonianze della sua attività - quali il trittico di Coral Gables (Miami, Univ., Lowe Art Mus., Kress Coll.) - e dove le sollecitazioni della corte angioina e le sperimentazioni di Giotto e dei suoi aiuti maturarono le sue scelte artistiche. Di ritorno a S., dov'è documentato come miniatore nel 1344, Lippo Vanni si accostò alla fase ultima e monumentale dei Lorenzetti. Su questa si esemplano le miniature eseguite per lo Spedale di S. Maria della Scala, per es. in un graduale e in un antifonario (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana, 98-4; 125), in cui con sapienza utilizza il campo dell'iniziale come un piccolo dipinto a sé stante.Con questa impresa si giunge a ridosso del 1348, anno della terribile peste e della conseguente crisi economico-sociale che investì la Toscana. Questa, agendo come fattore scatenante, avrebbe provocato nelle arti figurative un profondo mutamento formale e contenutistico (Meiss, 1951). La recente storiografia ha messo invece in evidenza non cesure con lo stile precedente, bensì fattori di continuità, persistenza e arricchimento di motivi e di contenuti della tradizione locale e di costante standard pittorico. Dopo la peste, la cultura pittorica senese appare orientata in due direzioni: persistenza e arricchimento delle tematiche dei Lorenzetti e definitivo riflusso dalla Provenza dei collaboratori di Simone Martini, morto ad Avignone nel 1344, che diede vita a un programmatico revival del suo stile. Si registra inoltre la diffusione, da parte di Simone e dei suoi allievi ad Avignone, come dei Lorenzetti a S., di nuovi temi e iconografie - il Ritorno di Gesù dal Tempio e la Madonna dell'Umiltà - che, ponendo l'accento sulle qualità umane dei sacri personaggi, tendevano al coinvolgimento devozionale ed emotivo dei fedeli.Le ricerche di definizione volumetrica delle immagini lasciarono successivamente il posto a uno stile lineare teso a dilatare illusivamente lo spazio. Nell'affresco di Lippo Vanni che finge un grandioso polittico su tavola (Siena, S. Francesco, cappella annessa alla sagrestia), come nelle Storie della Vergine dell'eremo agostiniano di S. Leonardo al Lago, dello stesso maestro, gli esperimenti di virtuosismo prospettico e l'utilizzazione delle caratteristiche architettoniche della parete iniziate dai Lorenzetti trovarono, nel decennio 1360-1370, una formulazione rigorosa poi non più raggiunta.La carriera di Luca di Tommè (v.) appare invece orientata non soltanto sullo stile dei Lorenzetti, ma aperta anche ad altri stimoli. Il pittore si immatricolò all'Arte nel 1355 (Siena, Bibl. Com. degli Intronati, C II 12), anno cruciale per la storia civile di S., che segnò la caduta dell'aristocratico governo dei Nove e l'avvento di quello più democratico dei Dodici, in cui si accentuarono la partecipazione degli artisti alla vita pubblica e la disponibilità verso le tradizioni culturali e figurative di altri centri. L'incontro di Luca con Niccolò di Ser Sozzo, avvenuto dopo la metà del secolo, diede inizio a uno stretto rapporto di collaborazione che si evidenzia nel grandioso polittico (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 51) raffigurante la Madonna con il Bambino e i ss. Giovanni Battista, Tommaso Apostolo, Benedetto e Stefano, firmato dai due pittori e datato 1362. Quest'opera segnò per Luca di Tommè un riconoscimento nell'ambiente locale e l'inizio di una vasta produzione sia per chiese cittadine sia per quelle del contado, caratterizzata da una studiata complessità compositiva cui si uniscono sottili allusioni concettuali. La sua attività posteriore al 1360 subì, peraltro, una diminuzione qualitativa e inventiva, che si tradusse nel recupero di alcuni stilemi dei Lorenzetti, esportati fino in Umbria e nelle Marche.Più ricettivo nei confronti dell'arte straniera appare il percorso di Bartolo di Fredi (v.), spesso coadiuvato dal figlio Andrea di Bartolo. Accostandosi alle costruzioni prospettiche dei Lorenzetti, ma disgregandone l'unità, Bartolo diede vita a figurazioni improntate a toni grotteschi e favolosi, densi di accentuazioni naturalistiche e caratterizzanti, che preannunciavano il Gotico internazionale, come nell'Adorazione dei Magi (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 104).Mentre lo stile dei Lorenzetti trovò pronta ricezione nelle chiese della provincia (Freuler, 1981; Padovani, 1982), a S. si assistette a un cosciente recupero della poetica di Simone Martini. Il più ortodosso divulgatore dello stile del maestro, forse suo collaboratore ad Avignone, fu Naddo Ceccarelli (v.), che iniziò a rivisitare e ad attualizzarne le opere, come nel dittico (ubicazione ignota), firmato e datato 1347, e nella Pietà (Vaduz, Coll. Liechtenstein). Il suo percorso appare oscillante tra due poli: rispetto della tradizione, che ingenera sovente un senso di freddezza accademica, e ansia di rinnovamento, che si esplica anche nell'uso di gamme cromatiche eccezionalmente tenere e fuse, come nel polittico conservato a S. (Pinacoteca Naz., inv. nr. 115).Più denso e vitale appare il percorso di Jacopo di Mino del Pellicciaio (v.), il quale dopo un apprendistato pisano - affreschi eseguiti nel S. Francesco di Pisa, datati 1342, raffiguranti santi fondatori di ordini religiosi - e un periodo di garbato eclettismo, approdò a una meditata ripresa delle eleganze cortesi di Simone Martini e di Lippo Memmi, che trovò il culmine nell'Incoronazione della Vergine (Montepulciano, Mus. Civ.). Nella programmatica rilettura della poetica martiniana, cui si sovrappone l'influsso dei Lorenzetti, si mosse un eclettico artista, già denominato, in base alle sue radici culturali duccesche e lorenzettiane, Ugolino Lorenzetti oppure Maestro d'Ovile (Madonna con il Bambino e santi; Siena, S. Pietro a Ovile) e documentariamente identificato con Bartolomeo Bulgarini (Meiss, 1936), attivo, dal 1337 al 1378, principalmente per lo Spedale di S. Maria della Scala (Assunzione della Vergine, Madonna con il Bambino; Siena, Pinacoteca Naz., inv. nrr. 61, 76), che in questi anni tentò di rivaleggiare in quantità e qualità delle commissioni artistiche con il duomo. I maggiori protagonisti del recupero dello stile di Simone Martini, che si esplicò dagli anni sessanta del Trecento, appaiono Francesco di Vannuccio, Niccolò di Buonaccorso, Andrea di Vanni d'Andrea e Taddeo di Bartolo. Per opera loro, a S., mentre si intensificavano sia le presenze di pittori forestieri, come Angiolo Puccinelli, Antonio Veneziano e Spinello Aretino, sia l'apertura verso la cultura di Firenze, Pisa, Orvieto, e mentre sulla pittura prendeva il sopravvento la scultura - parimenti orientata nella stessa direzione stilistica -, si verificarono un ritorno alle origini e una riscoperta dei testi capitali del primo Trecento. Questa, invece di configurarsi come una reazione all'ormai imperante linguaggio tardogotico, vi si innestò senza soluzioni di continuità, indirizzandone le scelte e gli spunti espressivi. Dalla linea di ortodosso omaggio a Simone Martini diverge la prima fase del raffinato Paolo di Giovanni Fei (v.), che, in parallelo con Bartolo di Fredi e con alcuni esiti della coeva scultura, nella Natività della Vergine (Siena, Pinacoteca Naz., inv. nr. 116), firmata e datata 1381 o 1391, scompose in episodi narrativi l'unità compositiva della celebre pala con lo stesso tema di Pietro Lorenzetti, per riaccostarsi poi alla più accreditata tendenza artistica locale, come nell'Assunzione della Vergine (Washington, Nat. Gall. of Art, Kress Coll.). In consonanza con lo stile di Paolo di Giovanni Fei si svolse anche il percorso di Francesco di Vannuccio (v.), la cui vena nobile e meditativa, in parallelo con il più modesto Niccolò di Buonaccorso, si accostò alla fase avignonese di Simone Martini. Parimenti allineato sulla linea neomartiniana si mostra Andrea di Vanni d'Andrea (v.), pittore che alternava ai numerosi impegni professionali un'intensa attività pubblica e diplomatica - che lo vide presente ad Avignone e a Napoli, con opere quali il polittico datato 1366 (Napoli, Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte; Altenburg, Staatl. Lindenau-Mus.), commissionato da Giovanna d'Angiò per il castello di Casaluce - e una fervida pratica devozionale. A testimonianza del suo sodalizio spirituale con s. Caterina Benincasa resta il ritratto ad affresco della santa (Siena, S. Domenico), databile al 1390.Se i due soggiorni napoletani di Andrea di Vanni d'Andrea costituirono uno dei principali veicoli del revival dello stile di Simone Martini in quella città, l'azione di Taddeo di Bartolo (v.) si rivolse a divulgare le conquiste della grande tradizione senese in un raggio ancora più vasto, che da S. e da Pisa si irradiava fino in Liguria, in Umbria e nel Veneto, arrivando fino in Sicilia. Nella sua opera coesistono emblematicamente due aspetti contrastanti: trasposizione e rielaborazione in forme corpose e solenni degli astratti ritmi martiniani, come nel polittico (Montepulciano, duomo) con l'Assunzione della Vergine, firmato e datato 1401, e ricezione e apertura a nuove tematiche umanistiche legate al recupero più meditato dei valori dell'eredità classica, come nel Giudizio universale, ispirato alla Divina Commedia, affrescato nella controfacciata della collegiata di San Gimignano, e nel ciclo degli Uomini illustri, nell'anticoncistoro del Palazzo Pubblico di S., databile al 1413-1417.A Taddeo di Bartolo, come a Martino di Bartolomeo, Andrea di Bartolo e Benedetto di Bindo (Boskovits, 1980), spetta il compito di chiudere il Trecento e aprire il nuovo secolo, attuando senza contrasti il passaggio dalla corrente del Gotico tardo a quella del Tardo Gotico o Gotico internazionale.È per merito di questi pittori e anche di scultori come Jacopo della Quercia, Francesco di Valdambrino e Domenico di Niccolò dei Cori (Bellosi, 1982), se lo stile di Simone Martini venne recepito e accolto a S., assumendo fino ai primi del Cinquecento il valore di lingua figurativa e di patrimonio 'nazionale'.C. De BenedictisNell'ambito della pittura senese, una classe particolare di materiali è costituita dalle tavolette di biccherna (o biccherne), impiegate come copertine ai registri degli uffici finanziari dell'antica Repubblica di Siena.Il nome di biccherna - che si vorrebbe derivato dal palazzo imperiale delle Blacherne di Costantinopoli, dove si custodiva anche il tesoro dell'imperatore, forse portato a S. dai milites che presero parte alle crociate - compare per la prima volta, a indicare la sede di una pubblica autorità, in un atto del 1193 in cui si cita la blacherna senensium consulum. Successivamente, almeno dal 1205, venne usato per designare l'ufficio finanziario del Comune.Nella seconda metà del sec. 13°, essendosi grandemente accresciuto il numero delle imposizioni pecuniarie, venne creato l'ufficio detto della Gabella Generale. Al termine del loro mandato i magistrati, sia della Biccherna sia della Gabella, solevano racchiudere i loro quinterni - di pergamena e poi di carta - tra due tavolette legate da strisce di cuoio o di pelle: sul piatto esterno di quella superiore veniva indicato il contenuto dell'inserto mediante lettere dell'alfabeto o numeri. Sembra che spetti a Ugo, monaco dell'abbazia di San Galgano, che rivestiva la carica di camarlingo della Biccherna, la prima iniziativa, nel 1257, di far dipingere da un certo pittore Bartolomeo la tavoletta del proprio registro: essa è andata perduta, ma è rimasta la tavoletta del secondo semestre del 1258 (Siena, Arch. di Stato, 1), che raffigura lo stesso Ugo davanti a uno scrittoio con il registro aperto; essa fu pagata cinque soldi a maestro Gilio di Pietro ed è la prima superstite della lunga serie che ancora si conserva presso l'Arch. di Stato di S. (un centinaio), mentre buona parte è andata perduta e alcune sono attualmente in vari musei e collezioni (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca; Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus.; Budapest, Szépművészeti Múz.; Baltimora, Walters Art Gall.; Londra, Vict. and Alb. Mus.; Londra, BL; Parigi, BN; New York, Metropolitan Mus. of Art; Colonia, Wallraf Richartz Mus.; Amsterdam, Rijksmus.; Ginevra, coll. privata, in gran parte provenienti dalla Coll. Ramboux, che, venduta all'asta a Colonia nel 1867, ne contava trentadue).Le tavolette più antiche sono dipinte soltanto nella metà superiore e recano qualche volta l'immagine del camarlingo, qualche volta gli stemmi dei provveditori, altre volte gli uni e l'altra insieme. Fino al 1320 i soggetti, salvo la diversa distribuzione, rimasero invariati: nel primo semestre di quell'anno il camarlingo don Stefano si fece raffigurare, anziché allo scrittoio, inginocchiato davanti a s. Galgano, della cui abbazia era monaco, mentre nel secondo semestre del 1334, con don Giglio inginocchiato davanti alla rappresentazione della Natività, le tavolette della biccherna e della gabella si fissarono in un tipo di composizione che rimase pressoché invariato fino a quasi tutto il 15° secolo. Esso ripartiva lo spazio in due zone pressappoco uguali: in quella superiore venivano raffigurate le scene più varie, da quelle - assai frequenti specie in un primo tempo - del camarlingo e dello scrittore affiancati al loro banco, con intorno le suppellettili del loro ufficio, a rappresentazioni di carattere religioso, storico, allegorico e civico. Sottostava (ma qualche volta era sopra) una fascia con gli stemmi del camarlingo, dei provveditori, esecutori e di altri officiali, il cui numero subì variazioni nel tempo; tutta la metà inferiore della tavoletta era occupata da una iscrizione con i loro nomi e con la datazione della loro magistratura. Assai significativo è il fatto che le tavolette, nate come copertine, divenissero a partire dalla seconda metà del Quattrocento opere d'arte vere e proprie senza destinazione pratica.A parte il loro interesse storico e documentario, la qualità artistica delle biccherne è quanto mai varia. La loro importanza risiede anche nel fatto che esse sono tutte datate e pertanto costituiscono un sicuro termine di riferimento cronologico per gli sviluppi della pittura a S. e per la ricostruzione del percorso dei pittori ai quali, prevalentemente su base stilistica, vengono attribuite. Ma di alcune delle più antiche esistono pagamenti a pittori non altrimenti noti: oltre al citato Gilio di Pietro, ne furono allogate ininterrottamente dal 1259 al 1272 e quindi, alternatamente ad altri, fino al 1288, a Diotisalvi di Speme; delle ventinove da lui miniate se ne conservano solo quattro, tre nell'Arch. di Stato di S. (1264, 1267, 1270) e una nel Szépművészeti Múz. di Budapest (1282). Un pagamento del secondo semestre del 1278 a un pittore Rinaldo è riferibile a una tavoletta conservata a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus.) e uno del 1280 a Guido di Graziano - certamente diverso dal più noto Guido da S. - a una tavoletta dell'Arch. di Stato senese. Recentemente (Umbri e Toscani, 1988) si è tentato di attribuire a tre di questi maestri alcune grandi pitture su tavola: così Gilio di Pietro è stato designato come autore della Madonna dei Mantellini nel S. Niccolò al Carmine di S. (peraltro molto probabilmente pisana), a Rinaldo è stato riferito il gruppo classificato sotto il nome di Maestro delle Clarisse e a Diotisalvi di Speme è stata assegnata la Madonna del Voto nel duomo di S.; ma tali identificazioni appaiono tutt'altro che certe.Putroppo sono andate perdute le biccherne che nel 1279, 1285, 1287, 1291 e 1292 furono pagate a Duccio di Buoninsegna; ma forse nella bottega di quest'ultimo fu eseguita una tavoletta del primo semestre del 1294 conservata a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgewerbemus.), che tuttavia reca soltanto, oltre all'iscrizione, quattro stemmi. Ove però si tolga una biccherna del 1355, che l'erudito senese Uberto Benvoglienti asserì essere stata pagata a Bartolomeo Bulgarini (ma tale notizia non ha trovato riscontro nelle recenti ricerche archivistiche), la paternità delle altre tavolette è stata stabilita in base allo stile e al confronto con opere certe di pittori conosciuti. Tra le attribuzioni più convincenti in tal senso si segnalano una gabella del 1344 con l'allegoria del Buon Governo ad Ambrogio Lorenzetti, che nello stesso anno dipingeva per gli stessi officiali l'Annunciazione (Siena, Pinacoteca Naz.), e una gabella del 1357 a Luca di Tommè.
Bibl.:
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Precoci sono le testimonianze orafe medievali conservatesi in territorio senese, ma l'affermarsi di uno specifico linguaggio diffuso e vincente ben oltre i confini locali è in tutto parallelo a quello delle altre arti visive, rispetto alle quali l'oreficeria si palesa anzi in un ruolo-guida.La lunga ed eccezionale stagione gotica di S. trovò infatti proprio nell'arte orafa i prodromi di un rinnovamento formale, nonché una riconosciuta invenzione tecnica che se ne rivelò interprete per eccellenza: lo smalto traslucido. La consapevolezza di tale ruolo-guida, già affermata da storici ed eruditi locali, è andata precisandosi in studi più recenti, che proprio negli ultimi due decenni hanno visto un infittirsi degli interventi critici sull'argomento.Dall'immane spoglio documentario alla base della Biografia cronologica de' bellartisti senesi, stilata da Romagnoli negli anni precedenti al 1835, molti sono in effetti i nomi di orafi emersi - a partire da Pace di Valentino, già orafo di spicco nel 1265, quando è chiamato a operare a Pistoia - e molti sono anche quelli che non sono rimasti puri nomi, grazie all'associazione con oggetti conservati: primo tra tutti Guccio di Mannaia (v.), che firma il calice donato ad Assisi da papa Niccolò IV (1288-1292), strepitoso incunabolo dello smalto traslucido (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Fancesco).Sin da questo solido punto di partenza d'eccezione, l'oreficeria senese si rivela in dialogo con tutta la cultura figurativa più aggiornata dell'epoca, segnatamente francese, come conferma il sigillo della Società dei Raccomandati al SS. Crocifisso, fondata nel 1295, pure riferito a Guccio (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia, Coll. Corvisieri Italiana).Tale dialogo, oltre che su un piano formale, si rivela in aspetti concretamente tecnici, in un intreccio continuo di modalità operative e di materiali: e se, giusta l'acuta definizione vasariana, lo smalto è "una spezie di pittura mista a scultura" (Vasari, Le Vite, I, 1966, p. 166), lo spillo che chiude il manto della Madonna della Maestà affrescata da Simone Martini nel Palazzo Pubblico è un vero cristallo di rocca 'incastonato' nel muro, mentre reliquiari e ostensori assumono forme architettoniche, e un'architettura, reale e significativa, come la cupola del duomo è stata accostata (Middeldorf-Kosegarten, 1970) a un modello orafo.Del resto la molteplice identità tecnica dell'orafo medievale è riconosciuta acquisizione storico-critica, confermata nello specifico dai documenti, che associano frequentemente alla qualifica di orafo quelle di scultore e architetto o anche di pittore: da Ugolino d'Arrigo, scultore, architetto e orafo, incaricato di incastonare perle e smeraldi nel perduto calice realizzato da Pace di Valentino per Pistoia, a Lando di Pietro, che, impegnato in opere di architettura, lascia la sua firma in un crocifisso ligneo (Siena, Convento dell'Osservanza), e la cui documentata attività orafa è stata ipoteticamente riconosciuta in oggetti come il braccio-reliquiario di s. Ludovico di Tolosa, realizzato per la corte angioina di Napoli (Parigi, Louvre; Leone de Castris, 1980a), o la croce conservata nella chiesa di S. Colombano nei pressi di Lucca (Capitanio, 1993, pp. 173-179).Entrambi gli oggetti - al di là della supposta autografia - testimoniano l'ampia e rilevante diffusione dell'oreficeria senese trecentesca, che vide anzi i suoi stessi artefici attivi in giro per l'Italia e per l'Europa. E se Lando fu al servizio di Roberto d'Angiò (1309-1343) - e forse anche di Arrigo VII (1309-1313; Romagnoli, Biografia, p. 67-86) - è la corte papale a registrare il maggior numero di presenze: già a Roma, e dunque sullo scorcio del Duecento, con Pace di Valentino e Toro, documentato poi quest'ultimo ad Avignone, dove per i pontefici operarono anche Minuccio di Jacopo, autore nel 1330 della Rosa d'oro (Parigi, Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny; Taburet-Delahaye, 1989), e Giovanni di Bartolo, di cui resta il busto-reliquiario di s. Agata (Catania, duomo, tesoro di S. Agata), eseguito ancora ad Avignone.Oltre a questi grandi centri di committenza, molti altri sono i luoghi che registrano presenze senesi: prima di tutti Orvieto (v.), con Ugolino di Vieri e Viva di Lando e i loro celebri reliquiari, ma diffusamente buona parte dell'Umbria, con Duccio di Donato, Guidino di Guido, Tondino di Guerrino, Andrea Riguardi, Jacopo di Guerrino, per limitarsi alle identità artistiche ormai precisate dalla critica.La geografia degli orafi senesi si allarga inoltre a territori non solo limitrofi, come il resto della Toscana o il Lazio, ma addirittura oltremare, come Toledo, che nel Mus.-Tesoro Catedralicio conserva un reliquiario firmato da Giacomo di Tondino, o Barcellona, che registra le presenze di un Tutxo (Duccio) de Senis e di un Mino della Zecca in date che coincidono esattamente con lunghi intervalli di assenza documentaria da S. di Duccio di Donato e di Mino del Voglia zecchiere, tanto da poter ipotizzare un'identità dei personaggi dietro l'analogia dei nomi.Tale fortuna sfuma gradatamente col volgere del secolo, anche se - così come in pittura - ancora in pieno Quattrocento non mancò il successo a fedeli ripropositori del linguaggio gotico, quale per es. Goro di Ser Neroccio (1382-1456).
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