significato
Dal lat. significatus -us «senso, indizio». Il contenuto espressivo di parole, frasi, gesti e in genere di qualsiasi mezzo di comunicazione e di espressione. Il problema del s. attraversa con alterne fortune pressoché tutta la storia della filosofia, dal pensiero classico a quello medievale e moderno fino al Novecento, quando rinasce sotto nuove forme (che talvolta rivelano tuttavia una sostanziale continuità con le soluzioni del passato) soprattutto per effetto degli sviluppi della logica e della riflessione filosofica a questa connessa. Nell’ambito di tale rinascita, il problema del s. diviene l’oggetto centrale della semantica (➔), cioè della branca della semiotica che studia il rapporto tra i segni e ciò a cui questi si riferiscono.
Se le prime riflessioni intorno al s. risalgono alla filosofia presocratica, e trovano spazio nei dialoghi platonici (in partic. nel Cratilo, nel Sofista e nel Teeteto), è soprattutto nell’Organon aristotelico (e in partic. nel De interpretatione), che si può riscontrare una prima teoria compiuta, che fa dipendere il s. delle forme linguistiche, riconosciute come del tutto arbitrarie e frutto di convenzioni, dalla loro relazione con le «affezioni dell’anima» che altro non sono che copie mentali delle cose reali. In Aristotele troviamo anche la distinzione tra vari tipi di s.; per un verso egli distingue il s. del nome che è senza tempo, da quello del verbo che «significa, in aggiunta, il tempo»; inoltre, per quanto riguarda gli enunciati, distingue il s. apofantico proprio degli enunciati dichiarativi, a cui appartiene l’essere vero o falso, dal s. retorico proprio di quegli enunciati che sono usati prevalentemente con intenti persuasivi. Agli stoici Cleante di Asso e Crisippo di Soli si fa risalire la prima dottrina completa sulle cose significate o espresse (λεκτά), e in partic. la distinzione tra ciò che significa, ciò che viene significato e l’oggetto, ovvero tra l’espressione linguistica, il s. vero e proprio ‒ che altro non è che una «rappresentazione razionale» della cosa cui si pensa ‒ e la cosa nella sua esistenza esterna. A Gugliemo di Shyreswood, Pietro Ispano e Guglielmo di Occam si può invece attribuire l’importante distinzione tra significatio e suppositio, in cui si manifesta un diverso modo di guardare al s. di una parola, termine o espressione, a seconda che si consideri ciò cui ci si riferisce parlando (in questo caso è in gioco la suppositio), o ciò che si dice di ciò cui ci si riferisce (è questa la significatio). Nella filosofia moderna, una teoria che concepisce il s. come un’idea legata alla parola e che viene risvegliata nel pronunciarla anche nell’ascoltatore fu proposta nel 17° sec. nella Logica di Port-Royal (➔) (1662). Non diversamente, nell’Essay concerning human understanding (1690; trad. it. Saggio sull’intelletto umano) (➔), Locke sostenne la tesi secondo la quale la funzione delle parole è quella di essere contrassegno delle idee e che le idee dunque sono il loro significato. Le teorie razionalista ed empirista del s. concordavano quindi nel concepire le parole come raffigurazioni o nomi di idee, mentre poi si distinguevano nel concepire, rispettivamente, come necessaria e naturale o come convenzionale e volontaria la relazione tra significante e significato.
Per la storia della riflessione filosofica sul s. particolarmente importante è il System of logic (1843; trad. it. Sistema di logica deduttiva e induttiva) (➔) di J.S. Mill. Questi rileva che la concezione denotazionista del s. può rendere conto solo del funzionamento dei nomi propri, che si riferiscono appunto a delle cose od oggetti, mentre non può spiegare quella più importante dimensione del significare in cui è in gioco l’applicazione di attribuzioni alle cose cui ci si riferisce. Mill collega poi questa dimensione connotativa del s., che sarebbe propria non tanto dei nomi quanto dei termini generali, a dei «concetti» o delle «essenze» cui ci si riferirebbe. Ma è soprattutto a Frege che si può far risalire la nascita della riflessione contemporanea sul s., e più in partic. alla sua famosa distinzione – per molti versi analoga a quella di Mill – tra il vero e proprio s. (Bedeutung) di un segno, che sarebbe l’oggetto denotato o designato, e il suo senso (Sinn) ovvero il «modo in cui quell’oggetto ci viene dato». La profonda differenza tra s. e senso di un’espressione risulta chiara se consideriamo che mentre enunciati come «la stella del mattino» e «la stella della sera» hanno indubbiamente un senso diverso, pur tuttavia trasmettono lo stesso s. in quanto entrambi si riferiscono allo stesso oggetto, il pianeta Venere. Questo modo di affrontare la questione portò Frege a riconoscere che tutte le proposizioni vere hanno lo stesso s. in quanto denotano lo stesso oggetto e cioè il Vero; ciò comporta che è possibile identificare formalmente in modo univoco la classe di tutte le proposizioni vere senza tenere conto delle diversità di senso. Fondamentale per la costituzione della logica verofunzionale, la teoria di Frege lasciava comunque irrisolto il problema del Sinn, o, quanto meno, poneva con tale nozione − quella che più strettamente corrisponde alla intuitiva nozione di s. − un problema alla riflessione filosofico-linguistica a lui successiva. Va comunque ricordato che a Frege risale una tesi che, pur nella diversità delle interpretazioni, avrebbe avuto grande influenza nella semantica filosofica almeno a partire da Wittgenstein, e cioè che il senso di un enunciato consista nelle sue condizioni di verità, ossia, in analogia col senso di un nome, nell’insieme delle condizioni che devono essere soddisfatte perché esso denoti il Vero (o sia vero). La teoria del s. come raffigurazione trova poi nella filosofia analitica della prima metà del 20° sec. la sua formulazione più esaustiva. Così Russell poneva al centro del suo atomismo logico una teoria del s. che interpretava tutte le proposizioni complesse significanti come riducibili a proposizioni atomiche, in cui compaiono solo nomi di dati sensoriali. Wittgenstein, nel Tractatus logico-philosophicus (1922; trad. it.), oltre a sostenere che il nome significa l’oggetto e che dunque il nome fa le veci dell’oggetto nella proposizione, affermava anche una completa corrispondenza tra la struttura della frase significante e la struttura del fatto rappresentato. Un’analoga concezione della natura del s. si trova tra gli esponenti del Circolo di Vienna che condividevano la tesi di Schlick, secondo cui «il s. di una proposizione è il metodo della sua verifica». L’accettazione di questa concezione del s. come verificabilità empirica portava i neopositivisti a negare qualsiasi s. a proposizioni che ‒ come quelle etiche, estetiche, religiose e metafisiche ‒ non fossero riconducibili a constatazioni di fatti. Ma proprio nel 20° sec. si è anche avuta una serie di tentativi di proporre teorie alternative rispetto a quella che assimila il s. a una raffigurazione o a una denotazione di un oggetto fisico o mentale. Così, la tendenza a concepire il s. linguistico in termini di una relazione di raffigurazione o denotazione porta Husserl, nelle Logische Untersuchungen (1900-01; trad. it. Ricerche logiche), a considerare l’espressione linguistica come legata in modo associativo a un oggetto intenzionale costituito da un certo corso di esperienze psichiche. Alle riflessioni di Peirce e di Mead si può invece far risalire la prima comparsa di quella teoria pragmatista o comportamentista del s., che, riproposta da C.K. Ogden e L.A. Richards con The meaning of meaning (1923; trad. it. Il significato del significato), fatta valere nella linguistica da L. Bloomfield con Language (1933; trad. it. Il linguaggio), troverà in Signs, language and beahavior (1946; trad. it. Segni, linguaggio e comportamento) di Morris e in Ethics and language (1944, trad. it. Etica e linguaggio) di Stevenson la presentazione più sistematica. Il più radicale ridimensionamento delle teorie referenzialiste del s. si deve comunque a Wittgenstein, o meglio alla sua produzione successiva agli anni Trenta (pubblicata post. nelle Philosophische Untersuchungen; trad. it. Ricerche filosofiche, e nei Blue and brown books; trad. it. Libro blu e libro marrone), nella quale avrebbe abbandonato il modello referenziale del s. a favore di una concezione più articolata e pragmatica del linguaggio, in cui la denotazione viene considerata soltanto una tra le molteplici funzioni che possono svolgere le espressioni linguistiche e il s. è individuato nell’«uso» (Gebrauch) delle espressioni linguistiche piuttosto che nei referenti. L’ambiente in cui Wittgenstein maturò questa concezione fu quello di Cambridge, dove l’insegnamento di Moore aveva suscitato una particolare attenzione per l’analisi linguistica. L’altro importante centro che, tra gli anni Trenta e Cinquanta, elaborò, assieme a Cambridge, questo tipo di analisi fu Oxford, dove operarono, tra gli altri, Ryle, Strawson, Austin. L’approccio pragmatico allo studio del s. è stato particolarmente sviluppato da Searle (Speech acts. An essay in the phi-losophy of language, 1969; trad. it. Atti linguistici: saggio di filosofia del linguaggio), al quale si deve la sistematizzazione della teoria degli atti linguistici elaborata da Austin e l’approfondimento della nozione di forza illocutoria. Grice (Studies in the way of words, 1989; trad. it., insieme con altri saggi, in Logica e conversazione) ha analizzato la nozione di s. in rapporto, da un lato, alle intenzioni comunicative del parlante e, dall’altro, al riconoscimento di tali intenzioni da parte di un uditorio, fornendo anche un’originale analisi dei meccanismi linguistico-psicologici che rendono possibile la trasmissione di informazioni presupposte tacitamente, suggerite o fatte intendere implicitamente (nozione di implicatura conversazionale). Non meno rilevante è stato il contributo di Quine al chiarimento dei limiti dell’impostazione neopositivistica e di ogni teoria che associa a ciascun enunciato un’entità (astratta o mentale) o un insieme di esperienze intesi come suo s.; più in partic., mediante il famoso esperimento mentale della «traduzione radicale» (World and object, 1960; trad. it. Parola e oggetto), Quine è pervenuto a una concezione olistica del s., per la quale gli enunciati sono privi di un s. (empirico) autonomo e acquistano s., o sono significanti, solo all’interno del linguaggio cui appartengono grazie alle interconnessioni che hanno col vasto insieme degli enunciati di cui si compone un intero sistema linguistico. Ispirata in parte a Quine e in parte alla semantica di Tarski è la teoria «verocondizionale» del s. proposta da D.H. Davidson, una delle più influenti tra gli anni Settanta e Novanta del sec. 20°. Contestando l’approccio davidsoniano, in cui la nozione di riferimento viene notevolmente ridimensionata, Putnam (The meaning of meaning, 1975, rist. in Philosophical papers, vol 2°), in sintonia con Kripke, ha riproposto in una nuova veste la concezione referenzialistica del s., basandola sulla tesi metafisica dell’indipendenza dal linguaggio di un insieme di entità e sostanze alle quali sarebbero legate causalmente (a partire dall’uso originario di certi termini) le intenzioni referenziali dei parlanti di là dalle mutevoli caratterizzazioni epistemiche utilizzate per individuare quelle entità e sostanze (➔ anche riferimento). A Dummett, infine, si deve la riproposizione in ambito semantico-pragmatico di una nuova forma di verificazionismo, benché di tipo diverso da quello neopositivistico; criticando la tesi di Davidson (e altri), Dummett ha posto in rilievo il ruolo svolto, nella comprensione degli enunciati da parte dei parlanti, dalle condizioni di «asseribilità» piuttosto che di verità, ossia dalla conoscenza delle ragioni o delle prove che si possono avanzare per giustificarli e, quindi, per asserirli correttamente.