SIGNIFICATO
Linguistica. - Cardine della riflessione sul linguaggio, poiché questo serve innanzitutto a significare, e luogo della relazione mondo-pensiero-linguaggio, la nozione di s. è lontana dall'aver trovato una definizione univoca. Riprendendo le coppie significante/significato e espressione/contenuto introdotte rispettivamente da F. de Saussure e L. Hjelmslev per indicare i due piani in cui si articola un segno, si può definire il s. come il contenuto concettuale associato a una forma espressiva (a un significante fonico o grafico), e la semantica, branca della linguistica che studia il s., come lo studio del piano del contenuto delle lingue storico-naturali; definizione che fa intravedere gli intrecci della semantica linguistica da un lato con lo studio semantico di altri linguaggi non verbali (nella definizione di Ch. Morris, la semantica è l'area della semiotica che indaga le relazioni tra i segni e ciò che essi designano), dall'altro, riguardo alla natura del contenuto segnico e della relazione tra esso e la forma che lo esprime, con la secolare riflessione filosofica sul significato.
Benché l'adesione all'una o all'altra concezione del s. porti a forti divergenze su quale sia l'oggetto della semantica − campo nel quale convivono linee di ricerca i cui domini, oltre che i principi esplicativi, sono molto differenziati − si possono individuare temi comuni a ogni studio linguistico del s., relativi ai tipi di s., ai tipi di relazioni semantiche, alle caratteristiche generali del piano del contenuto.
Riguardo ai tipi di s. è importante la distinzione tra senso e s., che si rifà nell'uso dei linguisti a quella di G. Frege tra Sinn e Bedeutung: il senso è il riferimento concreto che un parlante compie, con un segno, a un oggetto specifico (il particolare cane cui un particolare parlante si riferisce con Ecco il cane), il s. è la classe cui appartengono tutti i potenziali sensi particolari (il contenuto concettuale di cane). Parallela a questa è la distinzione tra s. denotativo (denotazione/estensione) e s. connotativo (connotazione/intensione), che oppone la capacità di un'espressione di riferirsi a un'entità extralinguistica, il referente (nel caso di cane, un particolare cane), a quella di fornire informazione generale (data dall'insieme delle proprietà attribuite ai cani). In particolare, il s. denotativo (o descrittivo, referenziale, cognitivo) è il s. di una frase in virtù del quale essa corrisponde o meno a uno stato di cose in un mondo possibile, cioè è vera o falsa rispetto a esso, in opposizione ad altri tipi di s. che non hanno a che fare con denotazione e verità: il s. espressivo (o emotivo, affettivo), relativo all'espressione di atteggiamenti o sensazioni (a parità di s. descrittivo, Lia piangeva e Lia frignava hanno diverso s. espressivo perché la seconda esprime un'attitudine ''negativa'' verso il pianto di Lia); il s. evocativo, relativo al potere delle espressioni di evocare immagini e idee oltre il loro s. descrittivo (si pensi, al di là del loro denotare particolari aree geografiche, alla capacità suggestiva di parole come deserto o oriente); il s. sociale, relativo alla funzione di creare e mantenere relazioni comunicative (per es. formule di saluto come Come stai?, Buongiorno). È legata a quest'ultimo aspetto del s. la distinzione tra il s. proposizionale, che una frase ha, indipendentemente dai contesti d'uso, in quanto appartiene a una lingua, e il s. dell'enunciato, che essa assume nell'uso concreto per attuare scopi pragmatici (come frase italiana, Fa freddo qui è un'asserzione sulla temperatura, ma enunciata in un contesto reale può acquisire il senso di una richiesta indiretta ''chiudete la finestra''). Il s. proposizionale coincide col s. letterale, detto anche composizionale perché derivabile dai s. dei componenti della frase, opposto al s. figurato, non composizionale (data la frase Lia ha vuotato il sacco, conoscendo il s. di vuotare e sacco e la grammatica italiana, si può ricavare il s. letterale ''Lia ha privato il sacco del suo contenuto'', ma non il s. metaforico ''Lia ha rivelato ciò che sapeva'').
La semantica descrittiva individua vari rapporti di senso tra le unità del vocabolario, i lessemi. I rapporti sintagmatici riguardano la co-occorrenza dei lessemi nella frase e, poiché non ogni combinazione è semanticamente accettabile, i limiti che essa presenta. Il principale limite è dato dalle restrizioni di selezione: il verbo ammazzare seleziona un oggetto animato, dunque una frase come Lia ha ammazzato il libro, che viola la restrizione perché il libro è inanimato, non è semanticamente accettabile; il potere esplicativo delle restrizioni di selezione è tuttavia limitato dal fatto che le metafore sono accettabili pur violando le restrizioni (v. Con quella stroncatura Lia ha ammazzato il libro, o Lia ha ammazzato il tempo guardando la TV). Al di fuori della frase, un lessema ha rapporti paradigmatici con altri lessemi della lingua. Si ha sinonimia se lessemi diversi condividono uno o più sensi; è pressoché inesistente la sinonimia assoluta, implicante la perfetta sostituibilità dei lessemi in ogni contesto (tra/fra), mentre è frequente la sinonimia parziale (testa/capo), spesso associata a differenze espressive o di registro (testa/zucca, varechina/ipoclorito sodico). Si ha iponimia o inclusione se il s. di un lessema è parte del s., più generale, di un altro (detto iperonimo: fiore è iperonimo di rosa). Riguardano l'opposizione di s. le relazioni di complementarità, in cui due lessemi esauriscono del tutto un'area concettuale (vivo/morto); di antonimia, in cui indicano i poli di una nozione graduabile senza esaurirla (caldo/freddo); di inversione, in cui esprimono la stessa nozione da prospettive speculari (comprare/vendere). Inversa alla sinonimia è l'omonimia, l'identità fonica (omofonia) o grafica (omografia) di lessemi di s. diverso (ancora sostantivo e ancora avverbio sono omografi, banda ''lato'' e banda ''striscia'' sono anche omofoni); si ha invece polisemia se più significati sono riconducibili a un unico lessema, come sue accezioni.
Metaforicità, omonimi la cui diversità di s. non è determinabile a partire dalla forma, sinonimie non definibili analiticamente (com'è invece quella tra ''3+3'' e ''5+1''), sono elementi legati a una caratteristica generale della semantica delle lingue naturali, che la rende in parte diversa da quella di altri linguaggi.
La vaghezza o indeterminatezza semantica, dovuta all'apertura del s. linguistico e alla sua disponibilità ad accogliere nuovi, imprevedibili sensi, cosicché è impossibile determinare in modo sì/no i sensi cui un s. si estende e dunque l'applicabilità di un'espressione a un referente. L'effetto della vaghezza − una creatività costitutiva dovuta alla continua variazione del numero e contenuto delle parole − è evidente in diacronia, cioè considerando la lingua nella sua evoluzione: nel tempo le parole cambiano s., perdono e acquistano sensi (per es. sensi figurati o tecnico-scientifici), il piano del contenuto si riorganizza; il mezzo più potente di cui le lingue dispongono per estendere i confini del s. è la metafora, tramite la quale sono investite di nuovi sensi sia singole parole (come per volpe ''persona astuta'') sia intere aree lessicali (come nell'uso di termini relativi al vedere per esprimere nozioni relative al conoscere e al comprendere, per es. un concetto chiaro/oscuro, fare luce su qualcosa, aprire gli occhi a qualcuno). E soprattutto, gran parte delle parole comuni, come alto o madre, costituiscono categorie dai confini variabili anche in sincronia, cioè considerando la lingua in un tempo idealmente statico, tali che è difficile stabilire esattamente quali entità e sensi vi rientrino e dunque quali siano le condizioni di verità di asserzioni come X è alto, X è la madre di Y (quant'è alta una persona alta? una donna che usi il proprio utero per crescervi l'ovulo di un'altra donna e partorirne un figlio, è o no la madre del bambino?); in questi casi le possibili interpretazioni non sono predette o descritte esaustivamente da regole formali della lingua: è il grado di intesa dei parlanti, variabile nel tempo e fra i parlanti stessi, in merito alla struttura delle categorie in questione, a stabilire le condizioni d'applicabilità delle parole, le regole del loro uso.
Proprio l'indagine della variazione diacronica del s. ha avviato, a fine Ottocento, una semantica specificamente linguistica. L'analisi dei tipi di mutamento semantico che subiscono le parole di una o, comparativamente, più lingue, e delle loro cause, è infatti l'oggetto principale della semantica storico-filologica prestrutturalista, rappresentata fra gli altri da H. Paul, M. Bréal, W. Wundt, A. Meillet, K. Nyrop. In seguito oscurata dal prevalere di approcci formali al linguaggio e dell'interesse per l'analisi sincronica del s. (con le salienti eccezioni di S. Ullmann, cui si deve una delle migliori opere sul mutamento semantico, e della semantica diacronica strutturale di E. Coseriu), la tradizione storico-filologica è oggi fortemente rivalutata in ambito cognitivista per il suo orientamento psicologico, dovuto al concepire il s. come un'entità mentale e il mutamento semantico come effetto di processi psicologici, e per il rilievo dato al nesso tra fatti linguistici ed extralinguistici, tra s. ed esperienza, individuale e sociale, del mondo. Con le tesi di de Saussure e il loro sviluppo nello strutturalismo la semantica trova, oltre alla dimensione sincronica, la sua prima forte cornice teorica. Alla base della semantica strutturale c'è l'idea dell'autonomia linguistica del s., conseguenza della tesi saussuriana dell'arbitrarietà del segno per la quale non c'è alcun motivo esterno alla lingua stessa a che in essa esistano certi, e non altri, significanti e significati. Ogni lingua crea i propri s. articolando liberamente, cioè senza che su ciò influiscano le caratteristiche della realtà o del modo in cui gli esseri umani la percepiscono, il nastro indifferenziato delle possibili significazioni (talché per es. l'area che il latino articola in albus/candidus ''bianco opaco/bianco brillante'' e ater/niger ''nero opaco/nero brillante'' è articolata in italiano in bianco/nero); perciò il s. è un'entità tutta linguistica: privo di basi oggettive o psicologiche, esso si definisce solo all'interno del sistema di valori, la lingua, in cui ogni termine riceve il suo per contrasto con gli altri. Coerentemente con questa concezione del s., la semantica strutturale (cui si rifanno E. Coseriu, H. Geckeler, A.J. Greimas, J. Lyons, E. Nida, B. Pottier, L.J. Prieto, J. Trier, U. Weinreich) ha elaborato un metodo, l'analisi in tratti, per descrivere il s. dei lessemi solo in base alle relazioni che hanno con altri all'interno della lingua.
L'idea, mutuata dall'analisi fonologica in tratti distintivi, è che il s. sia rappresentabile come una configurazione di tratti nei quali è scomponibile (detti sèmi o componenti semantici, donde anche la denominazione di analisi componenziale), che emergono opponendo un lessema ad altri semanticamente correlati: opponendo uomo a bestia emerge il tratto ±UMANO, opponendolo a donna emerge il tratto ±MASCHIO, opponendolo a bambino quello ±ADULTO, dunque ''uomo'' è descrivibile come [+UMANO, +MASCHIO, +ADULTO], ''donna'' come [+UMANO, − MASCHIO, +ADULTO] ecc.; estendendo l'analisi si può pensare di descrivere la struttura di interi campi semantici, insiemi di lessemi che condividono un'area di significazione (come madre, padre, figlio, zio, nonno, ecc. nel campo dei termini di parentela), e in teoria dell'intero lessico. In pratica, però, l'analisi componenziale presenta difficoltà che ne hanno limitato l'applicazione a parti minime di lessico e reso incerto il potere esplicativo: essa si rivela non economica e poco efficace se estesa quantitativamente o qualitativamente, occorrendo un numero enorme di tratti, spesso ardui da individuare, per descrivere adeguatamente ampi insiemi di lessemi o, anche nel caso di insiemi minimi, le differenze semantiche più sottili o non denotative (si pensi alla difficoltà di descrivere coppie come ammazzare e uccidere, andare e recarsi); inoltre restano dubbi sia lo statuto dei tratti (se abbiano basi psicologiche o siano scelti ad hoc dal linguista, come fa temere il fatto che spesso vi sono più analisi plausibili degli stessi lessemi), sia, a causa della vaghezza, la possibilità stessa di individuare tutti i tratti necessari a descrivere un s. compiutamente.
Comunque l'analisi componenziale continua a essere praticata in semantica, ed è stata adottata nell'ambito della grammatica generativo-trasformazionale (J.J. Katz, J.A. Fodor) come mezzo per determinare le combinazioni possibili nella lingua, formulate in termini di restrizioni di selezione (in base all'analisi in tratti, sarebbe possibile la combinazione un uomo adulto ma non un bambino adulto), e soprattutto per individuare gli aspetti del s. che costituiscono le conoscenze semantiche puramente linguistiche dei parlanti. Nonostante il suo assunto mentalista, per cui ritiene il linguaggio parte di un più ampio sistema di facoltà mentali, il generativismo continua infatti lo strutturalismo nel postulare un livello semantico linguisticamente autonomo, descrivibile facendo astrazione da fattori detti extralinguistici o enciclopedici quali le conoscenze sul mondo, la percezione, le strutture concettuali (rappresenta un'eccezione R. Jackendoff, per il quale la struttura semantica coincide con la struttura concettuale − un livello di rappresentazione mentale unificato contenente l'informazione linguistica e percettiva − e la semantica con la psicologia cognitiva); e nel complesso, esso eredita dallo strutturalismo statunitense (specie da L. Bloomfield, per il quale la definizione del s. esula dalla linguistica e compete alle scienze che descrivono gli oggetti di cui le parole sono sostituti) una forte diffidenza per il s., che lo porta a relegare il componente semantico della grammatica nel ruolo interpretativo di strutture generate dal prioritario componente sintattico. Un tentativo alternativo alla teoria generativa standard si è avuto negli anni Settanta con la semantica generativa, che affida alla semantica anziché alla sintassi il ruolo generativo di determinare la struttura delle frasi, e più in generale rivendica sia la non autonomia della grammatica dai fattori extralinguistici (abilità cognitive, contesto, interazione sociale) sia la vaghezza, il carattere non discreto, dei fenomeni linguistici. Fallita la semantica generativa come branca della grammatica generativa, questi assunti diverranno la base della semantica cognitiva, nella quale si muovono oggi, in antitesi con la teoria generativa, ex semanticisti generativi come G. Lakoff e R. Langacker.
Sorta alla fine degli anni Settanta dagli sviluppi della semantica generativa, la semantica cognitiva è la maggiore novità nel panorama recente della semantica. Essa rifiuta ogni scissione tra fatti linguistici ed extralinguistici sottolineando il legame tra il linguaggio e la cognizione umana volta a interpretare ed esprimere l'esperienza del mondo: il linguaggio non è un'entità autonoma, indipendente da altre facoltà e conoscenze cosiddette extralinguistiche, al contrario assolve il suo scopo proprio perché si sviluppa e funziona in stretta relazione con quelle; e non è arbitrario perché le sue caratteristiche sono condizionate da quelle della realtà e del modo in cui gli umani la esperiscono (la percepiscono, la conoscono).
Soprattutto lo studio del s., punto elettivo del nesso tra linguaggio e realtà, va dunque condotto tenendo conto del funzionamento delle facoltà percettive e delle abilità cognitive degli umani, dell'insieme della loro esperienza fisica, sociale, culturale (da qui il nome di semantica esperienziale o esperienzialismo), servendosi anche dei risultati di psicologia, antropologia, neurofisiologia, percettologia. In questa prospettiva, per es., il lessico spaziale (in, su, alto, basso, dietro, ecc.) e in generale l'espressione linguistica dello spazio sono studiati in relazione alle caratteristiche della realtà percepita (come l'esistenza della forza di gravità) e del percettore (l'orientamento ''in avanti'' degli organi percettivi − occhi, naso, orecchie −, l'orientamento verticale dato dalla stazione eretta, ecc.); e la metafora è descritta non in termini di violazione delle restrizioni di selezione ma come meccanismo cognitivo volto a trasferire conoscenze relative a domini più accessibili con l'esperienza (lo spazio, la visione) a domini meno accessibili percettivamente (il tempo, la conoscenza).
La semantica cognitiva ha avuto un forte impulso dalla teoria dei prototipi avanzata dalla psicologa E. Rosch riguardo alla natura delle categorie (classi concettuali come uccelli, cui appartengono passero, aquila, ecc.): queste non sono definite da liste di proprietà tutte di pari importanza che stabiliscono in modo sì/no quali entità vi rientrino, perché alcune proprietà (percettivamente più salienti e che più distinguono certe entità da altre, come il volare per gli uccelli) sono più importanti di altre per definire la categoria; perciò le categorie sono strutture graduali che hanno al centro casi prototipici (i passeri), che meglio ne rappresentano le proprietà salienti, e sfumano via via verso casi meno tipici o per cui può essere persino dubbia l'appartenenza categoriale (i pinguini sono uccelli ma non volano). Applicata alla semantica delle lingue, la teoria dei prototipi si oppone alla tesi dell'arbitrarietà, poiché sostiene che le categorie espresse dal lessico non sono creazioni arbitrarie delle lingue ma sono condizionate da fattori percettivi e cognitivi, e soprattutto all'uso del metodo componenziale: i concetti lessicali non sono strutture discrete ben definite, ma insiemi polisemici sfumati che inglobano sensi prototipici (nell'esempio di madre, il prototipo è la donna che partorisce un figlio generato dal suo ovulo) e sensi meno prototipici (la madre adottiva) o addirittura conflittuali con quello prototipico (la donna che partorisce un figlio generato dall'ovulo di un'altra), perciò non possono essere descritti da liste di tratti/proprietà tra loro equivalenti, con le quali si pensi di determinare rigidamente i confini del s. e decidere algoritmicamente quali sensi vi rientrano e quali no. Un'analisi in prototipi appare invece psicologicamente ed empiricamente più adeguata dell'analisi componenziale, più adeguata cioè a descrivere la semantica costitutivamente vaga delle lingue storico-naturali, la sua variabilità diacronica e sincronica, il modo in cui i parlanti usano i s. delle parole.
Bibl.: Per la semantica prestrutturalista v. H. Paul, Prinzipien der Sprachgeschichte, Halle 1880; M. Bréal, Essai de sémantique, Parigi 1897 (trad. it., Napoli 1990); A. Meillet, Comment les mots changent de sens, in Année sociologique, 9 (1906), pp. 1-38.
Capisaldi dello strutturalismo sono F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Parigi 1916 (trad. it. a cura di T. De Mauro, Bari 1967) e L. Hjelmslev, Prolegomena to a theory of language, Bloomington 1953 (1ª ediz. danese 1943; trad. it., Torino 1968). Per la semantica strutturale v. in particolare S. Ullmann, Semantics, Oxford 1962 (trad. it., Bologna 1966); J. Lyons, Structural semantics, ivi 1963; B. Pottier, Vers une sémantique moderne, in Travaux de linguistique et de littérature, 2 (1964), pp. 107-37; L.J. Prieto, Principes de noologie, L'Aia 1964 (trad. it., Roma 1967); E. Coseriu, Pour une sémantique diachronique structurale, in Travaux de linguistique et de littérature, 2 (1964), pp. 139-86 (trad. it., in E. Coseriu, Teoria del linguaggio e linguistica generale, Bari 1971, pp. 225-86); A.J. Greimas, La sémantique structurale, Parigi 1965 (trad. it., Milano 1968); H. Geckeler, Strukturelle Semantik und Wortfeldtheorie, Monaco 1971 (trad. it., La semantica strutturale, Torino 1979). Di J. Lyons è importante il manuale generale Semantics, 2 voll., Cambridge 1977 (trad. it. del 1° vol., Manuale di semantica, Bari 1980), che illustra i principali problemi semantici e approcci al s.; di ispirazione strutturalista, ma con un respiro più ampio, è la sintesi teorica presentata da T. De Mauro, Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Bari 1982.
Per la semantica nella teoria generativa v. J.J. Katz, J.A. Fodor, The structure of a semantic theory, in Language, 39 (1963), pp. 170-210; J.J. Katz, P.M. Postal, An integrated theory of linguistic description, Cambridge 1964; R. Jackendoff, Semantic interpretation in generative grammar, ivi 1972; di R. Jackendoff v. anche il più recente Semantic and cognition, ivi 1983 (trad. it., Bologna 1989); per la semantica generativa v. l'antologia a cura di G. Cinque, La semantica generativa, Torino 1979.
Per un quadro complessivo dell'approccio cognitivo v. G. Lakoff, Women, fire, and dangerous things. What categories reveal about the mind, Chicago 1987; R.W. Langacker, Foundations of cognitive grammar, i, Theoretical prerequisites, Stanford 1987; J.R. Taylor, Linguistic categorization, Oxford 1989. Un'esposizione generale della semantica prototipica è in G. Kleiber, La sémantique du prototype, Parigi 1990; presentano il quadro teorico della semantica cognitiva e alcune sue applicazioni E.E. Sweetser, From etymology to pragmatics, Cambridge 1990, e il volume miscellaneo Sémantique cognitive, numero monografico di Communications (Parigi), 53 (1991).
Teorie filosofiche del significato. - Il problema del s. attraversa con alterne fortune pressoché tutta la storia della filosofia, dal pensiero classico a quello medievale e moderno fino al Novecento, quando rinasce sotto nuove forme (che talvolta rivelano una sostanziale continuità con le soluzioni del passato) soprattutto per effetto degli sviluppi della logica e della riflessione filosofica a questa connessa. Una ricognizione delle principali teorie del s. entro la filosofia del Novecento, pertanto, pur escludendo solo per ragioni di opportunità altre direzioni d'indagine (per le quali si rinvia alle voci semantica e semiologia, App. IV, iii, pp. 298 e 301), non può che privilegiare il contributo che su tale nozione ha apportato la filosofia analitica, entro la quale si ritrova un autonomo settore di ricerca dedicato specificamente al problema del significato. La cosiddetta "svolta linguistica" che caratterizza la filosofia analitica sin dai suoi primordi ha del resto posto in primo piano i problemi relativi al rapporto tra linguaggio (piuttosto che concetti o idee) e realtà da un lato, alla comunicazione dall'altro.
Generalmente si fa risalire a G. Frege (1892) la nascita della riflessione contemporanea sul s., anche se in Frege tale riflessione sorgeva in dipendenza dalle sue ricerche sui fondamenti della matematica. Benché la sua famosa distinzione tra senso (Sinn) e denotazione (Bedeutung) sia per molti versi analoga a quella di J. Stuart Mill tra ''connotazione'' e ''denotazione'' (ma anche a quella leibniziana tra ''intensione'' ed ''estensione''), essa era stata escogitata dal logico tedesco soprattutto per rendere ragione dell'apparente paradossalità delle asserzioni di identità: se l'asserto "a=b" esprime un'identità, in che cosa esso si distingue dall'asserto "a=a" che appare privo del contenuto informativo posseduto dal precedente? Quando si dice di qualcosa, per es. della stella della sera, che è identica a qualcos'altra, per es. alla stella del mattino, si fa un'asserzione che ha un indubbio valore conoscitivo (si tratta in effetti di un'asserzione che esprime una scoperta di tipo astronomico), valore che non hanno le asserzioni analitiche di identità di ogni oggetto con se stesso. Da questa considerazione Frege fu portato a distinguere tra il senso e la denotazione di un segno linguistico: un'asserzione del tipo "a=b" afferma che l'oggetto denotato da "a" e quello denotato da "b" sono lo stesso e identico oggetto (per es. il pianeta Venere), pur esprimendo "a" e "b" sensi diversi ("la stella della sera", "la stella del mattino"). Il senso di un segno (nome) era per Frege il modo in cui l'oggetto "ci vien dato", il modo d'identificarlo, ossia la specificazione delle condizioni o proprietà che l'oggetto deve soddisfare affinché sia il referente del segno.
Questa distinzione veniva estesa da Frege anche agli enunciati, che egli considerava, sul piano logico, analoghi ai nomi propri: gli enunciati esprimerebbero per Frege un senso (Gedanke o proposizione), un contenuto semantico oggettivo di cui ci si può chiedere se sia vero o falso, e denoterebbero un oggetto, il loro valore di verità (il Vero o il Falso). Per quanto singolare, questo esito della teoria di Frege era tuttavia coerente con i suoi presupposti referenziali: agli enunciati Frege assegnava come denotazione un valore di verità poiché, in analogia con quanto accade per le espressioni coreferenziali − intercambiabili l'una con l'altra senza pregiudicare il valore di verità dei contesti in cui occorrono −, nel caso degli enunciati è l'equivalenza del loro valore di verità, di là dalle differenze di senso, che ne consente l'intercambiabilità salva veritate. Fondamentale per la costituzione della logica verofunzionale, la teoria di Frege lasciava comunque irrisolto il problema del Sinn, o, quanto meno, poneva con tale nozione − quella che più strettamente corrisponde alla intuitiva nozione di s. − un problema alla riflessione filosofico-linguistica a lui successiva. L'impostazione radicalmente antipsicologistica e gli esiti platonistici delle tarde concezioni di Frege sui Gedanken (1918-19), cittadini di un "terzo regno" né fisico né mentale − in ciò non distanti dagli Objektive di A. Meinong e dai Sätze an Sich di B. Bolzano − rappresentano in larga misura la maggior difficoltà della teoria fregeana. Va comunque ricordato che, come ha sottolineato M. Dummett (1959, 1973), a Frege risale una tesi che, pur nella diversità delle interpretazioni, avrebbe avuto grande influenza nella semantica filosofica almeno a partire da L. Wittgenstein, e cioè che il senso di un enunciato consista nelle sue condizioni di verità, ossia, in analogia col senso di un nome, nell'insieme delle condizioni che devono essere soddisfatte perché esso denoti il Vero (o sia vero).
A B. Russell si deve il tentativo di fare a meno della nozione di Sinn a favore di una teoria del s. schiettamente referenziale. Identificando il s. con l'oggetto denotato da un nome proprio, Russell si trovò tuttavia dinanzi alla difficoltà (ereditata dalle dottrine di Meinong) relativa alle espressioni prive di denotazione (per es., "il quadrato circolare", "l'attuale re di Francia"), di cui non si vorrebbe negare la significanza (si pensi alla paradossalità di un'asserzione come "il quadrato circolare non esiste" una volta ammesso che il soggetto grammaticale della frase debba avere un riferimento per essere significante). La "teoria delle descrizioni" (1905) fu il mezzo con cui Russell cercò di superare tale difficoltà, considerando le espressioni descrittive prive di referente non, secondo la soluzione fregeana, come nomi propri che non consentono di attribuire alcun valore di verità agli enunciati in cui occorrono (i nomi autentici hanno per Russell sempre un referente), ma come "simboli incompleti" solo apparentemente denotativi che possono essere riformulati entro contesti in cui scompaiono come espressioni referenziali (l'esempio citato più sopra verrebbe parafrasato più o meno così: "è falso che vi sia un oggetto x che sia quadrato e circolare"). Ciò permetteva di evitare la postulazione di entità irreali ("sussistenti", nella terminologia di Meinong) come loro referenti e di conservare la teoria denotativa del significato.
Di là dal problema degli oggetti inesistenti, la concezione russelliana di che cosa fosse un "nome proprio" era comunque fondata su una teoria fenomenistica della conoscenza che impediva, a rigore, di considerare come autentici nomi propri anche espressioni designative aproblematiche quali, per es., "Socrate", "Kant", "Napoleone". Poiché degli individui denotati da tali nomi la maggior parte di noi non ha una conoscenza "diretta" (by acquaintance), cioè sensoriale, ma solo "per descrizione" (by description), Russell (1910-11) fu portato a concludere che tali espressioni non sono in realtà veri e propri nomi, ma descrizioni abbreviate variabili da persona a persona (per es. "il maestro di Platone", "il marito di Santippe", "l'autore della Critica della ragion pura"), e come tali da sottoporre a parafrasi nei contesti in cui occorrono onde esplicitare il loro s. referenziale. Singolarmente, da queste tesi derivava un'analisi semantica dei nomi non dissimile da quella fregeana (come dimostrerà successivamente S. Kripke: v. oltre): la descrizione associata al nome, analogamente al Sinn fregeano, è infatti il modo di determinarne il riferimento, ossia un criterio epistemico che permette una sua non ambigua identificazione.
La concezione denotazionistica russelliana sarebbe sfociata nella dottrina metafisica nota come atomismo logico (1918-19), implicante, a grandi linee, un isomorfismo tra il linguaggio logico dei Principia Mathematica e la realtà: entità particolari e fatti (atomici) indipendenti (consistenti nelle relazioni tra tali entità), le une e gli altri di tipo sensoriale, sarebbero, per questa concezione, i correlati ontologici dei nomi e degli enunciati (atomici). Una prospettiva analoga (se si fa eccezione per il fenomenismo) sarebbe stata anche alla base del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, le cui idee avevano influenzato lo stesso Russell. La tesi semantica fondamentale del Tractatus è che "il nome significa l'oggetto. L'oggetto è il suo significato" (anche se Wittgenstein riconosceva, con Frege, che solo entro un enunciato un nome ha un riferimento). Su tali basi il filosofo austriaco teorizzava quella teoria raffigurativa o pittorica del linguaggio secondo cui "un nome sta per una cosa, un altro per un'altra cosa e sono connessi tra loro: così il tutto presenta − come un quadro plastico − lo stato di cose". Un enunciato è dotato di "senso" (Sinn), secondo tale teoria, soltanto in quanto è una raffigurazione di possibili stati di cose mediante i segni designanti gli oggetti e le loro relazioni; sulla base della concezione verofunzionale del linguaggio − secondo cui il valore di verità di un enunciato complesso è funzione del valore di verità degli enunciati elementari di cui è composto − Wittgenstein riusciva inoltre a selezionare come enunciati significanti quelli la cui verità o falsità dipende dall'accordo o disaccordo degli enunciati elementari con gli stati di cose.
Il Tractatus wittgensteiniano tendeva a identificare il s. (o senso) di un enunciato con le sue condizioni di verità, cioè con ciò che deve verificarsi perché sia vero ("comprendere una proposizione vuol dire saper che accada se essa è vera"; "la proposizione è l'espressione delle sue condizioni di verità"), escludendo nel contempo le asserzioni metafisiche dall'ambito di quelle significanti. Entrambe le tesi suscitarono l'interesse di alcuni componenti del Circolo di Vienna (M. Schlick in particolare), i quali ne trassero argomenti per le loro dottrine antimetafisiche volte a definire un criterio di significanza empirico (per enunciati invece che per singoli termini) che permettesse di squalificare come privi di s. gli enunciati non vertenti, sia pure in modo indiretto e in linea di principio, su ciò che è verificabile attraverso esperienze sensoriali. Se le indicazioni di Wittgenstein sugli "oggetti" e gli "stati di cose" raffigurati da enunciati elementari sensati venivano in tal modo interpretate in chiave radicalmente empiristica, va comunque precisato che sulla teoria verificazionista del s. agiva anche l'influenza del fenomenismo di Russell (1914) − evidente, per es., nel R. Carnap di Der logische Aufbau der Welt (1928) −, l'adesione ai cui presupposti la caratterizzava soprattutto come una teoria della conoscenza. Dottrina gnoseologica ed epistemologica ("il significato di un enunciato è il metodo della sua verificazione" fu una delle sue formule più famose), la teoria verificazionista del s. rientra quindi solo parzialmente nella problematica del s., essendo le questioni a cui essa intendeva rispondere − di là dalla polemica antimetafisica − fondamentalmente relative alla possibilità di ridurre gli enunciati del linguaggio delle teorie scientifiche (e i termini in essi occorrenti) a enunciati osservativi. Del resto, i tipici problemi della teoria verificazionista del s. − l'impossibilità di verificare in modo conclusivo le asserzioni universali quali le leggi scientifiche, o anche la stessa difficoltà di fornire una chiara definizione di enunciato osservativo − sono problemi epistemologici, pertinenti meno a una teoria del s. in senso stretto che all'immagine filosofico-scientifica del neopositivismo. E, come avrebbero notato K.R. Popper (1935) e H. Putnam (1965), i neopositivisti hanno spesso fatto un uso improprio del termine "s.", confondendo gli aspetti semantici del linguaggio con i requisiti epistemologici relativi al carattere empirico delle teorie scientifiche.
D'altra parte, l'esigenza di una teoria del s. di tipo empirico che presentasse i medesimi requisiti delle teorie scientifiche è stata effettivamente avvertita nella riflessione semantica (filosofica e linguistica) novecentesca, e il neopositivismo non ha mancato di esercitare la sua influenza in questa direzione. Se gli approcci di tipo comportamentistico al problema del s. sorti negli Stati Uniti (per es., C.K. Ogden e I.A. Richards 1923; L. Bloomfield 1933) − tendenti a definire il s. delle emissioni verbali nei termini delle risposte comportamentali da esse suscitate negli ascoltatori − trovavano inizialmente nel pragmatismo oltre che nei progetti antimentalistici della psicologia comportamentistica le loro più ovvie motivazioni, essi finirono comunque con l'incontrarsi con gli orientamenti neopositivistici. È questo il caso, soprattutto, di Ch. Morris (1946) che, sviluppando indicazioni di Ch.S. Peirce, subì anche l'influenza del fisicalismo di O. Neurath e R. Carnap. A Morris si deve in particolare il tentativo di superare le difficoltà dell'applicazione dello schema stimolo-risposta − consistenti fondamentalmente nell'impossibilità d'individuare una specifica e univoca "risposta" per ogni emissione verbale − mediante la nozione di "disposizione" (già presente in Carnap), meno rigida di quella di "risposta" in quanto non implicante una reazione manifesta per ogni emissione verbale. L'opera di Morris, che di solito è ricordata non tanto per il suo approccio comportamentistico al s. quanto per il suo tentativo di elaborare una teoria generale dei segni (v. semiologia, App. IV, iii, p. 303), è tuttavia rilevante per aver posto in primo piano l'aspetto pragmatico del linguaggio (e "pragmatica" è il fortunato nome che lo stesso Morris diede allo studio del linguaggio in relazione ai suoi utenti). Entro tale prospettiva la funzione denotativa o designativa rimaneva in Morris soltanto come uno dei modi (accanto a quello valutativo e prescrittivo) in cui si realizza il processo di significazione.
Il più radicale ridimensionamento delle teorie referenzialiste del s. si deve comunque a Wittgenstein. La sostanziale estraneità degli interessi di Wittgenstein all'impostazione epistemologica neopositivistica del problema del s. sarebbe risultata evidente dalla sua produzione successiva agli anni Trenta (pubblicata postuma nelle Philosophische Untersuchungen e nei Blue and brown books), nella quale avrebbe abbandonato il modello referenziale del s. a favore di una concezione più articolata e pragmatica del linguaggio in cui la denotazione viene considerata soltanto una tra le molteplici funzioni che possono svolgere le espressioni linguistiche. Wittgenstein individuava nell'"uso" (Gebrauch) delle espressioni linguistiche piuttosto che nei referenti il loro s., definendo l'uso a sua volta nei termini delle pratiche, delle regole, delle convenzioni linguistiche di una comunità, di quelli che Wittgenstein chiamò "giochi linguistici" (denotare, descrivere, raccontare, comandare, chiedere, pregare, ecc.).
L'ambiente in cui Wittgenstein maturò questa concezione fu quello di Cambridge, dove l'insegnamento di G.E. Moore aveva suscitato una particolare attenzione per l'analisi linguistica. L'altro importante centro che, tra gli anni Trenta e Cinquanta, elaborò, assieme a Cambridge, questo tipo di analisi (la cosiddetta "filosofia del linguaggio ordinario") fu Oxford, dove operarono, tra gli altri, G. Ryle, F.P. Strawson, J.L. Austin. È soprattutto quest'ultimo che, negli anni Cinquanta, avrebbe sottolineato la funzione comunicativa (diversa da quella assertiva esplicabile in termini di valori di verità) posseduta da molti proferimenti linguistici (utterances) ed elaborato quella teoria degli atti linguistici volta a porre in evidenza la forza illocutoria di tali proferimenti (come comandare, giurare, promettere, consigliare, chiedere scusa, ecc.), cioè il fatto che con essi si compie un'azione, si "fa qualcosa" oltre che "dire qualcosa". Operando una tassonomia dei tipi di enunciati dotati di forza illocutoria − che modificava e precisava la sua precedente teoria degli enunciati performativi -, Austin sostanziava la formula wittgensteiniana secondo cui il s. consiste nell'uso e rendeva la teoria del s. inscindibile dai contesti comunicativi e dalle pratiche sociolinguistiche, facendone così un capitolo della teoria dell'azione. Sotto le suggestioni di Austin, ma con intenti più sistematici, lo statunitense J.R. Searle (1969) avrebbe poi elaborato un'articolata teoria del s. sulla base della nozione di forza illocutoria. L'attenzione per l'aspetto comunicativo e pragmatico del s. è anche alla base della teoria di H.P. Grice (1957), la cui prospettiva è per molti versi affine a quella di Austin, con l'avvertenza che, laddove per Austin la forza illocutoria dei proferimenti linguistici dipende in larga misura da regole e convenzioni, per Grice il s. di un'emissione verbale sarebbe piuttosto esplicabile attraverso la nozione psicologica di ''intenzione'': in particolare, per Grice il s. di un enunciato è definibile da un lato in relazione alle credenze e agli effetti che un parlante intende produrre nell'ascoltatore proferendolo, dall'altro in relazione al riconoscimento, da parte dell'ascoltatore, delle intenzioni del parlante nel proferirlo. Benché il ricorso alla nozione di intenzione lascerebbe supporre un approccio mentalistico al problema del s., la posizione di Grice su questo punto è alquanto elusiva, oscillando tra comportamentismo e mentalismo (ma va comunque precisato che gli esiti di prospettive di questo tipo tendono a privilegiare il mentalismo). A Strawson (1964) si deve un originale tentativo di coniugare la teoria di Austin degli atti illocutori con le indicazioni di Grice.
Le sottili analisi della filosofia del linguaggio ordinario si contrapponevano in qualche modo agli esiti sempre più tecnici dell'impostazione neopositivistica del problema del significato. Fondamentale, da questo punto di vista, è stato il contributo di R. Carnap (1947), che, insieme con i noti risultati di A. Tarski (1935, 1944), rappresenta in larga misura la fonte delle successive analisi semantiche di tipo formale. Riprendendo la famosa distinzione fregeana nel suo "metodo dell'estensione e dell'intensione", Carnap definiva la nozione di s. (e quelle a essa connesse: analiticità e sinonimia) per espressioni di linguaggi formalizzati di struttura relativamente semplice sulla base di esplicite "regole semantiche" in grado di determinare le condizioni di verità di ogni enunciato esprimibile entro tali linguaggi (una concezione del s. che ancora risentiva delle dottrine del Tractatus wittgensteiniano). Questa impostazione sarebbe comunque divenuta oggetto di radicali obiezioni da parte di W.V.O. Quine, in particolare riguardo alla sua possibilità di fornire una plausibile definizione di s. per i linguaggi naturali.
Già nel famoso Two dogmas of empiricism (1951), mettendo in evidenza la circolarità delle cosiddette nozioni intensionali − analiticità e sinonimia, rispettivamente verità in base al s. e identità di s., ciascuna definibile nei termini dell'altra ed entrambe basate sulla nozione di s. −, Quine rilevava l'assenza di una chiara definizione generale (possibilmente comportamentistica) di significato. Va sottolineato che, nel parlare di s., Quine intendeva non la denotazione o riferimento ma il contenuto semantico convogliato da un'espressione linguistica, che nel caso di un enunciato corrisponde al Gedanke di Frege o a ciò che viene tradizionalmente chiamata "proposizione". Criticando la nozione di proposizione, sia essa intesa come entità di tipo mentale o platonico, Quine sarebbe pervenuto, mediante il famoso Gedankenexperiment della "traduzione radicale" (1960), a conclusioni fortemente scettiche circa la legittimità di una teoria del significato.
Sulla base del comportamentismo di B.F. Skinner e di un approccio empirico-naturalistico ai fenomeni linguistici, Quine ha posto in luce, mediante la descrizione del lavoro di un ipotetico linguista che si trovi a dover tradurre una lingua completamente ignota, come i dati comportamentali da cui inevitabilmente il linguista deve prendere le mosse non siano sufficienti a determinare la compilazione di un univoco "manuale di traduzione", essendo tali dati compatibili con più manuali anche incompatibili tra loro (tesi dell'"indeterminatezza della traduzione radicale"). Mentre sottolineava così l'illegittimità empirica della postulazione delle proposizioni intese come entità semanticamente neutre comuni agli enunciati e alle loro traduzioni in un'altra lingua, Quine, non diversamente da quanto aveva teorizzato in ambito epistemologico (riprendendo le note tesi di P. Duhem), andava oltre la concezione fregeana, wittgensteiniana e neopositivistica sostenendo una concezione olistica del s. e del linguaggio, secondo la quale gli stessi enunciati, oltre ai termini, sono privi di un s. autonomo e acquistano s., o sono significanti, soltanto all'interno della totalità del linguaggio cui appartengono e per via delle interconnessioni da cui sono caratterizzati. Di qui il suo interesse per lo studio, su basi strettamente comportamentistiche, dell'apprendimento e dell'addestramento linguistico infantile (1974), a partire dall'acquisizione dei più semplici "enunciati d'osservazione" ("Mamma", "Rosso") fino a giungere alla predicazione ("a è un F") e all'apparato della quantificazione (l'apprendimento dell'uso di "un", "qualche", "ogni", "tutti") e del riferimento (articoli, pronomi, plurale), fasi che conducono a quella competenza linguistica le cui caratteristiche non sono definibili attraverso una teoria filosofica del significato.
Nonostante le obiezioni di Quine, anzi, proprio a motivo di esse, le nozioni intensionali non sono state accantonate nelle analisi connesse al problema del s. e gran parte delle ricerche contemporanee volte a fornirne chiare definizioni si sono sviluppate, negli anni Sessanta, nell'ambito degli approcci formali (di solito basati sulla teoria logico-matematica dei modelli) alla semantica (J. Hintikka, R. Montague, D.K. Lewis). Accanto agli sviluppi formali va segnalata una rinnovata attenzione per la nozione di riferimento. Benché le teorie di Frege e Russell sul riferimento non avessero mai smesso di suscitare approfondite analisi, dando luogo a importanti precisazioni e modificazioni (Strawson 1950; Searle 1958) ma anche a influenti obiezioni (Donnellan 1966), è soprattutto agli inizi degli anni Settanta, con S. Kripke e H. Putnam, che sorge una nuova e influente teoria del riferimento che ne avrebbe messo in discussione i generali presupposti epistemici. Riesaminando le teorie di Frege e di Russell sul rapporto tra Sinn o descrizione e riferimento, Kripke (1971, 1972) e Putnam (1970, 1975) hanno fornito acute e originali analisi relative all'uso referenziale dei nomi propri e dei cosiddetti termini di genere naturale (come "tigre", "limone", ecc.), di sostanza (come "acqua", "oro", ecc.) e di grandezza fisica (come "elettricità", "temperatura", ecc.), ripristinando la concezione di Stuart Mill circa la mancanza di connotazione dei nomi propri e, in qualche modo, la distinzione di J. Locke tra essenza nominale ed essenza reale.
Partendo dall'idea, solitamente attribuita a Frege e a Russell, che il Sinn di un nome, ovvero la descrizione a esso associata, è ciò che consente l'identificazione del suo referente, inteso come l'entità a cui spettano le proprietà enunciate dalla descrizione (idea spesso espressa con la formula che l'intensione determina l'estensione), Kripke ne ha messo in evidenza conseguenze logicamente inaccettabili che lo hanno condotto a sostenere una teoria del riferimento "diretto", cioè non determinato attraverso sensi o intensioni. Se un nome, per es. "Aristotele", fosse un'abbreviazione per una descrizione del tipo "il maestro di Alessandro Magno" (secondo Frege un suo possibile senso), la quale ne fisserebbe univocamente il referente, allora le due espressioni dovrebbero essere considerate sinonime, con la conseguenza di escludere la possibilità storica che non Aristotele, ma qualcun altro, sia stato il maestro di Alessandro. Ed escluse sarebbero anche le comuni ipotesi controfattuali del tipo: "se Aristotele non fosse stato il maestro di Alessandro...". In realtà, mentre ha senso dire di Aristotele che "Aristotele potrebbe non essere stato il maestro di Alessandro" (è del resto solo un fatto contingente che lo sia stato), ciò che invece non sembra possibile asserire è che "Aristotele potrebbe non essere stato Aristotele", ove si intenda non che sarebbe potuto chiamarsi in un altro modo o che sarebbe potuto non essere un filosofo, ma che sarebbe potuto essere un individuo diverso da quello che fu; le proprietà contingenti dell'individuo Aristotele di chiamarsi "Aristotele" o di essere un filosofo sono infatti diverse dalla sua proprietà "essenziale" di essere stato, dal punto di vista biologico, necessariamente l'individuo che fu.
In base ad argomentazioni di questo tipo Kripke ha distinto i nomi dalle descrizioni, rilevando come le informazioni relative a un individuo o a un oggetto non ne permettono sempre una determinazione univoca − esse potrebbero riferirsi a questa piuttosto che a quella entità: si pensi alle situazioni controfattuali o, più semplicemente, ai casi di credenze erronee su un individuo o di erronee attribuzioni di proprietà −, mentre i nomi, in quanto "designatori rigidi", designano i loro portatori in tutti i mondi (o situazioni) possibili in cui essi esistono. In altri termini, i nomi sono privi di connotazione e designano direttamente l'oggetto a cui si riferiscono: il loro riferimento non è necessariamente determinato epistemicamente come ciò che soddisfa le descrizioni a essi associate, ma fissato mediante una sorta di "battesimo iniziale" e mantenuto in virtù di una "catena causale comunicativa" che si tramanda storicamente da individui a individui (di qui l'espressione "teoria causale del riferimento" per indicare questa teoria), in ciascuno dei quali sia presente l'intenzione di usare un nome così appreso sempre con lo stesso referente. Lungo linee analoghe, i termini generali, per es. di sostanza, non dovrebbero essere considerati equivalenti sinonimicamente a una descrizione dell'insieme di proprietà che ne determina univocamente l'estensione: le definizioni dell'oro come sostanza di colore giallo e dell'acqua come liquido incolore e dissetante non costituiscono condizioni necessarie e sufficienti perché qualcosa possa essere considerato oro o acqua; esse individuano proprietà contingenti, come risulta dal fatto che, qualora si scoprisse che esistono campioni di quello che si ritiene oro o acqua che mancano di alcune delle proprietà a essi normalmente associate, non necessariamente ci troveremmo dinanzi a una contraddizione né saremmo obbligati a sostenere che "oro" e "acqua" denotano cose diverse da quelle che si supponeva (ossia che il loro riferimento è cambiato); in un caso del genere diremmo piuttosto che le nostre precedenti caratterizzazioni erano errate. Né chiamiamo "oro" o "acqua" tutte le sostanze che presentano caratteristiche fenomeniche analoghe a tali sostanze: come ha sottolineato Putnam (1975), se si scoprisse una sostanza con caratteristiche superficiali simili a quelle dell'acqua, ma con una struttura molecolare diversa da H2O, non la chiameremmo "acqua". Le proprietà definitorie o fenomeniche associate ai termini generali possono servire a selezionare un certo tipo di cosa a cui s'intende riferirsi tramite tali termini, ma questi, come i nomi propri, sono designatori rigidi, vengono cioè usati per riferirsi sempre a quel tipo di sostanza per designare la quale erano stati originariamente introdotti, quale che possa risultare la reale natura della sostanza. Ed è questa reale natura o proprietà essenziale − per es., nel caso dell'acqua e dell'oro, una certa composizione chimica − che ne costituisce il riferimento, indipendentemente dai criteri epistemici utilizzati per identificarlo. Nella versione di Putnam di questa teoria l'insieme delle proprietà definitorie ("stereotipo") associate a un termine di sostanza può essere, e di solito è, utilizzato a fini comunicativi, ma, a differenza della sua estensione (o proprietà essenziale), può essere storicamente soggetto a mutamento.
La riproposizione del concetto di essenza (e di quello di necessità a esso connesso) che emerge dai contributi di Kripke e Putnam presenta conseguenze che investono problematiche di rilievo logico, epistemologico e metafisico. In particolare, la teoria del s. di Putnam appare strettamente connessa al cosiddetto realismo metafisico, e, da questo punto di vista, molte asserzioni scientifiche vertenti sulla reale natura dei generi naturali o delle grandezze fisiche dovrebbero essere considerate vere o false, a seconda che colgano o meno quella reale natura, indipendentemente dai criteri epistemici di volta in volta utilizzati e dal fatto che lo si sappia o meno. La teoria del s. di Putnam finiva quindi per investire questioni profonde e delicate come la natura della realtà, della conoscenza e della verità (intesa in senso metafisico). Si comprende così come queste tesi siano state decisamente in conflitto con le teorie epistemiche e relativistiche che hanno caratterizzato l'epistemologia post-popperiana e come, in particolare, siano state contrapposte alle note tesi dell'incommensurabilità e della meaning variance di Th. Kuhn e P.K. Feyerabend. Chi è invece programmaticamente partito dalla nozione di verità per basare su essa una teoria del s. è D. Davidson (1967). Non si tratta, in questo caso, di assunzioni metafisiche o gnoseologiche relative alla natura del rapporto tra linguaggio e realtà, ma del ruolo che il presupposto che le asserzioni di un linguaggio siano primariamente veicoli di verità gioca nella comunicazione e nell'interpretazione. Non a caso Davidson utilizza la definizione di Tarski del predicato "vero", metafisicamente "neutrale" rispetto alle tradizionali controversie sul concetto di verità.
Partendo da tale definizione, Davidson ne inverte tuttavia le motivazioni: laddove Tarski presupponeva il s., basando sull'identità di s. o sulla traduzione la definizione dell'uso del termine "vero", Davidson considera la verità una nozione primitiva, cioè non definita, su cui erigere una teoria del significato. L'impostazione davidsoniana si distingue inoltre da quella di Tarski per l'estensione, da parte di Davidson, della definizione tarskiana ai linguaggi naturali. L'idea fondamentale di Davidson è che dare i s. degli enunciati di una lingua equivale innanzitutto a costruire per essi asserzioni bicondizionali in accordo alla cosiddetta "convenzione V" di Tarski: così, dare il s. dell'enunciato italiano "L'erba è verde" equivale a costruire il V-enunciato "''L'erba è verde'' è vero in italiano se e solo se l'erba è verde"; l'esempio risulta più chiaro nel caso in cui linguaggio e metalinguaggio siano diversi (ciò che evita l'impressione di banalità suscitata dalla traduzione omofonica), così da avere, per es: ""The grass is green'' è vero in inglese se e solo se l'erba è verde", o anche: ""L'erba è verde'' is true in Italian if and only if the grass is green". Ove si presupponga la conoscenza (o comprensione) dell'uso del predicato "vero", un V-enunciato fornisce le condizioni di verità di un enunciato, e conoscere tali condizioni equivale per Davidson a conoscerne il s., ossia a sapere quali eventi o circostanze devono darsi perché sia vero ed essere quindi in grado di applicarlo correttamente (con l'avvertenza che, nonostante somiglianze di superficie con il Tractatus di Wittgenstein, esistono importanti distinzioni tra la teoria davidsoniana e l'immagine atomistica e raffigurativa del linguaggio lì tratteggiata). Rinunciando a concepire il s. come qualche specie di entità, Davidson (1977) ha rifiutato in particolare di poggiare il s. sul concetto di riferimento, che viene introdotto soltanto in via subordinata, dal momento che i termini riceverebbero un riferimento soltanto attraverso la formulazione delle condizioni di verità degli enunciati in cui occorrono. Se il "ritenere vero" rappresenta per Davidson il punto di partenza per una corretta teoria del s., questa dovrà essere in grado di determinare V-enunciati corretti, ma anche plausibili e coerenti tra loro. Su tali questioni Davidson ha fornito importanti contributi mediante il concetto di interpretazione (1973), che riecheggia la traduzione radicale quineana (se si fa eccezione per la prospettiva comportamentistica di Quine): per individuare i s. degli enunciati proferiti da un parlante è innanzitutto necessario che la teoria che ingloba i V-enunciati che lo riguardano sia empiricamente controllabile, relativizzando pragmaticamente gli enunciati alle loro circostanze di emissione e determinando sotto quali condizioni il parlante è disposto a dare o a negare a essi il proprio assenso; tale controllo, comunque, non potrà essere che olistico (Davidson sottoscrive al proposito le note tesi di Quine, accentuandone la concezione olistica del linguaggio e delle credenze in esso esprimibili) e comporterà una presupposizione di coerenza e razionalità nel parlante (il cosiddetto principio di carità) che tende a escludere interpretazioni implausibili dei suoi proferimenti e a "massimizzare" l'accordo tra le credenze del parlante e quelle dell'interprete.
Per quanto altamente influente e volto a conseguire una visione integrata della nozione di s. all'interno di una più ampia teoria della comunicazione, il programma di Davidson non è stato esente da critiche, soprattutto per l'utilizzazione di una nozione primitiva di verità. M. Dummett (1959, 1975, 1976), altro importante protagonista, con Davidson, del dibattito sul s. tra gli anni Settanta e Ottanta, ha per es. rilevato che un'adesione acritica alla tesi che il s. (o senso) di un enunciato consiste nella specificazione delle sue condizioni di verità non consente l'elaborazione di un'adeguata teoria del s. se prima non viene chiarita qual è la nozione di verità in questione. La nozione di verità su cui si fonda quella tesi − e su cui, pur nella sua pretesa "neutralità filosofica", si fonda anche la definizione tarskiana di "vero" −, ne presuppone, secondo Dummett, una concezione realistica, per la quale ogni asserto è determinatamente vero o falso (principio di bivalenza) indipendentemente dalla nostra capacità di riconoscerlo come tale, la verità (o falsità) di un enunciato dipendendo da come il mondo effettivamente è. Ma questo presupposto contrasta con la tesi che, onde cogliere il s. di un enunciato, un parlante debba essere in grado di conoscere le condizioni che devono essere soddisfatte affinché esso sia vero; la difficoltà notata da Dummett deriva dalla presenza, nel linguaggio naturale, di enunciati di cui un parlante competente non sarebbe in grado di specificare le condizioni di verità − per es. enunciati di generalità illimitata, enunciati relativi al futuro o al passato, condizionali controfattuali −, in quanto di essi non si può dire che siano determinatamente veri o falsi senza con ciò avallare una forma di realismo metafisico. Se le difficoltà di specificare le condizioni di verità per quegli enunciati non immediatamente suscettibili di un'analisi di tipo tarskiano avevano condotto Davidson a formulare un programma di ricerca volto a individuare la loro "forma logica", Dummett propone invece di abbandonare, o, quanto meno, ridimensionare la verità come "nozione centrale" della teoria del significato. Le obiezioni di Dummett a una definizione del s. in termini di condizioni di verità derivano in larga misura dalle analogie che, sulla base della concezione intuizionistica della matematica, egli individua tra gli asserti matematici e molti asserti del linguaggio naturale: come la prospettiva intuizionistica in filosofia della matematica rinuncia a un concetto realistico e platonistico di verità, proponendo di considerare decidibili (cioè determinatamente veri o falsi) solo quegli asserti per i quali esiste (o si è a conoscenza di) una procedura dimostrativa in grado di asserirne la verità o la falsità, così Dummett propone un'analisi del s. nei termini delle procedure di verificazione degli enunciati (corrispondenti a quelle di dimostrazione in matematica), procedure la cui conoscenza fornisce ragioni o prove per giustificarli, e quindi per asserirli e usarli correttamente. Nonostante alcune affinità con il verificazionismo neopositivistico, la prospettiva di Dummett se ne discosta in quanto non pone restrizioni empiriche alle procedure di verificazione, considerando tali anche quelle che, in analogia con le dimostrazioni matematiche, comportano connessioni di tipo argomentativo e inferenziale. Entro questa teoria del s. ispirata tanto all'intuizionismo matematico quanto ad alcune indicazioni wittgensteiniane, trova posto, per Dummett, anche una teoria del riferimento di tipo fregeano (contrapposta quindi a quella di Kripke), secondo cui il riferimento di un nome è determinato dal senso, inteso come possesso, da parte dei parlanti, di criteri epistemici per identificare correttamente l'oggetto che soddisfa un sintagma nominale.
Bibl.: G. Frege, Über Sinn und Bedeutung, in Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik, 100 (1892), pp. 25-50 (trad. it. in Id., Logica e aritmetica, a cura di C. Mangione, Milano 1965, 19772, pp. 374-404, e in La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, ivi 1973, pp. 9-32); B. Russell, On denoting, in Mind, 14 (1905), pp. 479-93 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 179-95); Id., Knowledge by acquaintance and knowledge by description, in Proceedings of the Aristotelian Society, 11 (1910-11), pp. 108-28 (rist. in Mysticism and logic, Londra 1963, pp. 152-67; trad. it., Milano 1964, pp. 262-89); Id., Our knowledge of the external world, Londra 1914 (trad. it., Milano 1966); Id., The philosophy of logical atomism, in The Monist, 28 (1918), pp. 495-527, e 29 (1919), pp. 32-63, 190-222, 345-80 (rist. in Id., Logic and knowledge, Londra 1956, pp. 175-282; trad. it., Milano 1961, pp. 105-245); G. Frege, Der Gedanke. Eine logische Untersuchung, in Beiträge zur Philosophe des deutschen Idealismus, 1 (1918-19), pp. 58-77 (trad. it. in Id., Ricerche logiche, Milano 1988, pp. 43-74); L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Londra 1922 (trad. it., Torino 1964); C.K. Ogden, I.A. Richards, The meaning of meaning, ivi 1923, New York 19385 (trad. it., Milano 1966); R. Carnap, Der logische Aufbau der Welt, Berlino 1928 (trad. it., Milano 1966); L. Bloomfield, Language, New York 1933 (trad. it., Milano 1974); K.R. Popper, Logik der Forschung, Vienna 1935 (trad. it. dall'ed. inglese, Torino 1970); A. Tarski, Der Wahrheitsbegriff in den formalisierten Sprachen, in Studia Philosophica, 1 (1935), pp. 261-405 (trad. it. in L'antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo da Peirce a Tarski, a cura di F. Rivetti Barbò, Milano 1961, pp. 393-677); A.J. Ayer, Language, truth and logic, Oxford 1936 (trad. it., Milano 1961); R. Carnap, Testability and meaning, in Philosophy of science, 3 (1936), pp. 419-71, e 4 (1937), pp. 1-40 (trad. it. in Id., Analiticità, significanza, induzione, Bologna 1971, pp. 151-261); M. Schlick, Meaning and verification, in The Philosophical Review, 45 (1936), pp. 339-69 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 71-101); A. Tarski, The semantic conception of truth, in Philosophy and Phenomenology Research, 4 (1944), pp. 341-75 (rist. in Semantics and the philosophy of language, a cura di L. Linsky, Urbana [Ill.] 1952; trad. it., Milano 1969, pp. 27-68); Ch. Morris, Signs, language and behaviour, New York 1946 (trad. it., Milano 1977); R. Carnap, Meaning and necessity, Chicago 1947 (trad. it., Firenze 1976); C.G. Hempel, Problems and changes in the empiricist criterion of meaning, in Revue internationale de philosophie, 11 (1950), pp. 41-63 (rist. in Semantics and the philosophy of language, cit.; trad. it., cit., pp. 209-32); P.F. Strawson, On referring, in Mind, 59 (1950), pp. 320-44 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 197-224); A. Church, The need for abstract entities in semantic analysis, in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 80 (1951), pp. 100-12 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 103-16); W.V.O. Quine, Two dogmas of empiricism, in The Philosophical Review, 60 (1951), pp. 20-43 (rist. in Id., From a logical point of view, Cambridge [Mass.] 1953, 19612, pp. 20-46; trad. it. dalla seconda edizione, Il problema del significato, Roma 1966, pp. 20-44); Semantics and the philosophy of language, a cura di L. Linsky, Urbana (Ill.) 1952 (trad. it., Milano 1969); W.V.O. Quine, From a logical point of view, Cambridge (Mass.) 1953, 19612, 19803 (trad. it. dalla seconda edizione, cit.); L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford 1953 (trad. it., Torino 1967); J.O. Urmson, Philosophical analysis, ivi 1956 (trad. it., Milano 1974); H.P. Grice, Meaning, in The Philosophical Review, 66 (1957), pp. 377-88; J. Searle, Proper names, in Mind, 67 (1958), pp. 166-73 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 249-58); L. Wittgenstein, The blue and brown books, Oxford 1958 (trad. it., Torino 1983); M. Dummett, Truth, in Proceedings of the Aristotelian Society, 59 (1959), pp. 141-62 (rist. in Id., Truth and other enigmas, Londra 1978, pp. 1-24; trad. it., Milano 1986, pp. 68-92); W.V.O. Quine, Word and object, Cambridge (Mass.) 1960 (trad. it., Milano 1970); J.L. Austin, Philosophical papers, Oxford 1961 (trad. it., Milano 1990); Id., How to do things with words, ivi 1962, 19752 (trad. it., Casale Monferrato 1987); J. Hintikka, Knowledge and belief, Ithaca (N.Y.) 1962; W.P. Alston, Philosophy of language, Englewood Cliffs (N.J.) 1964 (trad. it., Bologna 1971); F.P. Strawson, Intention and convention in speech acts, in Philosophical Review, 73 (1964), pp. 439-60 (trad. it. in Gli atti linguistici, a cura di M. Sbisà, Milano 1978, pp. 81-102); H. Putnam, How not to talk about meaning, in Boston Studies in the Philosophy of Science, ii, a cura di R.S. Cohen e M.W. Wartofsky, New York 1965, pp. 205-22 (rist. in Id., Mind, language and reality, Cambridge 1975, pp. 117-31; trad. it., Milano 1987, pp. 140-54); K. Donnellan, Reference and definite descriptions, in The Philosophical Review, 75 (1966), pp. 281-304 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 225-48); D. Davidson, Truth and meaning, in Synthese, 17 (1967), pp. 304-23 (rist. in Id., Truth and interpretation, Oxford 1984, pp. 17-36; trad. it., Bologna 1994, pp. 63-86); J.R. Searle, Speech acts. An essays in the philosophy of language, Cambridge 1969 (trad. it., Milano 1976); D.K. Lewis, General semantics, in Synthese, 22 (1970), pp. 18-67 (trad. it. parziale in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 491-509); H. Putnam, Is semantic possible?, in Languages, belief and metaphysics, a cura di H. Kiefer e M. Munitz, New York 1970, pp. 50-63 (rist. in Id., Mind, language and reality, cit., pp. 139-52; trad. it., cit., pp. 162-76); S.A. Kripke, Identity and necessity, in Identity and individuation, a cura di M.K. Munitz, New York 1971, pp. 135-64 (trad. it. in La struttura logica del linguaggio, cit., pp. 259-94); Id., Naming and necessity, in Semantics of natural language, a cura di D. Davidson e G. Harman, Dordrecht 1972, pp. 253-355 (rist. in volume, Oxford 1980; trad. it., Nome e necessità, Milano 1982); Semantics of natural language, a cura di D. Davidson e G. Harman, Dordrecht 1972; D. Antiseri, La filosofia del linguaggio. Metodi, problemi e teorie, Brescia 1973; D. Davidson, Radical interpretation, in Dialectica, 27 (1973), pp. 313-28 (rist. in Id., Truth and interpretation, cit., pp. 125-37; trad. it., cit., pp. 193-211); M. Dummett, Frege. Philosophy of language, Londra 1973 (trad. it. parziale, Casale Monferrato 1983); J. L. Mackie, Locke's anticipation of Kripke, in Analysis, 34 (1974), pp. 177-80; R. Montague, Formal philosophy. Selected papers of R.E. Montague, a cura di R.H. Thomason, New Haven (Conn.) 1974; W.V.O. Quine, The roots of reference, New York 1974; A. Bonomi, Le vie del riferimento, Milano 1975; M. Dummett, What is a theory of meaning? (I), in Mind and language, a cura di S. Guttenplan, Oxford 1975, pp. 97-138; I. Hacking, Why does language matter to philosophy?, Cambridge 1975 (trad. it., Linguaggio e filosofia, Milano 1994); H. Putnam, The meaning of "meaning", in Minnesota Studies in the Philosophy of Science, 7: Language, mind and knowledge, a cura di K. Gunderson, 1975 (rist. in Id., Mind, language and reality, cit., pp. 215-71; trad. it., cit., pp. 239-97); M. Dummett, What is a theory of meaning? (II), in Truth and meaning, a cura di G. Evans e J. McDowell, Oxford 1976, pp. 67-137; D. Davidson, Reality without reference, in Dialectica, 31 (1977), pp. 247-53 (rist. in Id., Truth and interpretation, cit., pp. 215-25; trad. it., cit., pp. 303-15); Naming, necessity and natural kinds, a cura di S.P. Schwartz, Ithaca (N.Y.) 1977; M. Dummett, Truth and other enigmas, Londra 1978 (trad. it. parziale, Milano 1986); Gli atti linguistici, a cura di M. Sbisà, Milano 1978; M. Platts, The ways of meaning, Londra 1979; Studi sul problema del significato, a cura di E. Agazzi, Firenze 1979; H. Putnam, Referenza/verità, in Enciclopedia, 11, Torino, Einaudi, 1980, pp. 725-41; Reference, truth and reality, a cura di M. Platts, Londra 1980; G. Evans, The varieties of reference, Oxford 1982; A.C. Grayling, An introduction to philosophical logic, ivi 1982, 19902; D. Davidson, Truth and interpretation, ivi 1984 (trad. it., Bologna 1994); J. Passmore, Recent philosophers, Londra 1985; M. Di Francesco, Parlare di oggetti, Milano 1986; A. Bonomi, Le immagini dei nomi, ivi 1987; M. Devitt, K. Sterelny, Language and reality. An introduction to philosophy of language, Cambridge (Mass.) 1987; Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, a cura di M. Santambrogio, Roma-Bari 1992; E. Picardi, Linguaggio e analisi filosofica. Elementi di filosofia del linguaggio, Bologna 1992; C. Cozzo, Teoria del significato e filosofia della logica, ivi 1994.