SPAVENTA, Silvio
– Nacque a Bomba, nel distretto di Chieti (Abruzzo Citeriore), il 10 maggio 1822 da Eustachio e da Maria Anna Croce.
Iniziati gli studi nel seminario di Chieti, nel 1837, dopo la morte della madre li proseguì a Montecassino dove ebbe come insegnante anche il fratello Bertrando, di cinque anni più grande, a cui Silvio rimase sempre molto legato. Ebbe anche un altro fratello, ultimogenito, Tito, e quattro sorelle: Ersilia, Berenice, Clotilde, Enrichetta. Nel 1843 si trasferì a Napoli, ospite dello zio materno, e fu raggiunto due anni dopo da Bertrando, che tra il 1846 e il 1847 aprì una scuola privata di filosofia fondata sul pensiero hegeliano; vi cominciò a insegnare anche Silvio, ma la scuola venne soppressa l’anno successivo perché sospettata di fomentare idee liberali.
In quegli anni i fratelli Spaventa strinsero imperitura amicizia con Camillo De Meis, medico, allievo di Francesco De Sanctis e, a Napoli, punto di riferimento di quel clima di rinnovamento. Ricercato dalla polizia borbonica con l’accusa di aver partecipato a un moto rivoluzionario in Calabria, Spaventa riuscì prima a nascondersi e poi, nel novembre del 1847, a imbarcarsi per Livorno da dove riparò a Firenze. Lì conobbe figure di spicco del liberalismo toscano, come Gino Capponi, Giovan Pietro Vieusseux, Fanny Targioni Tozzetti e il pugliese Giuseppe Massari, al quale rimase sempre particolarmente legato.
Alla fine di gennaio del 1848, raggiunto dalla notizia che a causa delle continue manifestazioni popolari il re Ferdinando II aveva promesso la Costituzione, poi promulgata l’11 febbraio, Spaventa rientrò a Napoli con l’obiettivo di far nascere un giornale di opposizione. Il 1° marzo 1848 iniziò quindi la breve vita del Nazionale, sorto su iniziativa di alcuni intellettuali e patrioti napoletani riuniti attorno ai fratelli Spaventa. Tra i numerosi periodici pubblicati nel 1848 nel Regno delle Due Sicilie, Il Nazionale apparve subito il più autorevole e moderno, voce coraggiosa del progetto unitario della rivoluzione liberale.
Spaventa, principale redattore del giornale, incalzò sempre i governi borbonici sul terreno del mancato ‘svolgimento’ in senso liberale, e dunque parlamentare, della Costituzione. A seguito delle elezioni indette il 15 aprile dal governo presieduto da Carlo Troya, risultò eletto in provincia di Chieti con un consenso quasi plebiscitario di oltre 12.000 voti. Nei fatti, però, anche quel governo si rivelò una delusione, provocando il risentimento del Nazionale, che ne condannò la scarsa energia nella partecipazione alla guerra d’indipendenza. Dopo aver in un primo tempo appoggiato le tesi neoguelfe, il giornale, favorevole alla prospettiva di uscire dalla logica municipalista degli eventi risorgimentali, si schierò definitivamente per la formazione di uno Stato unitario sotto l’egida sabauda nel momento in cui Pio IX ritirò il suo sostegno alla causa piemontese. La posizione di Spaventa rappresentò la sintesi di un intero filone risorgimentale che vedeva nei rivolgimenti del 1848 l’esito di un grande processo avviatosi con la Rivoluzione francese.
Il suo costante richiamo ai principi liberali dell’Ottantanove ne mostrava chiaramente la distanza da quella cultura cospirativa e settaria sorta all’indomani della Restaurazione, le cui finalità, prive di un effettivo afflato liberale e nazionale, si limitavano a chiedere riforme e a combattere il dispotismo, eventualmente anche mediante il recupero del regime murattiano di inizio secolo. Il programma di Spaventa, condiviso da una parte della borghesia progressista napoletana, guardava invece a orizzonti più ampi: «colla nostra rivoluzione noi ci siamo fatti un inganno, ma il risultato di questo inganno è positivo e grande: lo Stato che noi cercavamo non esiste nella coscienza napoletana, sibbene in un dominio più vasto, più sostanziale, nella coscienza italiana» (in Romano, 1942, p. 34).
Prima dell’apertura del Parlamento, convocato per il 15 maggio, novanta deputati tra i quali Spaventa, contestando la formula del giuramento, aprirono di fatto un dissidio con la Corona sulla possibilità che la Camera potesse assumere funzioni costituenti. La tensione si trasformò ben presto in eccitazione sociale e nella notte tra il 14 e il 15 maggio, malgrado l’accordo di compromesso raggiunto tra il re e i deputati, molti popolani, dubbiosi della lealtà del sovrano, eressero barricate per le vie della città; le barricate non furono rimosse nonostante il tentativo di una commissione parlamentare, della quale faceva parte anche Spaventa, di convincere i rivoltosi a smobilitare. La mattina del 15 maggio si ebbero scontri sanguinosi che portarono allo scioglimento della Camera e indussero Spaventa, assieme ad altri patrioti, a cercare riparo su una nave francese. Il Nazionale, pur senza alcuna regolarità, continuò a uscire utilizzando un linguaggio esplicitamente filosabaudo e denigratorio nei confronti dell’esercito borbonico e della dinastia regnante, terminando la sua breve esistenza il 17 luglio 1848. Aveva «vissuto senza deviazioni e tanto meno pusillanimità, in un periodo agitato da tristi avvenimenti, animato dall’entusiasmo e dalla mente di un giovane eccezionalmente dotato di cuore e cervello» (Romano, 1942, p. 46).
Non si concluse invece l’attività di Spaventa ‘congiurato’, per un breve periodo presidente della Società dell’Unità italiana, fondata con Luigi Settembrini, e nemmeno quella di deputato. La prima sessione del nuovo Parlamento napoletano in cui Spaventa, ritenuto dal governo un violento demagogo e quasi un repubblicano, fu rieletto come rappresentante di Vasto, durò dal 30 giugno al 5 settembre 1848, periodo nel quale intervenne più volte in difesa della rivoluzione. Il 12 settembre partì per Roma, dove conobbe Pellegrino Rossi; poi in compagnia di Massari raggiunse Torino, invitato da Vincenzo Gioberti al Congresso federativo, dove entrò in contatto con Michelangelo Castelli, che per primo gli fece il nome di Camillo Benso, conte di Cavour. Tornato a Napoli, dopo una tappa in Toscana che gli permise di conoscere Massimo d’Azeglio, Marco Minghetti e Bettino Ricasoli, Spaventa tenne alla Camera due interventi molto duri contro le minacciose intenzioni del governo. Il 3 marzo 1849 la Camera venne però definitivamente sciolta e il 19 Spaventa arrestato in strada, primo parlamentare a essere colpito dalla reazione borbonica. L’accusa era di aver complottato contro la sicurezza dello Stato per i fatti del 15 maggio 1848 e di aver partecipato al Congresso di Torino. Il processo, iniziato il 9 dicembre 1851, si concluse l’8 ottobre 1852, a più di tre anni e mezzo dall’arresto, con la condanna a morte. La pena fu poi commutata nell’ergastolo, da trascorrere nel penitenziario dell’isola di Santo Stefano, dove Spaventa, in compagnia di Settembrini, fu rinchiuso il 21 ottobre.
I sette anni trascorsi, in condizioni spesso drammatiche, nel carcere borbonico «furono una lotta costante contro l’isolamento e l’inattività fisica che l’eccesso di occupazione intellettuale a volte esasperava» (Croce, 1969, p. 75). Pur tra molte difficoltà e ritardi, Spaventa riuscì comunque a rimanere in contatto con il fratello Bertrando, cui confidava l’insoddisfazione per i risultati dei suoi studi su Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Baruch Spinoza. Si dedicò anche allo studio della storia, del diritto, dell’inglese e del tedesco. Nel 1854 scrisse un opuscolo, L’esercito napoletano e la riazione, in cui apparve evidente la definitiva presa d’atto dell’insanabile contrasto tra indipendenza nazionale italiana e qualsiasi forma di compromesso sia con i Borbone sia con il potere temporale del papa.
Ai suoi occhi il 1848 rappresentò un vero spartiacque, anche dal punto di vista personale: «l’idea del Quarantotto è stata per me come un alimento inesauribile, del quale io mi sono nutrito» (in Romano, 1942, p. 71). Fu nel riflettere su quegli avvenimenti che si chiarirono in lui «concetti profondi e difficili, come quelli di Stato e nazionalità; il sicuro giudizio storico sulla rivoluzione del ’20; la precisazione delle caratteristiche della rivoluzione del ’48, [...] la fede sicura nell’avvenire d’Italia» (pp. 76 s.). Abbandonato nel 1855 un progetto di evasione assieme a Settembrini, l’11 gennaio 1859 Spaventa e gli altri condannati politici si videro commutata la pena detentiva in esilio perpetuo, ovvero nella forzata deportazione a New York. I sessantasei esponenti del patriottismo liberale napoletano, imbarcati su una nave americana, convinsero il venale capitano a far rotta verso la baia di Cork in Irlanda da dove si recarono a Londra, festeggiati dai liberali inglesi, tra cui William E. Gladstone e Henry J. Palmerston, ostili ai Borbone e attenti ai progetti unitari italiani benché diffidenti dell’influenza francese. Spaventa tuttavia, nella speranza di poter contribuire agli ancora incerti processi di unificazione, decise di recarsi a Torino, dove giunse nel maggio del 1859; da lì si trasferì a Firenze iniziando a scrivere per La Nazione, benché dubbioso delle sue qualità di giornalista. Su quel giornale, diretto da Alessandro D’Ancona, pubblicò alcuni articoli in cui ribadì la sua posizione di intransigente annessionismo. Sebbene il fratello Bertrando, riabbracciato dopo molti anni, gli avesse ceduto la cattedra di filosofia del diritto a Modena, Spaventa non assunse l’incarico e preferì trattenersi prima a Bologna, dove frequentò Minghetti, poi a Firenze.
Nel luglio del 1860, in un clima di sommovimenti politici in gran parte della penisola, Spaventa incontrò a Torino Luigi Carlo Farini per definire assieme la linea che avrebbe dovuto tenere una volta rientrato a Napoli, dove il nuovo sovrano, Francesco II, aveva ripristinato la Costituzione e concesso l’amnistia. L’iniziale intento di riprendere le pubblicazioni del Nazionale fu abbandonato per convogliare tutte le energie nell’attuazione delle direttive del governo piemontese: rifiutare riavvicinamenti ai Borbone e sostenere la politica cavouriana in attesa dell’arrivo di Giuseppe Garibaldi. Proprio la ferma linea annessionistica fu però la causa, il 25 settembre, di un aspro confronto con Garibaldi, il quale, credendolo intimo di Cavour, lo invitò ad abbandonare Napoli. A Torino Spaventa incontrò più volte Cavour rassicurandolo circa le intenzioni unitarie di Garibaldi. Rientrato a Napoli in ottobre, dopo la caduta del Regno borbonico, fu nominato prima direttore generale al ministero dell’Interno, poi consigliere (ministro) del dicastero di Polizia nel governo della luogotenenza Farini, incarico che mantenne anche con le successive luogotenenze. In tale veste affrontò il problema della camorra, adottando una linea dura che gli procurò odi e minacce e infine lo spinse a dimettersi dopo che, nel luglio del 1861, il nuovo luogotenente Enrico Cialdini decise di avviare una politica di ‘riconciliazione’ sociale mediante figure discutibili del Partito d’azione e della stessa camorra.
Eletto, nel gennaio del 1861, deputato in due collegi abruzzesi e a Napoli, Spaventa scelse quello di Vasto. Pur afflitto da ristrettezze finanziarie («Del resto, pazienza» – scriveva al fratello – «l’Italia si è fatta non certo per far mangiare me»: Croce, 1969, p. 179), rifiutò la proposta di trasferirsi a Genova come prefetto per non dover rinunciare al mandato parlamentare. Alla Camera si distinse per la sua franca irruenza e la scarsa dimestichezza con i sotterfugi parlamentari, accreditandosi ben presto come figura di grande prestigio e vaste conoscenze.
L’8 dicembre 1861 ebbe un duro scontro verbale con Agostino Bertani e altri esponenti della Sinistra, che avevano accusato il governo di aver ostacolato la dittatura garibaldina in nome di una rapida unificazione, posizione che Spaventa rivendicò in nome di un’urgenza di accentramento indispensabile per mettere fine ai pericolosi municipalismi e particolarismi di cui era ricca la storia italiana, che avrebbero potuto mettere in pericolo l’obiettivo unitario.
Molto produttiva si rivelò la sua attività nelle commissioni parlamentari, dove fece valere la spiccata attitudine per le materie amministrative. Nel dicembre del 1862 entrò nel governo guidato da Farini, e dopo tre mesi da Marco Minghetti, come segretario generale (sottosegretario) del ministero dell’Interno presieduto da Ubaldino Peruzzi, il quale gli lasciò ampia autonomia operativa. Su queste basi avviò una decisa riorganizzazione della lotta al brigantaggio che ebbe nella legge Pica il suo culmine politico. Nel settembre del 1864 il governo dovette dimettersi a causa dei disordini scoppiati a Torino, che provocarono oltre cinquanta morti e quasi duecento feriti, per la proposta di trasferimento della capitale a Firenze in ottemperanza della Convenzione di settembre stipulata con i francesi. Per l’opposizione la responsabilità della dura repressione era da addebitare soprattutto a Spaventa che in Piemonte divenne, nonostante fosse stato assolto dalla commissione d’inchiesta, l’odiato capro espiatorio dei dolorosi avvenimenti. Caduto il ministero Minghetti, le elezioni del 1865 segnarono un ripiegamento del partito moderato. Spaventa perse il collegio di Vasto, ma fu eletto ad Atessa.
Il 25 novembre 1868 il Consiglio dei ministri nominò Spaventa alla carica retribuita di consigliere di Stato, destinandolo alla sezione dell’Interno. Era un’attività in cui si sentì subito versato – contrariamente a quella di deputato che non amava a causa delle incombenze oratorie – dato l’interesse e la conoscenza delle strutture istituzionali e amministrative dello Stato. Nel 1873 Minghetti lo volle come ministro dei Lavori pubblici del suo governo, dove Spaventa confermò le proprie qualità padroneggiando la materia legislativa e dimostrando grande competenza tecnica, come si vide quando dovette affrontare l’annoso problema della gestione delle ferrovie, settore strategico per lo sviluppo del Paese. Portò avanti, nel 1873 e nel 1875, le convenzioni per riscattare le ferrovie romane e meridionali e, con la Convenzione di Basilea, avviò il riscatto di quelle dell’Alta Italia, separandole dalla rete austriaca.
Il suo progetto prevedeva la nazionalizzazione dell’intero comparto: sarebbero seguiti non solo un duro conflitto con molti interessi economici in gioco, ma anche forti tensioni ideologiche con la prevalente cultura liberista delle classi dirigenti. Per Spaventa il riscatto del settore dalle società private, per lo più straniere, e l’esercizio statale erano in primo luogo una questione di interesse nazionale da imporre su ogni altra considerazione. Venne posto così il tema del rapporto tra interessi pubblici e privati che andava al di là della questione ferroviaria investendo il ruolo e lo stesso significato dello Stato, «la più grande istituzione etica che gli uomini abbiano fondata» (Discorsi parlamentari, 1913, p. 708). Su questo principio Spaventa fu sempre esplicito: «Sono adoratore dello Stato» – disse il 24 giugno 1876 – «Quando viviamo in un’epoca dove tutto si distrugge, poco o niente si edifica, la fede nella patria, la fede nella solidarietà umana, la fede in qualcosa che non sia solamente il nostro miserabile egoismo, questa fede io la credo necessaria e salutare per il mio paese» (p. 423).
Spaventa impose, dunque, all’interno della classe politica, da precursore, il tema del ruolo della sfera pubblica nella gestione dello sviluppo della società, facendo intravedere sullo sfondo, accanto alle evidenti ascendenze culturali hegeliane, un modo d’intendere lo Stato come insostituibile strumento di garanzia dell’interesse generale. «La forza e l’autorità vera degli Stati» – disse alla Camera il 24 giugno 1876 – «consiste oggi più che mai nel rappresentare [...] gli interessi comuni, nel dirigere la società per le sue vie, non a pro di questa o quella classe, di questo o quell’uomo, ma sebbene di tutti» (ibid.). Su questa base Spaventa – membro autorevole di quell’élite meridionale risorgimentale che aveva della politica una concezione pedagogica a cui non era estranea l’influenza hegeliana della ‘scuola napoletana’ di Bertrando – interpretò perfettamente la prospettiva di un liberalismo emancipatore per nulla timoroso di confrontarsi sui temi della giustizia sociale: «Non si può dire popolo civile, dove solamente pochi sanno e godono, ma è veramente civile quel popolo in cui sanno e godono il maggior numero» (p. 420). Spaventa, con Quintino Sella e Luigi Luzzatti, fu la più alta espressione dell’anima ‘giacobina’ della Destra storica che riteneva lo Stato guida indispensabile per una società civile arretrata e priva di consapevolezza. In questo senso l’intervento pubblico in campo economico e sociale fu presentato come una forma di razionalizzazione etica di interessi la cui somma spesso non era sufficiente a garantire l’interesse collettivo. Pertanto, escludendo ogni prospettiva di lotta tra le classi, si rendeva indispensabile integrare quella «classe che non ha altro bene che il suo lavoro e diventa naturalmente sempre più numerosa ed aspira a venir su e migliorare il suo stato [...]. Un governo che dimentichi oggi questi problemi, può essere un nuovo potere temporale, ma non un governo moderno» (in La politica della Destra, a cura di B. Croce, 1910, pp. 200 s.).
Il 9 marzo 1876 Spaventa presentò il disegno di legge sulle convenzioni ferroviarie e le norme sull’esercizio pubblico delle ferrovie provocando di fatto la caduta del governo Minghetti contro cui, approfittando di una votazione su una questione minore, alcuni settori della Destra votarono con l’opposizione, costringendo l’esecutivo alle dimissioni e di fatto aprendo la strada alla stagione dei governi della Sinistra. Per Spaventa la sconfitta politica comportò una serie di contraccolpi sulla sua vita pubblica e privata. Il nuovo ministro dell’Interno, Giovanni Nicotera, ostile alla Destra e nemico personale di Spaventa, lo trasferì con intenti punitivi dalla sezione Interni e lavori pubblici del Consiglio di Stato, dove era un’autorità riconosciuta, alla sezione Finanze. Per non sottostare a quello che riteneva un sopruso, si dimise perdendo così la sua unica fonte di reddito. Inoltre Nicotera, nel 1876, sostenendo con forza l’avversario nel collegio di Atessa, riuscì a impedire la rielezione di Spaventa, estromettendolo così anche dalla Camera, in cui però rientrò l’anno dopo grazie a un’elezione suppletiva a Bergamo dove, nel marzo, si era candidato raccogliendo l’invito del senatore Giovanni Battista Camozzi Vertova.
Dopo l’arrivo al potere della Sinistra, Spaventa avviò, con una serie di interventi alla Camera, una nuova riflessione di carattere costituzionale in merito alla questione dell’ordinamento dello Stato e in particolare alle attribuzioni del governo in relazione al funzionamento dell’amministrazione da cui il Parlamento tendeva a essere sempre più escluso. Il problema era «se, e in che misura, il potere esecutivo può provvedere da sé alla propria organizzazione» (Discorsi parlamentari, 1913, p. 476), richiamando così l’attenzione sulla necessità di ripristinare un equilibrio costituzionale che riducesse l’arbitrio del governo e della decretazione rispetto al ruolo del Parlamento e della legislazione. Bisognava, in altri termini – disse in uno storico discorso all’Associazione costituzionale di Bergamo il 7 maggio 1880 – evitare che l’alternarsi dei partiti al governo diventasse un pericolo per i diritti acquisiti e quindi salvaguardare «la giustizia nell’amministrazione», vale a dire il maggiore problema «che s’incontra nella vita dei governi parlamentari, massime oggi che l’amministrazione pubblica degli Stati moderni ha preso tali dimensioni e sviluppo, da non potersi numerare i rapporti in cui i cittadini si trovano con essa ad ogni loro passo». Era dunque indispensabile mettere al sicuro l’equilibrio del sistema costituzionale evitando «che l’interesse di un partito, di una classe, di un individuo [...] predomini ingiustamente sopra l’interesse degli altri. [...] La soluzione sta nel fare un’essenziale distinzione tra governo e amministrazione» (p. 552). Sempre più lontano dalla lotta partitica e ormai interessato solo ai grandi temi delle garanzie costituzionali, Spaventa si guadagnò la fama di uomo di Stato e autorità morale, al di sopra delle parti tanto che, non a caso, il nuovo ministro degli Interni, Giuseppe Zanardelli, lo richiamò, nel novembre del 1878, al Consiglio di Stato collocandolo nel comitato dei lavori pubblici della sezione dell’Interno.
Critico nei confronti del nascente trasformismo, di cui non apprezzava la fine di una «distinzione di partiti che corrisponda [...] alle direzioni opposte della nostra vita sociale e nazionale» (p. 713), Spaventa si mostrò contrario anche a un troppo esteso allargamento del suffragio elettorale, dato il contesto sociale ancora immaturo, per nulla consapevole della fragilità delle istituzioni liberali. Nel 1882, a Casale Monferrato, in occasione della commemorazione di Giovanni Lanza, tenne un discorso che fece scalpore perché ricordò i pericoli della corruzione per una monarchia costituzionale. Il 20 settembre 1886 pronunciò a Bergamo un discorso su Il potere temporale e l’Italia nuova, in cui giudicava negativamente una conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, data la debolezza delle istituzioni italiane.
Diversi problemi di salute, tra cui quello della vista, avevano cominciato a manifestarsi già all’inizio degli anni Ottanta rendendo meno assidua la presenza di Spaventa alla Camera. Ad aggravare il suo tradizionale, irrequieto, pessimismo sopravvenne la morte del fratello Bertrando, nel 1883, e quella, nel giro di pochi anni, di Bettino Ricasoli e dei più intimi amici del gruppo degli ‘hegeliani’ napoletani con cui era sempre rimasto in contatto. Nel 1883, in seguito alla morte del cugino Pasquale Croce e della moglie durante il terremoto di Casamicciola, accolse in casa gli orfani Alfonso e Benedetto Croce a cui fece da tutore. La casa di Spaventa divenne luogo d’incontro tra i molti giovani che lo consideravano riferimento intellettuale e autorità morale. Tra questi, oltre allo stesso Croce, vi furono Antonio Salandra e Antonio Labriola, il quale ebbe una grande influenza sulla formazione di Croce.
In quegli anni, nel 1886, Spaventa aveva sposato Sofia Capecchi, vedova di Carlo De Cesare, di quattordici anni più giovane di lui.
Nel dicembre del 1889 Spaventa accettò di lasciare il seggio alla Camera per passare al Senato. Nello stesso anno, su iniziativa del presidente del Consiglio Francesco Crispi, nacque la quarta sezione del Consiglio di Stato, sede giudiziaria, distinta dal giudice ordinario, a cui venivano affidati i giudizi sui ricorsi di quei cittadini che ritenevano i loro interessi lesi dall’Amministrazione pubblica. Come riconoscimento del suo ruolo di ispiratore di tale iniziativa, il 31 dicembre 1889 gli fu affidata la prima presidenza di questa nuova sezione, da lui tenuta sino alla morte, avvenuta a Roma il 21 giugno 1893.
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