Silvio Spaventa
Protagonista della vicenda risorgimentale, esponente di spicco della Destra storica, membro delle più alte istituzioni in momenti nevralgici della storia dello Stato unitario, Silvio Spaventa rappresenta, da giurista non accademico, anche uno dei principali artefici del diritto pubblico dell’Italia liberale. Il suo liberalismo statualistico imprime una traccia profonda in alcune riforme portanti dell’assetto fissato con l’unificazione, prima fra tutte quella della giustizia amministrativa, lasciando al tempo stesso una rilevante eredità teorica che connota in profondità il modello italiano di Stato di diritto.
Fratello minore del filosofo Bertrando, di cinque anni più vecchio, Silvio Spaventa nasce a Bomba (Chieti) il 10 maggio 1822 da Maria Croce ed Eustachio, che due anni prima aveva partecipato ai moti antiborbonici.
Studia da seminarista a Chieti e quindi frequenta l’abbazia di Montecassino, dove già insegnava il fratello e dove si avvicina agli studi filosofici. Nel 1843 è a Napoli, presso i Croce. Nel 1846 partecipa alla scuola privata di filosofia creata dal fratello, palestra dell’hegelismo napoletano, presto caduta sotto gli strali della censura. Ricercato dalla polizia borbonica, alla fine del 1847 ripara a Firenze. Rientrato a Napoli nel febbraio 1848, in vista della concessione della costituzione da parte di Ferdinando II, vi fonda «Il Nazionale», il cui primo numero esce il 1° marzo. Eletto alla Camera il 18 aprile, sarà uno dei fermi oppositori della repressione borbonica dopo i fatti del 15 maggio, riuscendo a riaprire, nel giugno, le colonne de «Il Nazionale» ancora per qualche settimana. Protagonista della sessione estiva della Camera, partecipa nell’ottobre, a Torino, al Congresso nazionale-federativo organizzato da Vincenzo Gioberti. Alla riapertura del parlamento, nel febbraio 1849, denuncia i propositi governativi di involuzione autoritaria. Sciolta la Camera il 13 marzo, viene arrestato sei giorni più tardi.
Dopo oltre tre anni e mezzo di carcerazione preventiva, viene condannato a morte, ma la pena è commutata in ergastolo e il 21 ottobre 1852 è tradotto nel carcere dell’isola di Santo Stefano. Nonostante il pesante isolamento, che si protrae per oltre sei anni, è questo un periodo intenso di «studi e letture», coltivate con il compagno di cella Luigi Settembrini e sotto la guida spirituale del fratello, con il quale intesse un fitto epistolario:
ti prometto che mi rimetterò a studiare filosofia; per lo passato è stato impossibile; avrei sfidato Platone a filosofare dove sono stato io fino a non molto tempo […] Ivi lessi prima lo Spinoza: ci studiavo sopra notte e giorno. Che vuoi? Non capivo, non ritenevo niente. Ho letto poi tre volte la Fenomenologia di Hegel. Ci ho pianto sopra, disperatamente: non la capiva, non mi giovava […] Cominciai quindi altri studi: lessi storie, trattati di economia pubblica, di diritto internazionale, amministrativo, canonico, mi posi ad imparar meglio l’inglese; lessi l’Humboldt. Ho cercato di avere le opere dei maggiori filosofi tedeschi […] (lettera a Bertrando, 4 maggio 1853, in Dal 1848 al 1861, 1923, p. 182).
Nel mutato clima politico dell’inizio del 1859, l’ergastolo viene commutato in esilio perpetuo e nella deportazione in America. Durante una tappa a Cadice del vapore Stromboli, sul quale erano stati forzosamente imbarcati, tra gli altri, Settembrini, Sigismondo Castromediano, Carlo Poerio, Giuseppe Pica, Filippo Agresti, grazie all’intervento del figlio di Settembrini, Raffaele, i deportati riescono a raggiungere prima l’Irlanda e poi Londra. Di qui il ritorno a Torino nel maggio 1859 e quindi a Firenze, nell’ottobre, dove Spaventa avvia una collaborazione giornalistica con «La Nazione» di Alessandro D’Ancona.
Burrascoso anche il primo rientro a Napoli, dove, unitarista nel solco del progetto cavouriano, si scontra con il partito d’azione e con lo stesso Garibaldi che, dopo esser entrato trionfalmente in città, il 7 settembre 1860, il 25 lo invita ad abbandonarla precipitosamente. Rientrato a Napoli nell’autunno successivo, diventa uno dei principali collaboratori di Luigi Carlo Farini e come titolare del dicastero di Polizia si dimostra inflessibile, sia nella lotta alla camorra, sia nel contenimento di borbonici e mazziniani.
Trasferitosi a Torino per contrasti con Enrico Cialdini, svolge intensa attività parlamentare alla Camera dei deputati, dove era stato eletto sin dall’inizio dell’VIII legislatura (gennaio 1861). È segretario generale del Ministero dell’Interno (ministro Ubaldino Peruzzi) nel governo Farini-Minghetti, impegnato nella lotta al brigantaggio e nell’applicazione della legge Pica, sino al settembre 1864, quando il dicastero cade per i sanguinosi tumulti scoppiati a Torino a seguito della stipula della Convenzione di settembre e il cui doloroso carico di vittime l’opposizione non esita ad addebitare allo stesso Spaventa. Deputato anche nella IX legislatura, nel novembre 1868 è nominato consigliere di Stato, nella Sezione dell’Interno.
Ritorna al governo nel luglio 1873, nel dicastero Minghetti, in cui assume la carica di ministro dei Lavori pubblici, divenendo uno dei principali protagonisti della questione ferroviaria. Caduta la Destra, proprio sul suo progetto di statalizzazione delle ferrovie, siede da questo momento sui banchi dell’opposizione, censore severissimo dei costumi della Sinistra (celebri i suoi scontri con i ministri Giovanni Nicotera e Guido Baccelli).
Rientrato al Consiglio di Stato nella primavera del 1876, se ne dimette immediatamente in seguito a un trasferimento punitivo, dalla Sezione dell’interno alla Sezione Finanze, disposto proprio da Nicotera. Vi rientrerà nel 1878 per decisione del ministro dell’Interno Giuseppe Zanardelli.
Non eletto nel consueto collegio abruzzese di Atessa, accoglie l’invito a candidarsi a Bergamo, dove nel marzo 1877 è eletto nelle suppletive. Tiene dai palchi dell’Associazione costituzionale di Bergamo e di Roma alcuni dei discorsi politici più celebri dell’Italia liberale, ai quali consegna il suo progetto istituzionale. Il 15 dicembre 1889 è nominato senatore e il 31 dicembre diventa il primo presidente della Quarta sezione del Consiglio di Stato. Muore a Roma il 21 giugno 1893.
Questione strategica nella politica delle grandi infrastrutture nazionali, il tema ferroviario diventa uno degli snodi più delicati del governo Minghetti (1873-1876), in parallelo con il periodico rinnovo delle convenzioni, la definizione dei rapporti con l’Austria per la separazione della rete veneta, il dissesto di alcune società concessionarie, in particolare la Società per le strade ferrate romane e la Società per le strade ferrate meridionali. Il progetto, già in parte delineato nel precedente dicastero Lanza, presentato alla Camera il 9 marzo 1876 da Spaventa, nella sua qualità di ministro dei Lavori pubblici, prefigura un radicale ribaltamento della politica sin qui perseguita di compartecipazione dello Stato al finanziamento degli investimenti effettuati da società private, titolari della rete e concessionarie del servizio, prevedendo il riscatto e l’esercizio statale di tutte le ferrovie di interesse nazionale esistenti sul territorio.
Elaborato come soluzione concreta a un oggettivo problema di ottimizzazione degli investimenti pubblici in un settore strategico dello sviluppo economico del Paese, segnato tuttavia da forti squilibri territoriali e da un irrisolto conflitto tra l’interesse generale del servizio e gli obiettivi speculativi del capitale privato, il progetto si scontra con le forti resistenze di un’opinione pubblica ancora ampiamente liberista e diffidente nei confronti di intrusioni dirigistiche, ma ancor più con la concretezza degli interessi finanziari coinvolti che hanno negli esponenti della Destra toscana di Peruzzi una solida roccaforte.
Investito da un forte fuoco di sbarramento, il progetto neppure giunge in discussione, per il successo della strategia parlamentare di riaggregazione trasformistica di una nuova maggioranza che, sapientemente tessuta da Depretis e Nicotera, porta il 18 marzo 1876 alla caduta del governo Minghetti e al definitivo sfaldamento della Destra storica.
Il passaggio non è meramente parlamentare. Spaventa lascerà, tre mesi più tardi, quando la questione tornerà, finalmente, all’esame della Camera, una vibrante testimonianza istituzionale. Pur non in grado di invertire la scelta, fatta propria dalla Sinistra, di rinnovare le convenzioni ferroviarie, il discorso si presenta come una lucidissima registrazione dei nuovi rapporti che si stanno delineando tra Stato ed economia:
oggi lo Stato prende il servizio delle poste; domani quello dei telegrafi; lo Stato non aveva né poste né telegrafi un secolo fa. Oggi lo Stato prende le ferrovie, domani le lascia e prenderà altro. Non stiamo qui noi a prescrivere i confini, in cui questa grande potenza umana può essere contenuta (in Lo Stato e le ferrovie, 1997, p. 308).
Con lucida consapevolezza, la statualità entra in contatto diretto con la dimensione economica e industriale; il monopolio pubblico si confronta con quello privato; emergono le esigenze di servizio pubblico e la necessità di specifiche soluzioni organizzative e funzionali per le attività economiche di interesse generale. Gli echi hegeliani, ma anche quelli del ῾germanismo economico᾿, si traducono in una riscrittura complessiva dei compiti dello Stato, foriera di sviluppi nei decenni successivi:
io concepisco lo Stato in questa guisa. Esso, per me, è la coscienza direttiva, per cui una nazione sa di essere guidata nelle sue vie, la società si sente sicura nelle sue istituzioni, i cittadini si veggono tutelati negli averi e nelle persone. […] Lo Stato il quale dirige un popolo verso la civiltà. Lo Stato quale non si restringe solamente a distribuire la giustizia ed a difendere la società, ma vuole dirigerla per quelle vie, che conducono ai fini più alti dell’umanità (pp. 307-08).
La caduta della Destra e un’alternanza tra maggioranza e opposizione, assai lontana dagli archetipi parlamentari, favoriscono il radicarsi di un’ampia e variegata pubblicistica politica, pronta a interrogarsi sugli assetti dello Stato unitario, sulle sorti del governo parlamentare e della forma partito di un movimento liberale alle prese con la difficile egemonia su di un Paese estraneo e lontano.
La fragilità costituzionale, svelata dall’imporsi delle prassi trasformistiche, reclama soprattutto convincenti rafforzamenti istituzionali, nuovi confini tra politica e amministrazione, garanzie giuridiche di imparziale esercizio della sovranità. Parlamentarismo e amministrazione diventano, così, i due assi concettuali intorno ai quali ruota una riflessione corale, di cui Spaventa sarà, con Marco Minghetti, il principale punto di coagulo, pronta ora a individuare, spesso con disincantata oggettività, i punti deboli del «Paese legale», ora invece a delineare i possibili «rimedi». Si imprime una chiara, univoca, direzione progettuale: «la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative» (Giustizia nell'amministrazione, 1880, in La politica della Destra. Scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croce, 1910, p. 78).
Non si tratta di un’affermazione originale; Spaventa la riprende, alla lettera, da un’ampia pubblicistica tedesca, da Barthold Georg Niebuhr a Rudolf von Gneist, che accompagna, per tutto il 19° sec., il progressivo radicarsi del Rechtsstaat, di uno Stato di diritto che ha il suo pernio in un’amministrazione ῾secondo la legge᾿.
È il segno della crescente attenzione che anche i giuristi italiani iniziano a nutrire verso il modello tedesco, balzato al centro della vicenda europea con la fondazione del Secondo Reich. Le nuove fonti tedesche integrano la dominante cultura francofona e la diffusa anglofilia costituzionale, offrono al dibattito italiano un nuovo lessico politico; ma l’attenzione verte per intero sullo Stato unitario. Le critiche si appuntano sui ῾modi di governo᾿ della Sinistra. È il sistema politico italiano, fiaccato dall’instabile aggregazione trasformistica, il fulcro delle analisi e delle proposte.
Nel crescente ῾germanismo amministrativo᾿ il dibattito trova la conferma della direzione da prendere. Nessun passo indietro, beninteso. Il modello cavouriano, la forma di governo parlamentare, rappresentano approdi irreversibili. Le prerogative parlamentari, dal bilancio alla potestà di organizzazione dei ministeri, non possono essere scalfite: vanno anzi ribadite contro i colpi di mano del governo Depretis, pronto ad abolire, alla fine del 1877, con semplice decreto ministeriale, il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Il sistema costituzionale va dunque preservato, non modificato.
L’allargamento del suffragio, realizzato con la prudente apertura della Sinistra nel 1882, non sgomenta, ma non può costituire un sentiero privilegiato, in un Paese in cui l’irriducibile conflitto con la Chiesa di Roma ha impedito la formazione di un solido partito conservatore. Occorre concentrarsi quindi sulla macchina amministrativa. È questa che deve essere regolata, resa più efficiente, e soprattutto sottratta all’indebito abbraccio del trasformismo e liberata dallo ῾spirito di partito᾿. «Giustizia nell’amministrazione» significa proprio questo: offrire una soluzione «alle difficoltà che incontrano la giustizia e la legalità nelle pubbliche amministrazioni sotto i governi parlamentari» (Giustizia nell'amministrazione, cit., p. 55).
Accentratore per convinzione; consapevole che le funzioni dello Stato erano inevitabilmente destinate ad accrescersi, sulla spinta delle domande di uguaglianza sociale e dei bisogni dello sviluppo economico, Spaventa è fermamente contrario a riaprire la questione dell’articolazione autonomistica dell’ordinamento, esclusa senza appello dalle scelte dell’unificazione. Non di selfgovernment ha bisogno il giovane Stato italiano, ma di «un diritto pubblico certo, chiaro e completo, che a noi manca» (p. 64).
L’attenzione viene dunque a convergere sulla scelta, compiuta dal legislatore dell’unificazione, con l’All. E della l. nr. 2248 del 20 marzo 1865, di abolizione del contenzioso amministrativo (un sistema di garanzie amministrative interno alla stessa amministrazione, ereditato dallo Stato sardo e ispirato al modello napoleonico di giustizia amministrativa). E soprattutto, sulla contestata applicazione di quella scelta, sui vuoti di tutela apertisi nel sistema di giurisdizione unica e nel sindacato del giudice ordinario, complice un’interpretazione fortemente restrittiva operata dalla giurisprudenza.
Sono passati pochi anni dalla scelta abolitiva; ancora minore è la distanza dal momento in cui, con la l. nr. 3761 del 31 marzo 1877, la decisione sui conflitti di attribuzione era stata sottratta al Consiglio di Stato e affidata alla Corte di cassazione di Roma. Eppure, per Spaventa non ci sono dubbi. Quel sistema è incompleto, dottrinario, impari rispetto alle esigenze di imparzialità amministrativa svelate dalla rudezza del «governo di partito». Si prefigura la soluzione istituzionale che, pochi anni più tardi, nel 1889, porterà, sotto l’egida di Francesco Crispi, alla istituzione della Quarta sezione del Consiglio di Stato. La giurisdizione del giudice ordinario sui diritti civili e politici non viene scalfita, ma una nuova istanza contenziosa, da radicarsi all’interno di quel supremo consesso amministrativo di cui già dal 1868 Spaventa faceva parte, deve assumere il compito di realizzare una «vera giurisdizione del nostro diritto pubblico» (p. 98).
Il movimento per la giustizia nell’amministrazione aveva trovato in Silvio Spaventa il suo principale teorizzatore. Fu dunque un rispettoso gesto istituzionale l'assegnazione a Spaventa, una volta divenuto, nel dicembre 1889, presidente di sezione, del compito di presiedere, per primo, la nuova Quarta sezione. La temperie politica è assai mutata da quella del discorso di Bergamo di quasi dieci anni prima. Le preoccupazioni per il «governo di partito» si sono magicamente risolte nella solidità della svolta crispina e nell’ampio ventaglio di riforme istituzionali messo in cantiere. Eppure, la soluzione ricostruttiva del ruolo e dei compiti della nuova istituzione che Spaventa consegna al discorso inaugurale – poi non pronunciato – è in grado di tessere un preciso filo rosso con il progetto originario.
Per Spaventa la nuova istituzione ha compiti diversi dalla giurisdizione del giudice ordinario, che è eretta a difesa dei diritti soggettivi individuali. La Quarta sezione costituisce una giurisdizione di tipo oggettivo, in cui l’interesse del privato è soltanto l’occasione che consente all’amministrazione di riesaminare i propri atti; i poteri esclusivamente cassatori del giudice sono a tutela di una legalità in senso oggettivo. I futuri equilibri giurisprudenziali, che condurranno presto a enucleare una situazione giuridica distinta dal diritto soggettivo, l’interesse legittimo, come oggetto del giudizio della Quarta sezione, andranno in direzione parzialmente diversa. Ma ancora una volta Spaventa aveva indicato un preciso segnavia e indirizzato il futuro dibattito giuridico sui grandi temi della discrezionalità amministrativa e del rapporto tra legge e attività amministrativa, imprimendo, con la propria riflessione, una traccia profonda nei percorsi dello Stato di diritto liberale.
A Benedetto Croce si deve la prima raccolta dei principali scritti spaventiani, La politica della Destra. Scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croce, Bari 1910, all'interno della quale si veda, in partic.:
Il primo anno di governo della Sinistra (Bergamo, 17 aprile 1877), pp. 3-24.
La ricostituzione del Ministero di agricoltura, industria e commercio (Camera dei Deputati, 4 giugno 1878), pp. 263-98.
La politica e l’amministrazione della Destra e l’opera della Sinistra (Roma, 21 marzo 1879), pp. 27-52.
Giustizia nell’amministrazione (Bergamo, 7 maggio 1880), pp. 55-105.
L’amministrazione della pubblica istruzione (Camera dei Deputati, 16 dicembre 1881), pp. 301-38.
L’autonomia universitaria (Camera dei Deputati, 23, 26, 28 gennaio e 25 febbraio 1884), pp. 341-407.
L’allargamento del suffragio e i partiti politici (1882), pp. 467-75.
Il potere temporale e l’Italia nuova (Bergamo, 20 settembre 1886), pp. 183-202.
Per l’inaugurazione della Quarta sezione del Consiglio di Stato (13 marzo 1890, non pronunziato), pp. 429-58.
Gli interventi parlamentari sono leggibili in:
Discorsi parlamentari di Silvio Spaventa pubblicati per deliberazione della Camera dei deputati, Roma 1913.
Per l’epistolario si vedano:
Dal 1848 al 1861. Lettere scritti documenti pubblicati da Benedetto Croce, Bari 1923.
Lettere politiche (1861-1893), a cura di G. Castellano, Bari 1926.
Gli interventi in materia ferroviaria sono raccolti in:
Lo Stato e le ferrovie, a cura di S. Marotta, Napoli 1997.
P. Romano (Alatri), Silvio Spaventa. Biografia politica, Bari 1942.
G.M. Chiodi, La giustizia amministrativa nel pensiero politico di Silvio Spaventa, Bari 1969.
E. Croce, Silvio Spaventa, Milano 1969.
M. Nigro, Silvio Spaventa e la giustizia amministrativa come problema politico, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1970, pp. 715 e segg.
C. Ghisalberti, Silvio Spaventa teorico dello Stato liberale, in Id., Stato e costituzione nel Risorgimento, Milano 1972, pp. 249-312.
B. Sordi, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale. La formazione della nozione di interesse legittimo, Milano 1985.
Silvio Spaventa. Filosofia, diritto, politica, Atti del Convegno, Bergamo (26-28 aprile 1990), a cura di S. Ricci, Napoli 1991.
G. Melis, Spaventa Silvio, in Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia. Le biografie dei magistrati (1861-1948), 1° vol., Milano 2006, pp. 264 e segg.