Spaventa, Silvio
Patriota e uomo politico (Bomba, Chieti, 1822 - Roma 1893). Avviato allo studio del diritto a Napoli (1843), si dedicò principalmente alla filosofia e seguì le lezioni di Pasquale Galluppi. Nel 1846, insieme al fratello Bertrando, aprì una scuola privata di filosofia chiusa l’anno successivo dalla polizia borbonica. Protagonista della rivoluzione napoletana del 1848, il 1° marzo di quell’anno fondò «Il Nazionale», giornale che auspicava il collegamento dei diversi moti scoppiati nella penisola e la partecipazione di Napoli alla guerra d’indipendenza per accelerare il progetto di unificazione italiana. Eletto deputato al Parlamento napoletano nel mese di aprile, si schierò con l’estrema sinistra e fondò con Settembrini, Braico e Agresti la setta dell’Unità italiana, allo scopo di cacciare i Borbone e diffondere l’idea unitaria. Arrestato nel marzo 1849, dopo un lungo e assai discusso processo fu condannato a morte, ma la pena gli fu commutata nell’ergastolo. Dopo aver trascorso quasi dieci anni nelle carceri borboniche, dedicandosi agli studi di filosofia, storia, politica, diritto ed economia, nel 1859, essendogli stata nuovamente commutata la pena nell’esilio perpetuo, fu imbarcato alla volta dell’America, ma riuscì con i suoi compagni a sbarcare in Irlanda, da dove si recò poi a Londra a perorare la causa dell’indipendenza italiana presso i maggiori esponenti del liberalismo inglese. Tornato in Italia nel 1859 scrisse per il «Risorgimento» e la «Nazione» e fece attività politica militante in favore del Piemonte sabaudo. Recatosi a Napoli, si adoperò perché la rivoluzione si compisse nel nome di Vittorio Emanuele prima dell’arrivo di Garibaldi, e fu perciò allontanato dalla città quando questi vi giunse vittorioso il 7 settembre 1860. Rientrato a Napoli dopo il plebiscito, fu direttore generale del dicastero di polizia della luogotenenza napoletana di Farini, e in questa veste condusse una guerra senza quartiere contro la camorra; nel luglio 1861, però, diede le dimissioni per contrasti con il nuovo luogotenente, il generale Cialdini. Eletto deputato al primo Parlamento italiano tra le file della Destra, fu segretario generale al ministero dell’Interno nei governi Farini e Minghetti (1862-1864) e a lui fu imputata la maggiore responsabilità nella sanguinosa repressione delle dimostrazioni torinesi contro la Convenzione di Settembre (1864). Nel 1868 fu nominato consigliere di Stato, e nel 1873 ministro dei Lavori pubblici nell’ultimo gabinetto della Destra presieduto da Minghetti. Legò il suo nome a una serie di convenzioni per il riscatto e il passaggio allo Stato di importanti linee ferroviarie, ma la sua proposta di estendere l’esercizio statale all’intera rete nazionale urtò contro la resistenza del gruppo dei moderati toscani, che si staccò dalla maggioranza provocando la caduta della Destra (1876). Senatore dal 1889, lo stesso anno fu nominato presidente della IV sezione del Consiglio di Stato, organo della giustizia amministrativa. La sua opera di giurista fu sostenuta da un forte impianto filosofico. Egli pose al centro della sua dottrina politica il concetto hegeliano dello Stato, concepito come organo supremo destinato a impersonare la coscienza direttiva della nazione e a guidarla verso i più alti fini dell’umanità. Costanti furono in lui il richiamo a un efficiente sistema parlamentare fondato sui due partiti classici e la richiesta di una netta distinzione fra politica e attività amministrativa dello Stato, per garantire a tutti i cittadini, qualunque fosse il partito al potere, «giustizia nell’amministrazione». I suoi scritti principali sono raccolti nei volumi: La politica della Destra (1910); Discorsi parlamentari (1913); Dal 1848 al 1861 (1923); Lettere politiche (1926).