SIMBOLISMO
Nel 1885 Jean Moréas in una replica (sul XIXme Siècle, 11 agosto) a P. Bourde, collaboratore del Temps, il quale aveva tacciato Verlaine, Mallarmé e i loro seguaci di "decadentismo" (v.), li definiva invece poeti "simbolici" (symboliques) e nell'86 continuava (supplemento del Figaro, 18 settembre) a propugnare codesta definizione (piaciuta a qualche critico sottile, come E. Hennequin) contro quella foggiata dai detrattori. Memore del valore della parola "simbolo" nella poesia baudelairiana, chiamava simbolica l'arte rispondente alle esigenze formulate da Edgar Poe e sancite da Baudelaire, un'arte, cioè, significativa e "complessa", atta a "suggerire" quel che in essa apposta rimane taciuto o, tutt'al più, leggermente adombrato, vale a dire una "corrente sotterranea di pensiero" e come un mondo "invisibile" dietro all'immagine nettamente espressa. Dall'altro canto gli avversarî potevano allegare quale prova testuale della loro tesi sia il recente ghiribizzo verlainiano: "ie suis l'Empire à la fin de la décadence" (Jadis ei Naguère, 1884), sia l'elogio dei gusti letterarî della bassa antichità in quel codice di raffinatezze e stramberie d'un estetismo nevrotico che fu il famigerato romanzo di Huysmans À rebours (1884). I due diversi concetti della nuova corrente gareggiavano; e - cosa singolare, ma tutt'altro che illogica, data la natura ibrida del movimento - tra le due denominazioni contrapposte, appunto quella gridata dagli schernitori e autori di parodie nel genere del diffuso opuscolo Les Déliquescences d'Adoré Floupette poète décadent (1885) andò a gusto a taluni dispettosi nel campo degli aggrediti, i quali s'ingegnarono a interpretarla di modo che la beffa tornasse a loro vanto. Mentre Verlaine (Poètes maudits) scherzava "mi dànno del decadente - una pittoresca ingiuria che evoca l'autunno e il calar del sole", costoro, ben lungi dal voler motteggiare, si spacciavano, ricadendo in flagrante romanticismo (sui rapporti tra questo e il decadentismo, v. M. Praz, La Carne, la Morte e il Diavolo nella letteratura romantica), per gli ultimi rappresentanti della civiltà latina giunta al tramonto e per gli scopritori d'una nuova sensibilità, imbevuta dei più sottili veleni della decomposizione spirituale e morale d'un evo moribondo e pertanto suscettibile d'essere acuita fino a non si sa quale chiaroveggenza dei sensi. "Le poète se fait voyant par un long dérèglement des sens", aveva già da tempo insegnato Rimbaud (1871), glorificando Baudelaire come "il primo dei veggenti". "Affinché un decadente di tale forza potesse sorgere e ideare un tal libro" scriveva Barbey d'Aurevilly a proposito di À rebours, "bisognava che noi fossimo divenuti ciò che ora siamo, intendo dire: una stirpe agonizzante (une race à sa dernière heure)". Alla teoria della decadenza latina s'ispirò il torbido apostolato di Péladan, esteta misteriosofico e poeta "mago". Comunque, nelle discussioni intorno alla vera indole del moto talmente ambiguo, una certa divergenza d'indirizzo tra i decadenti, esperimentatori nel campo dei sensi e per lo più illusionisti disillusi, "pontefici del gran Nulla", e i simbolisti assorti nello spiare le voci sparse dell'anima universale, cercatori dell'assoluto, si delineò e fu espressamente segnalata dai critici. Anatole France ripudiava quelli come una schiatta eteroclita e degenere, e censurava l'ermetismo di questi (specie le astruserie e gl'indovinelli di Mallarmé) quale peccato contro la natura comunicativa e socievole dell'arte, pur approvando il distacco dal Parnasse, irrigiditosi in un solenne e vacuo formalismo, la liquidazione dei residui del manierismo romantico che si era esaurito nella verbosità oratoria di Victor Hugo, soprattutto la negazione radicale del naturalismo. Brunetière biasimava anch'egli l'oscurità dello stile allusivo, non già evitata bensi ricercata da coloro che volevano "rivaleggiare con la musica"; riconosceva però pienamente il merito dei simbolisti "d'aver insegnato ai giovani d'un'epoca in cui, col pretesto di naturalismo, l'arte era stata ridotta all'imitazione dei lineamenti esteriori (contours extérieurs) delle cose, che vi è in esse anche un'anima".
Così il nome di simbolismo fu assicurato a quella scuola che fino dai tempi di Baudelaire, il suo vero e riconosciuto fondatore, esisteva anonima in seno al Parnasse, esteriormente unitavi nell'osservanza del comune canone tecnico, essenzialmente eterodossa, poiché all'equilibrio positivistico degli "impassibili" opponeva un pungente senso del mistero e un'inquietudine spirituale. D'altronde, con l'andar del tempo, si mostrò riluttante persino al canone. Lo stesso Verlaine, che aveva suggellato la sua prima raccolta di poesie (1867) con una perorazione prettamente e altieramente parnassiana ("à nous qui ciselons des mots comme les coupes et qui faisons des vers émus très froidement"), riflettendo in Jadis et Naguère sopra le trasformazioni della propria arte dopo quell'epoca, confessa finalmente, sotto la forma d'un capriccio intitolato Art Poétique, un ideale di creazione lirica affatto diverso da quello dell'"arte robusta, sola imperitura" secondo Théophile Gautier. Mentre il Parnasse aderiva alla massima simonidea, ricordata da Orazio: "ut pictura poesis", l'autore della nuova "Arte Poetica" pare si ispiri all'altro detto oraziano: "non satis est pulchra esse poemata, dulcia sunto et quocumque volent animum auditoris agunto". Richiede "de la musique avant toute chose", immedesimando siffatta musicalità con l'immediatezza disinvolta e l'illimitatezza alata dello slancio lirico, né è difficile riconoscere pure in questa lode della musica una ripercussione dei dogmi estetici di Edgar Poe, tramandati da Baudelaire. Mentre il Parnasse scolpiva nella roccia della lingua materna come in marmo o in pietra dura e si compiaceva della resistenza della materia all'impronta della forma - più dura si mostrava quella, e più duratura sembrava l'effigie - l'atteggiamento di Verlaine si riassume nella tendenza di liquefare, di fondere, di volatilizzare la poesia: scioglie le forme finite e sode in una fluida e vaga melodia, sostituisce alla determinatezza, fissità, sobrietà dello stile monumentale un'imprevedibilità e come ebbrezza d'elocuzione frammista a elementi di voluta improprietà e imprecisione. Dopo aver "torto il collo all'Eloquenza" e deriso tutto ciò che cerca d'imporsi con grandi arie, conclude con la dichiarazione provocante che tale sia la poesia e "tutto il resto letteratura". Il che vuol proprio dire che la poesia non sia affatto un genere letterario e si debba emancipare dalla tutela che esercitava su di essa per ben due millennî la tradizione retorica, sottomettendola, nonostante varie "licenze" concedutele a mo' di eccezione, alle norme valide egualmente per la prosa, anzi proprio aderenti alla struttura logica, psicologica, stilistica di questa ultima. In tal modo la poesia viene rivendicata all'antico tiaso di quelle arti che i Greci dell'età fiorente chiamavano "musiche". Occorre, per valutare questo importante messaggio, tener presente che il poeta parla proprio della canzone, riguardo alla quale non enuncia alcuna proposizione contraria all'indole e alle origini di essa. Non fu quindi quale precetto seguito alla lettera dai poeti fuori del campo puramente melico. Ma quale appello allo "spirito della musica", per dirla con Nietzsche, riuscì efficacissimo negli ulteriori sviluppi della poesia anche dopo lo sfacelo della scuola avvenuto nel primo decennio del sec. XX. Paul Valéry, discepolo fedele di Mallarmé, ritiene, rievocando quei tempi, l'orientamento verso la musica come distintivo di tutti coloro che si schieravano attorno alla bandiera del simbolo, malgrado la diversità delle interpretazioni estetiche e delle affermazioni artistiche di quel concetto. E lo spirito della musica sembrava loro incarnato nell'arte wagneriana il cui genuino e quasi innato simbolismo rifioriva nel mito quale somma attuazione del simbolo, poiché veramente non è che un simbolo concepito come atto. Se il Tristano di Wagner ispirava i simbolisti, la musica di data più recente, quella di Debussy, s'ispira alle loro opere già compiute. Il desiderio di raggiungere una maggiore spontaneità ritmica e melodica sedusse dapprima i simbolisti Laforgue e Gustave Kahn, poi tanti altri poeti fino ai giorni nostri, non già a ritoccare, bensì a scompigliare e pressoché abolire il sistema fisso di versificazione mediante il cosiddetto "vers libre"; però questo tentativo non fu mai approvato dai più autorevoli maestri, come Verlaine, Mallarmé, Valéry, Stefan George, e la strofa biblica di Claudel, come pure quella di Nietzsche in Zarathustra, non ha nulla a che vedere col verso libero. Importantissima fu invece la ricerca d'un'integrale armonizzazione intrinseca del verso (certo, non tale quale la concepiva René Ghil) di sonorità così perfetta e d'intensità così penetrante da renderlo simile a una sublime frase musicale e insieme a una formula magica, quale la voleva un Mallarmé e qual'era nei tempi remoti intenzionalmente il verso sacro degli antichissimi vati.
Non è già, come facilmente taluno potrebbe supporre, dalla Germania del vecchio Goethe (che conclude l'opera della vita intera con l'annunzio del coro finale di Faust: "tutto quello che passa è solo un simbolo") e del giovane Novalis, né di quei poeti simbolisti di antica data, convinti che il divino non s'avvicina senza velo e che quel "vel sottile", ossia "velame" dantesco di "versi strani", quel "velo" che Goethe dice d'aver ricevuto "dalle mani della Verità", è dalla Poesia, mediatrice dei numi, spontaneamente tessuto; non è dalla patria di Guglielmo Meister e di Enrico von Ofterdingen che il concetto di simbolo era stato trapiantato nell'ambiente spirituale di Baudelaire che ne fece tesoro, per quanto certe idee schellinghiane e dei fratelli Schlegel circa l'indole simbolica dell'arte non fossero del tutto ignote in Francia verso il 1830 (A. Graf, Preraffaellisti simbolisti ed esteti, in Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino 1924, p. 315). Il vocabolo era usatissimo nella letteratura di sette mistiche cui il clima del romanticismo riusciva propizio: si parlava di simboli ora a proposito della cosiddetta "analogia universale" (già trattata poeticamente dal Novalis in I Discepoli di Sais), ora con riferimento alla rivelazione iniziatica tramandata ai posteri "per speculum in aenigmate" sotto la veste di varie religioni, mitologie e sacre figure. La prima pietra dell'edificio della scuola simbolista moderna, alla cui costruzione lavorarono, poi, diversi artefici senza un piano unico e preciso, fu un sonetto di Baudelaire, traboccante di musica interiore, ma destinato anzitutto a fissare un addottrinamento esoterico, come lo dice il titolo stesso Les Correspondances. Esso si divide nettamente in due parti, le quali, a chi s'accinge a scrutarne il contenuto dottrinale, appaiono ben differenti, anzi incongrue e per l'appunto, a cagione di codesta discordanza, rivelatrici di due tendenze opposte, inerenti al movimento che s'inaugura, e pregne di futuri contrasti che ne debilitarono vieppiù il geniale impeto e ne divisero il torrente straripante in una rete di rivoli. Nella prima parte che consta delle due quartine, il poeta assomiglia la Natura a un tempio dalle cui colonne viventi sorge, di quando in quando, un sussurro come di confuse parole; l'uomo vi passa attraverso una selva di simboli che l'osservano con uno sguardo familiare; "al par di lunghi echi che da lontano si confondono in una tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e come la luce, i profumi e i colori e i suoni si rispondono". I simboli dunque, ben lungi dall'essere un'invenzione e convenzione umana, costituiscono nell'universo, animato tutto quanto, una segnatura primordiale impressa nell'intima sostanza delle cose e come un linguaggio occulto per mezzo di cui si attua una comunione prestabilita d'innumerevoli anime affini, per quanto disgiunte nei loro particolari modi d'esistenza e appartenenti a diverse cerchie del creato. Orbene, le medesime idee si trovano esposte in termini e immagini consimili nelle novelle di Balzac Louis Lambert (per es.: "gli aromi sono forse idee") e Séraphita (per es.: "io so dove germogli un fiore canoro, dove risplenda la luce parlante, dove i colori olezzino") e risalgono alle visioni swedenborghiane e alla dottrina di J. Boehme, rimaneggiata da Saint-Martin. Le fonti teosofiche dell'opera del gran romanziere sono indagate in modo esauriente nel libro di E. R. Curtius, Balzac.
Ecco, peraltro, le parole di Baudelaire (Art romantique): "I migliori poeti attingono le loro metafore e similitudini al fondo inesauribile dell'analogia universale... Swedenborg ci ha insegnato che forma, movimento, numero, colori, olezzi, che tutto, insomma, nel regno della natura come in quello dello spirito è significativo, reciproco, convertibile, corrispondente". Nella seconda parte del sonetto, cioè nelle terzine, l'autore stabilisce precisamente una scala di corrispondenze o affinità, attribuite senz'altro all'universale analogia ad onta del loro carattere ovviamente soggettivo e contingente, tra fragranze di vario genere e gli stati d'animo che esse provocano insieme con fantasmi concomitanti, dagl'intemerati ai "corrotti", dai dolci e mansueti agli orgiastici, e non si avvede di non parlar più da veggente, bensì da osservatore dei proprî complessi psichici e "sinestesie" individuali. Il simbolismo, appena proclamato, si cambia in decadentismo che s'illude di poter trascendere la limitatezza dell'io per via d'una esperienza arricchita e affinata dei sensi. Ecco un autoritratto impensato e involontario del poeta in preda all'intimo dissidio tra l'uomo spirituale e l'uomo sensuale. Ecco insieme prefigurato il destino del simbolismo moderno con la sua scissione intrinseca in due simbolismi: un simbolismo realistico (nell'accezione filosofica del termine) e un simbolismo soggettivistico. Quello intende per simbolo una qualsiasi realtà considerata sotto l'aspetto di correlazione con una realtà superiore, cioè più reale, nella scala del reale. La scopre, questa seconda realtà, in un unico atto d'intuizione, sia al di là della prima che la rispecchia, sia immanente alla prima che l'avvolge. Cerca quindi nelle cose la segnatura del loro valore e nesso ontologico, realia in rebus. Vuole con siffatta rappresentazione del mondo condurre coloro a cui si rivolge a realibus ad realiora e fa in certo qual modo suo il principio anagogico dell'estetica medievale. Aderisce dunque alle norme del "simbolismo eterno" che Charles Maurras oppone a quello "decorativo" (noi lo chiamiamo soggettivistico) dei moderni e può altresi essere definito per eccellenza quale "divinazione dello spirituale nel sensibile, espressa per mezzo del sensibile", come J. Maritain (Art et Scolastique) definisce la poesia in genere meditando sull'opera di Paul Claudel, simbolista-realista. Ben altro è il simbolismo soggettivistico. Quest'altro tipo di simbolismo, che prese il sopravvento, proclama fin dal principio il suo disprezzo di quel che vale per realtà oggettiva: è più illusoria di qualunque finzione poetica, senza esserne più bella. "L'obiectif" scriveva Le Symboliste, uno dei primi periodici del cenacolo battezzato con questo nome "n'est que pur semblant, qu'apparence vaine, qu'il dépend de moi de varier, de transformer à mon gré". Con tale presupposto, che cosa diviene il simbolo? Non è più oggetto d'intuizione, bensì un mezzo d'espressione; non più un messaggio che viene dal difuori, bensì un messaggero d'un contenuto prevalentemente psicologico. Non è più una verità da scoprire, bensì un'immagine da plasmare. Un'immagine riassuntiva, rappresentativa, evocatrice d'una serie d'idee e d'emozioni che vi si associano sulla strada indicata dal poeta; una immagine motrice, espansiva, capace di suscitare in colui che ne subisce il fascino un'attività pressoché spontanea dell'immaginazione nei limiti voluti dal suggeritore e nell'indirizzo determinato dalla sua visione d'insieme, sia pure chimerica, ma avvincente e sorprendente ("toute beauté supérieure", insegnava Rimbaud, "se doit teindre d'étrangeté"). Praticamente questo tipo di simbolismo che voleva essere anch'esso a modo suo veritiero, e cioè quale pittura di "paesaggi introspettivi" (Tancrède de Visan), era intento a perfezionare il sistema di segnalazione tra le coscienze divise, le quali, più complicata appariva la loro vita interiore, più isolate si sentivano, in seguito al rilassamento degli antichi legami di fede comune e di naturale solidarietà, a tal segno che l'impossibilità d'una mutua comprensione diventò uno dei motivi prediletti di espansioni liriche e di collisioni drammatiche o romanzesche dell'epoca. Teoricamente questo simbolismo affermava la libera creatività dello spirito e faceva suo, nei confini dell'arte, l'atteggiamento idealistico. Così Mallarmé nel suo progettato "Libro", ideato, come lo confida nel 1885 a Verlaine, quale "spiegazione orfica della terra", cioè quale instaurazione del canto cosmico di Orfeo (poiché a Orfeo accenna, e non già all'orfismo), mirava, emulatore poetico del panlogista Hegel a ricreare il mondo col Verbo umano attuando le potenze dell'armonia universale, sparse nella comune favella, mediante il sermone trasfigurato dalla poesia in stato di pura perfezione.
Ma non tutti manifestavano tale coraggio d'idealista: anzi, voci d'inappagamento e di disperazione si moltiplicano nelle opere dei simbolisti, a misura ch'essi s'allontanano dal polo realistico, rappresentato dal Verlaine della Sagesse e dal Huysmans di En route e di quelle trattazioni della simbolica sacra che vi fanno seguito. L'ideale risulta "illusione" anche per lo spirito cavalleresco e intrepido d'un Villiers de l'Isle-Adam, e le sterili nostalgie del Maeterlink ancora vagheggiante sogni mistici, di G. Rodenbach, di Vielé Griffin, del disegnatore Odilon Redon, del giovane André Gide non rasserenano affatto l'atmosfera densa di cupo pessimismo, mentre Rémy de Gourmont si rinchiude in un aspro scetticismo e i soli imperturbati, Henri de Régnier ed Èmile Verhaeren, indebitamente annoverati tra i simbolisti, continuano l'uno l'arte pittorica del Parnasse in forme modernizzate e moderate, l'altro quella declamatoria e metaforistica di Victor Hugo. Il tipo soggettivistico che prevalse in Francia determinò pure l'irradiazione della scuola all'estero. La poesia anglosassone, dopo precursori del simbolismo di ambedue i tipi come W. Blake, Shelley, D. G. Rossetti, Edgar Poe, l'illusionista De Quincey, subisce l'influsso francese che comunica un'impronta specifica d'estetismo decadentistico alle opere di Swinburne, di Beardsley, di Oscar Wilde. Anche Stefan George e Rilke, in Germania, pigliano le mosse non già da Novalis o Hölderlin, bensi da Baudelaire e dalla sua setta. Press'a poco lo stesso si può dire dell'Italia della Cronaca Bizantina e del D'Annunzio, rivendicato alla tradizione nazionale non solo dal suo culto della lingua antica e genuina, ma soprattutto da quel realismo che scaturisce spontaneo dall'amore della patria e dalla fede nei suoi destini - come pure della Polonia della generazione posteriore ai grandi presimbolisti mistici. Invece in Norvegia, con quella spontaneità che osserviamo nel caso di Riccardo Wagner, sorge un ingegno di grande valore e influsso, orientato spiccatamente verso il simbolismo realistico e il mito che ne è compimento e culmine, nella persona di Enrico Ibsen. In Russia, con un nuovo messaggio poetico di Blok e di Belyj e con le prime indagini filosofiche sui principî del simbolismo, incomincia un'epoca più rigorosamente consapevole dei compiti spirituali di quest'ultimo nello sviluppo della scuola già illustrata da una pleiade di poeti eminenti, tra cui la maggior fama acquistarono Merežkovskij, Balmont, Annenskij, Sologne, Brjussov e meritano inoltre una speciale attenzione Konevskoj, Hippius, Baltrusaitis; si palesa insieme efficacissima la ripercussione della speculazione metafisica e della poesia mistica di Vladimiro Solov′ev e viene scoperto il tesoro nazionale di puro simbolismo realistico, finora sconosciuto, nel retaggio specie di Tjutčev e di Dostoevskij. Sebbene parecchi simbolisti sopravviventi o venuti soltanto a tarda ora continuassero con inconcussa fede la loro opera in varî paesi, la scuola che si compiaceva del titolo quasi nobiliare, ma ormai vano, di simbolismo è dappertutto ben morta in conseguenza del suo peccato originale sopra analizzato, della contraddizione intrinseca che le fu fin dal principio inerente; v'era però in essa un'anima immortale, e siccome i grandi problemi che aveva posti non hanno trovato nei limiti di essa una soluzione adeguata, tutto fa prevedere in un avvenire più o meno lontano e sotto altre forme una più pura manifestazione del "simbolismo eterno".
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