sinalefe
di Sergio Bozzola
La sinalefe (gr. synaliphé, comp. di syn- «insieme» e aléiphein «ungere, rendere scorrevole») è il fenomeno metrico (➔ metrica e lingua) per cui la ➔ sillaba finale a uscita vocalica di una parola e la sillaba iniziale a entrata vocalica della parola successiva vengono contate nel verso come una sola sillaba metrica. Il fenomeno contrario è la dialefe. Nell’es. (1):
(1) Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena (Petrarca, Canz. CCCX, 1)
la seconda sillaba del verbo torna e la congiunzione e che segue devono essere contate come una sola sillaba affinché sia rispettato il confine metrico dell’➔endecasillabo. Nell’esecuzione mentale del verso, le due sillabe mantengono ciascuna la propria consistenza fonologica, ma si risolvono senza soluzione di continuità l’una nell’altra.
La sinalefe non è incompatibile con la pausa linguistica, può cioè verificarsi anche a cavallo di punti di passaggio sintattico che nella grafia moderna sono marcati da segni di interpunzione come la ➔ virgola e il ➔ punto e virgola. Così, nell’esempio ariostesco che segue:
(2) Prima che più io ne parli, io vo’ in Olanda (Ludovico Ariosto, Orl. fur. IX, ottava 93, v. 5)
la sinalefe sottolineata scavalca la pausa sintattica che divide la frase subordinata dalla reggente. Così, nell’incipit leopardiano:
(3) Dolce e chiara è la notte, e senza vento (Giacomo Leopardi, “La sera del dì di festa”)
la figura della sinalefe si inarca sopra i margini dell’➔epifrasi, con la quale l’autore separa il terzo sintagma con cui viene qualificata la notte (senza vento), introducendo con ciò una pausa dopo il nome notte. In questo caso il fenomeno metrico crea un effetto contrappuntistico rispetto alla retorica e alla sintassi.
La compatibilità della sinalefe con le pause sintattiche viene dalla sua natura non propriamente fonetica ma «psicologica» (Menichetti 1993: 312). Essa non interviene cioè a modificare lo stato dei suoni della pericope, «non comporta [...] la soppressione nella pronuncia di nessuna delle vocali» (Menichetti 1993: 319), né va ridotto necessariamente (come vuole Beltrami 20024: 172) il tempo effettivo della loro pronuncia alla misura ipotetica di una sola sillaba; la consillabazione si verifica nel computo metrico mentale affidato al lettore.
di Sergio Bozzola
Per questa ragione la sinalefe va considerata fenomeno distinto dall’➔elisione, cioè dall’effettiva caduta di un suono vocalico finale di parola davanti a una parola che segue e inizia per vocale.
La distinzione tra sinalefe ed elisione è comprovata dal fatto che già ➔ Francesco Petrarca (la cui poesia è trasmessa da un manoscritto in parte autografo e comunque interamente sorvegliato dall’autore) distingue graficamente i due fenomeni, e per es. scrive versi come:
(4) Con lei foss’io da che si parte il sole (Canz. XXII, 31)
ma anche, a parità di contesto fonologico:
(5) che se col tempo fossi ito avanzando (Canz. CCCIV, 10)
Analogamente, la sinalefe va considerata distintamente dall’➔aferesi, cioè dalla caduta della vocale iniziale della seconda parola, come è dimostrabile ancora dal confronto fra altri due esempi petrarcheschi:
(6) ch’agiunger nol pò stil né ’ngegno humano (Canz. CC, 8)
(7) et ristorar nol pò terra né impero (Canz. CCLXIX, 7)
nei quali la prima parola e l’iniziale della seconda sono identiche. La dimostrazione che le suddette distinzioni fossero avvertite da Petrarca viene da Vitale (1996: 80 segg.), dove si evidenzia che le scelte del poeta in questo ambito seguono linee di gusto non casuali e coerenti.
Una terza avvertenza riguarda la distinzione tra sinalefe e apocope avanti a parola iniziante per vocale. Nel Canzoniere petrarchesco convivono forme non apocopate e dunque in sinalefe con la parola seguente, e forme apocopate (Vitale 1996: 91):
(8) et come augel in ramo (Canz. CCVII, 35)
(9) o come novo augello al visco in ramo (Canz. CCLVII, 8)
Alcune correzioni autografe del poeta introducono in questi contesti l’apocope, che dunque doveva essere avvertita proprio per questo fenomeno fonicamente differente dalla sinalefe. Menichetti (1993: 326) documenta la discriminazione tra apocope e sinalefe nelle autocorrezioni ariostesche dell’Orlando furioso (➔ Ariosto), che vanno in una direzione contraria a quella petrarchesca (l’es. 10 – IV, ottava 68, v. 5 – riproduce la lezione del Furioso del 1516; l’es. 11 quella delle due edizioni successive del 1521 e del 1532):
(10) che con lui vien a molte leghe e miglia
(11) che con lui viene a molte leghe e miglia
L’effetto stilistico delle due varianti è sensibilmente differente: «con questo vien troncato il verso s’impenna, sembra spezzarsi in due, mentre ciò non accade con quel viene che fluidifica» (Menichetti 1993: 326).
di Sergio Bozzola
La tendenza a privilegiare la sinalefe rispetto all’apocope sembra caratterizzare più generalmente la ➔ lingua poetica italiana, almeno nella sua espressione più alta (Menichetti 1993: 327) e successiva a Petrarca, il quale potenzia questo fenomeno e lo rende pervasivo, segnando una consistente differenza dalla lingua della Commedia di ➔ Dante. Secondo Menichetti (1993: 328-329) i due poeti fanno un uso consapevolmente contrapposto della sinalefe: «La techne di Dante ubbidisce in primo luogo [...] a un’esigenza di energia espressiva»; da cui la tendenza a isolare con dialefe monosillabi e polisillabi tronchi, «con vigoroso effetto di staccato». La sinalefe, assieme alla dialefe, diviene così «un eccellente caratterizzatore del linguaggio metrico individuale».
Seguendo Menichetti (1993: 340 segg.; ma semplificandone la casistica), è possibile delineare una tipologia della sinalefe sul parametro combinato del numero delle vocali interessate e dell’accento:
(a) due vocali atone:
(12) Molto soffrì nel glorïoso acquisto (Tasso, Ger. lib. I, ottava 1, v. 4)
(b) vocale tonica e vocale atona:
(13) Tu al fin de l’opra i neghittosi affretta (ivi, ottava 16, v. 6)
(c) vocale atona e vocale tonica:
(14) E le nebbie atre e folte dei sospiri (Ariosto, Rime XXXV, 13)
(d) vocale tonica e vocale tonica:
(15) Così anco i tuoi nemici affida, e invita (Tasso, Ger. lib. IV, ottava 39, v. 7)
Ciascuno di questi tipi può trovarsi complicato dalla duplicazione delle vocali. Ad es., si può dare sinalefe tra due vocali atone uscenti e la vocale atona iniziale della parola che segue (16), oppure quando la vocale iniziale della seconda parola è tonica (17), ecc.:
(16) Picciola requie a la penosa vita (Giovambattista Marino, Adone IV, ottava 282, v. 2)
(17) Per voi conven ch’io arda, e ’n voi respire (Petrarca, Canz. CCLXVII, 9)
La sinalefe può assorbire le sillabe di tre (18) o quattro (19) parole, e renderle un’unica sillaba metrica:
(18) Di mia speranza ò
in te la maggior parte (Petrarca, Canz. LIII, 25)
(19) A le rose ed al maggio e al sole e a i canti (Giosuè Carducci, “Una rama d’alloro”)
Le combinazioni foniche che sono documentabili, o la messa in serie della sinalefe all’interno di un singolo verso, provocano spesso impasti fonici ‘aspri’. Così è ad es. dell’assorbimento in sinalefe del pronome soggetto io (20), e dei casi in cui la sinalefe provoca un contraccento (21):
(20) Or cognosco io che mia fera ventura (Petrarca, Canz. CCCXI, 12)
(21) Ricominciar, come noi restammo, ei (Dante, Inf. XVI, 19)
Si arriva talora ai limiti della pronunciabilità. Nel seguente verso petrarchesco, ad es., la serie delle sinalefi tra i nomi provoca una sequenza impervia di accenti ribattuti. L’esecuzione del verso in questo caso è incompatibile con la sua scansione ritmica:
(22) Fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi (Petrarca, Canz. CCCIII, 5)
Viene così confermata la dimensione prevalentemente mentale del fenomeno, se non proprio la sua natura astratta.
di Luciano Romito
Un particolare caso di sinalefe è la sineresi (dal gr. synáiresis «il prendere insieme»). In ➔ fonetica essa è il processo di fusione di due vocali contigue, poste all’interno di parola e appartenenti a nuclei sillabici differenti, in un’unica ➔ sillaba: vocali che dovrebbero essere pronunciate separatamente, come pa.u.ro.so, vengono invece prodotte insieme, come pau.ro.so.
Il fenomeno spesso si verifica dopo uno spostamento di accento o in seguito a una metatesi quantitativa.
Nell’italiano parlato si tende, per processi fonologici o aggiustamenti coarticolatori, a ridurre il numero delle sillabe di una parola, trasformando due vocali contigue, appartenenti a sillabe differenti, in un ➔ dittongo: così vi.a.le, vi.ag.gio possono diventare via.le [ˈvjale], viag.gio [ˈvjadːʒo]. Una delle due vocali viene ridotta sia in quantità che in qualità e foneticamente diventa un’approssimante (➔ semivocali); il dittongo che si crea potrà essere sia ascendente (se il segmento approssimante precede la vocale), sia discendente (se invece il segmento approssimante segue la vocale).
Gli italiani, oggi, oscillano nella pronuncia, preferendo un dittongo al Nord, come L[aw]ra, contin[wo], patr[ja] ed emp[jo], e la produzione di uno iato al Sud: L[au]ra, contin[uo], patr[ia], emp[io].
In metrica (➔ metrica e lingua) la sineresi viene definita sinizesi (dal gr. synízēsis «condensazione»). Nei casi in cui si applica, generalmente la prima vocale è breve e quindi il dittongo risulta essere ascendente come in p[je]de. Il procedimento inverso alla sineresi (o sinizesi) è la ► dieresi (gr. diáiresis «divisione, separazione»).
Beltrami, Pietro G. (20024), La metrica italiana, Bologna, il Mulino (1a ed. 1991).
Menichetti, Aldo (1993), Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore.
Vitale, Maurizio (1996), La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore.