SINDACALISMO.
– Il movimento sindacale nel contesto internazionale. Il sindacalismo europeo. I sindacati italiani. Bibliografia
L’esperienza associativa del movimento sindacale, che ha rappresentato gli interessi materiali, culturali e morali dei lavoratori dipendenti nelle diverse fasi della moderna industrializzazione, si trova ad attraversare un passaggio epocale nei processi di globalizzazione del 21° secolo. In un contesto nel quale non è venuta meno l’esigenza di proiettare il conflitto individuale di lavoro in una rappresentanza collettiva, il s. è chiamato a riscoprire le ragioni di una presenza che è stata in grado di suscitare processi di emancipazione sociale, di riforme e di partecipazione. Soprattutto, i sindacati si trovano a riorientare la propria azione contrattuale, negoziale e di regolazione sociale per corrispondere alle responsabilità cui sono chiamati, nel posto di lavoro e nella governance economico-sociale, a livello nazionale e internazionale.
Il movimento sindacale nel contesto internazionale. – In questo crinale storico del movimento sindacale è stata costituita, nel novembre 2006, la Confederazione internazionale del sindacati (ITUC, International Trade Union Confederation), ponendo fine a una secolare competizione tra il s. tradeunionista e quello cristiano: in nome della comune natura associativa e democratica, infatti, si sono unificate la Confederazione internazionale dei sindacati liberi (ICFTU, International Confederation of Free Trade Unions) e la Confederazione mondiale del lavoro (CMT, Confédération Mondiale du Travail). Questo evento, anticipato dall’analogo processo che a livello europeo aveva dato vita tra il 1973 e il 1974 alla Confederazione europea dei sindacati (ETUC, European Trade Union Confederation), ha anche sancito il fallimento del s. di matrice comunista e degli organi di rappresentanza sindacale sostenuti per iniziativa statale. Contemporaneamente, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno riconosciuto l’opera del libero s. nei processi di unificazione dei mercati, sia nel favorire relazioni industriali in grado di equilibrare le esigenze di competizione delle imprese e le aspirazioni dei lavoratori a conseguire migliori condizioni di lavoro, sia nel contribuire allo sviluppo sociale e civile dei loro Paesi. Non stupisce, così, che proprio a un leader sindacale, Guy Ryder, sia stata affidata nel 2012 la direzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO, International Labour Organization), impegnata in un complessivo ripensamento della sua azione. Nella crescente complessità dei mercati, pur in presenza di chimere liberiste e di fantasmi neocorporativi, alle imprese e ai sindacati, espressioni della società che si organizza nella vita economica, si affida un maggiore ruolo di regolazione sociale, in una prospettiva di global partnership. L’interdipendenza di sinergie a livello locale e internazionale non sembra governabile dalle sole istituzioni pubbliche, ma impone una solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori interessati allo sviluppo del sistema economico, talora coinvolti in esperienze di responsabilità sociale d’impresa (CSR, Corporate Social Responsibility).
La stessa crisi mondiale ha spinto gli attori sociali a definire nuovi scenari, a condividere reti e presidi, a delineare strumenti regolativi in grado di mantenere aperto il mercato, a coniugare gli interessi particolari in una prospettiva di sviluppo generale. Nuove tecnologie e modalità di lavoro, d’altra parte, sfidano la capacità delle confederazioni sindacali nel tutelare i lavoratori occupati e nel consentire l’accesso a un lavoro dignitoso a chi ne è privo. La finanziarizzazione dei mercati, la delocalizzazione del lavoro e il ripensamento del welfare richiedono una partecipazione dei sindacati alla formazione delle decisioni economico-sociali e una loro maggiore determinazione a perseguirla nella coesione sociale e nella creazione di valore. Questi orientamenti non contrastano la consolidata azione di difesa degli interessi dei lavoratori, ma invitano a portare a compimento il faticoso percorso che nella seconda metà del 20° sec. ha condotto a riconoscere la rappresentanza sociale come risorsa per il bene comune.
Anche la contrattazione collettiva e il diritto del lavoro sono coinvolti nel profondo ripensamento che nasce dall’evidente debolezza del lavoro dipendente nei processi di internazionalizzazione delle imprese, che sfuggono all’intervento legislativo del singolo Stato. Il contratto collettivo nazionale di categoria appare indebolito dalla mobilità occupazionale nell’Unione Europea e dalla competizione dei mercati del lavoro a scala globale, in un periodo caratterizzato anche dall’enfasi posta sulla riduzione delle tutele per tamponare la crisi finanziaria. Mentre le relazioni sindacali, così, non sembrano più configurare un progressivo e permanente miglioramento del lavoro subordinato, si assiste a un diffuso ricorso alla giurisprudenza per arbitrare i conflitti sociali: un fenomeno che riproduce la contrapposizione tra vincoli normativi e proposta contrattuale. L’azione del sindacato dei lavoratori è chiamata a rinnovare e rafforzare gli strumenti tradizionali in una prospettiva sempre più confederale, superando la duplice tentazione alla frammentazione e alla centralizzazione, con soggetti in grado di negoziare nelle imprese e nelle aree territoriali, a livello nazionale ed europeo, come nella governance socioeconomica internazionale e transnazionale.
Il sindacalismo europeo. – L’esigenza di sostenere, all’interno delle dinamiche socioeconomiche globali, un’Europa sociale costituita sui pilastri della presenza sindacale nell’integrazione europea e sul dialogo sociale richiede anche un riposizionamento della Confederazione europea dei sindacati in una strategia di multilevel governance. Con la segreteria di John Monks, nel 2004 il sindacato europeo si trovò a fronteggiare la direttiva Bolkenstein (direttiva dell’Unione Europea 2006/123/CE) che, per liberalizzare il mercato dei servizi, consentiva alle imprese la possibilità di operare negli Stati dell’Unione (dopo l’allargamento a Est) applicando le normative del Paese in cui avevano la propria sede sociale, in assenza di un’adeguata armonizzazione della legislazione sociale. Le euromanifestazioni del 2005 e 2006 mostrarono i sindacati impegnati a difendere il diritto di lavoro e le relazioni industriali più avanzate nei Paesi UE. Senza sciogliere i nodi sulle prospettive della rappresentanza e della contrattazione europea, l’ETUC discusse l’ipotesi del salario minimo, invocato a difesa delle fasce più deboli dei lavoratori, ma destinato a rendere più fragile il sindacato come autorità salariale. Dopo il congresso confederale del maggio 2007, si trovò ad affrontare le tensioni tra integrazione dei mercati e dimensione sociale dell’Unione, nel rapporto tra libertà economiche fondamentali e l’esercizio del diritto all’azione collettiva, emerse nei casi Viking e Laval e nel caso Rüffert del 2008. Incertezze a superare la prassi di un s. sussidiario rispetto all’iniziativa legislativa comunitaria riemersero quando un’iniziativa del Parlamento europeo avviò il processo di revisione della direttiva del 1994 sui Comitati aziendali europei (EWC,European Works Councils), che non riuscì ad assumere la forma di una negoziazione tra le parti sociali.
La politica dell’austerity promossa dal sistema di governance dell’UE di fronte alla crisi finanziaria ed economica ha visto l’ETUC denunciare le politiche di tagli e precarietà in campo occupazionale, auspicando l’implementazione di una flexicurity nella strategia europea 2020. Dopo l’elezione di Bernadette Ségol nel maggio 2011, la faticosa elaborazione di un ‘patto sociale europeo’ ha avviato nel 2013 una ripresa di soggettività del sindacato europeo nell’esercizio delle proprie responsabilità. A fronte della crescente proceduralizzazione di un dialogo sociale strutturato, assumono maggior rilievo gli accordi quadro tra le parti sociali (autonomous framework agreements), che necessitano del supporto della programmazione biennale dei negoziati, mentre nelle esperienze nazionali acquistano maggior peso le dinamiche sociali internazionali e l’esigenza di strumenti per realizzare azioni europee. Accanto alle proposte di dialogo sociale settoriale e di accordi collettivi transnazionali, nel conseguire l’obiettivo UE di uno sviluppo sostenibile e di un mercato del lavoro inclusivo, un ruolo significativo possono svolgere i Comitati aziendali europei, che consentono informazione e consultazione nelle società europee, e i Consigli sindacali interregionali (IRTUC, Interregional Trade Union Councils), promossi dai sindacati delle aree regionali un tempo transfrontaliere. Peraltro, il concreto sviluppo del s. europeo è connesso al rafforzamento del mandato sindacale a diversi livelli, grazie a politiche confederali e innovazioni contrattuali fondate su formazione e radicamento associativo.
I sindacati italiani. – Coinvolto in queste dinamiche internazionali ed europee, anche il s. italiano è stato interessato da rilevanti processi di trasformazione: riconosciuto il profilo associativo e il ruolo sociale che hanno acquisito dalla metà del Novecento, i sindacati sono impegnati a rinnovare capacità di rappresentanza e strategie politiche contrattuali nei processi decisionali socioeconomici. Nei percorsi avviati dalle maggiori confederazioni, peraltro, non è mancato il ricambio di leadership: l’Unione italiana del lavoro (UIL) ha mantenuto alla sua guida dal 2000 al 2014 Luigi Angeletti, cui è subentrato nel novembre 2014 Carmelo Barbagallo, mentre sempre nel 2014 Raffaele Bonanni ha lasciato ad Annamaria Furlan la segreteria generale della Confederazione italiana sindacati dei lavoratori (CISL) che aveva assunto nel 2006. Nel 2010, inoltre, Susanna Camusso ha sostituito Guglielmo Epifani al vertice della Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL). Con la nomina della Camusso e della Furlan, oltre che di Renata Polverini alla testa dell’Unione generale del lavoro (UGL) dal 2006 al 2009, è emerso il ruolo crescente che le lavoratrici hanno acquisito nelle organizzazioni sindacali italiane come in quelle internazionali. CGIL, CISL e UIL, pur con percorsi differenti tutte associate all’ETUC e all’ICTU, hanno comunque affrontato gli anni della crisi economica e finanziaria e delle gravi difficoltà del sistema politico italiano (v. Italia, partiti politici) con diversi approcci alle convergenti preoccupazioni sul piano negoziale.
Ancora alla ricerca di un complessivo profilo identitario dopo il crollo del s. comunista, la CGIL ha spesso stabilito equilibri interni e prese di posizione sulla base del confronto con i governi che si sono succeduti. Il venir meno di un partito di riferimento nel sistema politico ha suscitato nella confederazione il tentativo di appropriarsi della centenaria tradizione dello storico riformismo sindacale, irritando gli altri sindacati e trovando un limite interno nella posizione assunta al congresso del 2006 dalla Federazione italiana operai metallurgici (FIOM). L’insuccesso elettorale del Partito di rifondazione comunista nel 2008, escluso dal Parlamento, provocò ulteriori pressioni politiche nel sindacato di Epifani fino alla sconfitta della sua ala più radicale nel congresso del 2010. La nascita di un’unione sindacale tra organizzazioni autonome e di base e un parziale rinnovamento del gruppo dirigente potevano allentare le tensioni interne alla CGIL, che invece non mancarono ancora tra il 2012 e il 2013: la dirigenza della federazione metalmeccanica giunse talora a prendere pubblicamente le distanze dalla stessa politica confederale.
Costretta a governare resistenze ideologiche e organizzative, infatti, anche la CGIL doveva misurarsi con il s. associativo e contrattuale proposto con determinazione dalla CISL e dalla UIL: nel protagonismo responsabile delle parti sociali Bonanni ricomponeva definitivamente l’unità della sua confederazione, mentre Angeletti sosteneva l’evoluzione del sindacalismo socialista per una diffusa cittadinanza sociale. CISL e UIL di comune intesa incalzavano la CGIL verso una rappresentanza dei lavoratori che coniugasse difesa dell’occupazione e ripresa del sistema produttivo, auspicando una concertazione operativa. Al di là degli alti e bassi che hanno segnato le relazioni tra le tre principali confederazioni, comunque intense sul piano contrattuale, è stato messo in crisi il potere di ‘veto’ che la CGIL ha preteso di esercitare fino al 2009 nei rapporti con i partner sociali e con i governi. Senza un aperto dibattito sulla cultura sindacale, il protrarsi di pregiudizi sulla soggettività sociale dei sindacati rischia di vanificare il varco apertosi tra gli attori sociali al s. riformista in Italia.
Le relazioni industriali italiane sono state dominate, comunque, dall’esigenza di realizzare accordi tra confederazioni sindacali e datoriali in tema di rappresentanza sindacale, di livelli di contrattazione e di regolazione della produttività, problematiche collegate tra loro e connesse agli eventuali interventi legislativi in materia di lavoro. In effetti già nel maggio 2008 CGIL, CISL e UIL avevano raggiunto un accordo interconfederale sulle Linee di riforma della struttura della contrattazione per realizzare un modello contrattuale comune per tutti i settori pubblici e privati. Il perno dell’intesa ruotava intorno alla proposta di una riforma sulla rappresentanza attuata per via pattizia attraverso un accordo quadro da presentare alle associazioni imprenditoriali e al governo. Nell’ottobre seguente, così, i sindacati sottoscrissero con Confindustria, da pochi mesi guidata da Emma Marcegaglia, una Proposta di linee guida per la riforma della contrattazione collettiva, con l’obiettivo di perseguire una crescita fondata sull’aumento della produttività e l’incremento delle retribuzioni in presenza della nuova crisi economica.
Più complessa risultò la negoziazione tra gli attori sociali e il governo Berlusconi, rifiutandosi infine la CGIL di firmare l’Accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, inteso a favorire lo sviluppo economico e la crescita occupazionale grazie all’aumento della produttività e al miglioramento dei servizi delle pubbliche amministrazioni. La centralità delle forze sociali veniva riconosciuta con il rinvio a ulteriori accordi interconfederali per definire modalità, criteri, tempi e condizioni con cui dare attuazione ai principi indicati. CISL, UIL e la stessa Confindustria, pur tentando il coinvolgimento della CGIL, presero atto della sua differente posizione, mentre anche la confederazione sindacale europea auspicava un’azione unitaria. In attuazione dell’accordo quadro, così, si firmarono in aprile il protocollo per l’industria e in maggio quello per la pubblica amministrazione, indeboliti però dall’assenza dell’importante sigla sindacale. E mentre nel mondo industriale si registrava per la prima volta un’apertura alla partecipazione dei lavoratori, tra l’estate e l’autunno 2009 alla luce delle nuove regole si conclusero molti rinnovi contrattuali, spesso condotti unitariamente dai sindacati.
Intanto la FIAT nella prima metà dell’anno, raggiunta un’intesa per intervenire nel rilancio della società automobilistica Chrysler, ottenne un prestito dal Tesoro statunitense e concluse un accordo per una quota azionaria minoritaria dell’azienda, in mano ai fondi di assistenza dei lavoratori del Voluntary employees’ beneficiary association (VEBA), promossi dal sindacato United auto workers. Gli scenari delle relazioni industriali italiane erano assai diversi: sindacati e management si confrontarono tra l’estate 2009 e il maggio 2011 su molte vertenze raggiungendo, infine, accordi che videro la ripetuta opposizione della FIOM. Nel febbraio 2011 la CGIL rifiutò ancora di siglare l’accordo che con CISL e UIL aveva negoziato perché il blocco contrattuale del pubblico impiego, attuato dall’estate 2010, non conducesse a una riduzione degli stipendi dei dipendenti.
L’aggravarsi della situazione del lavoro in Italia e le critiche delle parti sociali alle manovre economiche governative facilitarono l’Accordo interconfederale fra Confindustria, CGIL, CISL e UIL del 28 giugno 2011, che riprendeva il percorso delle intese del 2008 e del 2009: circa la rappresentanza necessaria per rendere validi gli accordi aziendali si ponevano come indicatori della rappresentatività quelli relativi al numero delle tessere certificate (dimensione associativa) e ai voti ricevuti per le elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie (dimensione elettiva). Restava delicato il rapporto tra Stato e autonomia collettiva, come appariva nello strumento individuato dai governi per fronteggiare la crisi occupazionale: un ampio ricorso agli ammortizzatori sociali, con trattamenti ordinari e straordinari di integrazione salariale. In questo modo si corrispondeva a immediate preoccupazioni delle parti sociali, rinviando interventi su fattori strutturali dello spiazzamento delle aziende e del mercato del lavoro, evidenziati nel dibattito sul ‘precariato’ e sui lavori temporanei o sull’inserimento al lavoro di giovani che non studiano e non lavorano (NEET, Not in Education, Employment or Training).
Quando la crisi italiana sembrò toccare il suo apice e disegnare scenari drammatici, tali da richiamare un intervento diretto della Banca centrale europea per chiedere significative riforme del sistema economico, si apprestava a consumarsi la rottura tra FIAT e Confindustria. Tra il 2004 e il 2008 i rapporti tra il gruppo torinese e l’associazione imprenditoriale erano stati mediati dal presidente Luca Cordero di Montezemolo; ora l’amministratore delegato della FIAT, Sergio Marchionne, lamentava l’assenza di una consonanza nei conflittuali rapporti sindacali verso la CGIL da parte di Confindustria, che non teneva conto del rischio di frenare l’innovazione contrattuale per la governabilità degli impianti e l’esigibilità dei contratti aziendali. In agosto la risposta del governo Berlusconi alle richieste europee di riforma del sistema economico italiano suscitò un vasto dibattito politico sul grado di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, che si raggrumò intorno al tema delle modalità di licenziamento consentite dall’art. 18 della l. nr. 300/1970, ‘Statuto dei lavoratori’. Approvato il d. l. nr. 138/2011 Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo (‘legge Sacconi’), il cui art. 8 prevedeva un sostegno alla «contrattazione collettiva di prossimità», il 21 settembre 2011 le parti sociali decisero di confermare gli accordi di giugno e di ribadire la loro autonoma determinazione nell’azione contrattuale. Fu allora che la FIAT colse l’occasione per marcare il suo dissenso dalle strategie di Confindustria, annunciando la sua uscita dalla confederazione a partire dal gennaio 2012.
Nel successivo governo Monti, peraltro, le politiche concretatesi nella l. nr. 92/2012 Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita (‘riforma Fornero’), furono accolte con serie riserve dal nuovo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. La CGIL, da parte sua, respingeva ancora una volta l’ipotesi, negoziata per oltre due mesi, di una quota di aumenti contrattuali su un ‘secondo’ livello (aziendale o territoriale che fosse) che non fosse limitato da una ‘deroga’ al contratto nazionale, rifiutando l’accordo sulla produttività stipulato nel novembre 2012 dagli altri attori sociali con il governo che, nel solco degli accordi del 1993, prevedeva l’affidamento alla contrattazione collettiva della piena autonomia negoziale ed eventuali interventi legislativi seguenti ad ‘avvisi comuni’. Nel dicembre successivo, FIM (Federazione Italiana Metalmeccanici) e UILM (Unione Italiana Lavoratori Metalmeccanici) siglavano con Federmeccanica l’accordo per il rinnovo del contratto nazionale, ancora senza l’adesione FIOM, che rivendicava ora l’applicazione dell’intesa del giugno 2011, in precedenza criticata.
Quell’accordo, così, diventava un punto di riferimento per ulteriori iniziative interconfederali: nel febbraio 2013 Confindustria, CGIL, CISL, UIL firmarono un protocollo di intenti su istruzione e formazione per la trasformazione del sistema produttivo; nell’aprile 2013 i tre maggiori sindacati, dopo essersi tra loro accordati per un patto sulla rappresentanza, sottoscrissero con l’associazione confindustriale un’intesa per attuare il decreto sulla detassazione del salario di produttività. Con la convocazione degli esecutivi unitari di CGIL, CISL, UIL del 30 aprile 2013, dopo cinque anni sembrò tornare un comune esercizio di responsabilità: il 31 maggio seguì, infine, la firma con Confindustria di un Protocollo d’intesa su misurazione della rappresentatività, titolarità e efficacia della contrattazione, da tempo auspicato per dare certezza agli accordi tra gli attori firmatari a livello nazionale così come nelle rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale.
Le maggiori associazioni di rappresentanza nel settembre 2013 firmarono anche un protocollo per chiedere al governo Letta il taglio del peso fiscale sul costo del lavoro e il 10 gennaio 2014 sottoscrissero un Testo unico sulla rappresentanza, che ha messo ordine nel percorso compiuto tra il 2011 e il 2013, ma non ha evitato puntualizzazioni nel mondo imprenditoriale e nella FIOM (la quale, mentre chiudeva il contenzioso con la FIAT, si vedeva superare dalla FIM nel numero di lavoratori iscritti).
Nel gennaio 2014 la conclusione del processo di acquisizione da parte della FIAT del 100% delle azioni per la proprietà della Chrysler poneva fine al braccio di ferro con il fondo sindacale VEBA, che aveva minacciato di collocare in borsa il 41,5 % delle azioni della fabbrica di Detroit se non fossero state acquistate a prezzo di mercato. L’intesa raggiunta consentì ai sindacati la salvaguardia dei posti di lavoro, la reintegrazione dei fondi assistenziali e un’integrazione economica al contratto collettivo, condividendo una strategia di partecipazione e di formazione con l’impresa. Sembrò il paradigma di nuove frontiere sindacali, con risultati positivi per tutti gli attori coinvolti: il governo statunitense svolse un ruolo di ‘facilitatore’ politico che evitò un diretto intervento statale; il management realizzò una strategia industriale efficace che consentì di dar vita al gruppo Fiat Chrysler automobiles (FCA), che superava l’esperienza dell’impresa torinese avviata nel 1899. I positivi riflessi del progetto industriale FCA non tardarono a manifestarsi in Italia: sebbene nel 2013 e nel 2014 non mancassero critiche agli accordi negoziati da FIM e UILM, infine un primo gruppo di lavoratori rientrava dalla Cassa integrazione, mentre riprendevano le assunzioni di giovani lavoratori nella stabilimento di Melfi, con la mobilità temporanea di alcuni dipendenti di quelli di Cassino e di Pomigliano d’Arco.
Nella determinazione riformista del governo Renzi, insediatosi nel febbraio 2014, alcuni hanno visto l’intento di ridimensionare l’incidenza politica dei sindacati; altri vi hanno letto l’occasione per un chiarimento di ruoli e responsabilità, superando rituali strumentali di condizionamenti reciproci, ma rafforzando la comune esigenza di sostenere processi di cambiamento. La proposta governativa di favorire assunzioni a tutele crescenti per lavori a tempo indeterminato ha provocato il riemergere di tensioni nella CGIL, che ha posto l’enfasi su alcune modifiche dell’art. 18 della l. nr. 300/70 e incrinato nell’autunno 2014 la posizione unitaria dei sindacati. La mobilitazione della CGIL in ottobre riduceva le distanze con la propria federazione metalmeccanica, ma solo a dicembre portò a uno sciopero generale assieme alla UIL. La manifestazione non ebbe l’esito sperato sul piano negoziale; piuttosto, provocò un’inedita distinzione, con la CISL che si mobilitò per riaprire la contrattazione del pubblico impiego, ancora bloccata dal 2010.
Il 10 dicembre 2014, infine, fu approvata la l. nr. 183 Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro (il cosiddetto Jobs act), cui seguirono un decreto legislativo in materia di licenziamento discriminatorio e il rinvio a ulteriori provvedimenti del Parlamento per i lavoratori del pubblico impiego esclusi dalle nuove norme (v. riforma del lavoro).
Restano aperte nell’evoluzione del s. in Italia due questioni di fondo, che influiscono anche nei rapporti con imprenditori e governo. Da un lato, avendo convenuto su forme di rappresentanza associativa, le organizzazioni sindacali hanno bisogno di un rafforzamento sociale, necessario per innovare la contrattazione aziendale e nazionale o le relazioni sociali internazionali, così come per rilanciare istituti di bilateralità, di formazione professionale, di welfare contrattuale, abbandonando tendenze di politica corporativa. Senza radicamento sociale, le richieste di partecipazione dei sindacati non possono essere proposte come fattori di qualità e competitività per il sistema economico, presentando il movimento sindacale come soggetto attivo dello sviluppo. D’altra parte, le resistenze a tali dinamiche nel mondo imprenditoriale e in alcuni ambienti sindacali impediscono l’approdo a nuovi equilibri tra l’azione degli attori sociali e la politica riformista dei governi. L’antagonismo ideologico o corporativo di alcuni gruppi organizza ti favorisce la proposta di forme dirigistiche di regolazione, sensibili all’intervento legislativo, proprio mentre si richiede una cittadinanza attiva. Rimane, così, all’orizzonte il profilo di una governance sociale che riconosca la libertà associativa individuale, la libertà di azione collettiva solidale e la libertà dell’azione contrattuale non solo come un portato storico del movimento di emancipazione delle persone che lavorano, ma anche come la fonte di processi riformatori e di coesione sociale a sostegno della stesso processo democratico.
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