sintassi
La sintassi si occupa dei modi in cui le parole possono combinarsi, delle strutture (o costruzioni) che così si ottengono e degli effetti che tali combinazioni hanno su altri piani, come quello della ➔ pragmatica. La sintassi ha infatti contatti con vari livelli della lingua: in particolare, (a) siccome non c’è frase senza ➔ curva melodica, la sintassi è correlata all’➔intonazione e alla ➔ prosodia; (b) le strutture sintattiche (specialmente quelle che contengono un predicato) hanno effetti pragmatici (basti pensare alla differenza tra le frasi dichiarative e le interrogative corrispondenti) e comportano una specifica struttura tematica (➔ tematica, struttura) e di informazione (➔ dato/nuovo, struttura).
La sintassi è sensibile alla variazione: per es., la ➔ lingua scritta può presentare fenomeni sintattici diversi da quelli della ➔ lingua parlata; col variare del ➔ registro, possono cambiare anche le forme sintattiche; ecc.
La nozione fondamentale della sintassi è quella di sintagma (➔ sintagma, tipi di). Il termine indica un gruppo di parole (che può esser formato anche solo da una parola) che si comportano come una sola di esse. La parola che impone al sintagma il proprio comportamento è la sua testa; il resto è il complemento. Quindi ogni sintagma, quale che ne sia la natura, ha la struttura Testa + Complemento. La testa può stare a sinistra o a destra del complemento, e ciò costituisce un importante criterio di classificazione, dato che la posizione della testa può cambiare secondo il tipo di frase in cui appare (vedi sotto). Inoltre, le lingue possono preferire una soluzione o l’altra, distribuendosi così in due categorie: le lingue ‘a testa iniziale’ (cioè a sinistra del complemento) e quelle ‘a testa finale’ (a destra). L’italiano è in genere una lingua a testa iniziale, dato che la testa del sintagma sta per lo più a sinistra. Questo principio ha però eccezioni che saranno esaminate più sotto.
In astratto, anche una frase è un sintagma, dato che si tratta in genere dell’estensione di un ➔ sintagma verbale. Nondimeno, il termine sintagma è riservato di solito a unità più piccole della frase, sicché l’ordine di complessità è il seguente:
(1) sintagmi → frase (combinazione di sintagmi) → periodo (combinazione di frasi)
Come accennato, i sintagmi possono avere diverso peso nell’enunciato: si distinguono allora sintagmi minori e sintagmi maggiori. I sintagmi maggiori sono quelli che la tipologia linguistica adopera per analizzare l’➔ordine degli elementi, cioè ➔ Soggetto (S), Verbo (V) (➔ predicato, tipi di) e ➔ Oggetto (O); tutti i sintagmi che non sono maggiori sono minori. La differenza tra sintagmi maggiori e minori non ha niente a che fare con la loro lunghezza: possiamo infatti avere sintagmi che, pur brevissimi, sono maggiori.
Tolta quella di sintagma, le altre nozioni fondamentali della sintassi (inclusa quella di frase) sono tutt’altro che stabili e condivise. Tradizionalmente considerata come una nozione di base, la frase può esser definita in una varietà di modi: da quello tradizionale, che considera distintivo il fatto che essa abbia un ‘senso compiuto’; a quello moderno, secondo cui è frase ogni combinazione di parole che contenga almeno un elemento predicativo (➔ predicato, tipi di). In questa voce adottiamo la seguente definizione a più strati (Simone 201020): una frase è un sintagma (eventualmente composto di più sintagmi) contenente un predicato, che sia dotato di forza illocutiva (➔ illocutivi, tipi) e convogli una struttura tematica (➔ tematica, struttura) così come una struttura dato/nuovo (➔ dato/nuovo, struttura). Si vedrà via via quale di questi livelli dovrà essere messo in evidenza ai fini dell’analisi.
Il termine periodo, per parte sua, molto usato nella tradizione grammaticale (sopravvive nel nome del ➔ periodo ipotetico), indica una combinazione di frasi formanti un complesso unitario, coeso e coerente, collegate tra loro per coordinazione (➔ coordinative, congiunzioni), ➔ paratassi o subordinazione (➔ subordinate, frasi). Anche questo termine è però considerato poco chiaro e stabile: perciò, nella letteratura linguistica moderna lo si trova meno spesso di un tempo, anche se non s’è trovato nulla che lo sostituisca.
Un testo come (2), sebbene abbia una sintassi piuttosto elementare, presenta una varietà di tratti sintattici tipici dell’italiano di oggi:
(2) Qui non c’è più nessuno. Sono tutti morti1. Ø2 Non rispondo al telefono3, Ø3 non apro le bollette4, Ø5 le lascio ammucchiare6 l’una sull’altra finché le buste non ingialliscono, poi Ø7 le butto via.
In casa8 ormai entrano solo i passeri9. I lieti figlioli di san Francesco spadroneggiano. Vengono a molestarmi10. Ho tentato di acciuffarli con ogni mezzo possibile. Ho teso una rete […] ma invano. Quelli non si fanno prendere11 (Rosa Matteucci, Tutta mio padre, p. 11).
In questo passo si osserva che:
(a) l’italiano è una lingua a soggetto non obbligatorio (segmenti 2, 3, 5, 7, ecc.), salvo casi particolari (per i quali vedi sotto);
(b) gli elementi possono muoversi in vario modo rispetto alla posizione non marcata (➔ ordine degli elementi): per es., (i) sono numerosi i soggetti postverbali (segmenti 1, 9); (ii) i complementi possono essere spostati per ragioni di focalizzazione (➔ focalizzazioni; segmento 8);
(c) le costruzioni causative sono adoperate anche quando l’azione da codificare non ha struttura causativa (segmento 11).
A questi tratti tipici se ne possono aggiungere altri: per es., sono originali dell’italiano (per frequenza e ampiezza di funzioni):
(d) le ➔ dislocazioni a sinistra e a destra;
(e) l’alternanza tra oggettive esplicite e implicite;
(f) il ➔ che polivalente come connettivo generico tra frasi;
(g) la costruzione passiva.
Questa lista si riassume in due proprietà fondamentali: dal punto di vista sintattico, (a) l’italiano d’oggi ha una particolare flessibilità a confronto con altre lingue, sia romanze sia di altre famiglie (come, per es., il tedesco o l’inglese, notevolmente più rigidi sintatticamente); (b) è molto diverso non solo dall’➔italiano antico, ma anche da fasi di lingua più recenti (come la lingua del Rinascimento; ➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’).
Per il primo aspetto, ➔ lingue romanze e italiano; a riprova del secondo, basterà confrontare il passo in (2) con il seguente di ➔ Boccaccio e verificare le differenze. In Boccaccio, per es., (a) il pronome soggetto è obbligatorio, (b) numerosi complementi sono spostati rispetto al predicato e (c) il clitico occupa posizioni diverse rispetto al verbo:
(3) Messere, – disse la donna – il prete con che arte il si faccia non so, ma egli non è in casa uscio sì serrato che, come egli il tocca, non s’apra; e dicemi egli che, quando egli è venuto a quello della camera mia, anzi che egli l’apra, egli dice certe parole per le quali il mio marito incontanente s’addormenta, e come addormentato il sente, così apre l’uscio e viensene dentro e stassi con meco, e questo non falla mai (Dec. VII, 5)
Il passo in (4) contiene invece una nutrita esemplificazione delle anteposizioni di costituenti (oggetti, complementi, frasi completive) rispetto al verbo (che quindi è testa finale), con soluzioni che sono globalmente l’opposto di quelle dell’italiano di oggi (i costituenti anteposti sono sottolineati una volta; gli elementi testa corrispondenti hanno doppia sottolineatura):
(4) La donna, sentendosi al suo marito domandare, con fatica di risponder si tenne; ma pur, per servare l’ordine postole, tacque. Alcun altro la domandò se suo era quel figlioletto, e alcuno se moglie fosse di messer Gentile, o in altra maniera sua parente; a’ quali niuna risposta fece (Dec. X, 4)
Le differenze tra i due passi sono dovute non solo all’intervallo di tempo che li separa, ma anche a una varietà di fatti esterni. Vanno menzionati i seguenti: (a) essendo l’italiano stato per secoli lingua solo scritta (➔ storia della lingua italiana), nel momento in cui ha cominciato ad essere anche parlato, si sono manifestati nello standard diversi tratti della ➔ lingua parlata, il che ha scompaginato e rimodellato strutture che si davano per assestate; (b) un’altra forte pressione sulla ➔ lingua d’oggi è quella dei dialetti, che, oltre a dar luogo a varietà regionali, si riflettono in vario modo sulla lingua standard; nondimeno (c) nell’italiano moderno appaiono tratti, anche sintattici, della lingua antica (Nencioni 1987; Durante 1981).
In aggiunta, sebbene dagli anni Ottanta in poi l’italiano si sia diffuso presso persone che lo conoscevano solo passivamente, il modesto livello medio di istruzione della società ha favorito il crearsi di una lingua priva delle complessità strutturali dello standard colto. Si è creata così una larga fascia linguistica, intermedia tra la lingua dei colti e quella degli incolti, derivante dall’intrecciarsi, nello standard, delle varietà regionali e di modi del parlato, anche basso e becero. Tale varietà domina ormai nei media (televisione, radio, cinema) e appare spesso anche nella stampa d’informazione. Ciò ha dato luogo alla radicale ➔ semplificazione di alcune strutture (come la frase relativa, il periodo ipotetico e la versione implicita delle completive) e alla virtuale scomparsa di altre (la frase concessiva, l’eccettuativa, la comparativa, ecc.), che cedono il posto a soluzioni meno strutturate (➔ subordinate, frasi).
Stando così le cose, la sintesi che segue dà conto in più punti di strutture potenziali e non reali dell’italiano. Questo è anche il motivo per cui la maggior parte degli esempi di questa voce provengono da una stessa opera, nel cui linguaggio la varietà sopra accennata è largamente usata.
(Manca una trattazione sistematica della sintassi dell’italiano moderno; riferimenti generali in Fornaciari 1881; Serianni 1988: cap. XIV; voll. 2° e 3° di Renzi, Salvi & Cardinaletti 1988-1995; Burzio 1986; Cinque 1991; Simone 1993; Benincà 1993; il molto personale La Fauci 2009; per alcuni fenomeni di dettaglio: il parlato, Voghera 1992; l’ordine degli elementi, Stammerjohann 1986; la focalizzazione, Berretta 2002).
Gli elementi del ➔ sintagma nominale italiano si distribuiscono prima e dopo la testa nominale. In particolare stanno a sinistra del nome: (a) l’articolo e gli specificatori; (b) quegli aggettivi, che, per la loro semantica, possono stare solo prima o sia prima che dopo il nome (per la posizione degli aggettivi, ➔ aggettivi; ➔ relazione, aggettivi di; ➔ qualificativi, aggettivi). Stanno invece dopo il nome (a) gli aggettivi che possono stare solo dopo e (b) il genitivo:
(5) la casa nuova di mia zia → *di mia zia la casa
Come è noto (➔ latino e italiano), il genitivo posposto al nome è tipico dell’italiano moderno. In latino, in ➔ italiano antico e nel linguaggio poetico pre-moderno, infatti, aggettivo e genitivo potevano cadere prima del nome:
(6) Di Provenza il mar, il suol
chi dal cor ti cancellò?
(La Traviata di F.M. Piave, musica di Giuseppe Verdi)
(7) Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte […]
(Giacomo Leopardi, “A Silvia”, in Canti, vv. 15-18)
Per determinare il sintagma nominale, specialmente al plurale, all’➔articolo zero si preferisce il ➔ partitivo, secondo una tendenza già evidente in italiano antico (8), oggigiorno molto intensificata (9):
(8) […] e cominciò a dilettarsi d’apparere e di vestir di buon panni e d’essere in tutte le sue cose leggiadretto e ornato, e a fare delle canzoni e de’ sonetti e delle ballate, e a cantare (Dec. VII, 13)
(9) […] ma sarà stato un quarantenne, che […] mi fece delle avances. […] Faceva delle allusioni sconce, poco intellegibili (Matteucci, Tutta mio padre, cit., p. 169)
Altro tratto tipico (nessuna lingua romanza ha l’equivalente: Simone 2004) è il fatto che il sintagma nominale può avere come testa un infinito sostantivato (➔ sostantivato, infinito; ➔ infinito), sia semplice (10) sia composto (11 e 12):
(10) Il conte zio, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhio che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine, e tutto, o più o meno, tornava in pro (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XVIII)
(11) [Don Abbondio …] si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua (Manzoni, I promessi sposi, cap. II)
(12) [Gervaso…] a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura […] (Manzoni, I promessi sposi, cap. XI)
2.2.1 Presenza e assenza. Come s’è accennato, in italiano (a differenza del francese) il pronome soggetto non è obbligatorio, ma si usa per introdurre un nuovo referente o per motivi di focalizzazione. Per questo, nelle strutture testuali, predicati tra loro collegati con soggetto coreferente hanno catene di soggetti zero, come nell’es. (2), che qui si riporta in parte:
(13) Ø Non rispondo al telefono, Ø non apro le bollette, Ø le lascio ammucchiare l’una sull’altra […], poi Ø le butto via.
2.2.2 Posizione. Sebbene nelle trattazioni tipologiche si dica per lo più che in italiano il soggetto è anteposto al verbo (vedi sotto, § 6), in una varietà di casi esso è invece posposto, non sempre per motivi di focalizzazione. Come si è accennato sopra, infatti, l’inversione del soggetto si ha tipicamente coi verbi inaccusativi (➔ inaccusativi, verbi) e nelle costruzioni passive. Essa però si ha anche con verbi di altro genere e con strutture non focalizzate (Berretta 1995: 164 segg.):
(a) Quanto ai primi, si tratta di verbi di accadere (succedere, capitare, ecc.), di alcuni verbi psicologici in cui l’esperiente è al dativo (piacere, fare paura, fare piacere, ecc.), il frequentissimo esserci, mancare, alcuni ➔ verba dicendi; in tali casi, l’anteposizione del soggetto è una messa in rilievo (15-16):
(14) […] ci possono essere periodi di lunga bonaccia, in queste acque che appaiono mitissime […] (Vittorio Zucconi, «la Repubblica» 27 febbraio 2011, p. 9)
(15) Ma da qualche parte un contraccambio per gli agrari doveva pur esserci (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 109)
(16) Solo acqua corrente doveva esserci (ibid., p. 209)
(b) Quanto alle strutture, il soggetto è posposto:
(i) nelle frasi relative, solo nel caso in cui il pronome relativo non sia soggetto:
(17) Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi l’alano Bendicò […] entrò e scodinzolò (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, p. 3)
(ii) nelle costruzioni passive, che hanno (➔ passiva, costruzione) diversi aspetti in comune coi verbi inaccusativi:
(18) è stato ritrovato il cadavere di un extracomunitario
(iii) in una varietà di frasi subordinate:
(19) quando entrò il dottore, tutti ammutolirono
(20) dopo che ha parlato tuo padre, tutti sono stati d’accordo
(21) siccome non è venuto nessuno, la festa non si fa.
2.2.3 Soggetti e interlocutori generici. Soggetto generico è quello che rinvia a un partecipante indefinito o che si vuole sottacere. Per questa funzione l’italiano ha una notevole varietà di soluzioni, che codificano combinazioni diverse di proprietà. In particolare:
(a) per un agente non presente, plurimo, indefinito, si usa la terza persona plurale del verbo, senza soggetto manifesto:
(22) dicono che è molto malato
Ha la stessa funzione la formula dice (dapprima tipicamente meridionale, ma ormai diffusa in molta parte d’Italia): dice che domani piove (= «sembra, si dice, ecc. …»).
(b) L’agente non presente, plurimo, indefinito è espresso dal si impersonale (23) (➔ impersonali, verbi; ➔ clitici) o, al passato, dalla costruzione passiva con verbo alla terza persona singolare, senza soggetto esplicito (24):
(23) si dice / si pensa che sia molto malato
(24) è stato detto che è improvvisamente impazzito
(c) L’agente plurimo inclusivo del parlante è espresso dalla prima persona plurale del verbo:
(25) pensiamo tutti che tu abbia torto
Connesso al tema del soggetto generico è quello dell’interlocutore generico (➔ generico, interlocutore), che non designa l’emittente ma il destinatario del discorso, sia esso reale o immaginario. Per questa funzione l’italiano ha le soluzioni seguenti:
(a) la seconda persona singolare:
(26) se devi fare un raccolto e il tempo è stretto, mica ci stai a pensare sopra, chiami la gente di fuori e via (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 77)
(27) i ragazzini ti tiravano i sassi appresso: […] erano colpa dei militari tutti i guai e la fame che stavi passando (ibid., p. 67)
(b) l’indefinito uno, che può operare anche come soggetto generico:
(28) E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli ... ih! (Manzoni, I promessi sposi, cap. I)
(29) Uno quando comincia una lite, poi se vuole vincerla deve giocare il tutto per tutto, non è che possa dire […] (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 103).
2.2.4 Risalita del soggetto. Un’importante proprietà dell’italiano informale (familiare, colloquiale, popolare) è la risalita del soggetto della frase completiva (➔ completive, frasi), che si sposta collocandosi alla sinistra del verbo della principale (Benincà 193: 263 segg.; negli esempi seguenti, il simbolo ‘[___]’ indica il posto dove il soggetto sottolineato dovrebbe trovarsi):
(30) Io con questo non è che [___] voglio dire che avessero ragione i fascisti (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 122)
(31) le donne mancava poco che [___] gli portassero il latte coi biscotti (ibid., p. 208)
(32) […] la bonifica non è che [___] si sia fatta dalla sera alla mattina (ibid., p. 209)
(33) Le donne era inteso che [___] restassero sul podere (ibid., p. 349)
Va notato che il predicato interposto tra soggetto e predicato principale appartiene a un verbo semanticamente ‘leggero’, con la stessa funzione modalizzante di un avverbio.
Dei numerosi aspetti del ➔ sintagma verbale, se ne richiamano qui solamente alcuni di maggiore interesse sintattico: la posizione dei clitici e degli avverbi, e la natura dell’oggetto, rinviando per gli altri alle voci specifiche.
Gli ➔ avverbi hanno diversa natura e, in corrispondenza, diversa portata. Quelli che qui interessano sono la ➔ negazione, gli avverbi di maniera (➔ maniera, avverbi di) e gli avverbi che esprimono ➔ modalità.
3.1.1 Negazione. La ➔ negazione di predicato è normalmente espressa da non preposto al predicato, talvolta intensificato con un secondo elemento (affatto, mica, per niente, nei registri popolari un cazzo, ecc.). Negli usi informali (anche nella lingua scritta) è ora diffusissimo anche mica preposto (originariamente, secondo componente di una negazione discontinua: non … mica: non sono mica scemo!).
Il non, quando la sua portata è limitata, può essere interposto tra verbo modale e infinito: puoi non rispondere. Inoltre, ci sono casi di periodi biclausali (specialmente con doppia frase causale) in cui il non nega non il primo predicato ma il secondo:
(34) non sono venuto qui per parlare con te, ma per incontrare tua zia [= «sono venuto qui, ma non per …»]
Un fenomeno relativamente recente (già segnalato da Benincà 1993) è la negazione sintagmatica non è che …, tipica dei registri informali, che corrisponde all’introduttore assertivo è che … (vedi avanti). Come si osserva negli esempi qui sotto, non è che … regge tanto l’indicativo quanto il congiuntivo:
(35) non è che andavi a Roma e tornavi il giorno dopo (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 13)
(36) i miei zii non è che fossero proprio sicuri di sapere chi era l’incendiario (ibid., p. 93)
(37) la bonifica non è che si sia fatta dalla sera alla mattina (ibid., p. 209)
Questo fenomeno si ha anche quando il predicato della completiva è dotato di negazione (38):
(38) […] nonostante non predicasse più così, il prete di Cavarzere non è però che [___] potesse vedere tanto bene la lega rossa e contadina (ibid., p. 49)
3.1.2 Altri avverbi. Ai nostri fini interessa distinguere qui solo alcune classi:
(a) Avverbi con portata definita. Oltre a non, hanno portata definita sempre, anche e pure. Normalmente il costituente che forma la portata dell’avverbio è quello immediatamente successivo, anche se si possono darsi casi ambigui:
(39)
a. ha riso anche Carlo
b. Carlo ha anche riso
(40)
a. ho bevuto anche vino
b. ha anche bevuto vino
Secondo la posizione della negazione, si attivano presupposizioni diverse: ha riso anche Carlo presuppone che anche altri abbiano riso; Carlo ha anche riso presuppone che Carlo abbia, oltre che ridere, fatto anche altro.
(b) Avverbi con doppia portata: modificano tanto il predicato (41) quanto la frase intera (42) (Conte 2010); nel secondo caso sono fuori della frase, anteposti o posposti:
(41) lavora onestamente [= in modo onesto]
(42) onestamente lavora / lavora, onestamente [= dico onestamente che …].
3.2.1 Ipercliticizzazione. Quanto ai componenti del fitto sistema di ➔ clitici, va detto che essi sono più numerosi in italiano che in altre lingue romanze (per es., lo spagnolo non ha corrispondenti di ne e ci locativo) e presentano alternanze vocaliche ad esse sconosciute. Inoltre, l’italiano adopera clitici più spesso delle altre lingue romanze, il che caratterizza la lingua come ‘iper-cliticizzata’, come si vede dagli esempi seguenti:
(43)
italiano – Hai l’ombrello? – Sì, ce l’ho
francese – T’as le parapluie? – Oui, je l’ai
« – Hai l’ombrello ? – Sì, l’ho !»
(44)
italiano – Sai che Luigi è malato – Sì, lo so
francese – […] – Oui, je sais
« – […] – Sì, so».
3.2.2 Posizione. La posizione dei clitici rispetto al verbo è più variata che in altre lingue, come effetto di un’evoluzione più vistosa. Essa dipende dalla forma (finita o non finita) del verbo. I casi sono i seguenti:
(45) verbi non finiti:
clitico (anche doppio) preposto
a. lo voglio
b. lo prendo
c. ce li porto
(46) verbi non finiti: clitico (anche doppio) posposto
a. vado a prenderlo
b. vai a portarceli
c. vedendoglielo fare …
d. consegnatigli i plichi, …
e. una volta fattolo, …
(47) verbi non finiti preceduti da verbi modali:
clitico (anche doppio) alla fine o all’inizio del sintagma verbale
a. posso prenderlo / lo posso prendere
b. puoi portarglielo / glielo puoi portare
3.2.3 Verbi pronominali. Frequentissimo, nella lingua informale sia parlata che scritta, è l’uso (peculiare dell’italiano) di un verbo transitivo con -si (➔ pronominali, verbi), che codifica una speciale forma di ‘partecipazione interessata’ dell’agente rispetto all’evento:
(48) Ci siamo rifatti la mietitura (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 86)
(49) […] i bassianesi che dovevano eventualmente raccogliersi il granoturco (ibid., p. 244)
(50) Benitino se lo erano sepolto in mattinata (ibid., p. 204)
(51) Lui e qualche amico suo s’erano costruiti delle trappole […] e appena il topo abboccava […] via la testa con il coltello che s’erano fatti limando ben bene il manico del cucchiaio (ibid., p. 367)
In alcune interpretazioni, queste soluzioni, anche data la loro alta frequenza, vengono classificate come una nuova ulteriore forma di ➔ diatesi, in aggiunta a quella attiva e quella passiva: una sorta di ‘medio’, categoria che viene espressa in italiano anche in altre forme.
L’italiano ha numerose perifrasi verbali (➔ perifrastiche, strutture) con funzioni essenzialmente aspettuali (➔ aspetto). Nessuna di queste è obbligatoria (a differenza di quanto accade in altre lingue, come lo spagnolo): la perifrasi durativa (stare + gerundio), ad es., alterna liberamente con la forma sintetica (parto → sto partendo).
L’italiano è l’unica lingua romanza che abbia un gerundio perfettamente autonomo, capace cioè di operare non solo come elemento di perifrasi (come appena visto: sto facendo, veniva discutendo, ecc.) o di strutture assolute (regnando Carlomagno …), ma anche come equivalente di una varietà di frasi avverbiali (Solarino 1996):
(52) zio Pericle l’ha presa al volo ai fianchi, l’ha sorretta e poggiata sul carro sfiorandole coi pugni i seni (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 95).
In italiano si presentano come transitive delle strutture che codificano strutture d’azione non transitive, come si nota dal fatto che non possono essere passivizzate (➔ transitivi e intransitivi, verbi). Per questo motivo (raramente notato nelle descrizioni), l’italiano può esser considerato una lingua con ipercodifica del transitivo. Tale proprietà si rileva quando l’oggetto è formato da nomi di proprietà inalienabili (parti del corpo, nomi di parentela, ecc.):
(53) ho la testa che mi fa male → mi fa male la testa
(54) ho un fratello che arriva domani → mio fratello arriva domani
Si osserva però anche in altri contesti:
(55) ho un aereo tra poco → devo prendere un aereo tra poco
Del pari, una varietà di ➔ verbi supporto comportano oggetti apparenti, senza che sia in causa alcun tipo di transitività:
(56) devi prendere bene la curva
(57) voglio fare benzina prima possibile.
L’➔oggetto è costituito da un sintagma nominale (o un pronome o un infinito sostantivato) o da una frase oggettiva (➔ oggettive, frasi). In tutti i casi, nella frase principale, quando è in posizione non marcata, l’oggetto segue il predicato. Lo precede solamente se è clitico e se il verbo è di modo finito (vedi sopra, § 3.2.2): non lo voglio.
Il sintagma oggetto può presentarsi a inizio frase (per motivi diversi di focalizzazione), in posizione non naturale. In (58) e (59), il primo è un caso di anteposizione pura (cioè senza pronome di ripresa; ➔ pronomi di ripresa) con focalizzazione (Berretta 1996), il secondo di dislocazione a sinistra:
(58) Diciassette figli aveva fatto mio nonno (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 12)
(59) Pomezia comunque l’ha inaugurata il 29 ottobre 1939 (ibid., p. 337).
In italiano, come in tutte le lingue, i meccanismi di collegamento tra i sintagmi sono tre: coordinazione (➔ coordinative, congiunzioni), ➔ paratassi e subordinazione (➔ subordinate, frasi). In italiano antico, nel collegamento di frasi, si registra anche un ulteriore tipo, la cosiddetta ➔ paraipotassi, per la quale vedi la voce apposita.
In strutture non marcate, l’➔ordine degli elementi della frase in italiano moderno è di norma SVO, con S (Soggetto) tematico e (come già accennato) non obbligatorio; l’oggetto diretto è rematico e normalmente posposto al predicato; l’oggetto indiretto, se è presente, è rematico e posto alla fine ell’enunciato (➔ tematica, struttura):
(60) [Luigi]soggetto [ha consegnato]predicato [il pacchetto]oggetto [alla signora]oggetto indiretto
Quest’ordine va letto come costituito da un Tema + un Rema; i componenti di quest’ultimo sono a loro volta in una gradazione discendente di rematicità:
(61) [Luigi]tema [ha consegnato il pacchetto alla signora]rema
[+ rematico – rematico]
A quest’ordine di base corrisponde abbastanza armonicamente quello di altri sintagmi:
(62) Ordinamento degli elementi principali
a. ausiliare + participio passato: ho fatto
b. verbo modale + infinito: posso fare
c. verbo + avverbio di maniera: mangiare rapidamente
d. nome + genitivo: casa di mia madre
e. comparativo + secondo termine di paragone: più bello di te
(Da questi principi si discostano l’aggettivo, specie in serie, rispetto al nome, e l’avverbio, specie in serie, rispetto al verbo; ➔ aggettivi; ➔ avverbi. Un problema a parte, che non trattiamo qui, è quello dell’ordine degli argomenti nei confronti della loro testa, specialmente quando si tratta di argomenti multipli).
Nel periodo (cioè la combinazione di frasi connesse), le sequenze sono più di una: tendono a «precedere la principale le subordinate che portano informazioni di sfondo» (Berretta 1995: 163), come le protasi di ipotetiche, le temporali, le causali introdotte da siccome, dato che, ecc., una parte delle concessive; invece, seguono la principale tutte le argomentali (soggettive, oggettive, interrogative indirette) e le causali di altro tipo.
Visto a volo di uccello, l’italiano è caratterizzato da una eccezionale mobilità di costituenti rispetto alle posizioni non marcate appena illustrate (➔ ordine degli elementi). Richiamando la distinzione fatta sopra tra sintagmi maggiori (Soggetto, Predicato, Oggetto; v. § 1.1) e minori, si può dire che nell’italiano d’oggi i sintagmi maggiori e i loro componenti hanno vasta libertà di movimento per una varietà di forme di focalizzazione, mentre è più ridotta la libertà di spostamento dei sintagmi minori e dei loro componenti. Tale proprietà è più o meno l’inverso di quella del latino (➔ latino e italiano), dove la presenza di un sistema casuale sviluppato permette ai componenti dei sintagmi minori di spostarsi molto più che i componenti dei sintagmi maggiori (➔ latino e italiano).
La maggior parte degli spostamenti di costituenti rispetto alle posizioni descritte in (64) e (65) va quindi considerata effetto di focalizzazione, cioè di messa in rilievo di un costituente rispetto agli altri, per ragioni diverse (il partecipante nuovo introdotto per la prima volta).
Le risorse di focalizzazione (➔ focalizzazioni) sono uno dei tratti che più caratterizzano l’italiano, che è (insieme al francese) la lingua romanza che ne ha il maggior numero. Lasciando da parte l’enfasi intonativa, che può cadere su questo o quel costituente, i mezzi sintattici disponibili sono infatti: (a) l’inversione del soggetto: pago io, lo dici tu; (b) le ➔ dislocazioni, a destra e a sinistra; (c) le topicalizzazioni; (d) le frasi scisse (➔ scisse, frasi); (e) le frasi presentative; (f) altri mezzi minori. Inoltre, in italiano i tipi di costituenti che possono essere focalizzati con queste risorse sono in numero maggiore che altrove (per una rassegna, Berretta 1995).
In generale, le risorse di focalizzazione si distinguono secondo che servano a segnalare il tema o il rema; altre segnalano l’introduzione di un evento o un partecipante nuovo; ecc. Nel seguito si vedranno le principali, rinviando per dettagli alle voci relative ai singoli fenomeni.
Tolti i casi (esaminati nel § 2.2.2) in cui il soggetto è obbligatoriamente posposto, l’inversione del soggetto serve a focalizzare, in particolare a segnalare che il soggetto è tematico:
(63) Voleva venire anche zio Iseo (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 13)
(64) Era di un permaloso mia zia (ibid., p. 221)
(65) E così li hanno trovati i carabinieri (ibid., p. 10)
In taluni casi, a essere invertita (cioè, spostata a sinistra) può essere anche la parte nominale del predicato (➔ predicato, tipi di), con la funzione di segnalare il rema:
(66) Lo zimbello d’Europa eravamo (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 40)
(67) Nudi come vermi ci ha lasciato (ibid., p. 9).
7. 2 Dislocazioni
Le ➔ dislocazioni sono un potente mezzo di focalizzazione (Benincà 1993: 268 segg.; D’Achille 2003: 148 segg.; e soprattutto Berretta 2002), frequentissimo in italiano, dove si trova tra l’altro, tra le lingue romanze, la maggiore varietà di costituenti dislocati. Essi sono infatti:
(68) Costituenti dislocati in italiano (tra parentesi quadre; esempi con dislocazione a destra)
oggetto non lo voglio, [il tuo libro]
dativo daglielo, [a tuo fratello]
obliquo non ne voglio parlare, [di tua zia]
frase non ci credo, [che questo sia successo]
Mentre il francese ha la stessa versatilità dell’italiano quanto alle dislocazioni, lo spagnolo presenta forti restrizioni: la frase intera non può essere dislocata e la dislocazione a destra del dativo costituisce il modo non marcato di codificare (se lo digo a tu hermano que ... «dico a tuo fratello che», lett. «glielo dico a tuo fratello che …»).
Le frasi scisse, frequentissime in francese, meno frequenti in italiano, segnalano il carattere rematico dell’elemento messo in rilievo (sottolineato nell’esempio seguente), mentre il resto della frase costituisce informazione presupposta (cioè data per vera):
(69) non era con la polvere di strada che potevi debellare la malaria (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 210)
Per lo più le frasi scisse (tipiche della ➔ conversazione) servono a focalizzare il soggetto (Berretta 1992). Va segnalato inoltre che in italiano (come in altre lingue romanze, soprattutto il portoghese) varie formule incorporano una scissa cristallizzata, come chi è che …, dov’è che …, quand’è che …, com’è che … Alle scisse si riconducono anche formule di introduzione come è che …, non è che … (v. sotto).
L’italiano focalizza anche alcuni componenti di sintagmi minori, servendosi di risorse ancora non tutte catalogate.
7.4.1 Focalizzazione dell’aggettivo nel sintagma nominale. A focalizzare l’elemento aggettivale di un sintagma nominale serve la tipica costruzione (che, tra le lingue romanze, appare solo in francese): Articolo determinativo + Aggettivo + di + Nome, che comporta lo spostamento del nome alla fine del sintagma:
(70) voglio il mio, di quaderno
(71) voglio quello, di vino
(72) voglio quello giallo, di golf
A questa categoria può essere ricondotto il fenomeno (tipico del registro familiare e informale) della focalizzazione della parte aggettivale del predicato nominale:
(73) Era di un permaloso mia zia, che lei non ne ha idea. Era permalosa come una biscia (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 221)
La procedura adoperata in (73) è notevole: l’aggettivo da focalizzare (permaloso) è convertito in un ➔ neutro (solo al singolare) preceduto da di.
7.4.2 Isolamento del tema mediante pseudo-partitivo. Tipica della varietà informale è una focalizzazione a livello del sintagma nominale, che ha la funzione di segnalare una proprietà del tema (74):
(74) Solo di loro fratelli c’erano zio Pericle e zio Iseo con moglie e figli (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 323)
(75) E lì di tranquillo non c’era più nessuno oramai (ibid., p. 362)
In questi casi, un costituente con di (non articolato) + Nome (di loro fratelli, di ragazzi) estrae dal contesto l’indicatore del tema (i fratelli, i ragazzi, ecc.) e lo mette in evidenza; il resto del costituente indica la referenza: zio Pericle e zio Iseo.
7.4.3 Anacoluto. L’➔anacoluto è un mezzo ben noto per mettere in evidenza il tema estraendolo dal contesto e spostandolo a sinistra, e così lasciandolo privo di legami coesivi (accordo, clitici, ecc.) col resto. Tipico della lingua parlata informale, è nondimeno una risorsa importante anche della lingua letteraria. Già frequente nei Promessi sposi, in testi d’oggi la struttura è ricorrente:
(76) E così il Papa Pio VI che voleva bonificare [le paludi pontine], erano affari suoi a scavare i canali (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 264)
(77) Povero Pio VI, sono loro che gli hanno rovinato davvero la salute (ibid.).
7.4.4 Cumuli di mezzi. Al pari del francese, l’italiano permette di cumulare nella stessa frase più mezzi per focalizzare, con complessi effetti di spostamento e di messa in rilievo, come in (78):
(78) Ma quelli il conte dov’è che lo andavano a prendere? Mica lo avevano lì, a portata di mano. A portata di mano avevano te che mangiavi più di loro, e a te venivano a cercare di toglierlo (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 85)
Le risorse adoperate in (78) sono riportate analiticamente nello schema seguente:
(79) Tipi di mezzi di focalizzazione del passo in (78)
Quelli il conte … risalita del soggetto della completiva
… dov’è che … scissa grammaticalizzata
Mica … focalizzazione della negazione
A portata di mano … topicalizzazione
… avevano te … focalizzazione del pronome personale (tonico invece che clitico)
… a te venivano a … focalizzazione del pronome personale (tonico invece che clitico).
Una varietà di forme di focalizzazione si sono degradate nel corso del tempo, perdendo l’originario valore di messa in rilievo e diventando così non marcate o solo debolmente marcate. Questo processo – che ha precisi corrispondenti in altre lingue romanze – riguarda in particolare:
(a) la dislocazione a destra, sentita per lo più come priva di effetto focalizzante e ora ridotta a una mera risorsa anaforica (Berruto 1986a; Simone 1997):
(80) Aveva mirato anche lui alle spalle […] e quando la bastonata è poi arrivata a destinazione, non le ha trovate più le spalle (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 133)
(b) Le negazioni rafforzate mica e non è che (che porta tracce di frase scissa), che sono diventate, nel registro informale, modi normali di negare:
(81) Mica c’era Internet allora (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 359)
(82) Mica era il Pellegrini (ibid., p. 176)
(83) Ora i miei zii non è che fossero proprio sicuri [= non erano proprio sicuri] di sapere chi era l’incendiario (ibid., p. 93).
Anche le frasi scisse (Berretta 1995) possono perdere il valore di focalizzazione:
(84) Ma quelli il conte dov’è che lo andavano a prendere? (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 85).
Rinviando alle voci specifiche per quanto attiene alla caratterizzazione dei diversi tipi di frase principali e subordinate (➔ principali, frasi; ➔ subordinate, frasi), ci limitiamo qui ad alcune considerazioni.
Anzitutto, come risulta da una varietà di fonti (Moneglia 2005; Policarpi & Rombi 2005), nel parlato tra le principali sono frequenti gli enunciati nominali (il 38% delle frasi totali per Moneglia 2005; il 18% per Voghera 1992; ➔ nominali, enunciati):
(85) Lì è cominciata l’angoscia dei Peruzzi. Avanti e dietro a chiedere a questo e a quell’altro […]. E avanti e dietro anche dal Rossoni a Roma […] (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 362).
Quanto alle frasi subordinate (➔ subordinate, frasi), queste si classificano in base a diversi criteri. I più adoperati sono due: la relazione che intrattengono con la principale e il modo del verbo che contengono. Dal primo punto di vista si distinguono le categorie seguenti: (a) le relative; (b) le argomentali, che saturano ➔ argomenti del verbo: si distinguono in soggettive (che hanno il posto e la funzione del ➔ soggetto) e completive (che hanno il posto e la funzione di un complemento); queste ultime si sogliono distinguere in oggettive (con funzione di ➔ oggetto) e interrogative indirette (➔ interrogative indirette); (c) le avverbiali, che hanno la stessa funzione di un avverbio (da qui il nome): le causali, le finali, le temporali, le concessive, ecc.; (d) a queste vanno aggiunte alcuni tipi di frasi subordinate con deboli legami sintattici (ma forti legami semantici) con la principale: le strutture assolute (➔ assolute, strutture) e le frasi parentetiche e incidentali (➔ incidentali, frasi; ➔ parentetiche, frasi); (e) alcune subordinate ‘libere’, cioè prive di principale, che hanno funzione pragmatica particolare.
Le subordinate si classificano anche secondo il modo del verbo che contengono. Si hanno allora le frasi subordinate all’infinito, all’indicativo, al congiuntivo, ecc. In taluni casi, il medesimo tipo di subordinata accetta, con valori e sfumature diverse, più di un modo. Per es., le completive, le finali e le causali possono essere o con verbo all’infinito (si parla allora di forma implicita) o di modo finito (si parla di forma esplicita).
Va segnalato che i diversi tipi di subordinata hanno frequenze d’uso molto diverse, il che mostra che tra le risorse subordinative disponibili quelle effettivamente usate sono solo alcune. Per es., nel parlato le esplicite costituiscono (Voghera 1992: 219) il 68% del totale; le implicite il rimanente; le esplicite più frequenti sono le completive con che (20,5% secondo Voghera 1992: 221 segg.) e le relative (45,7%); il terzo posto è occupato dalle frasi introdotte da se (8,1%). Tutti gli altri tipi di subordinate seguono con valori bassissimi.
Nella lingua scritta (Policarpi & Rombi 2005, basato su un corpus di testi di vario tipo) si segnala il declino delle strutture con participio e con gerundio, e il generale indebolimento dell’ipotassi.
Tra gli aspetti notevoli delle completive (➔ completive, frasi) va segnalata anzitutto l’oscillazione tra la forma esplicita e quella implicita. Anche quando c’è coreferenza di soggetto tra principale e completiva, è frequente una completiva esplicita (come sopra indicato): penso che parto domani. Quest’oscillazione dipende in parte da questioni di variazione: via via che il ➔ registro si fa più informale, le completive oggettive tendono a presentarsi più spesso come esplicite che come implicite. Essa dipende però anche dalla scarsa informatività della soluzione implicita, per natura meno eloquente di quella esplicita, dato che ‘nasconde’ il soggetto, non permettendo di renderlo visibile e di focalizzarlo. Gli esempi seguenti hanno, in dipendenza da un solo predicato, un’occorrenza di oggettiva implicita e una di oggettiva esplicita:
(86) mio zio sapeva d’averla fatta grossa e che l’avrebbe dovuta in qualche modo pagare (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 173)
(87) Era zio Iseo, che diceva d’essere stato ferito ma [diceva] che ora stava bene, era guarito (ibid., p. 361).
Dal punto di vista sintattico il fenomeno più notevole delle frasi relative è la loro crescente semplificazione strutturale (➔ relative, frasi; Benincà 1993: 278 segg.; Fiorentino 1999). Infatti il pronome relativo è spesso ridotto a pura congiunzione (88); in altri casi, le due funzioni del pronome relativo (di collegamento anaforico con l’antecedente e di congiunzione) sono dissociate (89-91):
(88) ma non trovavan gusto a piangere e a sospirare sur una cosa che non c’era rimedio (Manzoni, I promessi sposi, cap. XXX)
(89) Quelli che […] li pigliava all’improvviso la terzana e restavano […] stesi sopra il letto con la febbre a quaranta, quelli li caricavano su una lettiga e via di corsa a morire a Velletri (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 210)
(90) Con dei tronchi che non ce la facevano due uomini grandi ad abbracciarli (ibid., p. 269)
(91) sono andati a Venezia, che non c’erano mai stati in vita loro (ibid., p. 317).
Sono numerose e frequenti le subordinate che, per vari motivi diacronici, sono diventate ‘libere’, cioè si sono sganciate dalla principale, o si sono ‘allentate’, cioè codificano una relazione che non è più quella originaria.
Tra le prime, la più frequente è la protasi ipotetica operante da sola (detta ipotetica libera; ➔ periodo ipotetico), che ha assunto col tempo una varietà di funzioni e significati indipendenti dal senso originario:
(92) se hanno litigato quei due che erano fratelli gemelli, si figuri un po’ questi che non erano neanche cugini (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 159)
Tra le seconde, le causali che non codificano causa (➔ causalità, espressione della):
(93) Ci avevano fatto venire tutti perché – lei capisce – viene il Duce a fondare una nuova città e tu non gli fai trovare nessuno? (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 257)
Va appena menzionato l’uso sovraesteso di che (diffuso negli usi informali della lingua e frequente già in ➔ Manzoni e in ➔ Verga; ➔ che polivalente) come marca generica di connessione, alla destra di elementi di diverso tipo:
(94) Mica era come adesso, che si mangia carne tutti i giorni (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 91)
(95) Fu un esodo e noi arrivammo che Piscinara era già prosciugata (ibid., p. 137).
Sono tipiche del parlato informale alcune strutture ‘incomplete’, cioè sprovviste della parte completiva o in generale predicativa. Talune sono quasi cristallizzate:
(96) C’erano solo i muri scarni e le impalcature dei ponteggi a fianco. Sulla piazza non le dico (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 236)
(97) Erano sempre tutti poveri e morti di fame, ma per il resto addio (ibid., p. 73)
(98) Comunque, al ritorno dalla Russia arrivederci e grazie (ibid., p. 265).
Segnaliamo ora alcune costruzioni che possono esser considerate fortemente caratterizzanti l’italiano rispetto alle altre lingue. Si tratta di strutture sia predicative sia non predicative; tra le prime, se ne trovano di monoclausali (formate cioè da una sola frase) e di biclausali (formate da due frasi collegate tra loro in vario modo).
Al pari di altre lingue romanze (come spagnolo e francese), l’italiano usa tecniche particolari per introdurre elementi nuovi, sia che si tratti di un evento nella sua globalità sia di un partecipante individuale, definito o indefinito (Berretta 1995).
Per la prima funzione è frequente la sequenza è che … + frase, che ha lo scopo di introdurre con particolare rilievo un evento (99); tale sequenza è spesso correlativa a un precedente non che + Frase (100) (Roggia 2009):
(99) Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo (Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, p. 21)
(100) Non […] che non si fossero più visti o non ci fosse più stata occasione. […] È che lei – appena lo vedeva – alzava il viso e faceva finta di non averlo visto (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 175)
Specialmente in risposta a una domanda, un evento nuovo è segnalato dalla premessa (c’)è che + frase, soluzione tipica del parlato (Berretta 1995; Roggia 2009: 17 segg.):
(101) È che lei – appena lo vedeva – alzava il viso dritto e faceva finta di non averlo visto (ibid., p. 175)
Quanto al nuovo partecipante, per introdurlo nel testo si usa una costruzione in cui il sintagma che lo designa è inserito nel posto vuoto della costruzione c’è … che + Frase. È la struttura cosiddetta presentativa (Berretta 1995: 164 segg.; Berruto 1986b), presente già in Manzoni (102), che ha perduto l’originario valore focalizzante e ora è semplice marca di introduzione (o connettivo testuale: Berretta 2002):
(102) Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che […] fanno di tutto per ispinger le cose al peggio (Manzoni, I promessi sposi, cap. XIII)
(103) C’era una frase proverbiale che Bonghi detestava (Pontiggia, La grande sera, p. 255)
(104) C’era Vullo […] che faceva l’asfaltista [= Vullo faceva l’asfaltista …] (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 231).
Vanno segnalate anche alcune peculiari costruzioni biclausali, formate cioè da due frasi (o clausole), con funzioni pragmatiche particolari.
9.2.1 Costruzione causativa. È una costruzione biclausale (➔ causativa, costruzione) con la struttura fare + Infinito + (qualcosa) + (a qualcuno), che codifica la situazione causativa, in cui cioè ci sono due attori, uno che istiga senza agire, l’altro che agisce concretamente:
(105) ho fatto prendere la medicina ai ragazzi
A parte gli usi propri, però, in italiano questa costruzione è sovraestesa, dato che si usa anche quando non sia affatto in causa una situazione causativa. Per questa proprietà, l’italiano è stato definito «lingua causativamente orientata» (Simone & Cerbasi 2001):
(106) Il Serra le venne incontro quasi minaccioso: – Ma vuoi farmi impazzire? (Luigi Pirandello, “La paura”, in Novelle per un anno)
(107) Guardai fiso negli occhi quel giovine per fargli intender bene che non ero uomo da farmi canzonare da lui […] (Pirandello, “Prudenza”, in Novelle per un anno)
(108) Pure Mussolini […] s’era fatto costruire Predappio Nuova al bivio di Dovia dov’era nato lui […] e magari è lì, passandoci, che il Duce s’è fatto rodere (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 341)
In alcuni casi la combinazione di fare + Infinito è lessicalizzata dando luogo a verbi sintagmatici (➔ sintagmatici, verbi): tali sono, per es., fare avere «procurare, consegnare», fare capire «spiegare, convincere», fare correre «spaventare», fare capire «suggerire, insinuare», fare credere «convincere con frode», fare mangiare «alimentare, nutrire», fare sapere «informare», fare vedere «mostrare», ecc.
9.2.2 Costruzione passiva. Anche la costruzione passiva (➔ passiva, costruzione) in italiano è sovraestesa, dato che si usa anche quando l’evento rappresentato non è affatto passivo. Per es., le due occorrenze di costruzioni passive in (109)
(109) Poi nel corso del 1933 fu completata finalmente la grande chiesa di Littoria, affidata ai Salesiani […] e dedicata giustamente a San Marco, che […] era stato promosso protettore anche dell’Agro Pontino (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 316)
servono solo a segnalare che l’indicazione dell’agente non è rilevante.
L’italiano ha altre costruzioni con particolari funzioni pragmatiche, non ancora dettagliatamente catalogate. Ne illustriamo alcune:
(a) la costruzione biclausale formata da una frase nominale (o avverbiale) seguita immediatamente da una verbale indica una conseguenza o un evento successivo a un evento dato (Corminboeuf 2010):
(110) un altro po’ ed eravamo noi che dovevamo arrenderci alla Grecia (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 355)
Dal punto di vista della funzione, in questa struttura è affine alla peculiare combinazione di due coordinate (111), di cui la prima indica uno stato di fatto che allude a una norma, la seconda una predicazione su un caso specifico affine:
(111) Venivano quindi tutti, non poteva venire questo Lanzidei? (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 258)
(b) La costruzione a + Infinito con soggetto esplicito (112)-(113) (➔ infinitive, frasi) indica che un determinato processo è durativo e fa da sfondo a altri processi di primo piano:
(112) Qui, parte Agnese, parte la vedova, a ribatter quelle ragioni; don Abbondio a rimetterle in campo, sott’altra forma; s’era sempre da capo (Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXVIII)
(113) E lui imperterrito ad aspettare i tre minuti (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 43)
(114) si rincamminò con me in braccio e le sue api intorno a guidare verso la salvezza la famiglia (ibid., p. 455)
Alla stessa funzione servono la frase pseudo-relativa (115) e le frasi introdotte da via a + infinito e sim. (116):
(115) E i miei zii che ridevano (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 93)
(116) Quelli che […] li pigliava all’improvviso la terzana, quelli li caricavano su una lettiga e via di corsa a morire a Velletri (ibid., p. 210)
(c) Peculiare è l’uso della preposizione con con funzioni prossime a quelle delle congiunzioni, al punto che la si trova perfino come introduttore di subordinate:
(117) è uscito con sua madre
(118) è imprudente uscire con questo tempaccio
(119) con (tutto) l’ombrello che aveva si è bagnato tutto
In questi casi si ha una gradazione semantica del con: in (117) è l’introduttore di un argomento di compagnia (‘comitativo’), in (118) il comitativo è metaforico, e con questo tempaccio indica che il tempaccio ha luogo nel momento stesso in cui X esce; in (119) infine con l’ombrello che aveva significa «malgrado avesse l’ombrello», con evidente significato concessivo.
Un altro uso che va segnalato è illustrato in (120) e (121):
(120) mia nonna era come un generale, con i figli piccoli tutti a spigolare finché c’era un filo di luce (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 87)
(121) E qui iniziò la nuova vita dei Peruzzi, nella grande cucina […], con tutti che mangiavano in piedi (ibid., p. 227)
(d) La costruzione, tipicamente commentativa, con cui, a una predicazione già formulata, si aggiunge la sequenza roba da + Infinito, oppure roba da + Nome:
(122) ci siamo bagnati da capo a piedi in due secondi: roba da prenderci una polmonite
(123) la Procura di Roma ha aperto un’indagine sul direttore del TG1 […] per le sue spese di rappresentanza […]
con la carta di credito della RAI: roba da almeno 68 mila euro in 15 mesi («Il fatto quotidiano» 18 marzo 2011, p. 3)
(e) Altra struttura tipica è il cosiddetto infinito tautologico (Bernini 2009), che dà luogo a strutture biclausali come (124) e, meno frequente, (125), nelle quali un verbo all’infinito marca il tema, che viene ripreso subito dopo da una forma flessa dello stesso verbo:
(124) venire verrà senz’altro, basta solo aspettare
(125) Ad arare, s’era arato l’estate (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 112).
Secondo Benincà (1993) era prevedibile che si sarebbe imposta una struttura interrogativa (modellata sull’inglese) contenente doppia parola interrogativa, del tipo di chi ha scritto cosa? o quando è venuto chi? La previsione non si avverò: quella struttura penetrò solo in pochi ambiti (come il linguaggio d’azienda, l’aziendalese), lasciando indifferente la lingua standard.
Altre novità, invece, si annunciano in sintassi. Se ne indicano alcune:
(a) risalita del soggetto codificato sotto forma di esperiente (per + indicatore di persona; anche questa struttura è un calco sintattico dall’inglese):
(126) la possibilità per me di arrivare puntuale < la possibilità che io arrivi puntuale
(b) Grammaticalizzazione di a parte (il fatto) che + Frase come mezzo per ‘accantonare’ un’informazione nota; la subordinata così creata è di solito anteposta alla principale:
(127) […] come facevano le famiglie che non avevano uno zio Pericle? A parte il fatto che un Pericle c’è sempre in ogni famiglia, […] quelli che non ce lo avevano, quando proprio non ce la facevano più scrivevano al Duce (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 249)
(c) Grammaticalizzazione di sintagmi nominali con elemento ➔ neutro per introdurre un tema difforme da quello già presentato (il bello è …, la verità è che …, il fatto è che …, la realtà è che …, è che …), cioè per creare discontinuità tematica:
(128) il bello è che i primi figli neanche se ne accorgono (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 80)
(129) Lo strano però è che questo don Brodino è morto subito dopo […] (ibid., p. 321)
Fatto sta che …, originariamente dotato della stessa funzione, può anche trovarsi senza il che finale, separato e grammaticalizzato a mo’ di incidentale:
(130) Comunque, fatto sta, quando il Duce aveva ordinato «Firma qua e vai in pace»; il Rossini aveva provato a dire: «Ma Benito ...» (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 341)
(131) Fatto sta, questo don Brodino una notte d’inverno … (ibid., p. 321)
(d) Grammaticalizzazione di costruzioni dedicate per introdurre predicati, con funzioni pragmatiche diverse: lascia stare che … (per accantonare un enunciato fattuale), e va bene che … (con sfumatura concessiva), e non è (neanche) da dire che … (per escludere un’ipotesi probabile):
(132) «Tu hai tutti gli imperi che vuoi, e a me mi metti le sanzioni?» Lasci stare che poi quelle sanzioni ce le avevano subito a luglio del ’36 (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 84)
(133) e va bene che qualche somiglianza coi genitori doveva pur esserci (ibid., p. 128)
(134) la gente da noi camminava scalza […] fin che nel 1960 non è arrivato il benessere. E non è neanche da dire che tu quelle scarpe nuove te le mettevi solo il giorno del matrimonio (ibid., p. 187)
(e) Formazione, a partire dalla lingua colloquiale, di nuovi complementatori (la storia che …, il discorso che …, la faccenda che …):
(135) non mi convince la storia che [= il fatto che] tu parti da solo
(f) Diffusione di un’interrogativa diretta con elemento interrogativo in situ, che cioè non subisce lo spostamento tipico della frase interrogativa (Benincà 1993: 274-275):
(136) hai parlato con chi ieri?
(137) sei uscito quando?
(g) Tipi diversi di reduplicazione, con effetti vari di intensificazione, sia di singolo sintagma (138)-(139), sia di frase intera (140)-(142):
(138) «Ma quale fiducia e fiducia?» ha urlato il conte Zorzi Vila (Pennacchi, Canale Mussolini, p. 125)
(139) […] era Littoria Scalo per la verità e non proprio Littoria-Littoria (ibid., p. 155)
(140) Scavando scavando, poi, ogni tanto si trovava della roba (ibid., p. 145)
(141) Ma passa un anno, passa un altro, veneti friulani e ferraresi continuarono ad arrivare […] (ibid., p. 245)
(142) L’imperium per lui non era un colombaccio che volava volava e si posava poi sulla testa del primo che passasse (ibid., p. 276).
Matteucci, Rosa (2010), Tutta mio padre, Milano, Bompiani.
Pennacchi, Antonio (2010), Canale Mussolini, Milano, Mondadori.
Pontiggia, Giuseppe (1989), La grande sera, Milano, Mondadori.
Tomasi di Lampedusa, Giuseppe (1958), Il Gattopardo, in Id., Opere, introduzione di G. Lanza Tomasi, Milano, Mondadori, 1995.
Benincà, Paola (1993), Sintassi, in Sobrero 1993, vol. 1°, pp. 247-290.
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