SIRACUSA
Le notizie su Siracusa normanna e sveva sono molto limitate, poiché nelle fonti il nome della città compare assai raramente. Il suo sviluppo civile e commerciale in epoca normanna può, quindi, essere solo ipotizzato sulla scorta della testimonianza, fin troppo ottimistica, di al-Idrīsī e in riferimento all'accordo segreto del 1162 tra Federico Barbarossa e Genova, secondo il quale l'imperatore, in cambio dell'aiuto della repubblica marinara contro i re di Sicilia, avrebbe concesso la città in feudo ai liguri. Costoro, evidentemente, avevano notevoli interessi per il territorio, da cui dovevano trarre considerevoli partite di grano. Il ricordo di Siracusa nell'Epistola del cosiddetto Falcando tramanda un quadro assai meno roseo delle condizioni del centro aretuseo. È pur vero che la lettera, scritta post eventum, registra la desolazione della città dopo la conquista tedesca, ma è anche indubbio che l'autore avrebbe evidenziato la floridezza di Siracusa se essa si fosse manifestata alla vigilia dell'impresa di Enrico VI. Allora, invece, nonostante la città fosse contraddistinta da una certa attività culturale (come fa credere un inciso del cosiddetto Falcando: ea qua florere soles eloquentia), le sue mura erano in parziale rovina e la povertà dei poco numerosi cittadini non concedeva iniziative belliche di rilievo. Enrico, intanto, aveva rinnovato nel 1191 le promesse del padre, assicurando ai genovesi, a conquista avvenuta, "Syracusanam civitatem cum omnibus suis pertinentiis et CCL caballariis terrae in Valle Noth". Nel 1194 l'imperatore, dopo aver occupato Catania, si diresse su Siracusa, che assediò per parte di terra; dal mare l'assalto fu condotto dai genovesi, i quali dovettero scontrarsi con una schiera di pisani che resistevano entro le mura. Costoro operavano apparentemente contro la stessa Pisa, alleata di Enrico VI, ma "in realtà", come nota Gina Fasoli, "contribuivano a difenderne gli interessi tenendo lontano i tedeschi e i genovesi che avevano messo un'ipoteca sulla città" (Fasoli, 1955). Il centro aretuseo alla fine fu espugnato, ma l'imperatore non mantenne i patti e non consegnò Siracusa ai genovesi, addirittura privati dei vantaggi commerciali di cui godevano dall'epoca di Guglielmo I. Nulla sappiamo sulla resistenza dei siracusani allo Svevo: la loro sorte appare giocata fra Enrico, Genova e Pisa, senza che i cittadini facciano sentire la loro voce. Forse, come aveva affermato il cosiddetto Falcando, le misere condizioni degli aretusei non concedevano possibilità di validi interventi.
Dopo il trionfo di Enrico, Costanza nel 1196 fece notevoli donazioni al monastero di S. Maria delle Monache, ma le conseguenze della politica commerciale dell'imperatore dovettero notevolmente danneggiare Siracusa, se essa prese parte alla grande rivolta del 1197. Anche in questo caso la penuria di testimonianze impedisce di valutare il reale apporto della città al moto; tuttavia, dopo la morte di Enrico, Siracusa riprese la sua attività di porto commerciale e i genovesi recuperarono un ruolo di primo piano negli scambi, tanto da ottenere in città la casa che era stata di Goffredo di Modica. Il vescovo, inoltre, nel 1198-1199 fu commissario per la raccolta in Sicilia del denaro necessario alla crociata, bandita da papa Innocenzo III poco dopo la sua elezione. I rivolgimenti verificatisi durante la minorità di Federico II coinvolsero anche il centro aretuseo, nel 1204 in mano dei pisani. Quando costoro si fossero impadroniti della città non è lecito sapere; tuttavia questi "Pisani pirate" che, a detta dell'annalista genovese Ogerio Pane, tenevano Siracusa "ad offensionem nostram et omnium gentium", alterarono profondamente gli equilibri del centro aretuseo. Espulsero, infatti, con la violenza il vescovo, la cui sede era dal 1188 suffraganea di Monreale, "et fratres suos" ed esiliarono numerosi "burgenses", evidentemente cittadini che avevano realizzato con i genovesi importanti scambi di tipo mercantile ed economico. L'arrivo di Alamanno Costa che, coadiuvato da Enrico Pescatore, pose l'assedio a Siracusa, dovette trovare consenzienti i superstiti notabili locali se in capo a sette giorni il corsaro ligure riuscì ad avere la meglio sui pisani. I "burgenses" e il vescovo rientrarono e Alamanno governò la città in nome di Genova col titolo di Comes Syracusae. Se, come sostiene la più autorevole storiografia, i siracusani non ebbero voce in capitolo nelle vicende che connotavano la loro sede, l'adesione a Genova dovette, comun-que, essere salda. Nel 1205, infatti, i pisani assediarono la città per tre mesi e mezzo, ma, grazie anche all'intervento di Enrico Pescatore, furono respinti. Da quel momento il conte tenne Siracusa senza ulteriori fastidi e con il consenso del consiglio di reggenza del minorenne Federico, di cui Alamanno Costa era familiaris. Dispose, pertanto, del circondario aretuseo con la massima libertà, come attesta la donazione ai Gerosolimitani del casale Bigeni, avvenuta nel 1210. Federico II certamente non vedeva di buon occhio le imprese del conte, anche perché Alamanno cercava di ampliare il territorio posto sotto il suo controllo, tentando di impadronirsi di Aci Castello. Il momento della riscossa per l'imperatore venne nel 1221, quando, come ricorda l'annalista genovese Marchisio Scriba, Federico "Comitem Alamannum, qui inter alios fidelissimus existens ei tot tanta servitia contulerat, inhoneste e gubernatione civitatis Siracusane privavit". Il corsaro ligure fuggì, probabilmente a Gaeta, mettendosi sotto la protezione pontificia fino alla sua morte, avvenuta entro il 1229, e Siracusa ritornò sotto il diretto dominio regio, con probabili contraccolpi negativi per l'economia cittadina. I genovesi, infatti, in seguito alle risoluzioni della Curia di Capua, videro diminuire considerevolmente i loro privilegi nel Regno.
Le fonti non danno nessuna notizia certa sulla reale dinamica della cittadinanza aretusea, che appare, anche durante la sua vicenda demaniale, assolutamente priva di spessore economico e politico. Comunque, fra il 1222 e il 1224, lo Svevo fu frequentemente presente a Siracusa, certo perché impegnato nelle campagne militari contro i saraceni, forse anche per ovviare alle difficoltà sopraggiunte in seguito al diradarsi delle presenze genovesi nel porto siracusano. Nel 1222 l'imperatrice Costanza, con diploma redatto a Capua il 24 febbraio, concesse ai Domenicani, che erano allogati nella chiesa di S. Croce fuori delle mura, di entrare in città e di costruirvi, grazie al lauto contributo della sovrana, il nuovo grande convento. Nello stesso torno di tempo, verso il 1225, i Francescani si sistemarono nella contrada Resalibra e, successivamente, ottennero dal capitolo della cattedrale l'antica chiesa di S. Andrea, che riadattarono con notevoli ampliamenti. Queste nuove presenze potrebbero testimoniare una ripresa della vita civile della città, nel cui territorio l'imperatore vigilava sulle sue riserve di caccia e sugli allevamenti di buoi e di cavalli. Le provvidenze fridericiane continuarono nel 1231, quando fu stabilito di costruire in città due fondaci; solo Palermo e Messina ne avevano di più, sicché Siracusa in quegli anni probabilmente rappresentava il terzo porto commerciale dell'isola. La ripresa economica del centro aretuseo fu messa in discussione dalle Costituzioni melfitane del 1231 e Siracusa, l'anno seguente, contemporaneamente a Messina, Catania, Centuripe, Nicosia, Troina, Montalbano e Capizzi partecipò alla ribellione antisveva. Nel 1233 Federico domò la rivolta, ma ci sono poco noti i provvedimenti presi per il centro siracusano cui, sicuramente, fu sottratta una parte del territorio, concesso ad Augusta da poco fondata: sappiamo, però, che l'imperatore, oltre che a Messina, si recò a Siracusa, da dove emise alcune leggi, e a Nicosia per ristabilire l'ordine con la sua stessa presenza. Come era avvenuto anche a Messina, la repressione sveva non andò più in là della punizione dei diretti partecipanti alla sommossa, anzi Federico si impegnò a eliminare ogni possibile malumore con provvidenze in favore della cittadinanza, come la concessione nel 1240, al censo annuo di 600 tarì e un decimo del mosto, di terre demaniali ad alcuni borghesi, per impiantarvi vigneti, e la tolleranza nei confronti della censuazione, contro gli interessi della curia, dei demania feudorum, cui si ovviò, poi, con interventi restrittivi nel 1247-1248. La società aretusea era, dunque, in movimento, e un notevole impulso dovette venire dalla costruzione di Castel Maniace, la cui edificazione era in corso nel 1239, per l'impiego di mano d'opera locale e per l'arrivo di maestranze forestiere, con un conseguente aumento dei consumi e degli scambi. Nel 1240, tra le altre città, anche Siracusa inviò suoi rappresentanti al parlamento di Foggia.
La successione di Manfredi dovette favorire ulteriormente la crescita economica e civile di Siracusa, sia perché è noto l'incremento che il governo dell'ultimo Svevo diede alla formazione dei ceti burocratici urbani, sia perché l'apertura verso Genova e Venezia concesse ai liguri di ripresentarsi in forze nella città, dove ottennero una loggia. Nonostante Manfredi sorvegliasse Siracusa con vescovi di provata fede, alla sua caduta la città mostrò di gradire il dominio di Carlo I d'Angiò e, insieme a Messina e Palermo, non partecipò alla rivolta fomentata nel 1267 da Corrado Capece in favore di Corradino, cui aderì gran parte della Sicilia. L'età sveva si concludeva, dunque, tra l'indifferenza dei siracusani, ma la città, proprio nei primi sessant'anni del XIII sec., aveva rafforzato il suo tessuto civile, fino a presentarsi nel 1282, allo scoppio della rivolta del Vespro, come un centro abitato da un ricco ceto medio.
Fonti e Bibl.: Historia diplomatica Friderici secundi, ad indicem; Acta Imperii inedita, I, ad indicem; Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, a cura di L.T. Belgrano-C. Imperiale di Sant'Angelo, II, Roma 1901, ad indicem; Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie Thesaurarium de calamitate Sicilie, in S. Tramontana, Lettera a un tesoriere di Palermo sulla conquista sveva di Sicilia, Palermo 1988, pp. 130-133; Saba Malaspina, Die Chronik, in M.G.H., Scriptores, XXXV, a cura di W. Koller-A. Nitschke, 1999, pp. 191 e 219. S. Privitera, Storia di Siracusa antica e moderna, II, Napoli 1879, pp. 26-38 (riprod. anast. Bologna 1971); W. Cohn, L'età degli Hohenstaufen in Sicilia, Catania 1932 (Breslau 1925), passim; G. Fasoli, Incognite della storia cittadina di Siracusa tra l'età dei Normanni e quella degli Aragonesi, "Archivio Storico Siracusano", 1, 1955, pp. 7-14 (ora in Ead., Scritti di storia medievale, a cura di F. Bocchi-A. Carile-A.I. Pini, Bologna 1974, pp. 403-411); G. Agnello, Siracusa nel Medioevo e nel Rinascimento, Caltanissetta-Roma 1964; N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I, Prosopographische Grundlegung: Bistümer und Bischöfe des Königreichs 1194-1266, 1-4, München 1973-1982, pp. 1233-1250; E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976 (Berlin 1927-1931), ad indicem; I. Peri, Uomini, città e campagne in Sicilia dall'XI al XIII secolo, Roma-Bari 1978, pp. 128, 138, 140-142, 153, 174, 185-186, 200, 205-206 e passim; F. Maurici, L'emirato sulle montagne. Note per una storia della resistenza musulmana in Sicilia nell'età di Federico II di Svevia, Palermo 1987, p. 35; E. Pispisa, Il regno di Manfredi. Proposte di interpretazione, Messina 1991, pp. 262, 264 e passim; L. Gatto, Siracusa nel "Vespro" (spunti e riflessioni), in Id., Sicilia medievale, Roma 1992, pp. 213-223; S.A. Alberti, Il castello Maniace, in Federico e la Sicilia. Dalla terra alla corona. Archeologia e architettura, a cura di C.A. Di Stefano-A. Cadei, Siracusa-Palermo 2000, pp. 377-408 (con tutta la bibl. precedente riguardante il castello).