Sistemi economici comparati
È nell'Ottocento, con la critica dell'economia di mercato e della proprietà privata dei mezzi di produzione e con la ricerca di alternative basate sulla cooperazione e sulla proprietà collettiva o pubblica degli strumenti produttivi, che si pongono le basi per il confronto scientifico tra i diversi modelli economici. Con la rapida crescita industriale si accentua la divisione tra produzione e consumo, uno dei paradigmi usati per distinguere i sistemi complessi dalle organizzazioni primitive basate sull'economia di autoconsumo, e si moltiplicano gli strumenti di intermediazione finanziaria. Crescono e diventano più visibili, in termini di capacità d'acquisto dei beni e di controllo dei mezzi di produzione, le disuguaglianze economiche e sociali. Lo studio delle relazioni tra produzione e distribuzione contribuisce a porre i fondamenti dell'economia classica e, per le sue implicazioni analitiche, sociali e di politica economica, pone le premesse per l'elaborazione scientifica di modelli alternativi all'economia di mercato. La letteratura di fine Ottocento individua nella razionalità individualista e nel principio di libera scelta i presupposti fondamentali del sistema capitalistico. In questo approccio si pongono come alternativi rispetto al capitalismo tutti i sistemi che condividono il rifiuto del mercato e delle sue implicazioni distributive.
Nell'ambito degli studi economici i sistemi comparati acquistano un carattere disciplinare nel periodo tra le due guerre mondiali, con l'avvio dell'economia pianificata in Unione Sovietica e con le trasformazioni istituzionali e di politica economica indotte in altri paesi dalla grande recessione degli anni trenta. Il primo testo sui sistemi economici comparati è del 1938 (v. Loucks e Hoot, 1938). In molti paesi il laissez faire cede il posto a misure maggiori o minori di pianificazione e di regolamentazione pubblica (v. Shonfield, 1965), si fa più complicata la categorizzazione del capitalismo, e si possono osservare varianti istituzionali di rilievo non compiutamente identificabili nelle categorie tradizionali. Negli anni cinquanta la divisione del mondo in due blocchi, con il rafforzamento del blocco comunista nell'Est europeo e in Asia, ripropone con forza e giustifica per decenni il confronto sistemico tra socialismo e capitalismo e tra le loro varianti.
A cavallo tra gli anni ottanta e novanta, con il crollo delle economie socialiste dell'Europa orientale, determinato dalla disintegrazione dell'Unione Sovietica, trovano posto nella disciplina i fondamenti dell'economia della transizione. Mentre si approfondisce l'analisi dei connotati istituzionali e di comportamento specifici che caratterizzano il funzionamento di economie capitalistiche reali, emergono altri modelli, anche di ispirazione confessionale quale il modello islamico, che rivendicano la loro autonomia rispetto al capitalismo.
Il confronto tra sistemi economici consiste nel comparare che cosa, dove, quanto e come si produce; come è allocato il prodotto tra consumi, privati e pubblici, e investimenti; come è distribuito il reddito; come sono mantenute le relazioni con il mondo esterno. La comparazione si basa sulla premessa metodologica che è lecito confrontare un'economia reale al proprio modello, così come sono utili il confronto tra modelli teorici diversi e quello tra economie reali, mentre non è scientifico confrontare il modello di un sistema con l'economia reale di un sistema diverso. Date queste premesse, il sistema economico si definisce come un insieme di istituzioni, intese come norme, regole di comportamento e modi di pensare, la cui regolare interazione consente la determinazione del prodotto e della sua distribuzione.
La comparazione sistemica richiede un approccio interdisciplinare. È in particolare una disciplina contigua l'economia dello sviluppo, per l'importanza che in essa riveste il grado di sviluppo nei riguardi del funzionamento e dell'organizzazione delle economie reali. W.W. Rostow (v., 1960) distingue cinque stadi di sviluppo nel processo di maturazione economica: 1) l'economia tradizionale e fatalistica; 2) la diffusione delle tecniche e la formazione di uno spirito laico e del concetto di nazione; 3) il decollo (take-off), caratterizzato da alti tassi di investimento combinati con bassi rapporti capitale-prodotto che consentano l'autosostentamento della crescita; 4) i consumi di massa; 5) l'economia matura dell'abbondanza. Ogni sistema si trova nel tempo a un certo stadio di sviluppo e il confronto tra sistemi reali, per essere fondato, non può non tenere conto dei rispettivi stadi.
Sono inoltre indispensabili alla disciplina l'apporto teorico dell'economia istituzionale e dell'economia delle scelte pubbliche, e quello teorico, statistico e metodologico della macroeconomia e dell'economia comparata. Ma anche altre scienze, quali la dottrina dello Stato, la sociologia, la geografia economica e la storia, forniscono contributi sostanziali.
Il confronto tra sistemi ha come scopo l'individuazione di quelle istituzioni e interrelazioni che consentono a un sistema di funzionare meglio di un altro. La scienza economica fornisce propri criteri di successo, senza per ciò escludere l'utilità di altri criteri. I criteri economici comunemente utilizzati, che consentono una misurazione quantitativa, sono (v. Bornstein, 1971) il volume di produzione, il tasso di crescita, la composizione del prodotto, l'efficienza statica e dinamica, la stabilità dei prezzi, la sicurezza economica, l'equità, la libertà di scelta, la bilancia dei pagamenti, l'adattabilità al cambiamento. Coeteris paribus, sono preferibili sistemi che abbiano tassi di crescita più alti, garantiscano l'efficienza statica (ottimo paretiano) e dinamica (maggiore capacità di produrre beni e servizi con identico ammontare di risorse), determinino un'equa distribuzione del reddito in relazione al contributo di ciascuno alla produzione, minimizzino l'effetto delle fluttuazioni economiche sulla crescita, dimostrino capacità di adattamento nel lungo periodo.
L'analisi dei meccanismi fondamentali di funzionamento - apparato metodologico - consente di distinguere il funzionamento e la capacità di adattamento di ciascun sistema ai cambiamenti esterni. Questi meccanismi, che contribuiscono a specificare la funzione produttiva dell'intero sistema, sono raggruppati in meccanismi di decisione, coordinamento e controllo, e meccanismi motivazionali. All'interno di ciascun complesso di relazioni operano individui, famiglie e unità economiche i cui comportamenti riflettono anche costumi e paradigmi culturali. L'apparato metodologico comparatistico permette di introdurre nell'analisi problemi di organizzazione e motivazione che sono trascurati nella teoria economica neoclassica, per la quale l'organizzazione è un'entità omogenea in grado di adottare qualsiasi decisione. In organizzazioni complesse, o coalizioni, la formulazione degli obiettivi è un problema concreto in cui la distribuzione del potere ha un ruolo fondamentale. In questo contesto scompare anche l'assunto che lo Stato sia neutrale (v. Knaack, 1984). È anche merito della comparatistica avere valorizzato l'importanza sistemica delle forme di proprietà, neglette dalla scuola neoclassica. I diritti di proprietà costituiscono non solo la discriminante istituzionale e motivazionale tra capitalismo e socialismo, ma anche il filtro di lettura del comportamento di sistemi finanziariamente maturi. La proprietà e il controllo delle imprese, e le relative modalità di gestione, influiscono diversamente sul funzionamento, a seconda che vi sia maggiore o minore trasparenza nel meccanismo decisionale.
A seconda delle modalità istituzionali di ogni meccanismo è possibile classificare i sistemi economici in raggruppamenti significativi (v. Gregory e Stuart, 1995). Tenendo conto della multidimensionalità dei sistemi reali, alcuni studiosi rifiutano categorizzazioni semplificanti (v. Rosser e Rosser, 1996, pp. 5-7), e tuttavia è possibile, senza perdere i vantaggi della specializzazione, mantenere come classificazione di riferimento sistemico - consolidata nell'analisi teorica e nella pratica - quella in sistemi capitalistici, sistemi socialisti ed economie miste. Nei sistemi capitalistici il meccanismo decisionale è decentrato e appartiene alla pluralità degli operatori, la proprietà dei mezzi di produzione è privata, le informazioni sono fornite e coordinate dal mercato, gli incentivi sono prevalentemente materiali (profitti, salari, interessi e rendite). Nei sistemi socialisti le decisioni sono centralizzate (autorità pianificatrice) e hanno forza di legge (comandi), la proprietà dei mezzi di produzione è pubblica, il coordinamento è fornito dal piano, gli incentivi sono morali e materiali. Nelle economie miste trovano posto combinazioni sistemiche quali il corporativismo, il socialismo di mercato e altre tipologie come le economie in transizione e modelli di ispirazione confessionale. Il socialismo di mercato è caratterizzato dal decentramento decisionale e dal coordinamento del mercato, ma la proprietà dei mezzi di produzione è pubblica e le motivazioni sono caratterizzate da combinazioni di incentivi materiali e morali. Il corporativismo descrive una combinazione di accentramento decisionale, coordinamento misto di piano e di mercato, proprietà privata con un forte controllo statale, incentivi materiali e morali. La definizione di economie in transizione si applica infine ai sistemi che hanno abbandonato il socialismo, ma non si possono configurare ancora, in questo stadio, come sistemi capitalistici.
Uno dei dilemmi della comparazione dei dati consiste nella scelta di misure comuni, tassi di cambio o parità dei poteri di acquisto, che notoriamente sono inficiati o dalla variabilità del valore della moneta di riferimento, il dollaro, o dalla diversa importanza e sostituibilità dei beni usati nel calcolo delle parità. I prezzi, infatti, riflettono differenti scarsità relative. Assumendo ragionevolmente che le scarsità siano diverse tra i paesi, l'uso dei prezzi di un paese per il calcolo del prodotto di un altro paese contribuisce a far sovrastimare il prodotto di quest'ultimo nella misura in cui attribuisce pesi (prezzi) più alti ai prodotti che sono relativamente più abbondanti nel paese considerato. Un altro dilemma, che emerge particolarmente nel confronto tra i prodotti nazionali lordi di paesi capitalistici e paesi socialisti, consiste nella differente contabilità nazionale che riflette sia diversità istituzionali, sia diversità di comportamento degli agenti economici. Nella contabilità socialista viene usato il Prodotto Materiale Netto, che è la somma dei prodotti delle attività definite come produttive - essenzialmente industria, agricoltura e costruzioni - ai prezzi stabiliti dalle autorità che incorporano indistintamente la tassazione. I paesi capitalistici utilizzano invece il Prodotto Nazionale Lordo (PNL), che include anche il commercio ai prezzi dei fattori e la pubblica amministrazione al costo dei servizi. Senza un serio lavoro di aggiustamento o un forte caveat i due aggregati non sono comparabili. In entrambi i gruppi di paesi un numero imprecisato di attività non è contabilizzato. L'importanza dell'economia sommersa è diversa a seconda dell'ordinamento legislativo, delle pratiche commerciali e del livello di tassazione, potendo arrivare, secondo stime, anche al 40% del PNL.
I problemi che si pongono in ogni organizzazione sotto il profilo dell'organizzazione decisionale sono di ordine tecnico-amministrativo, come il problema della limitatezza delle informazioni, e gestionale, come quello della compatibilità tra gli interessi dell'organismo gestionale vero e proprio e l'unità economica, noto come problema principale-agente. Idealmente un'organizzazione puramente gerarchica definisce gli obiettivi dall'alto e trasmette le informazioni con comandi (v. Neuberger e Duffy, 1976, pp. 42-47). Di fatto, nella maggior parte delle organizzazioni gerarchiche il principale delega all'agente parte delle responsabilità di direzione. Questa delega da una parte consente la flessibilità, ma dall'altra crea la possibilità di un conflitto di interessi. Ne sono un esempio le tensioni nei rapporti tra gestione della società per azioni e assemblea degli azionisti (v. Alchian e Woodward, 1987, pp. 115-125). Aspetti di questa conflittualità sono i casi di moral hazard e di adverse selection. Nel primo l'agente utilizza a proprio vantaggio un'informazione ottenuta in un momento successivo a quello della delega; nel secondo gli agenti, celando parte delle informazioni ai gradi superiori, ne inficiano il meccanismo decisionale. L'alternanza tra processi di centralizzazione e decentralizzazione delle decisioni osservata nei sistemi socialisti di piano tra gli anni sessanta e gli anni ottanta riflette il dilemma organizzativo.
I due meccanismi alternativi sono il piano e il mercato. Nel piano il coordinamento avviene attraverso un calcolo centralizzato, che consente alle autorità di pianificazione di raggiungere soluzioni di equilibrio senza la partecipazione diretta di altri agenti. Questi ultimi però partecipano al meccanismo di formazione delle decisioni attraverso lo scambio di informazioni e attraverso i meccanismi di delega già descritti. Nei sistemi pianificati il momento della verifica della coerenza del piano, che può avvalersi anche di strumenti di calcolo quali le tavole input-output, è centrale, poiché il pianificatore ha la responsabilità di assicurare l'equilibrio macroeconomico e quello, più complesso, microeconomico, che consiste nel bilanciare domanda e offerta di ogni singola merce e input intermedio. Nel mercato il coordinamento è assicurato dalla flessibilità dei prezzi. I prezzi sono le informazioni necessarie ai produttori per l'allocazione delle risorse e ai consumatori per la scelta degli acquisti. Lavoro, capitale e terra sono allocati in maniera tale da eguagliare le produttività marginali ponderate, e nell'equilibrio di concorrenza i costi marginali sono eguagliati ai prezzi. Nel mercato la conoscenza dei fatti rilevanti è dispersa tra vari individui; i prezzi costituiscono, secondo Friedrich von Hayek (v., 1945), il meccanismo di comunicazione dei frammenti di conoscenza individuale.In realtà ogni meccanismo di coordinamento è imperfetto: nelle economie pianificate il calcolo economico non arriva a includere le migliaia di merci esistenti, mentre il mercato, d'altra parte, non fornisce soluzioni efficienti nei casi di monopolio naturale, di provvista di beni collettivi e nelle situazioni in cui costi e benefici non sono internalizzati dai produttori. Di fatto non vi sono sistemi puri, né di piano né di mercato, trovandosi nel piano diversi gradi di libertà, o spazi di autonomia decisionale, e nel mercato regolamentazioni e vincoli. I sistemi vengono quindi distinti in base al meccanismo di coordinamento prevalente.
Tuttavia, occorre notare che il progresso scientifico teorico ha contribuito e può ancora contribuire a ridurre la possibilità di fallimento dei meccanismi di coordinamento. Il dibattito sul calcolo economico socialista (v. sotto) ha contribuito a chiarire, e per alcuni aspetti a superare, la natura di alcuni impedimenti alla pianificazione. Quanto alla migliore funzionalità del mercato, è stato dimostrato (v. Coase, 1988, pp. 20-31) che quando vi è possibilità di negoziazione può essere raggiunto un livello ottimo di attività economica, nel caso di economie e diseconomie esterne, senza bisogno dell'intervento dello Stato, a parte quello di definizione e di applicazione dei diritti di proprietà, purché il diritto di proprietà sia attribuito alla parte che è disposta a pagarlo di più. La negoziazione, consentendo l'internalizzazione dei costi, contribuisce a risolvere alcuni casi di fallimento del mercato.
La proprietà dei mezzi di produzione può essere pubblica, privata oppure collettiva (cooperativa). I diritti di proprietà possono essere completi o incompleti, a seconda che includano o meno i diritti di trasferimento e di utilizzazione. Dalla maggiore o minore completezza dei diritti di proprietà dipendono diversi costi di transazione (v. Pejovich, 1990). Le differenze nei diritti di proprietà incidono sull'allocazione delle risorse e sulla distribuzione dei redditi, e quindi sui risultati economici, in funzione della diversa razionalità implicita nel meccanismo decisionale e motivazionale. Nella proprietà privata l'allocazione è decisa dagli individui, nella proprietà pubblica dallo Stato. Nei due casi sono diversi gli orizzonti temporali: gli individui cercano di uguagliare la serie di rendimenti attesi, scontati al tasso di interesse attuale, al costo del capitale, mentre nelle decisioni afferenti alla proprietà pubblica entrano in considerazione i tassi sociali di rendimento. In funzione della diversa destinazione del reddito possono sorgere problemi di redistribuzione: lo Stato che introita i redditi deve fissare i criteri di redistribuzione.La discriminante tra sistemi basata sulla proprietà dei mezzi di produzione trova origine nell'analisi marxiana del funzionamento e dell'evoluzione del sistema capitalista. Attraverso la proprietà privata del capitale il capitalista si appropria sistematicamente del plusvalore prodotto dai lavoratori e all'arricchimento di pochi si accompagna l'immiserimento di masse proletarie. Mentre competizione e innovazione tecnologica portano all'allargamento della capacità di produzione, la domanda interna non può crescere corrispondentemente. La sovrapproduzione e la caduta del tasso di profitto portano alla crisi del sistema capitalista. Secondo Marx, il crollo del capitalismo avviene in condizioni di abbondanza e prepara le basi per lo stadio più avanzato del socialismo. Ludwig von Mises, invece, prevede che il declino dei sistemi basati sulla proprietà pubblica avverrà per un difetto di motivazione in quanto, mancando una relazione tra produzione e distribuzione, la quota distribuita a ciascuno è del tutto indipendente dal valore dei servizi resi (v. Mises, 1981, p. 134). Nel dibattito su pubblico e privato merita attenzione l'analisi di Joseph E. Stiglitz (v., 1989), il quale contesta che si possa dimostrare in linea generale che l'impresa privata sia più efficiente di quella pubblica, ma individua nel rischio di politicizzazione dell'impresa pubblica la sua maggiore debolezza comparata.
In ogni sistema sono utilizzati incentivi materiali e morali per il perseguimento degli obiettivi. Il ricorso all'incentivazione presume che la stessa autorità decida finalità e incentivi, che vi sia una relazione tra effetto (obiettivo) e causa (incentivo), e che essa sia percepita come tale. Nelle economie di comando, di cui l'economia di guerra è un esempio, in teoria dovrebbero essere usate solo sanzioni, poiché si presume che i comandi debbano essere eseguiti, ma la mancanza o l'incompletezza delle informazioni impedisce nei sistemi complessi la formulazione di istruzioni precise e dettagliate. Incentivi, salari, premi di produzione, partecipazione ai profitti sono quindi utilizzati per guidare gli agenti verso il raggiungimento degli obiettivi. Nell'economia di mercato il contributo dei fattori produttivi è pagato al suo valore marginale. Nell'economia di piano altri criteri governano la distribuzione del reddito. Il ricorso a incentivi morali - certificati di merito, medaglie, onorificenze - è più tipico dei sistemi socialisti e di quelli ispirati a valori religiosi, ma non manca anche nei sistemi capitalisti. In qualsiasi sistema economico, tuttavia, la discrasia tra ripetitività dei compiti produttivi ed eccezionalità dei compensi morali rende questi ultimi inadatti al perseguimento di compiti di produzione. D'altra parte, un uso eccessivo e ripetuto delle onorificenze ne diminuirebbe il valore. I sistemi capitalistici ricorrono a salari, interessi, profitti e rendite e altre forme di remunerazione. Nei sistemi socialisti mancano o sono proprietà dello Stato interessi e rendite, mentre nei sistemi religiosi, o fortemente ispirati alla religione, forme di remunerazione come l'interesse sono proibite. È il caso, attualmente, di sistemi che si ispirano all'islamismo, ma anche di organizzazioni sociali del passato ispirate alla religione cristiana. L'eliminazione delle remunerazioni non da lavoro dovrebbe, coeteris paribus, portare a una distribuzione dei redditi più egualitaria.
La coerenza tra sistema economico e organizzazione politica ha attratto l'attenzione di molti economisti. Friedrich von Hayek (v., 1944, pp. 62-78) e Milton Friedman (v., 1962, pp. 16-18) hanno rilevato - in particolare - la dipendenza tra socialismo e limitazione delle libertà individuali, una relazione che trova ampia conferma nell'esperienza dei sistemi socialisti. I sistemi socialisti, sia di piano che di mercato, sono stati caratterizzati dal potere del partito unico, dal controllo sulle altre organizzazioni e sulla stampa, da un sistema giudiziario non indipendente, e infine da regimi polizieschi di controlli personali e sanzioni penali diretti a prevenire il dissenso (v. Leeman, 1977, pp. 337-345). Forse per un'eccessiva preoccupazione di autonomia disciplinare, la maggior parte della comparatistica ha sottovalutato il carattere sistemico dell'autoritarismo politico nel funzionamento dei sistemi socialisti. Che l'indebolimento del potere politico abbia avuto un peso nel disfacimento di questi sistemi non dovrebbe essere ignorato.
Una notevole letteratura si è invece sviluppata intorno alle debolezze funzionali del sistema politico democratico. Joseph Schumpeter (v., 1943) è stato tra i primi a sostenere con argomenti teorici il conflitto irriconciliabile tra democrazia e capitalismo. L'economia delle scelte pubbliche ha sottolineato che le decisioni riguardanti l'erogazione di beni pubblici, adottate anche con regole di maggioranza a qualsiasi livello di governo, sono soggette alle complessità del voto di maggioranza, alle pressioni di gruppo, o semplicemente esposte all'inerzia e all'inefficienza burocratiche e alla corruzione (v. Buchanan e Tullock, 1962). I dilemmi tra la scelta sociale e i valori individuali nei sistemi democratici sono stati descritti da Kenneth Arrow (v., 1963²). Non mancano esempi, inoltre, di economie capitalistiche, in particolare nel continente asiatico e in America Latina, associate a regimi politici non democratici. Se l'esperienza di alcuni paesi europei e asiatici - Germania, Italia e Giappone all'indomani della seconda guerra mondiale, e Spagna, Portogallo e Grecia più tardi - suggerisce che vi è stato in molte economie di mercato un percorso verso il capitalismo maturo segnato dal passaggio da regimi di illibertà a forme di organizzazione compiutamente democratiche, sembra necessaria un'esperienza più lunga nella storia dei sistemi per confermare la ripetibilità di questi percorsi in altri paesi.
Il confronto tra capitalismo e socialismo in economia si è incentrato a lungo sulla possibilità di funzionamento dei sistemi socialisti. Questo dibattito, la cui intensità polemica era diminuita dopo gli anni cinquanta, si è riacceso con la stagnazione economica dei sistemi socialisti negli anni ottanta e mantiene la sua validità dopo il crollo del socialismo reale, che contribuisce in parte a spiegare. Partendo dalle utopie socialiste e dai primi tentativi di elaborazione teorica dell'Ottocento, i paradigmi scientifici dell'economia socialista sono stati elaborati sulla base delle critiche mosse dagli esponenti delle scuole liberiste. Nel dibattito - iniziato prima che fossero realizzate su scala nazionale esperienze concrete del modello socialista, e continuato poi con maggiore passione e convincimento su entrambi i fronti - emergono da una parte i contributi di Enrico Barone, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, e dall'altra quelli di Fred M. Taylor e Oskar Lange. Per la robustezza delle argomentazioni teoriche e per le implicazioni della ricerca, il dibattito resta fonte di ispirazione per critici e fautori dei diversi sistemi (v. Balcerowicz, 1995, pp. 35-58).
Enrico Barone dimostra nel 1907 (v. Hayek, 1935), con il saggio Il Ministero della Produzione nello Stato collettivista, che un centro dotato di tecniche computazionali adeguate è in grado di trovare una soluzione - i prezzi - una volta date le funzioni di domanda individuali, la funzione di produzione d'impresa e gli stocks esistenti di beni produttivi e di consumo. Barone osserva, però, che le equazioni dell'equilibrio sono insolubili, poiché la determinazione economica dei coefficienti tecnici non può essere fatta a priori in maniera tale da soddisfare la condizione di un costo minimo di produzione. Barone nota che, sebbene a questa determinazione si possa arrivare in via sperimentale, non necessariamente la combinazione di costi minimi potrebbe essere riprodotta o ripetuta da altre imprese. Inoltre, uno Stato che volesse creare dall'alto un sistema di produzione e distribuzione ponendo sotto controllo la proprietà del capitale necessiterebbe di una colossale burocrazia centralizzata, il cui mantenimento contribuirebbe implicitamente a ridurre il benessere totale. Von Mises, nel suo noto articolo sul calcolo economico nella società socialista, nega che un sistema socialista sia in grado di allocare razionalmente i beni di produzione (v. Mises, 1920). Egli assume che tutti i beni siano di proprietà comune e non siano oggetto di scambio. Mentre i beni di consumo, anche ottenuti attraverso il razionamento, sono necessariamente oggetto di scambio tra individui con preferenze diverse, i beni capitali sono fuori commercio e di proprietà pubblica, e in quanto tali è impossibile determinarne il valore monetario. Manca nel socialismo pianificato la funzione del mercato che si esprime attraverso la motivazione del profitto e l'esistenza della proprietà privata. Per ciò stesso nel socialismo è impossibile il calcolo razionale. Mettendo in luce il problema dell'efficienza dell'investimento nel socialismo, von Mises conclude che il successo di qualsiasi innovazione non può essere né previsto né valutato ex post. Ma la più seria minaccia all'ordine socialista, secondo von Mises, è l'esclusione dell'iniziativa privata e della responsabilità individuale. Poiché mancano di stimoli interni a riformare, a migliorare la produzione e ad adattarla alla domanda, i direttori di fabbrica si trasformano in burocrati. Per controllare il loro potere dovranno essere istituiti dei comitati da cui dipenderanno le decisioni di produzione. Hayek invece pone per la prima volta una questione di metodo nel confronto tra sistemi. Egli nota che il problema che si pone nel confronto tra il mercato e i sistemi di gestione centralizzati è quello di sapere se l'autorità centrale cui spetta il compito di risolvere il problema di distribuire un numero limitato di risorse tra un numero praticamente infinito di usi, è in grado di ottenere un successo uguale o simile a quello ottenuto da un capitalismo competitivo. Mentre il sistema socialista comporta un tremendo sforzo organizzativo, il mercato non ha bisogno delle decisioni conscie dei singoli individui per risolvere problemi economici della cui esistenza la maggior parte di essi non è consapevole. Mentre il sistema socialista deve porsi e risolvere il problema del coordinamento, il mercato per funzionare, a differenza di altri sistemi, non ha bisogno di essere capito, afferma Hayek (v., 1935, pp. 1-40), indicando nei prezzi l'unica fonte di informazione di cui ciascuno ha bisogno per prendere le proprie decisioni. Su un punto di rilievo la premonizione di Hayek si rivela più valida delle speculazioni teoriche di von Mises: mentre questi indica nella mancanza di responsabilità dei direttori di produzione il pericolo che essi si avventurino in operazioni altamente rischiose, Hayek vede nell'inerzia il più probabile comportamento della gestione socialista di fronte a qualsiasi problema di scelta.
Basandosi sul contributo di Barone, Fred M. Taylor (v., 1929) dimostra che è possibile determinare il valore relativo dei fattori primari della produzione mediante un processo per tentativi ed errori controllato dall'autorità centrale, attraverso il quale si arriverebbe all'eliminazione di surplus o di deficit di ogni merce. A sua volta Oskar Lange (v., 1937), partendo dal contributo di Taylor, replica alle critiche della scuola austriaca - alla quale riconosce il merito di aver contribuito a rendere i socialisti consapevoli del problema dei prezzi in un'economia socialista con proprietà pubblica dei mezzi di produzione - con un modello in cui si dimostra che un'autorità centrale, il pianificatore, ha bisogno solo di ingiungere alle imprese di produrre al minimo costo, uguagliando i prezzi ai costi marginali e alle produttività marginali ponderate dei fattori, e di ottenere dalle imprese informazioni sulla qualità dei prodotti invenduti o sul difetto di offerta per ogni livello di prezzi fissato dal pianificatore stesso. Sulla base delle informazioni ricevute, questi modifica i prezzi, così come farebbe il venditore d'asta walrasiano. Quando il costo marginale è superiore al prezzo, il pianificatore ordina di ridurre la capacità; quando è inferiore, ordina di espanderla. Mediante un processo di iterazione si dimostra che il sistema socialista può arrivare a fissare prezzi di equilibrio simili ai prezzi di mercato, con il vantaggio che il profitto sarebbe di proprietà statale e, pertanto, la distribuzione dei redditi più egualitaria. Un vantaggio addizionale sarebbe che il pianificatore potrebbe imputare i costi sociali nei prezzi, consentendo quindi l'internalizzazione delle economie esterne. Resterebbero anche alcuni vantaggi del mercato, quale la libera scelta dei beni di consumo e dell'occupazione, benché limitati nella misura in cui il pianificatore determina il tasso di risparmio e di investimento e redistribuisce con propri criteri rendite e profitti. La superiorità del socialismo, secondo Lange, si troverebbe anche nella diffusione delle innovazioni e, quindi, in un più alto potenziale di crescita.
Varie critiche sono state mosse al modello di Lange. L'alto numero di merci pone al pianificatore il problema dell'aggregazione nella fissazione dei prezzi - un problema di non facile soluzione date le differenze di qualità - e il meccanismo di iterazione ha bisogno di informazioni corrette e rapide. Si pone quindi il problema della comunicazione e dei rapporti principale-agente, e di conseguenza i problemi sopra menzionati di moral hazard e di adverse selection. Qualora occorressero forme di partecipazione ai profitti per indurre i managers a fornire informazioni corrette, l'interesse delle grandi imprese sarebbe di ridurre la produzione per indurre il pianificatore ad aumentare i prezzi e consentire un più alto livello dei profitti (v. Bergson, 1966, cap. 9). Infine, Lange non spiega quale sarebbe il meccanismo di entrata delle nuove imprese e quale il comportamento dei managers di fronte al problema dell'innovazione.
Mentre la controversia socialista degli anni trenta e quaranta è eminentemente teorica e il modello di Lange resta inapplicato, intorno agli anni settanta il funzionamento del socialismo reale fornisce le basi per una più fondata valutazione comparata. Janos Kornai (v., 1980) dimostra che l'economia socialista è fondamentalmente un'economia di scarsità, perché l'impresa socialista opera in condizioni di vincoli di bilancio morbidi (o deboli) (soft budget constraints), a differenza dell'impresa capitalistica in cui forti vincoli di bilancio impediscono i comportamenti di spreco, stimolano la riduzione della domanda di inputs e inducono a decisioni di produzione più efficienti. Mentre l'impresa capitalistica che non riesce a sopravvivere con i propri mezzi va incontro alla bancarotta, l'impresa socialista riesce a sopravvivere anche nel lungo periodo, quali che siano i risultati del bilancio. È implicita in questa analisi la considerazione che le autorità centrali non hanno né le informazioni necessarie per decidere la sorte della singola impresa, né la volontà di affrontare questi problemi. A livello macroeconomico questo comportamento conduce da una parte alla mancata soddisfazione della domanda di beni di consumo, dall'altra a un sovrautilizzo delle risorse, di cui la piena occupazione rappresenta uno degli aspetti. La scarsità diventa endemica e caratterizza l'offerta sia di risorse produttive che di beni di consumo. Il sistema soffre di una perenne inflazione repressa fin quando i prezzi sono controllati; quando vengono liberalizzati, come si è verificato nell'Est europeo all'indomani dei grandi processi di transizione verso il mercato, l'inflazione divampa ponendo in primo piano i problemi di stabilizzazione.
I problemi dell'economia di transizione al mercato sollevati dal crollo dei sistemi socialisti reali hanno contribuito a sviluppare una tematica che era stata largamente ignorata nella disciplina, benché sia l'analisi marxiana, sia quelle di Schumpeter e di Rostow, ponendo le premesse per l'economia dello sviluppo, avessero da tempo prospettato scenari alternativi e filoni affascinanti di ricerca nell'ambito della dinamica dei sistemi. Fanno parte di questa tematica i problemi della stagnazione e del deperimento dei sistemi socialisti, delle ragioni di successo comparato nell'adattamento di un sistema a nuovi paradigmi di comportamento, dei tempi necessari all'adattamento, della configurazione dei sistemi nel periodo necessario alla transizione e, infine, della configurazione possibile del sistema d'arrivo.
È necessario riferire ogni sistema economico al modello teorico al quale esso si ispira direttamente, attraverso una professione ideologica, o indirettamente attraverso l'adattamento delle proprie istituzioni ai requisiti ideali di perfettibilità del funzionamento. Il disfacimento della maggior parte dei sistemi socialisti reali pianificati e di mercato non giustifica una minore attenzione per le caratteristiche di tali sistemi, poiché da una parte è scientificamente importante cercare di capire quali ne sono stati il funzionamento e la dinamica per più di qualche decennio, e dall'altra è necessario individuare le ragioni sistemiche del fallimento, separandole da eventi specifici e da altre influenze. Le varianti dei sistemi capitalistici consentono di valutare il successo in relazione sia al modello di funzionamento dell'economia di mercato competitiva, sia alla diversa capacità di adattamento istituzionale ai requisiti di stadi più avanzati di sviluppo. Se l'esistenza di varianti dei sistemi capitalistici non prova né la futura sopravvivenza di ciascuno di essi né quella del capitalismo, la loro vitalità relativa può fornire indicazioni circa la necessità di un certo percorso dei processi di maturazione e illuminare le cause del loro rallentamento, o delle deviazioni da questo percorso. L'analisi di sistemi non facilmente collocabili nella tipologia tradizionale merita anch'essa attenzione, pur se non prova di per se stessa la loro capacità di uno sviluppo economico e istituzionale alternativo. La possibilità che questi sistemi abbiano rappresentato o rappresentino deviazioni temporanee dal modello superiore di economia di mercato competitiva non deve essere trascurata, anche se nel corso del processo storico di trasformazione istituzionale non può essere escluso il consolidamento, attraverso meccanismi di consenso o dittatoriali, di sistemi alternativi.
Il modello teorico del capitalismo si basa sui paradigmi e sulle soluzioni del mercato di concorrenza perfetta, sulla motivazione del profitto e sull'esistenza del pieno diritto alla proprietà privata. La filosofia sottostante è quella della razionalità, della libera scelta e della responsabilità individuale che Max Weber descrive come l'etica protestante. Le implicazioni di politica economica sono che il governo non deve interferire con il processo di domanda e offerta che riflette le preferenze individuali e conduce spontaneamente all'equilibrio di mercato. Nel modello teorico produttori e venditori cercano la massimizzazione dei profitti e i consumatori la massimizzazione della propria utilità o benessere soggetta al vincolo di bilancio. Le dimensioni delle imprese non sono tali da consentire alla singola impresa di influenzare il prezzo. Quindi, in condizione di costi medi crescenti, l'impresa produce la quantità che consente di eguagliare il costo marginale al prezzo e che corrisponde all'ottimo economico e al massimo profitto. Se a un dato prezzo la domanda è superiore all'offerta, il prezzo di mercato tenderà ad aumentare e indurrà i venditori ad aumentare l'offerta. La condizione per il raggiungimento dell'equilibrio è la trasparenza perfetta che consente la formazione di un unico prezzo per ogni merce, poiché nessun consumatore sarà disposto a pagare un prezzo più alto di quello di mercato. Il prezzo procura ai produttori informazioni sulla quantità e sul tipo di merci desiderate e consente di soddisfare la domanda. In condizioni di libera entrata e uscita delle imprese, l'aumento dei profitti in un certo settore attira risorse produttive da altri settori e porta all'aumento dell'offerta delle merci richieste. Grazie alla soluzione di mercato si afferma che in questo modello il consumatore è sovrano. Il mercato garantisce l'efficienza statica poiché le risorse sono allocate in modo da eguagliare le produttività marginali ponderate. Alla soluzione produttiva è collegata la distribuzione dei redditi, poiché, in condizioni di concorrenza perfetta nel mercato dei fattori di produzione, la remunerazione di ogni fattore produttivo è uguale al valore del suo prodotto marginale. Secondo il modello capitalista l'equità nella distribuzione del reddito è rappresentata dalla condizione che la remunerazione di ogni fattore sia commisurata al suo contributo produttivo e non al bisogno. La proprietà privata consente che ogni fattore abbia interesse ad aumentare il valore del proprio prodotto marginale.Il modello capitalistico non garantisce necessariamente l'efficienza dinamica, anche se i meccanismi motivazionali e la condizione di concorrenza sono ad essa favorevoli. Secondo Joseph Schumpeter il progresso tecnico, ovvero la trasformazione dell'invenzione in innovazione commerciale, avviene con un processo di distruzione creativa del vecchio ordine, che fa posto al nuovo all'interno dell'organizzazione esistente. Il demiurgo di questo processo è l'imprenditore. Ma l'innovazione ha anche bisogno di risorse adeguate a promuovere ricerca e sviluppo su larga scala. La condizione della piccola impresa incorporata nel meccanismo di concorrenza non è la più favorevole a questo scopo. È possibile che con il progresso tecnico e la produzione su larga scala i paradigmi del mercato di concorrenza perfetta non possano essere mantenuti (v. Grossman, 1967, p. 43). Di conseguenza non si può affermare con certezza che il modello garantisca la crescita. Inoltre, le decisioni private di investimento e la libera scelta tra consumi e risparmio possono non essere compatibili con l'obiettivo della crescita.
Il modello capitalistico non garantisce la stabilità. Al contrario, l'economia di concorrenza è esposta alle fluttuazioni economiche. Con la teoria della trappola della liquidità e con l'analisi del reddito di equilibrio di non piena occupazione, John M. Keynes ha dimostrato che l'economia di mercato lasciata all'iniziativa individuale può non riuscire a garantire la stabilità.
Per la debolezza del modello teorico del capitalismo sotto l'aspetto dell'efficienza dinamica, della crescita e della stabilità si potrebbe dubitare della vitalità del capitalismo nel lungo periodo (v. Elliott, 1985, pp. 96-129). Sia Marx che Schumpeter, ancorché con percorsi analitici diversi, hanno sostenuto che il modello è destinato a scomparire. Secondo Marx ciò avverrà attraverso un processo rivoluzionario provocato dalle contraddizioni economiche e sociali tra abbondanza di merci da una parte, e crescente povertà delle masse lavoratrici dall'altra. Secondo Schumpeter la scomparsa del capitalismo è il frutto del suo successo e avverrà in un processo evoluzionistico che porterà allo sfaldamento delle istituzioni sociali che ne hanno sostenuto l'espansione. Questo processo è caratterizzato dall'obsolescenza della funzione imprenditoriale in organizzazioni dominate dalla società per azioni, dalla distruzione degli strati sociali e delle istituzioni che hanno sostenuto lo sviluppo capitalistico, quali la famiglia e il risparmio, da una crescente ostilità provocata dall'insicurezza e dall'instabilità da una parte, e dalla critica intellettuale dall'altra, nonché dalle pratiche legislative, amministrative e giudiziarie richieste. Anche secondo Thornstein Veblen (v., 1899) il capitalismo è destinato a cambiamenti radicali per l'interazione tra processo tecnologico, formazione di monopoli ed espansione del ruolo del credito e delle istituzioni finanziarie che conduce a fluttuazioni economiche, a lunghi periodi di depressione, alla caduta della produzione e dell'occupazione al di sotto dei livelli di equilibrio di concorrenza, e di conseguenza a una crescente ineguaglianza dei redditi. Tra le varie opzioni aperte dalla conflittualità interna al capitalismo, Veblen illustra la costruzione di un nuovo ordine industriale tecnocratico reso possibile dall'esproprio di proprietari assenteisti e predatori e dal grande potenziale di conoscenze ed esperienza dei quadri tecnici e delle maestranze, o - in alternativa a questo scenario - la militarizzazione dell'economia.
Merita considerazione anche l'analisi di John R. Commons (v., 1961), più influenzata dal comportamento del moderno capitalismo americano. Commons, che non nega la conflittualità implicita nella dinamica del capitalismo, sottolinea tuttavia la capacità di azione collettiva propria delle società per azioni, dei sindacati, dei partiti politici, e la possibilità di negoziazione tra le parti fondata sui diritti di proprietà. Nel processo di negoziazione diventa cruciale il ruolo del potere giudiziario che, mettendo in relazione leggi, economia ed etica, consente la creazione di 'valori ragionevoli' sui quali si fonda il capitalismo collettivo.L'analisi economica degli aspetti vulnerabili del capitalismo e la libertà del dibattito scientifico hanno portato a una maggiore comprensione dei meccanismi decisionali e dell'intreccio tra diritti di proprietà, costi di transazione, codici etici di comportamento e funzionamento del mercato (v. North, 1990). Si è anche venuta creando una ricca strumentazione di politica economica che consente di affrontare ciascun problema separatamente e in maniera aggregata con politiche macroeconomiche. Nei sistemi reali si trova il riscontro delle modalità istituzionali con cui economie capitalistiche mature hanno saputo adattarsi alla duplice domanda di crescita e di stabilità e del vantaggio comparato delle diverse soluzioni.
Il sistema americano più di altri sistemi si ispira e si avvicina al modello capitalistico. Nonostante ciò il ruolo dello Stato è in esso importante. Il settore privato rappresenta circa l'80% dell'economia. Dal 1939 al 1980 la percentuale delle imprese effettivamente competitive, cioè non in grado di influenzare i prezzi, sul totale delle imprese è cresciuta dal 52,4 al 76,7%, con progressi maggiori nel settore di più rapido sviluppo, il terziario, nelle sue componenti commerciale e finanziaria. Solo il 20% della forza lavoro è sindacalizzata. Il mercato dei capitali è caratterizzato dalla prevalenza dell'intermediazione finanziaria che procura circa il 90% degli investimenti privati. L'internazionalizzazione del mercato azionario facilita l'eguaglianza dei tassi marginali di rendimento tra investimenti. La distribuzione del reddito misurata con la curva di Lorenz (una stima problematica in tutti i paesi) è abbastanza ineguale e appare piuttosto stabile. La quota di reddito, al lordo della tassazione, che va al 20% delle famiglie più ricche è scesa dal 54 al 43,5% tra il 1929 e il 1985, mentre è rimasta del 5% la quota che va al 20% delle famiglie più povere. Occorre considerare, però, che la ridistribuzione avviene soprattutto in natura attraverso l'assegnazione di buoni di consumo e altre forme di sussidio ai più bisognosi. Le spese pubbliche coprono la pubblica istruzione, soprattutto primaria e secondaria, l'assistenza sanitaria ai poveri, e forme di sicurezza sociale per il pensionamento, l'invalidità e la disoccupazione. Ancorché limitata a programmi specifici, la spesa pubblica relativa ad assicurazioni sociali, aiuti pubblici, istruzione, programmi per i veterani, alimentazione infantile e riabilitazione è salita dal 3,9% del PNL nel 1929 all'8,6% nel 1955, fino a più del 19% negli anni novanta.
La politica di non intervento dello Stato che prevaleva prima della 'grande depressione', nel tempo ha ceduto il posto a politiche monetarie e fiscali in funzione anticiclica. Dal 1913 la politica monetaria è condotta dal Federal Reserve System formato da 12 banche distrettuali della Riserva Federale sotto la direzione di un consiglio di governatori il cui mandato di quattordici anni garantisce una forte indipendenza. Dato il carattere presidenziale del governo, la funzione del presidente è molto importante nella formulazione della politica economica. Il presidente si avvale di un consiglio di consulenti economici e propone al Congresso il bilancio per l'approvazione. Il governo agisce attraverso agenzie che hanno compiti di regolamentazione. Considerevoli progressi verso forme di maggiore competitività, anche in settori tradizionalmente regolamentati, sono stati ottenuti negli anni ottanta mediante una vivace politica di deregolamentazione delle compagnie aeree, dei trasporti e delle telecomunicazioni. Parallelamente, a livello locale, la liberalizzazione dei servizi è stata perseguita mediante contratti di gestione con privati.
Il capitalismo americano è caratterizzato da grandi imprese a responsabilità limitata. Anche se piccole imprese di proprietà individuale rappresentano ancora la maggioranza, le società per azioni che costituiscono il 20% del totale delle imprese producono il 90% del reddito d'impresa. Il tasso di concentrazione rappresentato dal prodotto delle quattro maggiori imprese che producono il 50% e oltre del prodotto industriale era del 33% nel 1904, del 24% nel 1947 e del 30% nel 1958. Nel 1982, a seguito del processo di deregolamentazione, torna ad essere del 24%. La percentuale di output prodotta dalle 100 maggiori imprese resta per decenni circa un terzo del totale. Le imprese pubbliche - locali, statali e federali - contano per meno del 2% del reddito nazionale. A differenza di altri sistemi, in particolare europei, la maggior parte dei monopoli naturali è privata. Le autorità fanno uso della legislazione antitrust e dei poteri di regolamentazione con l'obiettivo di assicurare la qualità del servizio e prezzi 'ragionevoli' sia per i produttori, sia per i consumatori. L'atteggiamento del potere giudiziario fortemente contrario al monopolio si è aperto negli anni settanta al riconoscimento comparativo della migliore efficienza gestionale e della capacità di innovazione. Tuttavia, tra le varianti di capitalismo reale, gli Stati Uniti sono praticamente l'unico paese nel quale la collusione e gli accordi di prezzo rimangono di per sé illegali. Nei casi di collusione contestati, l'onere della prova è a carico delle imprese.
La politica economica del governo è diretta a garantire la buona amministrazione più che l'intervento dello Stato. Nonostante ciò, il sistema capitalistico americano non può essere definito come puramente liberista. Se da una parte emerge chiaramente la volontà di perfezionare i meccanismi che consentono una più elevata competitività del sistema e una più grande trasparenza nelle transazioni e nella gestione senza che siano inficiati i meccanismi di incentivazione, dall'altra restano evidenti il ruolo sussidiario del governo e il suo impegno a favore dei cittadini meno abbienti. In questo contesto la crescita del ruolo del potere giudiziario nell'economia potrebbe essere visto, invece che come una interferenza, come uno stimolo alla correttezza delle informazioni e un disincentivo a comportamenti sleali.
La rinascita della Germania come potenza economica ha inizio nel 1948, quando vengono create le istituzioni fondamentali, viene ridata la libertà al mercato e la stabilità monetaria diventa il primo obiettivo. La rifondazione dell'economia tedesca è il primo esempio di shock therapy nella transizione al mercato. I fondamenti intellettuali della politica economica tedesca del dopoguerra sono rintracciabili nella scuola neoliberista di Friburgo, guidata da Walter Eucken e Alfred Muller-Armack, che assegna allo Stato un ruolo sussidiario nel perseguimento degli obiettivi sociali, ma è contraria all'interventismo pubblico. La Costituzione approvata nel 1949 suggella questi fondamenti, consacrando il diritto di proprietà privata. È sintomatico che ricevano forza di legge obiettivi economici quali la stabilità dei prezzi e della moneta, il pieno impiego, l'equilibrio della bilancia dei pagamenti e la stabilità della crescita economica, così come obiettivi sociali di equità, sicurezza sociale e progresso.
Il liberista Ludwig Erhard fonda la banca federale, la Bundesbank, dotandola di forte autonomia e ponendola sotto la direzione di un consiglio di governatori formato dai presidenti delle Banche dei Länder. La riforma monetaria - basata su un rapporto di cambio 1-10 tra il nuovo Deutschmark e la deprezzata moneta del Reich per tutte le pendenze, e su un cambio 1-1 per i salari e i prezzi correnti - elimina di colpo l'eccesso di liquidità, mentre sono contemporaneamente aboliti i controlli sui prezzi e il razionamento salvo che per alcuni beni essenziali. Solo il controllo del commercio con l'estero verrà mantenuto fino al 1958.
L'economia capitalistica tedesca del secondo dopoguerra si caratterizza per due peculiarità: il sistema di relazioni industriali e il sistema di sicurezza sociale. È soprattutto per questi aspetti che essa viene definita sociale. Il modello della codeterminazione si basa sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione mediante consigli di lavoro nelle imprese con più di cinque addetti e consigli di supervisione e di gestione delle imprese. I consigli di lavoro sono eletti dai lavoratori e devono essere consultati in materia di tempi di lavoro, assunzioni e licenziamenti. Ogni licenziamento deve essere approvato dal consiglio d'impresa. Nei consigli di supervisione due terzi dei membri sono eletti dagli azionisti e un terzo congiuntamente dai lavoratori e dai rappresentanti sindacali. Per la legge approvata nel 1976 azionisti e lavoratori hanno diritto a un numero uguale di rappresentanti nel consiglio di gestione, che è nominato dal consiglio di supervisione. Della metà destinata ai lavoratori un terzo è rappresentato dai sindacati e negli altri due terzi deve essere presente almeno un funzionario di grado direttivo. Il consiglio di gestione elegge un presidente il cui voto è decisivo in caso di dissenso. Se manca l'accordo tra i membri, il presidente viene eletto dagli azionisti. Questo sistema ha garantito a lungo la pace nelle relazioni industriali, segnate negli anni venti da un'alta conflittualità sindacale e ha contribuito a ridurre fortemente le perdite di produzione dovute a scioperi. Tuttavia negli anni settanta l'introduzione di tecnologie risparmiatrici di lavoro ha determinato per reazione una rinnovata militanza sindacale, e dopo l'unificazione tedesca le relazioni industriali sono decisamente peggiorate, anche se l'istituto della codeterminazione è stato preservato. La presenza maggioritaria (più dell'80% nelle maggiori imprese) dei rappresentanti delle banche, che sono i maggiori azionisti negli organismi di supervisione aziendale, caratterizza il modello tedesco come un modello corporativo a proprietà fortemente concentrata e, per quanto riguarda i meccanismi di decisione e controllo, meno trasparente del modello americano.
Due altri settori in cui l'organizzazione economica tedesca si differenzia significativamente da quella di altri paesi capitalisti, e che contribuiscono a spiegare la stabilità e il successo di questo modello, sono il sistema fiscale da una parte e le politiche di promozione del risparmio e di formazione del capitale dall'altra. La politica fiscale è sotto il controllo di una commissione di vigilanza del ciclo economico (Konjunkturrat) e di una commissione di programmazione finanziaria istituite per legge, che coordinano i bilanci federali, statali e locali a fini fiscali. La formazione del capitale trae vantaggio dai contributi dello Stato al risparmio delle famiglie a basso reddito attraverso premi per i risparmi vincolati a sette e più anni e per i risparmi destinati all'acquisto dell'alloggio. Altri trattamenti fiscali preferenziali per le famiglie a basso reddito hanno lo scopo di renderle meno dipendenti dal salario. La Germania ha attualmente, insieme al Giappone, uno dei più alti tassi di risparmio tra le economie capitalistiche mature.
Il successo del sistema tedesco si misura con il rispettabile tasso di crescita medio del 4,5% tra il 1950 e il 1990, sostenuto da tassi di investimento di circa il 25% del PNL. Con un prodotto pro capite di 23.000 dollari nel 1992 la Germania si colloca tra le economie mondiali più ricche. Tuttavia le spese sociali crescenti e i costi dell'unificazione con la Germania dell'Est possono mettere in questione la sopravvivenza del modello tedesco. Il sistema di sicurezza sociale, decentrato a livello di settore industriale o di governo locale, è fortemente protettivo. La combinazione di costi sanitari e pensionistici crescenti e un aumento del costo dei sussidi per la disoccupazione hanno portato la Germania a crescenti deficit di bilancio, che mettono alla prova anche la ben collaudata politica antinflazionistica della Banca centrale. Negli anni novanta la percentuale della spesa pubblica sul PNL è cresciuta dal 32,5% nel 1960 a circa il 50% e le spese sanitarie sono cresciute di dieci volte. Con l'unificazione della Germania dell'Est la crescita economica tedesca si è ridotta, la disoccupazione già in aumento tra il 1975 e il 1979 è salita all'8,8% tra il 1985 e il 1989 e al 9% nel 1991. Il deficit di bilancio nel 1996 ha oltrepassato il limite del 3% fissato dal trattato di Maastricht. Il programma di sussidi alla Germania dell'Est ha assorbito il 5,56,5% del PNL della Repubblica Federale Tedesca all'inizio degli anni novanta. La vendita delle imprese dell'Est avrebbe dovuto compensare il costo dei trasferimenti, ma il grado di sviluppo tecnologico e di produttività della Germania dell'Est si è rivelato inferiore alle peggiori aspettative. L'aumento dei tassi di interesse trascinato dal costo del finanziamento della trasformazione ha provocato la recessione. Solo nella seconda metà degli anni novanta la produzione ha cominciato a crescere più rapidamente all'Est. Tuttavia la trasformazione non è completata e i costi molto alti di questo processo potrebbero incidere sulla vitalità del modello tedesco.
La guida del processo di crescita da parte dello Stato, che ha fatto del Giappone, paese scarsamente dotato di risorse, la seconda potenza mondiale nella seconda metà del Novecento; l'alto tasso di risparmio delle famiglie, che ha favorito la crescita; una cultura del lavoro e della gestione corporatista che ha consentito a lungo il mantenimento della piena occupazione: sono questi gli elementi che distinguono il sistema capitalistico giapponese. Tra il 1965 e il 1980 il PNL cresce a un tasso medio del 6,3%, tra il 1980 e il 1987 a un tasso del 3,7%. L'inflazione che per lo shock petrolifero degli anni settanta era salita al 25% viene riassorbita e nel decennio successivo resta intorno all'1,5%. Tra le economie capitalistiche avanzate, il Giappone, con una popolazione di circa 130 milioni di abitanti, raggiunge nel 1991 il maggior PNL pro capite, 26.930 dollari (quello degli Stati Uniti è di 22.240 dollari). Il tasso di risparmio è più del doppio di quello statunitense, il 32% del PNL contro il 15% americano. La distribuzione del reddito, con un coefficiente di Gini di circa 0,3, è significativamente più egualitaria di quelle statunitense e tedesca.
Il ruolo dello Stato è importante, sia per i profili istituzionali, sia nella gestione della politica economica, sebbene la percentuale delle spese statali sul PNL sia meno della metà di quella tedesca e alquanto inferiore a quella svedese. Lo Stato stimola l'investimento privato con incentivi fiscali e il risparmio individuale mantenendo bassa l'erogazione di servizi sociali. Tra gli organismi statali contano non tanto l'agenzia di pianificazione economica, che redige piani quinquennali a carattere indicativo e i cui obiettivi generalmente si discostano per difetto (fino alla fine degli anni settanta) o per eccesso dai risultati reali, quanto il Ministero delle Finanze, responsabile della politica di bilancio e fiscale, e il Ministero del Commercio Internazionale e dell'Industria che persegue una politica di rapida crescita industriale e di promozione del settore. Questo ministero usa fondi pubblici per la ricerca e lo sviluppo e fornisce assistenza a politiche strutturali, inclusa la formazione di conglomerati industriali. Uffici amministrativi vigilano sull'andamento delle singole imprese, mentre la Banca Giapponese di Sviluppo finanzia speciali progetti industriali a bassi tassi di interesse. Grazie a forti legami personali, al prestigio dell'impiego pubblico e alla possibilità di cooptare tra i funzionari pubblici esperti provenienti dall'industria, la cooperazione tra Stato e industria è molto solida.
'Insulare' e fortemente legato alla tradizione, il sistema giapponese adatta al proprio contesto storico e sociale le istituzioni politiche ed economiche di un'economia avanzata che sono state incorporate nella carta costituzionale del dopoguerra. Sotto l'influenza delle forze di occupazione americane era stata adottata una legislazione antimonopolistica per contrastare le compagnie industriali e finanziarie controllate da grandi famiglie che avevano dominato l'industria nella prima metà del secolo, ma attualmente l'organizzazione industriale torna a essere dominata da grandi gruppi verticali e orizzontali, basati sulle partecipazioni finanziarie incrociate in cui acquistano un ruolo preminente compagnie commerciali e banche. Le banche partecipano sia con capitale azionario, sia con la provvista di credito. In cambio della sicurezza di finanziamento, gli interessi pagati sono più alti di quelli del mercato. Mentre, alla fine degli anni ottanta, negli Stati Uniti le partecipazioni incrociate tra banche e imprese costituiscono circa il 35%, in Giappone la percentuale sale a più del 67%. Una conseguenza dell'alto livello di partecipazioni incrociate è la bassa penetrazione del capitale straniero. Nel 1989 solo il 3,9% delle azioni era posseduto da stranieri.Il sistema giapponese ha il vantaggio della stabilità. I contratti a lungo termine e il sistema di consegna a pronti, basato su una rete di piccole imprese che lavorano a contratto per le grandi imprese, riducono il costo delle scorte e permettono immediati controlli di qualità. La fedeltà dei lavoratori all'impresa, insieme giustificata e compensata dalla continuità dell'impiego e dal progresso delle carriere, garantisce la continuità nella produzione e vantaggi in termini di coordinazione tra le unità operative. La consistenza e la militanza dei sindacati, che uniscono impiegati e lavoratori manuali, si sono ridotte nel tempo: il tasso di sindacalizzazione è caduto negli anni ottanta al 29%.
Tuttavia la bassa trasparenza del meccanismo di gestione corporatista, che giustifica la definizione del sistema come un "capitalismo senza capitalisti" (v. OECD, 1992), è un elemento di debolezza, evidenziato dalle crisi bancarie degli anni novanta, che mette in questione la capacità del sistema di rinnovarsi aprendosi alle influenze esterne. Nel processo di crescita il Giappone è diventato, da paese importatore di capitale, un paese esportatore. Negli investimenti realizzati all'estero mancano però i vantaggi culturali e istituzionali di cui ha beneficiato la crescita industriale giapponese e il Giappone ha difficoltà a esportare la propria cultura produttiva, di cui fanno parte anche orari di lavoro più lunghi e vacanze più brevi di altre economie avanzate, l'accettazione di salari più bassi da parte delle donne e un indiscusso rispetto per la gerarchia.
Il dimezzamento dei tassi di crescita negli anni ottanta e novanta, il rapido invecchiamento della popolazione, la crisi del mercato azionario all'inizio degli anni novanta e numerosi scandali politici legati a casi di corruzione indicano che il modello giapponese ha bisogno di maggiore flessibilità e capacità di rinnovamento per poter continuare a competere con il modello americano.
Un altro modello di capitalismo maturo entrato in crisi verso la fine del Novecento è quello dello Stato del benessere, che si caratterizza per una larga rete di servizi sociali e per un alto livello dei redditi medi. La Svezia, il paese che più di altri ha ispirato il proprio sviluppo a questo modello, ha avuto una delle economie di maggior successo fino alla fine degli anni settanta. Per una distribuzione dei redditi più egualitaria di quella giapponese e per aver saputo combinare mercato e proprietà privata dei mezzi di produzione con un attivo intervento dello Stato nel mercato del lavoro - che ha garantito a lungo la piena occupazione - e nella gestione di un generoso sistema di sicurezza sociale, la Svezia ha rappresentato il mito del capitalismo dal volto umano. Verso la metà degli anni ottanta il 20% delle famiglie a reddito più basso percepiva l'8% del reddito totale e il 20% più agiato il 26,9%. Dal 1870 al 1950 la Svezia ha avuto il maggiore tasso di crescita internazionale, riuscendo a sconfiggere la povertà e a mantenere, fino all'inizio degli anni novanta, il livello di disoccupazione al di sotto del 4%.
Alla base di questo sviluppo vi sono il sistema corporatista centralizzato di contrattazione salariale tra la federazione dei datori di lavoro e la maggiore federazione dei lavoratori e la decisione, da parte di quest'ultima, di legare la dinamica salariale a quella dei settori internazionalmente competitivi. Come nel caso del Giappone, è con l'aprirsi dell'economia al mercato internazionale e, in particolare, con l'adesione della Svezia all'Unione Europea che il modello svedese basato sul consenso sociale si è sfilacciato. Con l'aumento dell'occupazione nel settore pubblico e bassi tassi di disoccupazione, gli aumenti salariali, progressivamente dipendenti dalla contrattazione decentralizzata, hanno eroso i margini di competitività. Mentre nel 1980 su una percentuale di incremento salariale totale del 9,5% il 7,8% era ancora negoziato centralmente, nel 1990 su un incremento del 10% solo il 6,1% dipendeva dalla contrattazione centrale. Aumenti salariali superiori ai guadagni di produttività hanno ridotto la capacità di investimento all'interno e stimolato l'investimento all'estero. La disoccupazione è salita al 9%.
La Svezia non è più in grado di mantenere il sistema di sicurezza sociale che si è sviluppato nel corso di un secolo sia per i suoi costi - le spese pubbliche rappresentavano alla fine degli anni ottanta circa il 60% del PNL - sia per la perversione dei meccanismi di incentivazione che questo sistema ha prodotto. Con tassi marginali di imposta sul reddito del 75% e benefici sociali che includono il pagamento del 90% del salario per assenze di malattia a tempo indeterminato e permessi di maternità per entrambi i genitori fino a 18 mesi, l'incentivo al lavoro si è eroso. All'inizio degli anni novanta le assenze giornaliere giustificate riguardavano un quarto dei lavoratori. La riforma del sistema di imposta e la riduzione di alcuni benefici sociali e dei trasferimenti sono gli aggiustamenti di politica economica che si sono resi necessari all'inizio degli anni novanta. Ma il deficit di bilancio corrente, che ha raggiunto il 10% del PNL, e la necessità di più forti tagli alla spesa pubblica pongono forti pregiudiziali sulla possibilità di conservare il Welfare State.
Al modello del socialismo di piano, realizzato per la prima volta in Unione Sovietica, si sono ispirati, in Europa, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Germania Orientale, l'Ungheria, la Romania, la Bulgaria, l'Albania e per un breve periodo la Iugoslavia, e, negli altri continenti, la Cina, la Corea del Nord, il Vietnam e Cuba. Anche altri paesi in Asia e in Africa hanno cercato di adottare il modello socialista con la nazionalizzazione delle imprese e la collettivizzazione delle terre, ma senza arrivare a costruire compiutamente un sistema socialista.
Nel dibattito sul calcolo economico socialista erano già note le caratteristiche rilevanti del socialismo di piano (v. sopra), anche se mancava, per difetto di esperienza, una descrizione istituzionale e la comprensione degli effettivi meccanismi decisionali e di coordinamento e delle loro implicazioni economiche e sociali. I sistemi che si sono ispirati alla visione - se non al modello - di un'economia pubblica amministrata centralmente sono numerosi. È anche significativo che questi esperimenti, ormai per gran parte superati, si siano verificati sia in economie in via di sviluppo, sia in paesi già sviluppati all'inizio degli anni cinquanta, come la Polonia, la Cecoslovacchia e l'Ungheria. È altresì significativo che in tutti questi paesi, quale che sia stata l'effettiva rilevanza pratica, l'ideologia ufficiale si sia ispirata al marxismo-leninismo. I risultati della paziente e tenace ricerca economica scientifica socialista non hanno avuto riscontro nel pensiero ufficiale. Mentre emergono chiaramente le somiglianze nel funzionamento dei singoli sistemi, non dovrebbero essere trascurate le loro peculiarità, nelle quali si trovano elementi di continuità e di cultura nazionale la cui importanza nel corso della trasformazione è già risultata evidente. Tuttavia la somiglianza dei problemi di trasformazione, anche considerando il relativo successo di ogni singolo paese nell'affrontarli e superarli, consente che questo tema sia trattato globalmente come un'eredità comune del socialismo pianificato.
L'ideologia ispiratrice marxista non forniva indicazioni pratiche sul come costruire il nuovo sistema socialista. Sottolinearne l'importanza, tuttavia, significa mettere in luce il principale carattere comune che caratterizza le esperienze di tipo sovietico, quello della negazione dell'ordine economico e sociale capitalistico e dell'espropriazione dell'apparato produttivo come prerequisiti di un sistema alternativo, in cui il Partito comunista assume il ruolo di guida e la mobilitazione politica sostituisce le motivazioni economiche.
La prima misura che segna la Rivoluzione russa del 1917 è l'abolizione della proprietà privata della terra. La grande industria viene nazionalizzata già nel 1918 e la nazionalizzazione viene completata nel 1920. La dittatura del Partito comunista fornisce un centro di gestione politica ed economica ma non un meccanismo di coordinamento in sostituzione del mercato paralizzato dal controllo dei prezzi. Durante il periodo del 'comunismo di guerra', in cui il tentativo di erigere un modello comunista si confronta con la guerra civile, la produzione crolla. Il primo esperimento di piano viene avviato solo nel 1928, dopo un quinquennio di parziale restaurazione del mercato che permette la ricostruzione economica. Il meccanismo di pianificazione sarà più volte modificato, nel corso di tre generazioni, ma le riforme istituzionali che consentiranno la reintroduzione della proprietà privata dei mezzi di produzione saranno approvate in Russia solo dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991.
Il modello del socialismo di piano è, sostanzialmente, quello sovietico, anche se la sua esportazione in paesi di diversa cultura e a diversa configurazione geoeconomica ha richiesto necessariamente degli aggiustamenti. Descrivere questo modello significa descrivere il sistema economico sovietico, le sue regole e il suo disfunzionamento. Il modello teorico che si delinea nel corso dello sviluppo del sistema reale sovietico è quello dell'economia di comando. I mezzi di produzione sono di proprietà statale, il settore agricolo è organizzato in aziende di Stato e cooperative alle quali vengono assegnati compiti di produzione e consegna a prezzi fissati, la decisione di allocare le risorse viene presa dalla Commissione di piano e le informazioni e gli ordini vengono trasmessi alle unità produttive per via gerarchica. A parte il periodo tra il 1957 e il 1964 in cui fu sperimentato nell'URSS un sistema di ordini organizzato su base regionale, il sistema basato sulle istruzioni si caratterizza come un sistema di direzione ministeriale per settori d'industria.
Il meccanismo di coordinamento è il piano. Un'abbondante letteratura descrive il funzionamento delle tavole input-output, un ingegnoso strumento elaborato da Wassily Leontief che consente la soluzione del problema della domanda intermedia di ogni prodotto, una volta noti i coefficienti tecnici di produzione e la funzione obiettivo o domanda finale. Questo strumento, tuttavia, non fu usato nella pianificazione perché una matrice per prodotti mediamente disaggregati non era computabile (come era stato previsto dai primi critici del socialismo economico), e viceversa con un più alto livello di aggregazione le soluzioni non erano praticamente utili, a parte altre limitazioni come le implicazioni di rendimenti di scala costanti, l'assenza di progresso tecnico e la non sostituibilità dei fattori della produzione. Lo strumento usato che più si avvicina alle tavole input-output è quello dei bilanci materiali, redatti in unità fisiche per ogni merce e aggregati con unità di conto chiamate prezzi: uno strumento rozzo ma flessibile, che consente la determinazione degli inputs intermedi per ogni merce pianificata di cui sia nota (pianificata) la domanda finale. I bilanci materiali sono costruiti ogni anno sulla base della struttura produttiva preesistente. I primi bilanci materiali, o cifre di controllo, furono basati sulla struttura produttiva che si era creata nell'economia di mercato ed era riconoscibile nelle statistiche ufficiali. In ogni piano successivo, quinquennale e annuale, la struttura viene marginalmente modificata basandosi sui risultati del piano precedente e sulle previsioni di realizzazione delle innovazioni tecnologiche. Il piano deve equilibrare la domanda e l'offerta pianificata di ogni singola merce. Se una merce è scarsa e la domanda non può essere ridotta, occorre aumentarne la produzione oppure ricorrere alle importazioni. Entrambe le decisioni comportano, idealmente, la revisione di tutti gli altri bilanci materiali poiché le importazioni sono pagate con le esportazioni. Per evitare questi processi laboriosi di aggiustamento, il piano prevede l'accantonamento di riserve. La fissazione della priorità è un altro strumento di equilibrio: la produzione di una merce può essere aumentata riducendo la produzione di una merce non prioritaria. Coeteris paribus, in un sistema pianificato è più facile ridurre la produzione di beni di consumo finali che quella di beni intermedi. Tradizionalmente la priorità è andata all'industria pesante fornitrice dei mezzi di produzione.Le informazioni per la redazione del piano sono fornite dalle imprese che ricevono dall'alto gli ordini di produzione, espressi in indicatori fisici e prodotto lordo, e le risorse per realizzarli. Per gli effetti descritti dalla letteratura sul rapporto principale-agente, le imprese che agiscono sulla base di ordini non hanno un incentivo a comunicare informazioni corrette sulle proprie risorse per timore che gli obiettivi di piano siano aumentati, mentre hanno interesse a gonfiare le richieste di inputs. Tra i maggiori effetti negativi del rapporto tra autorità di piano e imprese vi sono una dispendiosa contrattazione tra imprese e pianificatore sui volumi di produzione e i termini di consegna e un processo di produzione irregolare, caratterizzato dalla corsa finale alla realizzazione del piano. In questo processo, nel quale il piano ha forza di legge e il tasso di investimento è deciso dall'alto, conta la quantità dei beni prodotti, invece della qualità, e grandi volumi di produzione si possono ottenere con un forte dispendio di risorse. Le remunerazioni e i premi di produzione sono basati sul volume di produzione lordo e sul superamento del piano. Anche se il volume di produzione è quello pianificato, possono verificarsi disequilibri per l'incompatibilità tecnica fra componenti, la mancanza dei servizi di assistenza e manutenzione non previsti dal piano, e la mancanza, o l'eccesso, della domanda finale di ogni singolo prodotto in relazione alla sua qualità.È difficile distinguere, per il meccanismo di fissazione dei prezzi, un'impresa efficiente da una che non lo è, poiché i profitti dipendono da prezzi non di mercato. Nella pianificazione i prezzi coprono i costi medi della produzione di settore e garantiscono un margine prestabilito di profitto. Da ciò discende che alcune imprese abbiano costi inferiori e altre costi superiori al costo medio. Le imprese in perdita devono ricevere sussidi per la copertura delle perdite, e ciò avviene attraverso la redistribuzione dei profitti. Il raggruppamento di imprese in larghe associazioni è stato spesso utilizzato per riequilibrare i conti delle imprese in perdita, ma questi aggiustamenti inficiano i meccanismi di incentivazione delle imprese basati sul profitto d'impresa.
Nonostante sia concepibile che un sistema pianificato rinunci alla moneta e faccia uso di buoni di consumo e del razionamento, nel sistema sovietico la moneta è stata usata nel pagamento dei salari e dei beni di consumo, salvo alcuni beni razionati. Ciò ha consentito la libertà nella scelta dell'occupazione e dei prodotti ma, per il controllo sui salari e sui prezzi, ha impedito l'aggiustamento dell'offerta alla domanda sia di lavoro che di beni di consumo. In entrambi i mercati si è sviluppata l'economia sommersa. Il mantenimento della piena occupazione ha fatto crescere i salari delle attività in espansione senza ridurre quelli dei settori e delle occupazioni in declino. L'accresciuta domanda di beni, mancando l'aggiustamento del livello generale dei prezzi e dei rapporti di prezzo settoriali, è rimasta insoddisfatta.
Per decenni la stabilità dei prezzi ha celato una crescente inflazione repressa, fornendo prima facie un quadro di stabilità macroeconomica e controllo finanziario, che solo la lunghezza delle file d'attesa poteva rivelare in loco. L'inflazione a tre zeri, divampata in Russia all'indomani della liberalizzazione dei prezzi, e la permanente difficoltà a ridurla al di sotto di cifre a due zeri, a cinque anni dall'inizio della trasformazione, riflettendo la grave distorsione dei prezzi prodotta dal sistema pianificato, danno anche la misura dell'aggiustamento dei prezzi relativi ancora da farsi.Il maggiore e più visibile risultato della pianificazione in Unione Sovietica è stato l'industrializzazione. In settant'anni di socialismo il PNL si è moltiplicato e la struttura economica e sociale, che nel 1917 era caratterizzata dall'82% di popolazione rurale, si è trasformata in quella di un paese moderno con una popolazione urbana del 78%. L'economia sovietica, inizialmente pari a circa il 25% dell'economia statunitense, è cresciuta fino a circa il 60% di questa e il PNL pro capite è salito fino al 52% di quello americano. Con un tasso medio di crescita del 4,7% tra il 1950 e il 1980, la crescita dell'economia sovietica si colloca tra quella americana - di una economia matura e dotata di risorse - del 3,6% e quella del Giappone, anche questo un paese di rapida industrializzazione ma scarso di risorse, dell'8,4% tra il 1950 e il 1977. La distribuzione del reddito misurata con il rapporto tra decile più alto e decile più basso di reddito è molto più egualitaria di quella americana, ma pari a quella britannica e svedese: 3,5% in URSS nel 1966 di fronte al 6,7% negli Stati Uniti nel 1968.
Il confronto tra i risultati del sistema russo e quelli del sistema cinese deve tener conto delle diversità culturali e di sviluppo delle due economie. Nel 1949, anno in cui con la vittoria della rivoluzione condotta da Mao Zedong viene adottato il modello sovietico, la Cina è un paese prevalentemente agricolo e più arretrato della Russia del 1917, che già possedeva un'industria di base e una rete di trasporti. L'esperienza cinese indica un processo per tentativi ed errori, con l'alternanza di periodi di eroica e tragica mobilitazione politica e periodi di recupero di forme tradizionali di gestione e di convivenza, nel corso della realizzazione di un'economia di piano in un ambiente economico di sussistenza e di piccolo artigianato. Con la nazionalizzazione dell'industria e una politica di industrializzazione basata sull'industria pesante, nel 1955 quasi il 70% del prodotto lordo industriale proviene dall'industria di Stato. Nel 1958 con il 'grande balzo in avanti', che si concluderà nel 1960 con la rottura ideologica ed economica tra Cina e Unione Sovietica, le terre, inizialmente distribuite ai contadini, vengono organizzate in comuni di grandi dimensioni, comprendenti fino a 50.000 famiglie, per la produzione agricola e artigianale e sono poste sotto il controllo delle unità governative locali. Ma l'organizzazione agricola largamente modellata sull'esempio sovietico si rivela inefficiente e di difficile controllo. Tra il 1960 e il 1966, grazie alla riorganizzazione dell'agricoltura in unità di minori dimensioni e all'introduzione di incentivi materiali, vi è un recupero della produttività. Tuttavia l'economia cade nuovamente nella depressione sotto il peso della 'rivoluzione culturale' promossa dai vertici del partito tra il 1966 e il 1971. Segue un periodo di restaurazione che, insieme alla scomparsa dei maggiori leaders ideologici, porta prima, nel 1978, all'approvazione di un piano grandioso e irrealizzabile di modernizzazione dell'economia, e poi a un processo di riforme di mercato caratterizzato dalla parziale liberalizzazione del mercato agricolo, dei servizi e del commercio con l'estero e da modi di gestione industriale parzialmente decentrati. All'inizio degli anni ottanta vengono istituite lungo le coste zone economiche speciali, che offrono trattamenti preferenziali agli investimenti. Al boom degli investimenti stranieri e della produzione segue l'aumento dei redditi, ma peggiora la loro distribuzione regionale.
I dati cinesi sono particolarmente inaffidabili, ed è con questo caveat che si devono valutare gli effetti positivi delle riforme. Dal decennio 1970-1980 a quello 1980-1990 il tasso di crescita del prodotto agricolo passa dal 2,6 al 5,7%, quello dei servizi dal 6,1 all'11,2%. Cresce anche il prodotto industriale dal 7,8 all'11%. Tuttavia la Cina, con un reddito pro capite di circa 500 dollari all'inizio degli anni novanta, ancora inferiore a quello di Hong Kong che nel 1966 aveva già raggiunto i 658 dollari pro capite, rimane ancora alla fine del Novecento un paese povero e soggetto al regime dittatoriale del Partito comunista cinese.
In una valutazione generale dei sistemi di tipo sovietico si osserva che i risultati peggiori, rispetto alle attese del modello teorico, si sono avuti riguardo all'efficienza tecnica e dinamica. In generale, le stime (v. Bergson, 1987) indicano, come previsto dalla teoria, un'efficienza tecnica inferiore nei paesi socialisti. Con tassi di crescita comparabili, anche se inferiori, a quelli di economie di pari grado di sviluppo - come quelle greca, spagnola o turca - le economie socialiste hanno subito un maggiore dispendio di capitale e di lavoro e non hanno garantito un aumento comparabile dei consumi personali. La distribuzione dei redditi, che avrebbe dovuto essere più egualitaria di quella capitalistica per l'assenza di redditi non da lavoro, non è stata migliore di quella dei sistemi capitalistici caratterizzati da politiche di benessere. Sorprendentemente anche l'attesa nel breve periodo di stabilità dei prezzi, dell'occupazione e della produzione non si è realizzata. Negli anni ottanta la maggioranza delle economie socialiste ha esperimentato una crescita negativa. La stabilità dei prezzi non è stata garantita dal migliore coordinamento del piano di produzione, ma dal controllo dei prezzi amministrati e dall'inflazione repressa.Kornai (v., 1992) ha fornito un'analisi fondamentale del funzionamento delle economie pianificate e degli effetti devastanti della fame di risorse e dell'assenza di vincoli di bilancio sul comportamento delle imprese. Altre analisi (v. Bergson, 1987; v. Ofer, 1987; v. Khanin, 1991; v. Easterly e Fischer, 1995) hanno messo in evidenza cause diverse, quali il modello di crescita estensiva, la progressiva scarsità di forza lavoro, il declino della produttività marginale del capitale, il declino del progresso tecnologico, la mancanza di incentivi appropriati, la crescita dell'inflazione repressa e della corruzione. Mentre la letteratura specialistica aveva enfatizzato in passato - sulla base di stime ufficiali e di elaborazioni indipendenti - la rapidità della crescita del sistema sovietico, nuove stime indicano tassi più modesti e decrescenti di crescita ottenuti con un dispendio comparativamente eccessivo di capitale. I tassi di crescita medi quinquennali sovietici dal 1970 al 1985 cadono dal 3,7% al 2,6 fino al 2%, con una perdita del potenziale di crescita pro capite, date le condizioni iniziali, e l'aumento di capitale e lavoro all'incirca uguale alla crescita effettiva. Easterly e Fischer concludono che, con un progresso tecnico neutro e un'elasticità di sostituzione bassa e costante, il declino della crescita sovietica può essere spiegato dai rendimenti decrescenti dell'accumulazione del capitale. A simili conclusioni era arrivato anche Kornai (v., 1992) in un giudizio comparato sulla politica economica del comunismo. Contraddicendo la possibilità teorica di una maggiore efficienza dinamica comparata sostenuta da Oskar Lange, questi sistemi hanno rivelato un'inerzia, come previsto da von Hayek, la cui radice si trova nella mancanza di motivazioni individuali in un ambiente economico dominato dalla proprietà di Stato e da interessi prevalentemente politici.
Il modello corporativista è stato tradizionalmente identificato con il nazionalsocialismo tedesco e con il fascismo italiano, due sistemi che hanno marcato tragicamente gli anni trenta e quaranta in Europa, ma per il suo carattere populista che si combina a una considerevole sfera di intervento dello Stato esso si può applicare anche alla Spagna del franchismo e all'Argentina del peronismo. Dalla prospettiva politica socialista, che le colloca all'opposto estremo di sistemi socialisti anche fortemente autoritari come l'Unione Sovietica stalinista, la Germania nazista e l'Italia fascista vengono considerate esempi dell'estrema evoluzione del modello capitalista monopolistico, per i meccanismi di decisione e di controllo, nonché per la loro sottostante filosofia. In realtà questi sistemi si approssimano di più ai sistemi socialisti che non a quelli capitalistici e potrebbero essere considerati ex post come modelli transitori - o deviazioni - nel percorso verso il capitalismo maturo. La loro collocazione nel continuum dei sistemi economici non è irrilevante all'indomani del crollo dei sistemi socialisti dell'Europa centrale e orientale, poiché in economie sottocapitalizzate e desiderose di ricrearsi un'identità nazionale le spinte corporative sono più forti di quelle capitaliste e non è da escludersi la possibilità di forme involutive nel periodo di trasformazione. Von Mises fu tra i primi a sottolineare l'origine socialista delle dittature nazionalsocialista e fascista e la comunanza dei loro programmi politici fortemente anticapitalistici. Lo Stato corporativo modellato sulle gilde trovò adesioni in Austria, Portogallo e persino in Francia. Gli sviluppi istituzionali del modello corporativo furono interrotti dalla guerra e dalla sconfitta militare e ciò non consente di ipotizzarne la compiuta realizzazione. Il programma nazista prevedeva l'abolizione del reddito non guadagnato, la confisca senza compenso delle terre ai fini comunali pubblici e l'abolizione dell'interesse. Dal 1933 al 1945 la Germania diventa gradualmente un paese diretto centralmente con un'economia di comando sottratta alle regole di mercato (v. Halm, 1968, pp. 317-333). La contrattazione salariale viene abolita nel 1934 e le condizioni di lavoro (salari, tempi e licenziamenti) sono sottoposte all'autorizzazione di organi governativi. Viene introdotto, come nei paesi socialisti, il libretto di lavoro depositato presso il datore di lavoro, che descrive il curriculum lavorativo. Nel 1938 gli uffici del lavoro sono autorizzati a mobilitare gruppi di lavoratori e a destinarli ad altre occupazioni. Le imprese restano di proprietà privata, ma sono costrette a produrre per le commesse di Stato e i profitti sono sottoposti al controllo del governo. Il coordinamento della politica industriale viene guidato da gruppi in cui sono rappresentati i vertici dei grandi conglomerati e si consolida l'unione tra monopolio privato e potere pubblico. Il controllo pubblico si avvale di una base statistica, della raccolta di dati per ogni gruppo industriale, di bilanci input-output e di un apparato di verifica delle strozzature produttive. Sulla base di ordini pubblici di produzione, allocazione delle risorse e termini di consegna, le imprese hanno un accesso prioritario alle risorse e viene loro garantito un margine positivo tra prezzi e costi di produzione sotto la vigilanza di organi di piano. Anche l'apparato finanziario e creditizio è sottoposto al controllo statale fin dal 1934. La legge del 1934 impone l'investimento del profitto eccedente dividendi superiori al 6% in buoni di Stato. Nel settore dell'occupazione la creazione di posti di lavoro è finanziata con l'emissione di buoni-lavoro da parte delle imprese, che vengono accettati dalle autorità responsabili dei progetti, scontati dalle banche commerciali e riscontati dalla Reichsbank. Il settore agrario viene organizzato in corporazioni, organismi dell'amministrazione centrale che raggruppano tutti coloro che partecipano alla produzione, lavorazione e distribuzione dei prodotti agricoli. I prezzi agricoli sono tenuti sotto il controllo statale attraverso il controllo del commercio estero e la politica pubblica di acquisti e vendite di prodotti agricoli. Il commercio internazionale viene sottoposto a controllo mediante l'allocazione di cambio a seconda della destinazione, l'assegnazione e il razionamento di cambio per l'importazione, la distribuzione di cambio per paese. Come nel sistema sovietico, la moneta è sopravvalutata. La sopravvalutazione viene compensata con una politica di sussidi alle esportazioni.
Il carattere di economia di comando del regime nazionalsocialista è evidente anche se le imprese restano formalmente private. Sotto questo aspetto, e per il vantaggio di non aver rinunciato al calcolo economico, l'economia tedesca sarà in grado di risorgere rapidamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Resta in dubbio quale ne sarebbe stata l'evoluzione se la guerra non fosse intervenuta. Per il carattere progressivamente illiberale di molte istituzioni, marcato anche da politiche eugenetiche, non si può dare per scontato un suo riorientamento spontaneo verso politiche di libertà del mercato, anche nell'ipotesi della fine della grande depressione che aveva marcato gli anni trenta e stimolato politiche di intervento statale. Per la progressiva centralizzazione delle decisioni, per la limitazione della disponibilità e dell'uso della proprietà, per il controllo dei prezzi e per la limitazione dei meccanismi di incentivazione, l'economia tedesca degli anni trenta si era alquanto allontanata dal modello capitalista. I controlli pubblici avevano provocato distorsioni nel mercato dei beni e favorito l'industria pesante rispetto ai beni di consumo. Mancavano movimenti politici alternativi. Solo l'inattesa sconfitta militare dà alla Germania Federale la possibilità di ricominciare ex novo e di fondare le nuove istituzioni sui criteri approvati dalle forze di occupazione americane e britanniche.
Il socialismo di mercato è stato anche definito modello partecipativo o cooperativo. Le sue caratteristiche sono le seguenti: la proprietà di mezzi di produzione è pubblica, ma i lavoratori hanno un diritto di usufrutto e pagano una tassa per l'uso delle risorse produttive; i prezzi sono liberi e il coordinamento è assicurato dal meccanismo del mercato; lo Stato fissa il prezzo dell'uso di beni capitali e della terra; i lavoratori sono liberi di scegliere la loro occupazione; la collettività dei lavoratori gestisce l'impresa e ne sceglie i direttori; i lavoratori partecipano alla ripartizione del reddito d'impresa. Il vantaggio di questo sistema rispetto alla variante capitalistica è, secondo il suo teorico Jaroslav Vaněk (v., 1971), una giusta ripartizione del reddito in quanto votata dall'assemblea dei lavoratori e parificata in occupazioni di uguale intensità e qualità. Nel modello cooperativo l'impresa massimizza i redditi netti per lavoratore e il volume di produzione nel breve periodo dipende solo dal lavoro. Per il capitale l'impresa paga una tassa fissa. Nella soluzione di equilibrio il valore del prodotto marginale dell'ultima unità di lavoro è identico al reddito netto medio per lavoratore: ciò significa che l'impresa continua ad assumere lavoratori finché il valore del prodotto marginale di ogni nuovo assunto supera il reddito medio netto per addetto. Nel lungo periodo con simile procedimento viene deciso l'investimento aggiuntivo di capitale.Il modello incorpora la razionalità individuale e l'interesse materiale. È stato dimostrato (v. Ward, 1967) che in esso a una diminuzione del prezzo l'impresa può reagire aumentando la produzione (e viceversa) e una riduzione nei costi fissi può condurre a diminuire la produzione. Inoltre il modello, a meno che le funzioni di produzione siano identiche in ogni impresa, non garantisce un'ottima allocazione del lavoro e del capitale. Altre critiche riguardano l'interazione delle funzioni-obiettivo dei singoli lavoratori e la motivazione dei dirigenti, potendosi ritenere che alcuni gruppi di lavoratori sarebbero interessati più alla sicurezza del posto di lavoro che alla distribuzione dei redditi d'impresa, mentre i lavoratori anziani avrebbero interessi alla massimizzazione del reddito personale nel breve periodo (v. Neuberger e Duffy, 1976, pp. 250-251).
La logica del modello partecipativo e la possibilità di ottenere soluzioni vicine, se non identiche in alcuni casi, all'ottimalità garantita dal modello di concorrenza perfetta e capitalistica hanno stimolato una copiosa letteratura, che probabilmente costituirà ancora a lungo la base per future ricerche di modelli alternativi (v. Bonin e altri, 1993). Mentre sembrano caduti gli ostacoli ideologici al meccanismo di mercato, resta tuttavia, anche nella ricerca più recente (v. Roemer, 1994), un'ostilità di fondo nei confronti della proprietà privata dei mezzi di produzione, la preoccupazione per una distribuzione più egualitaria dei redditi, e un sorprendente, alla luce della storia, rispetto per la razionalità della volontà pubblica rappresentata dallo Stato.La Iugoslavia è stata per qualche decennio il banco di prova del modello partecipativo o di autogestione. La sua disintegrazione, verificatasi parallelamente a quella dell'Unione Sovietica e sfociata in un tragico conflitto etnico, ha comportato anche la trasformazione dell'organizzazione economica. Nella sua espressione più compiuta negli anni settanta il sistema di autogestione iugoslavo si caratterizza per un regime politico autoritario, per il controllo della gestione dell'impresa da parte dei lavoratori attraverso l'elezione del consiglio di gestione e del direttore, per la proprietà sociale dei mezzi di produzione, per la formazione dei prezzi nel mercato e, su scala federale, per una considerevole disuguaglianza tra le diverse regioni. Nel 1976 la legge del 'lavoro associato' stabilisce la gestione dei lavoratori integralmente pianificata e introduce tre livelli di lavoro associato: le organizzazioni di base, le organizzazioni di lavoro e le organizzazioni composite, rispettivamente a livello di reparto, di impresa e di gruppi verticali di imprese. Contemporaneamente si procede a un'agglomerazione di imprese senza precedenti, che consente di evitare il fallimento delle imprese più deboli.Il tasso di crescita passa dal 6,2% tra il 1965 e il 1973 al 6,4% tra il 1974 e il 1980. Contemporaneamente l'inflazione sale dall'11,7% al 17,9%. Tra il 1981 e il 1989 mentre il tasso di crescita cade allo 0,6%, l'inflazione cresce fino al 138,7%. La distribuzione dei redditi diventa meno egualitaria non solo relativamente a quella delle economie socialiste pianificate, ma anche a quella di alcune economie capitalistiche avanzate. Mentre il rapporto tra il quintile più alto e quello più basso della distribuzione del reddito per la Germania dell'Ovest nel 1988 è di 5,8, per la Iugoslavia nel 1987 è di 7,0 (v. Rosser e Rosser, 1996, pp. 346-347). Questi risultati riflettono in gran parte il modo di funzionamento e i meccanismi decisionali e di incentivazione dell'economia autogestita. Da una parte le imprese hanno interesse all'aumento degli investimenti, dall'altra i lavoratori hanno interesse alla distribuzione immediata dei redditi: due obiettivi conflittuali che solo l'emissione di moneta e una generosa politica di finanziamento da parte delle banche sotto il controllo degli organismi locali e politici possono conciliare. Dalla metà del 1960 il rapporto capitale-prodotto aumenta rapidamente passando da 2 a 3,23 nel 1988. La diminuzione della produttività e l'aumento della disoccupazione (v. Zizmond, 1982, p. 106) segnalano una crescente inefficienza delle decisioni di investimento. Contemporaneamente al fallimento dei sistemi pianificati, alla fine degli anni ottanta anche il sistema di mercato socialista entra in crisi, crisi caratterizzata, come nell'Unione Sovietica, dalla disintegrazione politica.
L'apertura della Iugoslavia socialista al mercato internazionale, il flusso migratorio e le rimesse degli emigrati, la parziale convertibilità della moneta e una buona rete di relazioni internazionali avrebbero potuto, in linea di principio, costituire la base di una più rapida integrazione internazionale rispetto alle economie pianificate. Ma il disfacimento del paese, l'apertura di un conflitto etnico e la permanenza di forti tensioni politiche tra Serbia e Bosnia-Erzegovina, in cui anche la Croazia è parzialmente coinvolta, impediscono di valutare i vantaggi comparati dell'economia di mercato socialista nella transizione, anche se la Slovenia indipendente, risparmiata dalla guerra, ha dimostrato una forte capacità di riorientare il proprio commercio dal mercato interrepubblicano a quello internazionale, in un quadro di stabilità macroeconomica e di trasformazione istituzionale.
La transizione dal socialismo al capitalismo si caratterizza da una parte per la trasformazione dell'assetto istituzionale, e dall'altra per politiche di stabilità macroeconomica. Sotto entrambi gli aspetti la trasformazione comporta una fase di aggiustamento i cui tempi non sono prestabiliti e i cui risultati possono essere anticipati solo con grande approssimazione. La data di inizio della trasformazione è simbolicamente considerata il 1989, anno del crollo, sotto la spinta popolare, del muro di Berlino che separava la Germania dell'Est, nella sfera di controllo sovietica, dalla Germania dell'Ovest e che aveva rappresentato in maniera drammatica per decenni la separazione del mondo occidentale, capitalista, dal mondo orientale, socialista. In realtà le economie dell'Est europeo hanno iniziato ciascuna la propria trasformazione in tempi diversi, alcune nel corso degli anni ottanta con la liberalizzazione parziale dei prezzi e dei regimi di cambio, altre all'inizio degli anni novanta. È solo nel 1992 che la Russia, erede dell'Unione Sovietica ormai suddivisa in Stati indipendenti, intraprende la propria trasformazione.I sistemi di transizione, in cui sussiste l'eredità di una vasta economia pubblica industriale e in parte agricola, mentre vengono liberalizzati i prezzi e prende forma l'economia di mercato, possono essere classificati come economie miste. Dal punto di vista macroeconomico la trasformazione implica la formazione di istituzioni monetarie e creditizie che consentano il controllo della liquidità e della dinamica dei prezzi, la creazione di un sistema di tassazione basato su imposte sul reddito e indirette, la cessazione dei sussidi di Stato alle imprese, il riorientamento della spesa pubblica verso l'erogazione di beni pubblici, e la formazione di un sistema generalizzato di sicurezza sociale e di assistenza medica. Poiché con la liberalizzazione dei prezzi l'inflazione da repressa diventa aperta, il sistema deve dotarsi di politiche di bilancio e monetarie capaci di portare rapidamente alla stabilizzazione dei prezzi. La liberalizzazione del commercio con l'estero richiede la convertibilità delle monete, il passaggio da accordi bilaterali al commercio basato sui prezzi internazionali, l'adozione di un unico tasso di cambio al posto di tassi di cambio plurimi, un apparato doganale. Le politiche di liberalizzazione del conto corrente con l'estero precedono la liberalizzazione del movimento di capitali.
Sotto l'aspetto delle riforme di struttura, alla liberalizzazione dei prezzi si accompagna l'istituzione di diritti individuali di proprietà di tutti i fattori della produzione. Questa riforma è spesso definita privatizzazione, anche se la trasformazione è più ampia e più complessa ed è sistemica perché comporta la possibilità di creare nuove imprese private (v. Frydman e Rapaczynski, 1994, pp. 168-208). La privatizzazione riguarda fattorie collettive, aziende pubbliche, abitazioni e servizi e ha due funzioni essenziali: liberare il bilancio dello Stato da oneri di produzione e introdurre un meccanismo di incentivazione coerente con la liberalizzazione dei prezzi di tutti i fattori produttivi.La trasformazione è stata analizzata sotto l'aspetto della successione (sequencing) delle politiche di liberalizzazione e sotto l'aspetto dei tempi, nell'alternativa tra terapia d'urto e gradualismo (v. Lavigne, 1995, pp. 116-121; v. Gros e Steinherr, 1995, pp. 98-108). Il problema della successione ottimale è stato sollevato relativamente alla liberalizzazione dei prezzi e del commercio con l'estero e alle riforme bancarie e finanziarie. Le preoccupazioni riguardavano il pericolo della formazione di prezzi di monopolio in un ambiente industriale caratterizzato da grandi imprese, l'effetto di conto corrente dell'apertura del commercio con l'estero in economie poco competitive, e il controllo dell'inflazione nell'assenza di un sistema bancario e creditizio adeguato. In realtà, grazie alla svalutazione iniziale delle monete e all'apertura del commercio internazionale, la liberalizzazione dei prezzi ha consentito di ottenere rapidamente vantaggi di competitività e di ridurre, grazie alla contrazione della capacità di acquisto, i tassi di inflazione. Con la liberalizzazione dei prezzi, i nuovi prezzi relativi hanno fornito alle imprese, anche prima della privatizzazione, le informazioni di mercato.L'opportunità di sostituire una strategia di cambiamenti graduali alla terapia d'urto, che consiste nell'affrontare simultaneamente problemi di macrostabilizzazione, di liberalizzazione microeconomica e di privatizzazione, è stata sostenuta sulla scorta dell'esperienza ungherese, caratterizzata da un lento processo di trasformazione iniziato negli anni settanta con la parziale liberalizzazione del commercio estero. Questa esperienza sembrava aver indicato la possibilità di riformare i sistemi socialisti pianificati, possibilità sostenuta dai fautori del socialismo di mercato (v. Nove, 1983). Di fatto, l'evoluzione dell'economia ungherese non ha provato la riformabilità del socialismo reale, in quanto l'effetto maggiore della liberalizzazione del commercio internazionale è stato l'enorme indebitamento con l'estero, che ancora condiziona la sostenibilità della ripresa economica.
La terapia d'urto consiste in realtà nell'adozione di un programma coerente di riforma verso il mercato e di trasformazione capitalista. La realizzazione di questo programma richiede tempo, ma è nella coerenza del programma e nelle aspettative che esso crea che si misura la radicalità delle riforme. Dai primi risultati della trasformazione è possibile ricavare indicazioni sull'impatto produttivo, sulla traiettoria e sui tempi comparati della trasformazione. Tutte le economie in trasformazione hanno subito all'inizio del processo una caduta più o meno importante della produzione. Questo fenomeno riflette la necessità e la durata dell'aggiustamento della produzione (offerta di processi produttivi e prodotti) ai nuovi prezzi di mercato. Anche se è possibile che questo processo sia dovuto in parte a un difetto di domanda causato dalle restrizioni monetarie e fiscali che accompagnano la liberalizzazione, non vi è dubbio che il fenomeno dell'aggiustamento dell'offerta è preminente. La ripresa della crescita del PNL segnala il grado di successo della trasformazione. La crescita economica è positivamente correlata con il progresso delle riforme, in cui la liberalizzazione economica è il fattore determinante. Le economie che hanno intrapreso con maggior risolutezza le riforme di mercato e sfidato l'inflazione hanno ripreso più rapidamente la crescita (v. Sachs, 1996, p. 129). Su 26 economie in trasformazione dell'area dell'Europa orientale e della ex Unione Sovietica, a sei anni dall'inizio delle riforme la crescita economica è ripresa in 15. In particolare hanno avuto maggior successo i paesi dell'Europa centro-orientale e i paesi baltici. Il processo di transizione è durato in media 3,6 anni, ha provocato una caduta della produzione media del 33,6%, ma la crescita è ripresa con vigore, con una media del 3,1% nel primo anno (v. Fischer e altri, 1996, pp. 63-64). La caduta della produzione è stata più forte, circa il 50%, e i tempi di ripresa più lunghi nei paesi in cui il processo di riforma è stato più lento e incerto. Tra questi paesi si colloca la Russia nella quale il controllo dell'inflazione si è rivelato difficile.
Mentre non è certo l'impatto della privatizzazione sulla ripresa economica, risulta fondamentale la crescita di nuovi settori privati, in particolare nel campo dei servizi e delle costruzioni, di sviluppo più rapido. Questo conferma l'importanza della reintroduzione dei diritti individuali di proprietà. È stata anche tentata un'analisi dei costi sociali, i cui risultati, però, sono di difficile interpretazione. Per esempio la speranza di vita, che è diminuita in Russia, in Ucraina e in Ungheria, soprattutto nelle fasce maschili di età media, è aumentata nella Repubblica Ceca, in Slovacchia e in Polonia. La trasformazione è ancora lungi dall'essere compiuta: sono ancora molto alte le spese pubbliche, mentre la tassazione non è adeguata, né per struttura né per risultati, alle esigenze di spesa, l'apparato creditizio e finanziario resta fragile e la ripresa industriale è condizionata dagli alti tassi di interesse e dalle politiche bancarie di investimento di breve periodo. Quanto più marcata è la dipendenza della crescita dalle esportazioni e dagli investimenti stranieri, tanto più queste economie risultano esposte alle fluttuazioni economiche. Se la ripresa della crescita indica la vitalità di questi sistemi, la complessità del processo di cambiamento istituzionale segnala che i tempi della trasformazione saranno lunghi. Nei paesi più lenti i tentativi di restaurazione, l'incertezza politica, l'instabilità istituzionale possono anche causare gravi cambiamenti di rotta. Per assumere validità scientifica il modello della transizione ha bisogno di essere fondato su premesse teoriche ed empiriche più robuste, che solo l'esperienza potrà fornire in tempi lunghi.
Nella formazione dei sistemi economici e nel dibattito scientifico ha contato anche il confronto di idee e di valori, e non solo di interessi.
La crescita del fondamentalismo islamico - con un corpo abbastanza ben definito di prescrizioni e interdizioni che, qualora rigidamente applicate, impedirebbero l'evoluzione capitalistica dell'economia di mercato - si è accompagnata al tentativo di teorizzare un modello economico islamico in cui trovino posto insieme efficienza e solidarietà universale, nella ricerca di una terza via tra socialismo e capitalismo. Sebbene il Corano dia spazio sia alla proprietà privata che al mercato, una consistente corrente del pensiero economico islamico è in favore della redistribuzione radicale dei redditi e di limitazioni alla proprietà privata. L'interesse è strettamente proibito e la necessità che a questa regola siano tenute anche le banche estere ha trovato sostegno negli ambienti religiosi e nell'assunto che il programma islamico non può funzionare se applicato in maniera disarticolata (v. Chapra, 1992, p. 226). L'abolizione dell'interesse è praticata dall'Iran, dal Pakistan e dal Sudan.
L'Iran, Stato confessionale sciita, fornisce un esempio del tentativo più radicale di realizzazione dei principî islamici e, insieme, del loro fallimento pratico. La fase rivoluzionaria ha visto la nazionalizzazione delle banche e dell'industria iniziata nel 1979; la radicale redistribuzione del reddito, che ha portato in un paio d'anni il rapporto tra quintile urbano più elevato a quintile più basso da 12,9 a 9,1 e quello rurale da 11,7 a 8,5; l'introduzione di principî di tassazione islamici con il pagamento effettivo delle tasse alle autorità religiose; una legislazione pronatalista e repressiva nei confronti del lavoro femminile. Tuttavia tra il 1980 e il 1988 il reddito reale pro capite diminuisce di un quarto anche sotto la spinta demografica, la distribuzione del reddito torna a essere ineguale e anzi nelle campagne peggiora rispetto al periodo prerivoluzionario, mentre la corruzione cresce con le politiche di controllo del tasso di cambio e del commercio internazionale. La possibilità che l'utopia politico-religiosa non riesca a individuare e realizzare un programma fattibile di riforme e che ciò porti a tentativi di una maggiore repressione di idee e movimenti alternativi (v. Kuran, 1993, p. 332) non può essere ignorata. Sono imprevedibili i possibili effetti internazionali e l'impatto su alcune economie in trasformazione di una maggiore e più diffusa radicalizzazione del pensiero islamico. Poiché gli obiettivi perseguiti - efficienza, crescita ed equità - sono simili a quelli di altri sistemi economici, è solo sulla base dei risultati comparati che potrà essere fatta una valutazione serena di questo possibile modello.
All'indomani del crollo dei sistemi socialisti il politologo americano Francis Fukuyama concluse che la storia dimostra la debolezza degli Stati forti e l'inevitabile progressione verso la formazione di economie liberali. Nella visione del mondo di Fukuyama i differenti paesi sono come i vagoni di un unico treno che corre verso la città e finirà prima o poi per arrivarci, anche se qualche vagone andrà distrutto nel percorso, alcuni usciranno fuori dai binari per un tratto e altri rallenteranno. Fukuyama, però, avverte anche che se venisse a mancare una giusta causa per cui lottare potrebbe sorgere una nuova lotta contro la giusta causa. Se la maggior parte del mondo è piena di democrazie liberali e prospere, è possibile che la lotta risorga contro la pace e la prosperità e contro la democrazia (v. Fukuyama, 1992, pp. 330-339). Estrapolando dal pensiero politico, ci si può chiedere se tutti i sistemi finiranno per confluire in quello capitalistico, se questo provocherà una rinnovata avversione per il capitalismo e quali forme questo rifiuto potrebbe assumere. Per le significative differenze tra i diversi sistemi capitalistici ci si può anche chiedere quale sistema esercita la maggiore attrazione o dimostra una maggiore vitalità. Una risposta definitiva non può essere data. La vitalità del sistema americano è indiscutibile ed è dimostrata dal successo dell'amministrazione Clinton nell'affrontare i problemi dell'occupazione e della stabilità economica anche in un quadro internazionale sfavorevole, caratterizzato dall'instabilità monetaria, dal forte indebitamento estero dei paesi in via di trasformazione e dalla necessità di porre le basi per l'integrazione economica nordamericana.
Tuttavia l'evoluzione del sistema americano verso un modello che si può definire 'legalista di mercato' per il crescente ruolo del potere giudiziario in materia economica e per la domanda di normative e sanzioni in materia di contratti internazionali, che fa presagire un crescente ruolo dei tribunali internazionali, trova una forte resistenza in altri sistemi. In particolare, è difficile che economie in trasformazione, dotate di apparati istituzionali e meccanismi di applicazione della legge deboli, nella cui crescita conta fortemente l'economia sommersa, trovino dei vantaggi in questa variante o siano in grado di applicarla. Inoltre i risultati degli ultimi anni non sono del tutto smaglianti. Benché negli Stati Uniti l'occupazione sia aumentata, i salari reali sono diminuiti ed è cresciuta la disuguaglianza dei redditi, due aspetti che contribuiscono a incrinare l'immagine del modello americano.
L'obiettivo di una più equa distribuzione dei redditi, non solo da lavoro, resta per molti un obiettivo da perseguire non solo con misure di politica economica, ma anche attraverso vere e proprie politiche di redistribuzione a favore dei cittadini meno agiati e dei paesi poveri. Ma la redistribuzione della ricchezza è più difficile quando le scelte sono determinate dalla classe più agiata, che è anche la più numerosa. Ancora più difficile diventa, quando crescono le disuguaglianze interne, la realizzazione di una politica di redistribuzione internazionale. Sono questi i problemi maggiori che restano da risolvere ed è, probabilmente, su questi problemi che si sfideranno nuovi modelli e nuovi sistemi. (V. anche Autogestione e cogestione; Capitalismo; Corporativismo/Corporatismo; Liberismo; Mercato; Socialismo).
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