SLAVI
. I. Il nome. - Come per i nomi di altri popoli, o gruppi di popoli, così anche per il nome degli Slavi (russo Słavjane, polacco Słowianie, cèco Slované, serbocroato Slaveni e Sloveni, ecc.) sono stati proposti diversi etimi, fra i quali i più noti sono quelli che lo mettono in rapporto con slava "gloria" (e questa derivazione patriottico-dilettantistica va senz'altro scartata, anche per il fatto che l'-a- di Slavi è secondaria) o con slovo "parola", donde Slověnin, quasi "il parlante" "l'intelligibile", in opposizione a Němĭcĭ "il tedesco" ("lo straniero"), originariamente "il muto", "l'incomprensibile" o, forse, "il balbuziente" da němŭ "muto". Però anche questo etimo appare poco convincente, sicché non sorprende che siano state avanzate altre ipotesi: c'è chi vorrebbe mettere il nome degli Slavi in relazione indiretta col tema *kleu̯ ("bagnare", "purgare", cfr. ant. lat. cluo) e in relazione diretta col nome di qualche fiume o lago, derivante da questo radicale (J. Rozwadowski, M. Budimir); altri invece vorrebbe riallacciarlo alla parola polacca słowień (si dice del lino che lentamente matura), attribuendo a Slověninŭ il significato originario di "lento", "pesante" (A. Brückner); altri infine (Masing, A. Stender-Petersen) ritengono che siano stati i Germani a dare agli Slavi il loro nome servendosi del proprio termine *slawōz, che avrebbe avuto il significato di "muto" (cfr. gotico slawan "tacere, essere muto") e donde gli Slavi, attraverso *slovŭ, *slovo-, avrebbero formato Slovjaninŭ (o Slověninŭ) per analogia ai nomi di tribù del tipo poljaninŭ. La forma slava Slověne è stata resa nel bizantino con Σκλαυηνοί e nel latino medievale con Sclaveni; come e perché, accanto a queste forme, siano sorte quelle brevi Σκλάβοι, Σϑλάβοι e Sclavi, Stlavi (donde schiavo, probabilmente dal commercio dei Veneziani con Slavi-schiavi) non è ben chiaro. Certo è che le forme greco-latine con l'-a- hanno influito, a loro volta, su quelle indigene: da ciò l'-a- di Slavjaně, Slaveni, Slavonia, ecc. Ed è anche verosimile che siano stati l'Occidente e la Grecia a contribuire alla generalizzazione, presso gli stessi Slavi, del nome Slověninû, che in origine (il nome appare per la prima volta al principio del sec. VI) designava con tutta probabilità soltanto un gruppo di tribù slave, e forse neanche il più potente. Va rilevato inoltre che i Tedeschi hanno conosciuto gli Slavi anche sotto il nome di Winidi, usato da essi ancora oggi per designare i Sorabi e, nella regione alpina, gli Sloveni (Wenden, Windisch, ecc.); e dai Finlandesi per designare i Russi (Venäjä). Winidi risale a Venedae, Veneti, nome bene noto all'antichità, ma di cui, come si vedrà appresso, non si può dire con certezza che abbia servito, già ai tempi di Plinio e di Tacito, per indicare gli Slavi.
II. Sedi antiche. - Non è possibile, allo stato attuale degli studî, fissare, neanche approssimativamente, le sedi più antiche degli Slavi; cioè quelle sedi nelle quali essi abitarono nel periodo immediatamente successivo al loro costituirsi in un'unità più o meno omogenea per entro alla famiglia dei popoli indoeuropei. E infatti la maggior parte degli studiosi rinuncia al tentativo di risolvere questo problema che è intimamente connesso con quello più ampio, e altrettanto insoluto, della sede primitiva degl'Indoeuropei; e si accontenta di cercare la dimora degli Slavi prima della loro espansione all'ovest, sud e est. Eppure, anche così delimitato, il quesito presenta difficoltà grandissime e in parte, per ora almeno, insormontabili. Parecchi dei criterî che via via sono stati applicati per risolverlo sono dimostrati fallaci, altri hanno un valore e una portata puramente relativi, altri ancora attendono, sulla base di ricerche più approfondite, una formulazione più precisa. Ma la più grande, l'iniziale, difficoltà dipende dalla mancanza assoluta di sicure notizie dirette, risalenti ai primi secoli d. C. L'antichità classica non ci ha trasmesso neanche una testimonianza che con certezza possa essere riferita agli Slavi. Che i Neuri, menzionati da Erodoto fra i vicini settentrionali degli Sciti, siano stati di stirpe slava non si può né affermare, né escludere. Che i Veneti nominati da Plinio (Nat. Hist., IV, 97: Quidam haec abitari ad Vistulam usque fluvium a Sarmatis, Venedis, Sciris,... tradunt) e da Tacito (Germ., 46: Peucinorum Venetorumque et Fennorum nationes Germanis an Sarmatis ascribam dubito... Veneti multum ex moribus traxerunt, nam quidquid inter Peucinos Fennosque silvarum ac montium erigitur, latrociniis pererrant...) siano stati già ai loro tempi degli Slavi, è opinione molto diffusa e da taluni elevata a certezza assoluta. In realtà essa è suffragata soltanto dal significato che più tardi, come già si è detto, ha avuto questo nome presso i Tedeschi e i Finlandesi: e chi trae da questo indizio una conclusione senz'altro affermativa, rischia di cadere in un errore simile a quello di chi, basandosi sul valore attuale del termine Welsche presso i Tedeschi, Wloch, Vlah (= Italiano) presso i Polacchi e i Cèchi, ecc., volesse dedurre che i Volcae (tribù celtica), dal cui nome tale termine deriva, siano stati, originariamente, degli... Italiani. D'altro lato vi ha un argomento che si può considerare contrario all'identificazione dei Veneti di Plinio e di Tacito con gli Slavi. Tolomeo (Geogr., III, 5, 7) infatti colloca i Οὐενέδαι (che egli, assieme con i Peucini e Bastarni, considera ἔϑνη μέγιστα), πασ' ὅλον τὸν Οὐενεδικὸν κόλπον. Ora non vi ha nessuna traccia di nomi locali slavi intorno al Mare Baltico (che è, appunto, il Οὐενεδικὸς κόλπος) e nessun indizio di altro genere ci permette di considerarli insediati, sia pure per breve tempo, in quelle regioni nordiche. Ma anche se da quanto si è detto risulta più prudente separare i Veneti dell'antichità dagli Slavi, l'importanza delle testimonianze concordi di Plinio, Tacito, Tolomeo (la nota carta di Peutinger colloca però i Venadi Sarmatae più al sud: in Dacia e tra il Danubio e il Dnestr) non riesce affatto menomata. Soltanto i termini si spostano: la successiva estensione del nome dei Veneti (popolazione appartenente al gruppo illirico?) agli Slavi, non era possibile, se non nel caso che essi vivessero in un territorio addossato immediatamente a quello dei Veneti, in una regione, cioè, lontana, ma non molto, dal mare e dalle vie di commercio conosciute al mondo antico (e la mancanza assoluta di testimonianze antiche sugli Slavi diventa, così, anch'essa, un indizio positivo), nella quale, con l'aiuto di argomentazioni di altro genere, dobbiamo effettivamente cercare la presumibile sede antica delle tribù slave.
Ma, abbandonato il terreno delle testimonianze antiche, di regola sfruttabilissimo, ma che nei riguardi degli Slavi si è dimostrato infido, bisogna procedere con la massima cautela. Criterî puramente linguistici possono, certo, fornire qualche elemento utile, ma di regola, col loro aiuto, si giunge solo a conclusioni molto relative e quindi non perfettamente utilizzabili. Così, p. es., il concetto di "isola" è espresso, nelle lingue slave, da due termini ostrovŭ (in rapporto col greco ῥέω) e otokŭ (dal tema tek- "scorrere"), che, per la loro origine, indicano, con tutta evidenza, una zona intorno alla quale scorre l'acqua, cioè un'isola fluviale e non marina. Se ne può dedurre che gli Slavi, all'epoca della formazione di queste parole, non conoscevano il mare e che solo più tardi si sono avvicinati alle sue sponde. Conclusione questa che è tanto più giustificata, in quanto in genere tutta la terminologia marinara degli Slavi è costituita, in parte di parole dapprincipio applicate ad aspetti analogici dei fiumi o della vita sui fiumi, in parte da imprestiti da altre lingue: esempio caratteristico di questo genere è il termine korabĭ "nave", diffuso presso tutti gli Slavi e preso dal greco καράβιον (cfr. caravella). Che korabĭ risalga ad un periodo molto antico, non c'è nessun dubbio; ma in linea generale è un errore riferire ai primi secoli (II-IV) dell'era volgare i termini slavo-comuni, che non appartengono al fondo lessicale autoctono ma che vi sono penetrati provenienti dalle lingue finitime, e soprattutto, dal germanico. Fin giù verso il principio del sec. VIII, cioè fino al periodo in cui l'unità territoriale degli Slavi, pur ingranditasi enormemente, era rimasta compatta, fino a questo periodo, e in parte anche più tardi ancora, parole straniere entrate nello slavo potevano diffondersi in tutto il territorio da esso occupato. Ne deriva che il grande numero di termini germanici - riguardanti in modo particolare le istituzioni sociali, le armi, i mestieri, l'economia e la tecnica delle costruzioni - adottati dagli Slavi, non permettono di trarre alcuna precisa conclusione sull'ubicazione delle loro sedi antiche. Esse dimostrano soltanto che nel periodo, probabilmente posteriore al sec. IV, in cui gli Slavi sono entrati in contatto con la civiltà occidentale, questa è giunta a loro, specialmente nei suoi aspetti sociali e materiali (in quello spirituale-religioso si è fatto sentire presso gli Slavi anche l'ascendente greco e latino prima ancora che essi si fossero avvicinati ai principali focolari della civiltà classico-mediterranea) per l'intermediario di popoli germanici. Quasi completamente inesistenti si sono dimostrate, di fronte a un serrato esame critico, le infiltrazioni di elementi lessicali iranici nel protoslavo, il che non toglie però che le due branche della famiglia indoeuropea possano essersi trovate, in un'epoca non precisabile (la Russia meridionale aveva probabilmente una popolazione in prevalenza iranica dal sec. VIII a. C. fino al sec. IV d. C.), in immediata vicinanza. L'influenza lessicale è indice di una superiorità culturale, di un prestigio politico. Mancando questi, il vocabolario di un dato popolo può restarne completamente immune, come è avvenuto con ogni probabilità del lessico slavo di fronte a quello iranico. Per la stessa ragione è prudente non trarre conclusioni troppo recise dalla mancanza di antichi imprestiti slavi nel finnico (che non vi mancano naturalmente, ma che, per la loro struttura fonetica, non sembrano mai risalire oltre al protorusso). Di ben altro genere è la reale e generale affinità tra lingue slave e lingue baltiche, che ci attesta un'indubbia e lunga prossimità di sedi dei due popoli: ma dati i molti spostamenti delle tribù indoeuropee non è facile precisare, quando e dove - oltre alla vicinanza avvenuta nell'ultimo periodo preistorico degli Slavi - questo intimo contatto abbia avuto luogo.
Molta importanza è stata attribuita, e da taluni ancora oggi si attribuisce, alla mancanza, nello slavo, di nomi indigeni per alcune piante, in primo luogo per il faggio (fagus silvatica). Poiché gli Slavi designano questo albero con una parola di origine germanica - russo, bulgaro, serbocroato bukva, polacco buk (iew), cèco antico bukev, da buky e questo da un germanico *bōkō - si è dedotto che gli Slavi in origine non conoscevano il faggio e che quindi le loro sedi antiche dovevano essere situate al di là del limite orientale fino al quale il faggio prospera. L'argomento appare indubbiamente suggestivo. Sennonché anzitutto i botanici non sono affatto d'accordo nel fissare i confini orientali della diffusione del faggio: c'è chi traccia una linea approssimativa Königsberg-Krzemieniec (in Volinia)- Odessa, e chi invece la fissa lungo un percorso che, partendo da Danzica, dopo un ampio arco che si insinua fino ai laghi Masuri volge ad ovest, raggiunge e oltrepassa la Vistola nei pressi di Plock e persino la Warta presso Kolo, per ritornare poi decisamente a sud-est fino alle vicinanze di Leopoli (la divergenza di opinioni rispecchia, almeno in parte, effettive variazioni della zona d'estensione del faggio, secondo il variare, attraverso i secoli, delle condizioni climatiche). In secondo luogo gli argomenti ex silentio non hanno mai valore nettamente probativo e, per quanto riguarda il nome del faggio, basti pensare al francese dove, salvo in alcuni dialetti, è scomparso il termine latino e vi si è sostituito l'imprestito hêtre (dal franco 〈 hestr), senza che, perciò, si possa discutere se la Francia appartenga o no alla zona del faggio. Non è quindi escluso che gli Slavi abbiano effettivamente conosciuto il faggio, pur designandolo da secoli con un imprestito germanico: esso poteva chiamarsi anticamente, come qualcuno ha supposto, grabŭ che oggi indica, nelle lingue slave, il carpine, carpinus betulus (in tedesco Weissbuche o Hagebuche). I dubbî che è lecito avere intorno all'attendibilità delle conclusioni costruite sul carattere non autoctono di buky, scemano, implicitamente, il valore dell'ipotesi che direttamente vi viene connessa: che, cioè, gli Slavi, nel periodo di piena unità linguistica, debbono essersi mossi all'ovest verso la zona ove il faggio cresce, poiché, nel caso contrario, non avrebbero avuto alcun bisogno di dare un nome ad un albero rimasto loro sconosciuto. A parte, però, ogni altra considerazione, va rilevato il fatto che l'imprestito buky non può essere molto antico, poiché esso, partendo da una forma germanica (gotica?) *bōkō presuppone non solo la prima "Lautverschiebung" (*bōkō = lat. fagus, greco ϕαγός, quindi con lo spostamento g 〈 k), ma anche il mutamento di ā in ō che ai tempi di Cesare non era ancora compiuto, come insegna appunto Bacenis silva (Bell. Gall., IV, 10) "bosco di faggi". Con ciò però non si vuol negare ogni valore alla combinazione di indizî linguistici con indizî botanici, soltanto è necessario che le ricerche di questo genere siano estese, e in parte ciò è stato già fatto, ad altre piante e che, vagliati separatamante i casi singoli, si proceda a conclusioni sulla base di ragguagli complessivi. Quanta cautela richiedano simili indagini appare dal fatto che i primi tentativi di questo genere hanno condotto a risultati opposti: mentre gli argomenti botanico-linguistici conducono J. Czekanowski alla conclusione che gli Slavi, prima delle migrazioni, dovevano occupare la parte centrale del bacino della Vistola con in più la parte occidentale del bacino del Bug e una striscia di zona al nord di esso, e all'esclusione della possibilità che la patria degli Slavi possa essere stata l'area più orientale della Polessia e della Volinia; A. Stender-Petersen ritiene che tale "Urheimat" debba essere il territorio che ha per confine occidentale le paludi del Pripet, che raggiunge al sud la zona delle steppe e che all'est e al nord è circoscritto approssimativamente dai fiumi Dnepr e Dvina. Di queste opinioni controverse va ritenuto un risultato concorde, e che anche per altre ragioni può essere considerato positivo: intorno all'inizio della nostra era gli Slavi non abitavano immediatamente al nord dei Carpazî, ma in una zona alquanto più settentrionale.
La questione del limite occidentale della patria degli Slavi si complica inoltre col problema della pertinenza etnografica della cosiddetta cultura lusaziana (v. sorabi) che abbraccia un periodo di quasi un millennio (circa 1400-500 a. C.), che si estende, con notevoli spostamenti tra un periodo e l'altro fino all'Elba ad ovest e fino in Volinia ad est, e che ha per centro il bacino dell'Oder. Ci fu un tempo, non ancora superato del tutto, in cui i preistorici tedeschi attribuivano questa cultura ai popoli germanici, mentre quelli Slavi (Cèchi e Polacchi) la rivendicavano per gli Slavi o per il gruppo slavo-baltico. Oggi gli studiosi tedeschi sempre più inclinano a considerarla illirica (il che concorderebbe con l'ipotesi dell'origine illirica dei Veneti), mentre nel campo slavo c'è parecchia incertezza. Ma a voler spingere tanto ad ovest la patria comune degli Slavi si va incontro a difficoltà che ci sembrano sufficienti a scartare una ipotesi che anche dal punto di vista archeologico si presenta poco attendibile. Anzitutto l'antichità classica non ci ha trasmesso alcun toponimo ad ovest della Vistola che con qualche probabilità possa essere ritenuto slavo: che Calissia, annotata da Tolomeo intorno al 150 d. C., e corrispondente all'odierno Kalisz (città polacca a SE. di Poznań), derivi dallo slavo kalŭ "fango" è tutt'altro che sicuro. Inoltre gli Slavi in un terreno così occidentale sarebbero entrati in contatto coi Celti che in questo caso avrebbero lasciato tracce indubbie della loro superiorità culturale nel lessico slavo: tracce che invece, ad onta di ripetute ricerche, non sono state scoperte. Ma quel che più importa, è la mancanza di notizie sicure sugli Slavi durante tutta la antichità: mancanza che sarebbe molto strana, se gli Slavi avessero abitato un territorio col quale i Romani erano entrati certamente in rapporti commerciali. È necessario, perciò, cercare la patria degli Slavi in una zona isolata, difficilmente accessibile, che giustifichi anche, per questo suo isolamento e per la sua non eccessiva estensione, la scarsissima differenziazione dialettale dello slavo comune e il suo carattere eminentemente conservativo. Tutto porta a credere che questa zona sia stata appunto la Polessia con le sue paludi e la Volinia, situate proprio ai margini, di fronte all'est e di fronte all'ovest, delle antiche vie di comunicazione tra il Mar Baltico e la Boemia da un lato, il Mar Nero dall'altro. Naturalmente, nulla vieta di supporre che tanto ad ovest, quanto ad est gli antichi confini slavi abbiano oltrepassato alquanto i limiti di queste due regioni.
Una delimitazione precisa dei confini verso oriente presenta però non minori difficoltà che verso occidente. Recenti studî di M. Vasmer cominciano ad apportare un po' di luce (soprattutto sulla base di ricerche toponomastiche) sulla configurazione etnografica dell'Europa Orientale. In attesa che essi siano condotti a termine, si può dire che gli Slavi devono esservisi trovati a contatto, a S. e a SE. con popoli iranici, al N. con popolazioni baltiche, al N. e NE. con tribù finniche che in epoca antica abitavano le regioni di Mosca, Tver′ e Kaluga. Non è escluso quindi che gli Slavi abbiano abitato, prima ancora di aver iniziato la loro espansione, anche in tutta la parte occidentale del bacino del medio Dnepr.
Questa regione - e l'obiezione non è certo da scartare senz'altro - sembra a qualcuno troppo ristretta, perché movendo da essa gli Slavi abbiano potuto occupare enormi territorî dell'Europa orientale, centrale e meridionale. Conviene però tenere presente che buona parte di questi territori era rimasta per lungo tempo scarsamente abitata, che gli Slavi sono penetrati, per lo meno in parte, in zone quasi completamente abbandonate dalle popolazioni precedenti e che quindi, pur diffondendosi su un'area vastissima, non avevano bisogno di masse eccezionalmente grandi per occuparle e colonizzarle. E si noti infine che, p. es. nella regione tra l'Oder e l'Elba, essi non dovevano essere molto numerosi, se la controffensiva germanica ha potuto, nel corso di pochi secoli, assoggettarli completamente e assorbirli in buona parte.
III. Espansione territoriale degli Slavi. - Per quanto ipotetica possa essere nei suoi limiti precisi la zona entro la quale abbiamo cercato di fissare le sedi antiche degli Slavi, una cosa è ormai fuori discussione: essi non sono autoctoni per lo meno in quattro quinti del territorio che occupavano nel periodo della loro maggiore estensione, cioè tra i secoli IX e X. L'autoctonismo degli Slavi nelle regioni tra l'Oder e l'Elba e persino al di là dell'Elba; nella Baviera settentrionale e nella zona alpina; in Pannonia e nella penisola balcanica - questo autoctonismo, cosi caro ai romantici slavi - è oramai definitivamente relegato fra le leggende. Di tanto in tanto riappare ancora qualche dilettante isolato che invano si sforza di ridare al suo rimpianto una consistenza storica; ma ogni seria polemica è ormai cessata da decennî e la voce dei pochi isolati non trova più alcun credito. Ma, quasi a difesa delle ultime posizioni degli "autoctonisti", è sorta un'ipotesi di compromesso, della quale si è fatto campione, specialmente nei riguardi degli Slavi Meridionali, il benemerito studioso delle antichità slave L. Niederle. Egli considera la presenza di Slavi nelle regioni del Danubio e della Sava come probabile nei secoli I e II, e come sicura nel periodo immediatamente seguente, tra il sec. III e il V. Che queste affermazioni del Niederle possano contenere un nocciolo di verità, può anche darsi. Ma non si può fare a meno di rilevare che tutti gli argomenti che egli apporta a suffragio della sua tesi risultano o molto dubbî, o addirittura erronei. Così, p. es., la voce μέδος, usata da Prisco (in Müller, Fragmenta hist. gr., IV, 69) per designare una bevanda di miele, offertagli, durante l'ambasciata che l'imperatore Teodosio mandò nel 448 ad Attila, da una popolazione che egli identifica con gli Sciti, sarebbe, secondo il Niederle, lo slavo medŭ e comproverebbe quindi la presenza di Slavi in mezzo agli Unni. Ma μέδος, data la diffusione della voce nelle lingue indoeuropee, potrebbe anche essere illirica; e, data la facilità con cui un termine di questo genere migra da paese a paese, può essere un imprestito, sulla cui provenienza nulla si può asserire di sicuro. Il Niederle, però, appoggia la sua tesi dell'esistenza di popolazioni slave sottomesse agli Unni, con un altro termine: strava, rito funerario celebrato alla morte di Attila, di cui ci dà notizia Giordane (Get., 49: postquam talis lamentis est defletus, stravam super tumulum eius, quam appellant ipsi, ingenti commessatione concelebrant). Poiché ancora nel sec. XV i Cèchi e i Polacchi designavano con la stessa parola lo stesso uso (il banchetto funebre), il carattere slavo della strava sembra evidente. Ma è stato giustamente osservato che, se il termine fosse slavo, Giordane avrebbe sentito sŭtrava (donde appunto deriva strawa in polacco e in cèco) e non strava; d'altro lato anche qui non è escluso che si tratti di un imprestito (dallo slavo?) nella lingua degli Unni. Comunque sia, questi due termini ci riporterebbero al sec. V e non è naturalmente escluso che alle costanti migrazioni di popoli settentrionali dai paesi transcarpatici verso il Danubio - migrazioni iniziate già nel primo secolo e susseguitesi d'allora in poi senza interruzione - abbiano partecipato anche piccole masse isolate di Slavi: ma si tratta di una ipotesi, plausibile in sé, per la quale però non si possono addurre prove sicure di nessun genere. Non testimonianze dirette di scrittori antichi, poiché essi ignorano completamente gli Slavi e nulla ci autorizza a scoprirli, come vorrebbe il Niederle, sotto la denominazione di Sarmatae Limigantes, o Servi Sarmatarum, noti a Ammiano Marcellino, a Eusebio ed altri storici. Non la toponomastica, poiché la serie di nomi di luogo, attestati nei documenti dei secoli I-IV, che dovrebbero provare con certezza assoluta, la presenza degli Slavi, già in questo periodo, nella regione intorno al Lago Balaton, la Sava inferiore e il Banato meridionale, non dimostra nulla, trattandosi di nomi il cui carattere slavo è puramente illusorio: Pathissus, nome antico del Tibisco, non è composto col prefisso slavo po-, poiché in tale caso (*Pa-tisĭje) designerebbe la regione intorno al fiume e non il fiume stesso; i nomi antichi degli afluenti del Danubio e del Temesz Διέρνα (o Tsierna) e Bersovia non sono slavi, ma più probabilmente di origine dacia o tracia, e solo più tardi, per effetto di etimologia popolare (sempre ammesso che ci sia tra i nomi antichi e quelli moderni una continuità etimologica), sono stati avvicinati agli aggettivi *cĭrnŭ "nero" e *bŭrzŭ "rapido" e trasmessi, come tali, dagli Slavi agli Ungheresi: Cserna, Berzava e ai romeni Cerna, Bărzava. Osservazioni e critiche analoghe si possono fare a proposito degli altri toponimi citati dal Niederle a sostegno della sua tesi sulla presenza degli Slavi nella regione danubiana prima del sec. VI.
E su per giù, quanto si è detto intorno alle scarse probabilità di una discesa degli Slavi al sud dei Carpazî prima del sec. VI, andrebbe ripetuto nei riguardi dell'affermazione del Niederle che gli Slavi siano arrivati nella Germania orientale "per lo meno già nel sec. II o nel III". L'argomento principale che egli adduce (a parte la sua tendenza generale verso un compromesso in favore degli "autoctonisti", e la sua avversione ad ammettere la possibilità che la grande espansione degli Slavi possa essere avvenuta quasi improvvisamente e sia stata effettuata partendo da un territorio relativamente ristretto) è il fatto che molte denominazioni di tribù germaniche, di montagne e di fiumi - germaniche o pregermaniche che siano - sono state trasmesse agli Slavi: così Śléża (donde Slesia) dalla tribù dei Silingii, Rujane da Rugii, Laba da Albis (Elba), ecc. Poiché tale trasmissione di nomi non sarebbe potuta avvenire, se non dopo un certo periodo di convivenza o di vicinato tra popoli slavi e popoli germanici, e poiché, p. es., i Silingi e i Rugii erano partiti dai loro territorî al più tardi nel sec. IV, ne deriva, per il Niederle, la necessità di far giungere gli Slavi in queste regioni molto prima del sec. VI. Ma qui le conclusioni si basano su premesse false, in quanto è evidente che le regioni abbandonate dai Germanici non saranno rimaste completamente deserte; e anche se ciò fosse avvenuto, bisogna pure ammettere che gli Slavi potessero avere qualche notizia di quei fiumi o di quelle tribù anche prima di giungere proprio sul posto.
Come e quando esattamente si sia svolta la marcia degli Slavi dalle terre ad est della Vistola sino alla Germania occidentale, è un mistero che nessun documento ci aiuta a chiarire. Le testimonianze storiche si riferiscono quasi senza eccezione a un periodo nel quale, compiuta la vasta espansione verso l'ovest, gli Slavi avevano già occupato le loro nuove sedi. Nell'epoca della loro massima estensione gli Slavi occidentali avevano raggiunta una linea che seguiva approssimativamente il seguente percorso: dal Golfo di Kiel, Amburgo (in una lettera del papa Niccolò I dell'864 Amburgo è localizzata "in confinibus Sclavorum et Danorum atque Saxonum", mentre nell'845 Prudenzio di Troy chiama la città addirittura "civitas Sclavorum"; v. Mon. Germ. Hist., Script., I, 441), alla città e alla regione di Lüneburg al di là dell'Elba, e all'affluente dell'Elba Ilmenau, da qui direttamente al sud, attraverso l'Aller - affluente della Weser -, fino alle vicinanze di Brunswick. Qui il confine estremo degli Slavi piegava a est verso il gomito che l'Elba fa nei pressi di Magdeburgo per seguire, salvo qualche sporadica colonia, spinta ancor più ad est, la Saale (la regione di Saalfeld in Turingia è detta regio Sclavorum in un documento del 1075; Mon. Germ. Hist., Script., V, 238), entrare poi presso Bamberga nell'alto bacino del Meno e raggiungere il Danubio presso Ratisbona. Lungo il Danubio non c'erano, a quanto pare, colonie compatte di Slavi che riappaiono, molto più a SE., vicino a Linz, dove però gli Slavi occidentali s'incontrano di già con gli Slavi meridionali.
Per entro a questo ampio territorio l'occupazione slava non era ovunque allo stesso modo intensa. Sintomatico è, per es., il fatto che antichi nomi di luogo germanici mancano nella regione tra la Vistola e l'Oder, mentre non sono affatto rari (p. es. Brandenburg - il nome slavo Branibor è un'invenzione tardiva - Havelburg, ecc.) nella regione ad ovest dell'Oder. D'altro lato, laddove mancano espliciti accenni nei documenti e presso gli storici tedeschi dell'epoca, la presenza degli Slavi non è sempre sufficientemente accertata. I due argomenti sui quali, in tali casi, ci si basa soprattutto non sono sicuri: l'uno, la formazione dei villaggi (i Runddörfer), può rappresentare un tipo slavo d'origine, ma importato anche in zone non propriamente slave; l'altro, i toponimi, non sono sempre esattamente analizzabili nei loro temi, e possono indurre in errore con le loro desinenze che spesso sono slave soltanto in apparenza. Non è quindi escluso che studî più approfonditi sulla colonizzazione degli Slavi modifichino in qualche punto la linea, sopra tracciata, della massima estensione degli Slavi.
Va da sé che un territorio così vasto non poteva essere occupato da un solo popolo slavo ed effettivamente la Germania slava appare tra i secoli IX e X abitata da diverse tribù, o gruppi di tribù, alle quali però non di rado è applicato anche il nome collettivo di Sclavi o Sclavini. I principali tra questi gruppi di tribù sono: 1. i Pomerani, abitanti tra il Mare Baltico (donde il loro nome Pomor′ane, gente marittima, da po- "lungo" e morě "mare"), l'Oder, la Netze e la Vistola (e in parte anche ad est della Vistola). Etnograficamente dovevano formare un gruppo compatto, poiché nel loro territorio non è segnalata la presenza di alcuna tribù, con un nome individuale. 2. i Veleti, Veletabi (detti anche Wilzi; il nome è di origine slava, e significa "i grandi, i giganti", cfr. russo antico velet, volot; Wilzi rappresenta una forma germanizzata del nome che non ha nulla a che fare con wilk "lupo") o, più tardi, Liutizi. Le loro sedi si trovavano ad ovest dell'Oder fino al fiume Warna. Erano suddivisi in moltissime tribù, ma ciò nonostante, per il loro temperamento battagliero, hanno dimostrato in certo momenti della loro storia, breve e movimentata, la più forte organizzazione guerriera. Oscillanti, talvolta, nella politica, erano, fra gli Slavi al di là dell'Oder, i più attaccati ai loro culti antichi: al loro gruppo apparteneva la tribù dei Retrani o Retharii, nel cui territorio si trovava il centro del culto slavo-pagano; 3. i Rani o Rugiani, abitanti dell'isola di Rügen, in slavo Rujane; piccola tribù indipendente e forte, celebre per le sue piraterie; 4. gli Obotriti, stabiliti nel Meclemburgo occidentale e nel Holstein; 5. i Polabi e i Drevani, stanziati lungo le due sponde dell'Elba (donde il nome dei Polabi), tribù senza alcuna importanza politica; 6. i Sorabi, forse il gruppo più numeroso, ed etnicamente abbastanza compatto, situato al nord delle montagne di Boemia, all'est del Bober e dell'Oder fino a Francoforte, al sud di una linea che congiunge Francoforte col punto in cui la Saale sbocca nell'Elba, ad ovest della Saale. Fra le tribù che ne facevano parte, le più forti erano quelle dei Lusaziani e dei Milziani.
Una tendenza all'unione di tutti questi popoli non si è mai verificata; non solo, ma in alcuni momenti importanti della loro storia essi hanno lottato gli uni contro gli altri. La loro debolezza e la forza dei tedeschi ha causato il loro sfacelo; la sistematica colonizzazione tedesca il loro quasi completo assorbimento. Il processo, iniziatosi nel 789 con un attacco di Carlomagno contro i Veleti - e Carlomagno si valse allora dell'aiuto degli Obotriti e dei Sorabi - non è ancora giunto a compimento: resti di Polabi hanno conservato la loro lingua, o per lo meno il ricordo di essa, fino a tutto il secolo XVIII, e oggi ancora esistono forti nuclei di Sorabi (v.) oltre a un più piccolo nucleo di Slovinzi nel circondario di Stolp in Pomerania (i Kasciubi [v.] si trovano in contiguità territoriale coi Polacchi ed entrano sempre più a far parte della nazione polacca). Ma già durante la dinastia sassone la sottomissione dei Sorabi era un fatto compiuto; i Veleti resistettero sino al sec. XII e anche gli Obotriti salvarono in parte la loro indipendenza fino a quest'epoca; lo stato dei Rani fu occupato nel 1169 dai Danesi; in quanto ai Pomerani la loro sorte rimase per lungo tempo legata a quella della Polonia.
La storia di queste tribù si risolve così in tre momenti salienti: il loro diffondersi pacifico in territorî rimasti disponibili e presso che disabitati dopo l'emigrazione di diversi popoli germanici; un periodo più o meno lungo d'indipendenza con rari tentativi di consolidarla con un'organizzazione politico-militare; infine un periodo, anch'esso di diversa durata, nel quale esse accolgono o subiscono la supremazia tedesca, vivono frammisti con coloni tedeschi, accettano dai Tedeschi il cristianesimo, la cultura in generale, e, con essa, pian piano anche la lingua.
A questo processo di graduale disgregazione e assorbimento si sono sottratti, pur non essendone rimasti né sempre né dappertutto interamente immuni, due gruppi di tribù slavo-occidentali: i Cèchi e i Polacchi. Avendo fissato le loro sedi in regioni che erano o troppo lontane dai centri dell'offensiva tedesca, perché questa potesse raggiungerli con un impeto travolgente, o sufficientemente difese da essa per la stessa configurazione geografica, i Cèchi e i Polacchi riuscirono a creare per tempo due forti organismi etnico-statali, sicché, quando l'urto avvenne, essi erano già pronti a sostenerlo e anche a controbatterlo.
Per quale via siano giunti in Boemia i Cèchi, se per l'antica via tra l'Oder e la Vistola, o ripiegando verso il NO., dopo di aver attraversato i Carpazî, non è possibile accertare per la mancanza assoluta di testimonianze e di indizî. Fra le due ipotesi, la più probabile, perché la più naturale, è certamente la prima, tanto più che mancano prove sicure per ammettere, come in parte ancora oggi si sostiene, che i Cèchi, nella loro migrazione, abbiano diviso per un tempo le sorti di un gruppo degli Slavi meridionali. Anche la data del loro arrivo in Boemia è quanto mai incerta. Notizie sicure della loro presenza nella nuova patria non risalgono oltre il sec. VII, ma sia per ragioni storiche (definitivo sgombero della Boemia da parte dei Longobardi nel secolo VI), sia per ragioni linguistiche (alcuni toponimi germanici trasmessi ai Cèchi dimostrano che la cosiddetta seconda Lautverschiebung non era ancora compiuta) è probabile che essi vi siano giunti, assieme agli Avari, verso la fine del sec. VI. L'ipotesi che le popolazioni tedesche che oggi abitano al di qua dei Sudeti possano continuare le antiche popolazioni germaniche, è certamente sbagliata: si tratta, in questo caso, esclusivamente, di colonizzazioni piú recenti. Le prime notizie che si hanno sugli Slavi della Boemia e della Moravia si riferiscono al regno un po' misterioso di Samo (circa 624); poi c'è un lungo periodo privo di qualsiasi testimonianza diretta. Solo più tardi, a partire dal sec. VIII, la tribù centrale, quella dei Cèchi, che ha dato poi il suo nome (e il nome è etimologicamente oscuro, si tratta probabilmente del diminutivo di un nome proprio, forse di Cáslav) a tutta la nazione, s'impone pian piano ad essa grazie all'opera energica e continuata della dinastia dei Přemyslidi. Le altre tribù della Boemia, pur continuando a sussistere ancora per un certo tempo come sottogruppi etnici, non hanno avuto che scarsa influenza politica.
Quasi nello stesso tempo, cioè nel sec. IX, anche le tribù affini, meno numerose, della Moravia si unirono sotto l'imperio dei Mojmiridi; i quali estesero il loro dominio anche su una parte del territorio della Pannonia settentrionale e occidentale. Ma discordie interne e l'invasione dei Magiari posero presto fine all'indipendenza della M0ravia che, dopo varie vicende, fu unita al principio del sec. XI alla Boemia.
Il passato degli Slovacchi è ancora più oscuro. Alcuni fatti sono tuttavia sicuri: l'immigrazione degli Slovacchi nella zona subcarpatica è certamente anteriore all'invasione magiara, come risulta anche da recenti studî toponomastici. Nulla vieta perciò di ritenere che essi abbiano attraversato i Carpazî più o meno contemporaneamente con gli altri Slavi. Quanta parte della popolazione slovacca sia dovuta a sporadiche immigrazioni successive non è possibile accertare. L'ipotesi di qualche studioso isolato che gli Slovacchi facciano parte del gruppo slavo meridionale e che abbiano raggiunto le loro sedi movendo dal SE. è oramai definitivamente scartata. Gli Slovacchi, pur essendo rimasti nel corso della storia separati dai Cèchi e dai Moravi (nel sec. XI essi caddero sotto il dominio dei Magiari) sino ai giorni nostri, sono ad essi, linguisticamente ed etnograficamente, abbastanza affini per formare il gruppo cecoslovacco (in cui il moravo rappresenta, in parte, il ponte di unione tra i due popoli), ma non tanto affini da costituire con essi un'unica nazione.
Come un gruppo etnico ben saldo si presentano invece, sin dal loro apparire nella storia, i Polacchi (il nome deriva da pole "campagna" e significa quindi "abitanti della campagna, della pianura", le forme più antiche sono: in polacco Polanin, conservato tuttora in Wielkopolanin "abitante della Grande Polonia" e Malopolanin "abitante della Piccola Polonia", in latino Polenii, Polenia, ant. franc. Poulaine; più tardi, dal sec. XIII in poi, è prevalso il derivato Col suffisso -ak, donde Polak, it. Polacco; Polonia, franc. Pologne è forma dotta; i Russi Kieviani chiamavano i Polacchi Ljachove, sing. Ljach, che ricorda nella desinenza Čech e il cui etimo è altrettanto oscuro; il termine di lechita, derivato da Ljach, è ora in uso per indicare, in sede scientifica, il gruppo Polacco-Pomerano-Polabo), per quanto anch'essi siano stati suddivisi in parecchie tribù, e le divergenze tra di esse siano rimaste sensibili per molti secoli. Ma la tribù del Polani, abitanti nell'odierna Posnania, ha avuto presto il sopravvento sulle altre, basandosi sulla propria forza militare e sull'energia dei primi Piasti (sec. X-XI) che hanno saputo estendere i confini del giovine stato anche al di là dei limiti etnografici polacchi. L'indipendenza, rimasta più o meno intatta anche nei secoli seguenti, ha avuto un forte sostegno - come del resto, seppure in misura minore, quella dei Cèchi - nell'organizzazione chiesastica, che, appoggiandosi direttamente su Roma, riuscì a paralizzare l'aggressività tedesca. Però anche il territorio strettamente polacco non rimase integro: le terre più occidentali dei Polani e buona parte della Slesia andarono perdute dopo un lento processo di disintegrazione politica e etnografica - le regioni di Glogau, Liegnitz, Breslavia sono già da secoli completamente germanizzate.
Completamente diverse dalle sorti degli Slavi Occidentali sono state, sin dai primordî, le sorti degli Slavi Orientali. Anzitutto essi appaiono nella storia molto prima degli altri Slavi; in secondo luogo la loro espansione verso il nord e verso l'est si è effettuata in mezzo a popoli di razza non indoeuropea, non ha cozzato, salvo un periodo transitorio, contro unità statali fortemente organizzate ed ha avuto, quindi, un successo maggiore e di carattere più continuativo, progressivo. Già nel sec. IV fonti greche e latine nominano gli Anti (Antae, Antes, "Αντες, "Ανται) che, più che il nome di una sola forte tribù, era probabilmente il nome collettivo degli Slavi orientali (l'origine del nome è completamente sconosciuta). Per il sec. VI abbiamo le importanti informazioni di Giordane (Get., 35) "Antes vero, qui sunt eorum (cioè della "Venetharum natio populosa") fortissimi qua Ponticum mare curvatur a Danastro extenduntur usque ad Danaprum" e di Procopio (Bellum Goticum, IV, 4) "καὶ αὐτῶν (Οὐτρουγούρων) καϑύπερϑεν ἐς βορρᾶν ἄνεμον ἔϑνη τὰ "Αντων ἄμετρα ἵδρυνται". Da queste loro sedi intorno al Dnestr gli Anti non si peritarono di scendere nei Balcani e di minacciarvi l'impero romano, ma poi vennero in urto con gli Avari e sin dai primi anni del sec. VII il loro nome scomparve completamente. Che cosa sia avvenuto della popolazione, non si sa; dispersa e soggiogata, essa non fu evidentemente più protagonista di alcun avvenimento degno di essere annotato dagli storici. Contro l'opinione di alcuni studiosi russi e ucraini non è il caso di vedere negli Anti i precursori del futuro stato russo, che sorgerà, a più di due secoli di distanza, su basi completamente diverse e probabilmente in mezzo a popolazione parzialmente nuova, sopravvenuta nel frattempo dall'antica patria degli Slavi. Soltanto allora, con la fondazione di uno stato per opera dei "Russi" della Scandinavia (non soltanto i primi dominatori della "Russia" erano scandinavi, ma scandinavo è anche il nome che essi imposero al loro dominio, cioè alla regione di Kiev; ancora oggi i Finlandesi chiamano gli Svedesi Ruotsi e gli Estoni Rōts, e questo nome pare debba essere messo in rapporto con Roslagen, regione costiera della Svezia, i cui abitanti sono detti oggi Rospiggar, da un più antico rōthsbyggiar, cfr. islandese ródr "costa"; l'attuale denominazione russa è Rossia che risente, nella sua forma, l'influenza del greco ‛Ρῶς), comincia la storia dei Russi che ha quali primi centri Kiev e Novgorod, ambedue posti sulla antica, e ora rinnovata, via di comunicazione tra il nord e il Mar Nero. Nel periodo in cui stava, così, formandosi il primo stato russo (secoli IX-X), gli Slavi orientali avevano già esteso la loro espansione molto al sud e al nord: raggiungendo gli alti bacini del Don e del Volga, l'altura del Valdai, forse il Lago Ladoga (in tutte queste regioni essi si erano diffusi su un territorio che era occupato in parte maggiore da popolazioni finniche e in parte minore dai Baltici), e restando invece parecchio lontani dal mare, dove continuarono a sussistere, ma in un territorio più ristretto, gli Estoni e i popoli baltici. Al sud, a parte le regioni intorno al Dnestr, l'espansione non poté avere uguale successo, poiché la regione tra i corsi inferiori del Don e del Dnepr rimase per lungo tempo ancora teatro d'incursioni di ogni sorta di popoli orientali. Che la popolazione tra il Volga e il Dnestr, tra il Lago Ladoga e il Mar Nero non potesse essere del tutto omogenea e che anche i legami politici non vi potessero essere che molto tenui, è naturale, trattandosi di una zona vastissima, con scarse, difficili e incerte vie di comunicazione. Le tribù slave che vi abitavano erano numerose e alcune di esse anche abbastanza potenti. Intorno a Kiev dimoravano i Poljani (nome identico a quello dei Polacchi; ma l'identità del nome, spesso ricorrente presso gli Slavi, non permette alcuna illazione sull'identità delle rispettive tribù), che avevano per centro la città di Kiev e i Severjani; più al nord abitavano i Drevljani, i Radimiči (l'unione di queste quattro tribù fu il punto di partenza dell'organizzazione dello stato russo), i Dregoviči, i Kriviči e gli Slavi Novgorodiani; più al sud invece le tribù più forti erano quelle dei Chorvati (ancora un nome comune a un'altra tribù slava: quella dei Croati) e degli Uliči o Ugliči. La successiva tripartizione dei Russi in Ucraini, Biancorussi e Grandirussi non è probabilmente in alcun nesso diretto con l'una o l'altra di queste tribù o con gruppi di tribù, ed è dovuta piuttosto al naturale e lievemente progressivo differenziarsi linguistico, culturale e etnografico di popolazioni disperse su un territorio così grande e esposto, con l'andare dei tempi, a svariate influenze culturali e politiche.
Mentre, come si è detto sopra, ci sono tuttora autorevoli sostenitori dell'ipotesi di una discesa degli Slavi nella regione danubiana già ai primi secoli della nostra era, nessuno più ritiene che essi abbiano traversato in grandi masse il Danubio prima dell'epoca in cui la loro presenza nei Balcani è effettivamente segnalata: prima, cioè, del principio del sec. VI. Il valore probativo che hanno in questo caso le testimonianze dirette è tanto maggiore, in quanto le prove della loro presenza al sud del Danubio si susseguono, da allora in poi, con singolare costanza. Gli è che gli Slavi meridionali non erano penetrati in una regione abbandonata o indifesa: la loro avanzata, anziché pacifica, come lo fu quella degli Slavi Occidentali, è disseminata di battaglie, assedî, saccheggi. Nella prima metà del sec. VI essi probabilmente razziarono da soli le diverse regioni della penisola: la Tracia, la Mesia, l'Illiria. Ma poi essi stessi furono assoggettati dagli Avari e continuarono le loro spedizioni sotto la guida di questa forte tribù turco-tatara. Con essi gli Slavi giunsero intorno al 580 fino in Grecia e minacciarono persino, qualche anno dopo, l'Italia settentrionale. Dopo una breve sosta, a cavaliere tra i due secoli, dovuta all'energica controffensiva dell'imperatore Maurizio, gli Avari e Slavi ripresero le loro scorrerie: occuparono buona parte della Dalmazia, distrussero Salona, portarono i loro attacchi anche contro Costantinopoli e passando il mare si spinsero fino in Creta. E intanto pian piano la penisola balcanica, romanizzata in buona parte nella zona occidentale e centrale, e grecizzata nelle terre meridionali, andava popolandosi di genti slave. Ne rimasero completamente immuni soltanto le città dalmate, il littorale del Mar Egeo e la regione intorno a Costantinopoli. Ma anche dalla Grecia, ove si erano installati a diverse riprese, ma non certo in masse grandi, gli Slavi furono presto ricacciati verso il nord; e nell'interno rimasero, un po' dappertutto, forti gruppi di popolazioni romane. Infine anche una parte degli Illirî e Traci, non ancora romanizzati, dovette resistere all'assorbimento, poiché ad essi risale il popolo albanese.
Mentre queste tribù slave, sia pure senza una propria organizzazione politica, prendevano possesso di una gran parte della penisola balcanica, anche le regioni più al nord e all'ovest si andavano rapidamente slavizzando. Nella regione alpina gli Slavi penetrarono in pochi decennî, tra il 590 e il 620; nel centro lungo la Mur fino alle Radstätter Tauern, al nord lungo la Enns fino a Kremsmünster, nel sud lungo la Drava fino a Dobbiaco. Attraversando la Carniola essi si incunearono anche nel Friuli e scesero in una parte della penisola istriana. Ma in una parte di questi territorî essi vennero a trovarsi in una situazione simile a quella degli Slavi che si erano spinti troppo addentro nella Germania occidentale. Senza aver forse mai raggiunto una completa indipendenza politica - avevano anche essi per padroni gli Avari - questi Slavi furono assoggettati dai Franchi alla fine del secolo VIII. E al principio del secolo seguente s'iniziò, anche in queste terre, la colonizzazione tedesca che germanizzò completamente l'Austria Inferiore e Superiore (in quanto esse erano state anteriormente occupate dagli Slavi), la Stiria settentrionale, il lembo orientale del Salisburghese e il nord della Carinzia. Molto avanzato già nel sec. X, questo processo si può considerare terminato nel sec. XIII. E come oggi ancora alcuni toponimi dal tipo Lorch da Lauriacum attestano la sopravvivenza in questa regione (che corrisponde, su per giù, all'antico Noricum) di resti della popolazione romana, così gli unici testimoni di quelle che furono una volta terre slave sono i numerosi nomi locali di origine slava: Graz, Admont, Ausee, Selztal e via dicendo. Dalla sommersione si salvarono soltanto quegli Slavi che erano rimasti più lontani dalle fonti della colonizzazione tedesca, gli Sloveni. E poiché si ha ragione di ritenere che anche le terre più settentrionali fossero, a suo tempo, abitate da tribù molto affini ad essi, tutti questi Slavi alpini vengono generalmente considerati come appartenenti al gruppo sloveno.
Nessun carattere specifico, che nettamente li distinguesse dagli altri Slavi confinanti, avevano probabilmente gli Slavi della Pannonia occidentale - ad ovest del Danubio - che nel sec. IX erano riusciti a creare, ma per breve tempo, un piccolo staterello indipendente nelle vicinanze del Lago Balaton (il nome è slavo, da *bolto, cèco blato "fango, stagno, lago"). È stato invece assodato recentemente, confermando un'ipotesi più antica (ma che si basava sopra tutto sul toponimo Pest che però non sembra essere di origine slava) che gli Slavi intorno al Danubio dovevano appartenere al gruppo bulgaro che di conseguenza aveva, intorno al sec. VIII-IX, la più vasta estensione fra tutti i gruppi slavo-meridionali. Tanto gli Slavi ad est, quanto quelli ad ovest del Danubio furono sopraffatti e assorbiti dai Magiari - nel cui territorio attuale affiorano numerosi relitti toponomastici: Csongrád (čónŭ gradŭ, città nera), Szalánkemén (*slanŭ kamenĭ, pietra salata), ecc.
Le affermazioni di Costantino Porfirogenito (nell'opera De administrando imperio, scritta intorno al 950) sui paesi di origine dei Serbi e dei Croati hanno turbato molto, e turbano ancora, la storiografia di questi due gruppi di tribù slave meridionali. Ma le indagini che vi si connettono, anche se riverniciate con metodi nuovi, non hanno portato ad alcun risultato attendibile; e la regione precisa donde questi Slavi sono discesi nella penisola balcanica resta sconosciuta, come lo è del resto l'origine, in questo senso, di tutti gli altri Slavi. Così pure non è possibile oggi precisare quanta parte abbiano avuto i Serbi e Croati nelle scorrerie dei secoli VI e VII e quanta altre tribù slave, poiché notizie precise sui Croati non risalgono oltre il sec. IX, e più tardive ancora sono le informazioni più antiche che abbiamo intorno ai Serbi. Verso la fine del sec. IX i Croati occupavano un territorio che ha per confine settentrionale la Culpa, al sud il fiume Cetina in Dalmazia, all'ovest la costa dalmata (le cui città rimasero però latine) e all'est una linea non precisabile, ma che penetrava senza dubbio, anche se non profondamente, nell'odierna Bosnia. Entro questi territorî i Croati costituirono uno stato che non fu di lunga durata, ma che nel momento del suo massimo splendore fu forte e temuto.
Al sud dei Croati fissarono le loro sedi i Serbi. Il loro territorio aveva per centro la parte occidentale della Zeta, ma tutt'intorno abitavano certamente tribù molto affini, sicché, costituito il primo nucleo statale, non fu difficile agli accorti Nemagnidi estendere il proprio dominio sulle zone limitrofe.
Di gran lunga più ampio doveva essere il territorio occupato da tribù che, per ragioni linguistiche (come si è visto a proposito degli Slavi, stanziati intorno al Danubio centrale), si considerano appartenenti al gruppo orientale degli Slavi balcanici. Ma anche il criterio linguistico, che del resto non può essere applicato se non su un materiale più o meno recente, non ha, in queste regioni, un valore nettamente probativo, e a tenere distinte le due zone, la "serba" dalla "bulgara", non giova molto neanche l'ipotesi di un'area intermedia abitata in prevalenza, per alcuni secoli, da popolazioni romanizzate. Tuttavia, allo stato attuale degli studî, si può affermare che del gruppo delle tribù "bulgare" facessero parte, oltre agli Slavi della Mesia e della Macedonia meridionale (per questi la prova linguistica inconfutabile è fornita dai caratteri peculiari del paleoslavo) anche quelli dispersi nella Pannonia orientale, in Dacia e, per un periodo breve, in Grecia. Per alcune di queste regioni ci sono stati tramandati i nomi delle tribù che vi abitavano, ma nessuna di esse è messa dagli storici in particolare rilievo. E infatti il processo di unificazione statale degli Slavi balcanici orientali è opera non già degli Slavi stessi, ma, verso la fine del sec. VII della tribù dei Bulgari d'Asparuch. Classe dominante, ma indubbiamente poco numerosa, questi Bulgari, affini agli Unni, non tardarono ad assimilarsi, linguisticamente e culturalmente, agli Slavi: essi imposero però il loro nome allo stato che avevano creato e consolidato e alle tribù slave che lo componevano.
Colonie disperse di Slavi, formate forse anche da prigionieri di guerra, segnalano infine, nei secoli VI-X, scrittori bizantini in Bitinia, Cappadocia e Siria. Si trattava però solo di piccoli nuclei presto scomparsi fra le popolazioni indigene dell'Asia.
IV. Religione. - Fonti sicure della mitologia slava sono estremamente rare e tenui. Ciò nonostante, basandosi su informazioni tarde o comunque malcerte, e più ancora sul folklore slavo, da secoli ormai si tenta sempre di nuovo di costruire un Olimpo slavo e un sistema possibilmente completo di demonologia. Le reazioni a interpretazioni superficiali e a rapide generalizzazioni non sono mancate e, forse, in qualche caso sporadico, esse sono andate anche al di là del segno. Conviene però fissare, sin da principio, alcuni punti fondamentali: quasi tutte le testimonianze, dirette e indirette, che si hanno sulla mitologia degli Slavi, sono posteriori alla loro cristianizzazione e quasi tutte possono, di conseguenza, presentare compromessi tra concezioni pagane e concezioni cristiane; di nessuna divinità slava si può affermare con sicurezza che sia stata comune a tutti gli Slavi e neanche ai tre principali gruppi degli Slavi: orientali, occidentali, meridionali; è probabile, anche se non è del tutto sicuro, che nel periodo unitario il culto degli Slavi non conoscesse templi né statue, e che la loro introduzione successiva dipenda da influenze straniere. Da quanto si è detto risulta che di tutti i grandi popoli indoeuropei la mitologia degli Slavi ha avuto il minore sviluppo; né a infirmare questa affermazione basterebbe ricorrere al fatto che le testimonianze sui culti slavi possono anche risalire a un periodo in cui essi si trovavano già in piena decadenza, poiché ciò sarebbe contraddetto sia dalle scarse notizie che ne abbiamo, sia dalla mancanza di documenti archeologici di un preteso più rigoglioso paganesimo slavo.
Le fonti scritte degne di fede che abbiamo sui culti pagani degli Slavi appartengono a due categorie diverse: un gruppo si riferisce ai Liutizi e risale a scrittori tedeschi (e la loro autorità non può essere considerata indiscutibile, poiché scarsissima era la loro conoscenza della vita e della lingua slave), l'altro gruppo riguarda i Russi e si trova in testi russi antichi, soprattutto nella cosiddetta Cronaca di Nestore (sec. XI; v. nestore annalista), che, nei brani rispettivi si basa a sua volta sui Contratti (svody) conclusi coi Greci. Nessuna notizia veramente attendibile si ha dalle terre cèche e polacche e nessuna in generale dalla Slavia balcanica. A quest'ultima si riferisce, invero, il famoso brano di Procopio che, risalendo al secolo VI - cioè ai primissimi contatti del mondo bizantino con gli Slavi - parla del monoteismo degli Slavi e della loro adorazione dei fiumi, delle ninfe e di altri demoni ("ϑεὸν μὲν γὰρ ἕνα, τὸν τῆς ἀστραπῆς δημιουργὸν ἁπάντων κύριον μόνον αὐτόν νομίζουσιν εἶναι... σέβουσιν μέντοι καὶ ποταμούς τε καὶ ϑύουσι αὐτοῖς ἅπασι..." De bello Gothico, III, 14, 23), ma la sua narrazione ha un'impronta palesemente retorica e il Dio creatore della folgore e padrone di tutti vi è certamente stilizzato sul modello di Zeus.
Considerarlo come un primo accenno a Perun, divinità nota agli antichi documenti russi e che probabilmente vi indicava la folgore demonizzata, è una supposizione parecchio arbitraria. Infatti, quanto sappiamo di Perun non è molto, ed è limitato in realtà a un breve periodo (900-990) della Russia kieviana e novgorodiana (al di là dei suoi confini Perun, Piorun, ecc. è attestato non già come divinità, ma come nome proprio, o, per mezzo di derivati, come nome di luogo; ma in questi casi può trattarsi, e con maggiore probabilità, di riferimenti o derivazioni dal nome comune perun "tuono" che fino ad oggi, nella forma piorun, si è conservato nel polacco). Qui in alcune formule di giuramento, facenti parte di contratti, e in alcuni brevi racconti sull'erezione e successiva distruzione di idoli pagani, il dio Perun appare ora solo ed ora in compagnia di altre divinità, evidentemente meno importanti. Ma la questione, insoluta, della diffusione del culto di Perun, si complica con quella del suo autoctonismo: Normanni-Varjaghi erano in massima parte i dignitarî kieviani, e caratteristiche proprie ai Normanni, adoratori di Thor, dio del fulmine e vendicatore dell'infrazione dei giuramenti, rivela la formula del loro giuramento. Né qui si arrestano le difficoltà sull'importanza che si ha da attribuire a Perun; il suo nome e anche i suoi attributi non possono essere separati da quelli di Perkunas, divinità lituana e in genere baltica (percunis nell'antico prussiano e perkůns nel lettone significano "tuono") e questa a sua volta è certamente connessa con la scandinava Fjorgyn, madre di Thor. Ma quale possa essere il rapporto tra questi nomi pressoché identici di tre popoli diversi non è possibile precisare (v. Perun): anche l'ipotesi che il nome e il culto di Perun siano di origine straniera non è senz'altro da scartarsi.
Più enigmatico ancora è Volos che appare nei Contratti e nella Cronaca come dio del bestiame. Non è escluso che non sia da vedervi null'altro, se non S. Biagio (in russo Vlas e Volos): si tratterebbe, in tale caso, di un culto cristiano paganizzato. Ma la forma Veles che si riscontra in documenti seriori fa sorgere il pensiero che Volos non ne sia che una variante e che questa forma secondaria incontratasi con Volos-Vlas (da Blasius) abbia assunto qualcuno degli attributi del santo di Cappadocia. Ma che cosa sia Veles dal punto di vista etimologico e mitologico, è completamente ignoto. Nelle divinità, menzionate nel cosiddetto "canone degli dei di Vladimiro", dalla Cronaca (ma si tratta di un passo interpolato e deteriorato, e quindi male utilizzabile) non figura né Volos, né il nome di un'altra divinità Svarog, Svarožič che si riscontra invece in una glossa, inserita nella traduzione slavo-russa della cronaca di Malala (e da lì passata in due copie della Cronaca di Nestore) e in un altro testo Slovo nekoego Christoljubca (Detto di un amante di Cristo) le cui copie più antiche risalgono ai secoli XIV-XV. Eppure questo Svarog-Svarožič, che nei testi viene associato a "Ηϕαιστος e che può essere stato il dio del sole e del fuoco (etimo?), ha una grande importanza nella mitologia slava, perché è l'unica divinità che si riscontri in due regioni diverse, senza che tra di esse si possa supporre un nesso diretto. Esso, infatti, secondo la descrizione che Thietmar (principio del sec. XI, Mon. Germ. Histor., Script., III, 723 segg.) ci ha lasciato del grande tempio di Rethra, nella terra dei Liutizi, "prae ceteris a cunctis gentilibus honoratur et colitur". Ma per quanto abbia ragione A. Brückner d'insistere su questa coincidenza - che potrebbe essere casuale soltanto ammettendo l'esistenza di un appellativo diffuso svarog o un'influenza nordica indipendente presso gli Slavi del Meclemburgo e gli Slavo-normanni di Kiev - bisogna guardarsi anche qui da conclusioni esagerate, come quella di L. Niederle che fa di Svarog-Svarožič, insieme con Perun e Veles-Volos, una "divinità comune a tutti gli Slavi". E meno ancora si può elevare a dio supremo di un preteso pantheon degli Slavi baltici quello Zvantevith "deus terrae Rugianorum a che, secondo la Chronica Slavorum di Helmhold (sec. XII, 1, 52; II, 12) "multiformia Sclavorum numina prepollet..., utpote efficacior in responsis" e al quale era stato eretto un "simulacrum antiquissimum..., quod colebatur ab omni natione Sclavorum". Non c'è dubbio infatti che qui Helmhold, al pari di alcuni suoi interpreti moderni, esageri parecchio, e che Svantevit, della cui statua sono stati ritrovati i resti negli scavi recenti di Arkona nell'isola di Rügen, sia stato semplicemente una divinità locale (la cui identificazione con altre divinità slave è puramente arbitraria) in una regione che, per opera di una casta sacerdotale, altrove sconosciuta, ebbe, nel sec. XI, una forte ripresa del paganesimo.
Di un paganesimo che nelle credenze popolari, specie degli Slavi orientali e meridionali ha lasciato parecchie tracce di sé attraverso tutto il Medioevo e in qualche punto fino ai giorni nostri: frammisto naturalmente a credenze e riti di origine cristiana. Così i Russi conoscevano esseri mitici femminili, simili alle ninfe, detti bereane (da bereg "sponda" "collina") e più tardi rusalke, rusalije (il nome è in rapporto con la festa pasquale pascha rosarum, rosalia), note anche nei Balcani. Qui però il loro posto è occupato dalle samovile (presso i Bulgari) e vile (presso i Serbi e Croati) conosciutissime nei canti popolari degli Slavi meridionali (qualche notizia se ne ha anche presso i Cèchi), che probabilmente rappresentano gli spiriti delle acque e delle montagne. Accompagnatrici dell'uomo durante tutta la vita e dopo la morte erano le roženice, roždanice, ecc., che sembrano raffigurare il destino.
L'origine delle rusalke e gli attributi delle roženice rivelano l'incrociarsi, presso gli Slavi, di elementi pagani e cristiani. Ora, mentre la cultura pagana degli Slavi dimostra una grande semplicità e primitività ed ha scarsa importanza nella storia della civiltà slava l'introduzione del cristianesimo vi ha avuto invece un'influenza decisiva. Secondo i documenti storici, esso vi è penetrato in un'epoca relativamente tardiva, in confronto alle altre popolazioni europee: presso gli Sloveni e Serbo-Croati a partire dal sec. VIII, presso i Bulgari e i Cèchi nel sec. IX, in Polonia nel 965 e in Russia nel 988; ma non c'è dubbio che in alcune regioni, e specialmente in quelle a contatto coi Tedeschi e gl'Italiani, esso debba risalire, sia pure in maniera sporadica, anche a un periodo anteriore. I principali centri d'irradiazione del cristianesimo nei paesi slavi occidentali sono stati Aquileia, Salisburgo (l'arcivescovado di Salisburgo fu fondato nel 798 quale centro missionario per l'impero degli Avari) e Magdeburgo - e la terminologia cristiana degli Slavi rivela ancora oggi che la sua provenienza è di origine in parte meridionale e in parte settentrionale. Così p. es., križĭ "croce" o kaležĭ "calice" sono certamente di origine neolatina, mentre postŭ "digiuno" è altrettanto certamente di origine tedesca (dall'antico alto tedesco: fasta); per altri e non pochi termini, come kristŭ "croce" cĭrky "chiesa", la provenienza è incerta. Ma ciò che importa è il fatto che, dopo un certo periodo di oscillazione, Cèchi, Polacchi, Sloveni e Croati hanno avuto il cristianesimo da Roma; Serbi, Bulgari e Russi da Bisanzio. Si è prodotta così, nel mondo slavo, a partire dal sec. XI, una profonda scissione che, nonostante ripetuti tentativi di avvicinamento e di "unione", divide ancora oggi gli Slavi, dal punto di vista culturale, in due parti: quella cattolica e quella ortodossa. Il fatto che questa linea di divisione ha potuto separare anche due popoli così affini linguisticamente come lo sono i Croati e i Serbi, dimostra appunto quanto netta e quanto carica di conseguenze sia stata per gli Slavi questa antica bipartizione.
Lingua. - Tra i grandi gruppi di lingue indoeuropee, quello slavo è il più compatto. Vi sono parole che, salvo particolari insignificanti, sono ancora oggi assolutamente identiche in tutte le lingue slave: così, ad esempio, baran "montone", bor "pino", dar "dono", doba "tempo", koza "capra", stopa "piede ", voda "acqua", ecc. Proiettata nel passato, in cui gli Slavi vivevano ancora in un'unica sede tra continui scambî di usi, costumi e commerci, questa stretta affinità si risolve in un'unità, e le diverse lingue slave si riassumono in un'unica lingua: lo slavo comune. La data di origine dello slavo comune non può essere fissata neanche approssimativamente; la cessazione di esso si può invece far coincidere, su per giù, con la dipartita degli Slavi dalle loro sedi antiche e la conseguente separazione di un solo gruppo etnico in parecchi gruppi di tribù. Dopo questo periodo agiscono ancora, e per molti secoli, tendenze comuni ereditate dal passato comune (e come termine ultimo di tali tendenze è stata giustamente riconosciuta la caduta delle semivocali in posizione debole che si è verificata tra il sec. X e il sec. XII), ma dopo il sec. V-VI non si manifestano più nuove tendenze comuni a tutti i dialetti slavi. Alla ricostruzione dello slavo comune, di cui mancano completamente testimonianze dirette, giova non poco il lento mutarsi dei suoi caratteri fonetici, morfologici e lessicali; sicché la più antica tra le lingue slave attestate, il paleoslavo (v.) o veterobulgaro - in cui nel sec. IX furono tradotti parecchi testi sacri -, si può considerare, nel complesso, vicinissima alla lingua che gli Slavi parlavano nei primi secoli della nostra era.
Sarebbe un errore attribuire allo slavo comune una compattezza assoluta, senza lievi incrinature dialettali preannunzianti successivi e più radicali differenziazioni, e senza rapporti, specie nel periodo in cui l'unità slava stava appena costituendosi, con altre lingue indoeuropee. Fra queste il gruppo baltico è quello che maggiormente si avvicina allo slavo, e i rapporti tra l'uno e l'altro sono stati, anche recentemente, oggetto di studî e di discussioni. Queste discussioni sono state un po' falsate dal fatto che, per prevenzioni metodologiche, ereditate dall'antica teoria della genesi di lingue o gruppi di lingue indoeuropee per opera di successive scissioni (Stammbaumtheorie), si è voluto ridurre il problema al dilemma: se cioè si debba supporre l'esistenza di un gruppo indipendente baltoslavo (da inserire tra l'indoeuropeo e lo slavo, o tra un gruppo dell'indoeuropeo, il cosiddetto gruppo satem, e lo slavo) o se invece si tratti di contatti linguistici che non hanno condotto alla creazione di un'unità baltoslava, da contrapporre al germanico, celtico e via dicendo. Ciò che importa invece è la constatazione e descrizione delle innovazioni, comuni ai Balti e agli Slavi (e, ove possibile, la loro precisazione cronologica): esse, per sé stesse, postulano l'ipotesi di una convivenza, o, per lo meno, di un vicinato tra i due popoli.
Le principali concordanze che, in questo senso, conducono all'ipotesi di un'"unità baltoslava", anteriore all'unità dello slavo comune, sono le seguenti: nella fonetica, la fusione delle antiche vocali brevi a e o in un unico suono che era, probabilmente, in origine, å e dal quale successivamente il baltico ha sviluppato un a e lo slavo un o (lat. axis, greco ἄξων, lituano ašìs, paleoslavo osĭ; lat. nox, lit. naktìs, paleosl. noštĭ); le "liquide vocali" ó ì presuppongono, tanto nel baltico, quanto nello slavo, riflessi paralleli ir, ur e il, ul donde, nello slavo comune, âr, ŭr, âl, ŭl (lat. granum, ted. korn, lit. žìrnis, sl. com. *zĭrno; lit. vilkas, sl. comune *vĭlkŭ "lupo"; lettone gurste, sl. com. *gŭrstĭ "manata", cfr. greco-omerico ἀγοστός da *ἀ-γορστός); nella morfologia, la creazione di un genitivo singolare dei temi in -o- (lit. vilko, sl. com. *vĭlka) corrispondente all'antico ablativo (sanscrito vókāt, lat. ant. Gnaivōd); perdita degli antichi imperfetti e perfetti, e creazione, su basi comuni, di nuove forme del preterito.
Ma una sua fisionomia speciale lo slavo ha ottenuto soltanto in un periodo successivo a quello dei rapporti stretti intercorsi tra esso e il baltico. Nel vocalismo questa differenziazione netta dello slavo dalle altre lingue indoeuropee riposa soprattutto sulla creazione di un sistema nel quale le vocali si sono progressivamente adagiate in due serie parallele (nettamente contrapposto a sistemi vocalici triangolari che hanno per apice la vocale a) in cui la prima, quella di a, o, ŭ, y, ï rappresenta le vocali labiovelari; la seconda, quella di ě, e, ĭ, i, é le vocali palatali. Questo nuovo sistema ha avuto per punto di partenza la confusione di a e o sopra menzionata, cui deve essere seguita, a poca distanza di tempo, ma senza più raggiungere l'area baltica, quello di ā e ō in un unico suono che nel periodo storico appare quale ā (gr. δῶρον, sl. darŭ; lat. mater, sl. mati, gen. matere), ma che anteriormente, per ovvie ragioni di parallelismo con o breve da a e o, avrà avuto un suono vicino all'ō. Tale ipotesi sembra confermata dal fatto che anche la terza vocale lunga, non palatale, cioè ū, si è avviata, poco dopo, verso y (cfr. sl. myšĭ, lat. mūs; sl. dymŭ, lat. fūmus) e che più o meno parallelamente tutte le vocali velari divennero palatali dopo l'j (per cui si ebbero le alternanze morfologiche: nom.-acc. sing. *vĭlkŭ, strum. sing. *vĭlkomĭ, strum. pl. *vĭlky di fronte a *krajĭ, krajemi, kraji; neutro selo di fronte a polje; gen. sing. del pron. demonstrativo togo contro jego, ecc.). Oltreché da questa tendenza di sistemare le vocali in due serie - una labiovelare o "dura", l'altra palatale o "molle", - il vocalismo slavo comune è dominato anche dalla tendenza a ridurre in genere la quantità di tutte le vocali (per cui le brevi ĭ e ŭ si assottigliano in semivocali: paleoslavo mŭchŭ di fronte al lat. muscus; dĭnâ accanto al lat. nundinae) e da quella, non meno antica, di aprire le sillabe chiuse (a ὕπνος corrisponde lo sl. com. *sŭnŭ, a plecto pletï). Con quest'ultima tendenza sono congiunte parecchie altre: la semplificazione di tutti gli antichi dittonghi, per cui si ha zima di fronte a χεῖμα, cěna di fronte a ποινή; e più in là ancora: la nasalizzazione di tipo zïbŭ - cfr. γόμϕος, ïzŭkŭ, cfr. angustus-, l'apertura della sillaba nei cosiddetti gruppi tort, tolt, con esiti diversi nelle singole lingue slave ma tutti basati su un unico principio (da un protoslavo *gordŭ si ha, così, paleoslavo gradŭ, serbocroato, slov. grâd, céco hrad, pol. gród, russo gorod; al latino verto le lingue slave rispondono con serbocroato vratiti, pol. wrócić, russo vorotit′, ecc.) e infine l'abbreviazione delle sillabe finali (le desinenze -s, -n, dei nomin. e acc. sing. sono rappresentati in slavo da ŭ: gr. λύκος, λύκον; sl. com. *vĭlkŭ).
Nel consonantismo lo slavo divide con altre lingue indoeuropee la presenza di una sola serie - d, b, g - di occlusive sonore di fronte alla duplice serie, sonore semplici e sonore aspirate, di altre lingue indoeuropee - (si confronti: sanscrito bharami, lat. fero, gotico baira, sl. berï; gr. μέϑυ, sl. medŭ) e l'assibilazione delle antiche prepalatali (gr. καρδία, lituano širdĭs, sl. srŭdĭce; lat. veho sl. vezï). Però tanto nell'uno, quanto nell'altro caso lo slavo concorda con diverse altre lingue indoeuropee. Ciò che invece dà un carattere speciale al consonantismo slavo è l'alternanza k, č, c e g, ž, (d)z (e ad essa si è aggiunta un po' più tardi quella di ch, š, s) dovuta a due successive palatalizzazioni di k e g: la prima davanti alle antiche vocali prepalatali, la seconda dinnanzi a ě o i da un antico dittongo oi. Queste palatalizzazioni, per cui un gostĭ concorda con il got. gasts, ma a quattuor, lit. keturì, si oppone sl. četyre, e a ποινή lit. kaine, sl. cěna - impronta di sé parecchie forme grammaticali. Si ha, così, nel presente, pekï "cuocio", accanto a pečešĭ "cuoci" e pĭci, imperativo "cuoci"; kŭto "chi?" di fronte a čĭto "che cosa?", rïka "mano" e rïčica "manina"; noga "piede", e nožica "piedino", ecc. Oltre a queste alternanze ve ne sono parecchie altre fra le quali la più sensibile è quella di s, š-z, ž ove š e ž risalgono a *sj, *zj e indicano uno dei molteplici effetti della j postconsonantica (nositi: nošï "portare, porto", voziti-vožï "condurre con un veicolo, conduco").
Alla semplicità e chiarezza del sistema vocalico e consonantico dello slavo comune fa riscontro l'estrema complessità e, in alcuni particolari, enigmaticità dell'accentuazione slava. In poche righe non è possibile darne neanche un'idea approssimativa. Si possono, invece, fissarne soltanto alcune caratteristiche principali e che più particolarmente distinguevano lo slavo comune, e in parte ancora distinguono alcune lingue slave, dalle altre lingue indoeuropee. Per quanto l'accento slavo comune dovesse avere una scarsa intensità (lo dimostra il trattamento uguale delle sillabe accentuate e delle sillabe atone), pure già in esso una sillaba aveva, di fronte alle altre, un certo rilievo, e l'accordo tra il russo e il serbocroato (in quest'ultimo bisogna sempre basarsi in linea generale sul čacavico e non sullo štocavico, ove l'accento è stato ritirato di una sillaba; v. serbocroati: Lingua) dimostra che l'accento slavo, in quanto a posizione, corrisponde a quello antico indoeuropeo, rappresentato dal vedico e dal greco (sl. nebo "cielo", sanscrito nábhaḥ, gr. νέϕος). Quest'accento non era legato ad alcuna sillaba e infatti, mentre, per es., il cèco ha fissato successivamente l'accento sulla prima e il polacco sulla seconda sillaba, l'accento russo è caratterizzato da un'estrema mobilità. Ma lo slavo ha ereditato inoltre dall'indoeuropeo anche la duplice intonazione (cioè l'accento musicale) acuta e circonflessa. Essa vi è limitata alle vocali risalenti alle lunghe antiche o ad antichi dittonghi (compresi quelli in r, l o in nasale) e ha carattere ascendente (l'antico accento acuto) o discendente (l'antico circonflesso): tale carattere è riconoscibile ancora oggi dal tipo dell'accento serbocroato e dalla posizione dell'accento russo: così da un antico *vornŭ, con l'accento circonflesso, si ha in russo vóron (la sillaba or con l'accento circonflesso vi è stata allungata in due sillabe che rappresentano le due parti in cui la sillaba primitiva, per riguardo all'accento, era divisa); da *vorna, con accento acuto, si ha invece voróna. Sennonché lo slavo non ha conservato che in parte l'intonazione indoeuropea, e accanto ad essa ha creato nuovi tipi d'intonazione, chiamati metatonie, che sono il prodotto di una retrocessione dell'accento, e che si risolvono di regola in uno scambio d'intonazione sulle sillabe anteriormente non accentate. Da notare ancora, che sia l'antica, sia le nuove intonazioni, sono riconoscibili soprattutto dalle condizioni dell'accento serbocroato (quello štocavico e quello čacavico) che meglio delle altre lingue slave ha conservato le caratteristiche musicali dell'antico accento indoeuropeo, pur avendolo, anch'esso, fortemente alterato.
La flessione nominale slava presenta un carattere estremamente conservativo, e, per quanto nel periodo tra lo slavo comune e le lingue slave odierne parecchi arcaismi (per es., il duale) siano più o meno scomparsi, ancor oggi colpisce la sua grande complessità, ereditata dall'indoeuropeo. Le innovazioni radicali vi sono quindi rare. Va rilevata però l'importanza che, nella sistemazione flessionale del nome, ha avuto il genere: sin dallo slavo comune le differenze nelle declinazioni si basano non più su particolarità tematiche, ma su divergenze del genere. Alla tendenza a costituire tre flessioni, maschile, femminile e neutra, si sono sottratti soltanto i sostantivi maschili in -a e gli antichi temi in -i, rimasti, almeno in parte, indifferentemente maschili e femminili (femm. kostĭ "osso", masch. pïtĭ "strada"). Più particolarmente slava è la confusione del nominativo e accusativo nel maschile singolare, e la conseguente distinzione, su basi nuove, dei generi "animato" e "non animato", in quanto nei sostantivi maschili, designanti esseri "animati", è manifesta la tendenza a esprimere il complemento diretto per mezzo del genitivo. La confusione dei due casi è di origine fonetica (alle due desinenze greche, nom. -ος, acc. ον, lo slavo risponde, come si è detto, con l'unica desinenza -ŭ); l'accoppiamento del genitivo dei nomi maschili animati all'accusativo risale invece, probabilmente, a condizioni speciali del pronome dimostrativo, dove togo ha avuto la duplice funzione di genitivo e di accusativo, offrendo, così, ai sostantivi maschili una via d'uscita dalla molesta identità tra la forma del soggetto e quella dell'oggetto. Il processo analogico è stato indubbiamente molto lento: nello slavo comune esso era ancora in uno stato embrionale, mentre la sua estensione varia, nello slavo moderno, da una lingua all'altra.
Molto meno conservativo è stato lo slavo in rapporto al sistema verbale indoeuropeo. Anzitutto esso ha ridotto i tre modi antichi - indicativo, congiuntivo, ottativo - a uno solo: l'indicativo, servendosi però, nella formazione dell'imperativo, di resti dell'antico ottativo (beri, berěte corrispondono a ϕέροις, ϕέροιτε). Lo slavo ha perduto inoltre l'antico futuro sintetico e vi ha sostituito, con mezzi diversi nelle singole lingue, un futuro composto. In compenso ha creato un nuovo imperfetto per esprimere lo sviluppo di un processo verbale nel passato, e sì è costituito, in maniera indipendente da quella antica, un nuovo e completo sistema di contrapposizione di forme perfettive a forme imperfettive. Questa contrapposizione, nota sotto il nome di aspetto, domina tutto il sistema verbale dello slavo comune e di tutte le lingue slave moderne. Per ogni significato verbale ci sono nello slavo due verbi paralleli, di cui uno esprime il processo verbale inteso nel suo sviluppo (e sviluppo implica durata), l'altro un'azione pura e semplice, senza alcuna considerazione di durata. Le singole coppie sono di regola legate tra di loro dall'appartenenza a un tema comune - e la distinzione si opera con l'aiuto di suffissi, di prefissi o di mezzi formali ereditati da condizioni linguistiche anteriori allo slavo -, ma vi sono anche dei casi in cui la contrapposizione si effettua per mezzo di verbi completamente diversi l'uno dall'altro. Si hanno quindi i seguenti tipi di coppie: "descrivere" forma perfettiva - pol. opisać, russo opisat′, serbocroato opisati; forma imperfettiva pol. opisywać, russo opisyvat′, serbocroato opisivati; - "ritornare", perf. pol. wrócić, russo vorotit′′, scr. vratiti, impf. pol. wracać, r. voročat′, scr. vraćati; "scrivere" imperf. pol. pisać, r. pisat′, scr. pisati; perf. napisać, r. napisat′, scr. napisati; "prendere", imperf. pol. brać, r. brat′, perf. pol. wziâć, r. vzjat′. Accanto a coppie pure, cioè differenziate soltanto funzionalmente (presso a poco come i casi di una declinazione) e non semanticamente, ve ne sono altre, e più numerose, nelle quali alla divergenza funzionale si congiunge anche, per l'effetto del prefisso, una divergenza di significato: così, per es., biti "battere", ubiti "abbattere, uccidere". Il parallelismo delle singole coppie non si estende naturalmente a tutti i tempi: un presente perfettivo non è concepibile, e infatti esso ha nelle lingue slave, con qualche variazione da una lingua all'altra, il valore di futuro perfettivo; d'altro lato è chiaro che i verbi perfettivi non hanno un proprio imperfetto. La posizione dell'aoristo slavo, a giudicare, per es., dal serbo dove esso è ancora vitale, non è, nei riguardi delle categorie dell'aspetto, perfettamente chiara.
Nel lessico slavo comune la parte ereditata dal fondo antico indoeuropeo soverchia di gran lunga quella degl'imprestiti. La grande quantità di parole straniere che s'incontra nelle lingue slave moderne - tedesche nel polacco, cèco e sloveno; italiane e turche nel serbocroato, ecc. - è dovuta soprattutto a successivi contatti con popoli dei quali gli Slavi hanno subito, nelle loro patrie, il prestigio culturale, o la supremazia politica, oppure l'uno e l'altra. E la relativa purezza dello slavo antico testimonia appunto l'isolamento in cui gli Slavi si trovavano nella loro sede preistorica. Un isolamento nel quale l'organizzazione sociale, a giudicare dai fatti lessicali, sembra essersi cristallizzata in forme primitive. Infatti i termini riguardanti la ramificazione della famiglia vi sono numerosi e, di regola, indigeni (snŭcha, "nuora" ant. ind. snušā; děverĭ "fratello del marito", gr. δαήρ, lat. levir; zŭlŭva "sorella del marito" lat. glos; jétry "moglie del fratello del marito", ant. ind. yātar-, lat. janitrices, ecc.), mentre la mancanza di un termine comune per indicare il capotribù (*voldyka?) ha agevolato la penetrazione di voci corrispondenti straniere (kŭnédzĭ "principe" dal germ. kuning; *korlâ "re" da Carlo nome di Carlomagno; aggiungiamo ancora cěsarĭ che è probabilmente giunto agli Slavi direttamente dal latino). Sorprende, invece, trattandosi di un popolo di pastori, la mancanza di termini antichi per designare il bestiame grosso (il bue, la vacca, il vitello, il cavallo, ecc. sono designati con voci nuove, alcune, forse, assunte da popolazioni non indoeuropee), mancanza che non è chiara, anche se qualcuno ha voluto vedervi uno stato di civiltà immiserito.
Tra lo slavo comune e il formarsi delle singole lingue slave - e, cioè, il granderusso, il biancorusso, l'ucraino, il bulgaro, il serbo-croato, lo sloveno, il cèco, lo slovacco, il sorabo, il polabo e il polacco con il kasciubo - è intercorso un periodo di tempo troppo lungo, e troppo spesso l'elevazione di gruppi dialettali a lingue è stata determinata da ragioni più politiche che culturali o puramente linguistiche, perché a congiungere il punto di partenza col punto di arrivo non si abbia ragione di ricorrere all'ipotesi di unità intermedie, abbraccianti i gruppi di lingue anche oggi più affini tra di loro. Ma poiché le isoglosse intersecano spesso il territorio slavo in modo bizzarro, e non riassumibile in nette delimitazioni di confini linguistici, le opinioni sulla suddivisione del territorio slavo in gruppi di lingue discordano e discorderanno tra di loro, ad onta di tutti gli accorgimenti ai quali in simili casi si usa ricorrere. A parte questa doverosa riserva è lecito riconoscere anzitutto che le lingue slave orientali si distinguono dalle altre lingue slave per tutta una serie di caratteri proprî che fanno supporre per esse, d'accordo del resto con i dati storici, un lungo periodo di vita linguistica comune non differenziata. Questi caratteri sono (v. russia: Lingua): il "polnoglasie" cioè il riflesso torot, tolot, teret, telet, per lo slavo comune tort, tolt, tert, telt; lo ja da é; il mutamento di (j)e- in o- dinnanzi a i e e; ol, or, er da l e r vocalici; o e e per tutte le semivocali non soppresse; č (d)ž, da tj, kt, dj (nočĭ "notte", meža "confine"). L'unità slavomeridionale, ha come caratteristiche antiche più salienti i riflessi, ra, la, rě, lě da or, ol, er, el e la desinenza -é da -ens. L'ipotesi di un gruppo slavo-occidentale si basa invece in primo luogo: sulla conservazione di kv, gv iniziale (al russo e serbo cvet "fiore" corrisponde in polacco kwiat, in cèco květ, in sorabo kwět; e così pure stanno di fronte russo e serbo zvezda "stella" da un lato, cèco hvězda - da un più antico *gvězda - pol. gwiazda, bassosorabo gwězda), sulla conservazione dei gruppi consonantici tl, dl (cioè: pol. jodla, cèco jedla, polabo jádlā, sorabo jedla "abete", di fronte al russo el', serbocr. jela; ma la validità di questa bipartizione e un po' infirmata dal fatto che i dialetti sloveni della Carinzia usano ancora jedla, e che, da parola a parola, varia non poco anche l'estensione del territorio di conservazione o eliminazione dei gruppi tl, dl) e sulla mutazione tj, kt′ in c. Ma è stato anche osservato, e non a torto, che ci sono altresì tratti che accomunano lo slavo orientale allo slavo meridionale, come d'altro lato non manca qualche lieve argomento in favore di un'antica unione tra lo slavo orientale e lo slavo occidentale. Contraddizioni queste che sono più apparenti che reali, poiché non c'è dubbio - dato anche il carattere stesso della loro espansione - che gli Slavi, immigrando nelle loro nuove patrie, hanno conservato, su per giù, i loro antichi rapporti di vicinato; ed è quindi naturale che vi siano concordanze - e persino dialetti di transizione - non solo per entro ai singoli gruppi (come, per es., tra serbo e bulgaro, tra croato e sloveno, tra slovacco e cèco, tra polacco e sorabo, ecc.), ma anche tra gruppo e gruppo: e come lo sloveno settentrionale, e specialmente i parlari estinti della Stiria e dell'Austria Inferiore e Superiore, si avvicinano a quelli cèchi e moravi; così i dialetti polacchi hanno punti di contatto coi parlari biancorussi.
Bibl.: Per le origini e la diffusione degli Slavi: L. Niederle, Slovanské starožitnosti (Antichità slave), voll. 4, Praga 1902-1919; id., Život stárych Slovanů (La vita degli Slavi antichi), voll. 3, ivi 1911-1920; id, Manuel de l'antiquité slave, I: L'histoire, Parigi 1923; II: La civilisation, ivi 1926 (è una riduzione e un aggiornamento dell'originale cèco); Gr. Krek, Einleitung in die slavische Literaturgeschichte, 2ª ed., Graz 1887 (antiquato, ma ancora utilizzabile); K. Moszyński, Badania nad pochodzeniem i pierwotnâ kulture Słowian (Ricerche sull'origine e la cultura primitiva degli Slavi), in Rozprawy (Atti) dell'Accademia di Cracovia, sez. fil.-st., LXII, Cracovia 1925; J. Janko, O pravěku slovanském (Intorno ai tempi antichissimi degli Slavi), Praga 1912; J. Rostafiński, O pierwotnych siedzibach Słowian w przedhistorycznych czasach (Sulle sedi primitive degli Slavi nei tempi preistorici), in Sprawozdania (Rendiconti) dell'Accad. di Cracovia, XIII, 3, 1908; M. Rudnicki, Denominacja etniczna Veneti, Germani i Słowianie (La denominazione etnica Veneti, Germ. e Slavi), in Slavia occidentalis, IX, pp. 358-40; A. Brückner, Dzieje kultury polskiej (Storia della cultura polacca), I, Cracovia 1930; id., Poczâtki Słowiańszczyzny zachodniej (Primordî della Slavia occidentale); in Slavia, I (1922-23), pp. 379-408; H. J. Schmid, Die Slav. Altertumskunde und die Erforschung der Germanisation, in Zeit. f. slav. Phil., I, p. 396; Der ostdeutsche Volksboden, Aufsätze zu den Fragen des Ostens, opera collettiva a cura di W. Volz, Breslavia 1926; A. A. Šachmatov, Vvedenie v kurs istorii russkago jazyka (Introd. al corso di storia della lingua russa), Pietrogrado 1916; M. Vasmer, Untersuchungen über die ältesten Wohnsitze der Slaven, I. Die Iranier in Südrussland, Lipsia 1923; id., Beiträge zur hist. Völkerkunde Osteuropas, I-III, nei Sitzungsberichte dell'Accad. di Berlino, cl. fil.-st., 1932-1935; dello stesso si veda anche Die slavische Ortsnamenforschung in Ostdeutschland, 1914-1927, in Zeit. f. slav. Phil., VI, pp. 172-204, 464-495; Die slav. Ortsnamenforschung in den deutschen Teilen des früheren österreich, 1914-27, ibid., VII, pp. 411-429; la serie di articoli Beiträge zur slavischen Altertumskunde e numerose recensioni nella stessa rivista; Roessler, Über den Zeitpunkt der slav. Ansiedelung auf den unteren Donau, in Sitzungsberichte dell'accad. di Vienna, cl. fil.-stor., vol. 73, 1873; L. Hauptmann, Politische Umwälzungen unter den Slovenen vom Ende des 6. Jh. bis zur Mitte des 9., in Mitteil. des Inst. f. österr. Geschichtsforschung, XXXVI, pp. 229-287; S. Pirchegger, Die slavischen Ortsnamen im Mürzgebiet, Lipsia 1927; J. Melich, A honfoglaláskori Magyarország, Budapest 1925-29 (v. riassunto: Ungarn zur Zeit der Landnahme, di I. Kniesza, in Rocznik Sławistyczny, XI, 1933, pp. 1-26).
Per la religione: Oltre alle opere già citate di L. Niederle, G. Krek, A. Brückner e di J. Janko, si veda A. Brückner, Mitologia slava, trad. a cura di J. Dicksteinówna, Bologna (1923: originale polacco: Mitologia słowiańska, Cracovia 1918); V. Pisani, Il paganesimo Balto-Slavo, in Storia delle religioni, dir. da P. Tacchi Venturi, I, Torino 1934: L. Léger, La mythologie slave, Parigi 1901; V. Jagić, Zur slavischen Mythologie, in Arch. f. slav. Phil., XXXVII (1920), pp. 492-511; V. J. Mansikka, Die Religion der Ostsslaven, I, Quellen, Helsinki, 1922; K. H. Meyer, Fontes hist. religionis Slavicae (fa parte di: Fontes hist. relig. ex auct. Graecis et Latinis, ed. da C. Clemen, fasc. IV), Berlino 1931; id., Die slavische Religion, in C. Clemen, Die Religionen der Erde, Monaco 1927; id., Vom Kult der Götter und Geister in slavischer Urzeit, in Prace filologiczne, XV, 2, 1931; St. Rożniecki, Perun und Thor, in Arch. f. slav. Phil., XXIII (1901), pp. 488-503; id., Varaegiske minder i den russiske heltedigtning, Copenaghen 1914; E. V. Aničkov, Jazyčestvo i drevnaja Rus′ (Il paganesimo e la Russia antica), Pietroburgo 1914; id., recensione alle opere di Niederle, Brückner, Jagić e Mansikka, in Slavia II, 1923; J. Máchal, Nákres slov. bajesloví (Schizzo della mitologia slava), Praga 1891.
Per la lingua: a) Dizionarî: F. Miklosich, Etymologisches Wörterbuch der slavischen-Sprachen, Vienna 1886; E. Berneker, Slavisches etymologisches Wörterbuch, I, A-L (del secondo volume è stato pubblicato soltanto un fasc. contenente M-Mor), Heidelberg 1908-1913; R. Trautmann, Baltisch-slavisches Wörterbuch, Gottinga 1923; riferimenti alle altre lingue slave contengono anche Preobraženskij, Etimologičeskij slovar′ russkago jazyka (incompleto), voll. 2, Mosca 1910-16; A. Brückner, Słownik etymologiczny jézyka polskiego, Cracovia 1927, per il paleoslavo: Fr. Miklosich, Lexicon palaeoslovenico-graeco-latinum, Vienna 1862-65; Per i vocabolarî delle singole lingue slave v. le voci dei singoli paesi.
b) grammatiche: A. Meillet, Le slave commun, 2ª ed. a cura di A. Vaillant, Parigi 1934 (fondamentale); J. J. Mikkola, Urslavische Grammatik, I, Heidelberg 1913; G. Ilinskij, Praslavjanskaja grammatika (Gramm. protoslava), Nezin 1916; M. Weingart, Praslovanskij vokalismus, Praga 1919-20; Fr. Miklosich, Vergleichende Grammatik der slavischen Sprachen, voll. 4, Vienna 1883; W. Vondrák, Vergleichende slavische Grammatik, 2ª ed., voll. 2 (il 2° vol. a cura di O. Grünenthal), Gottinga 1924-1928; W. Porzeziński, Sravnitel′naja grammatika slavjanskich jazykov, I (Gramm. comparata delle lingue slave), Mosca 1914; O. Hujer, Úvod do dějin jazyka českého (Introd. alla storia della lingua cèca), 2ª ed., Praga 1924; St. Szober, Gramatyka jézyka polskiego, I, Varsavia 1931 (contiene a pp. 4-78 osservazioni generali sulle lingue slave).
c) saggi monografici su problemi particolari delle lingue slave: A. Meillet, Les vocabulaires slaves et indo-iraniens, in Rev. ét. slaves, VI (1926); W. Porzeziński, Die baltisch-slavische Sprachgemeinschaft, in Rocznik slawistyczny, IV (1911), pp. 1-26; V. Pisani, Balto e Slavo, in Studi baltici, II (1932), pp. 1-22; T. Tornbjörnson, Die gemeinslavische Liquidametathese, I-II, Upsala 1901-3; S. Agrell, Intonation und Auslaut im Slavischen, 1913; A. Meillet, Des innovations caractéristiques du phonétisme slave, in Rev. ét. slaves, II (1922), pp. 206-214; N. Troubetzkoy, Essai sur la chronologie de certains faits phonétiques du slave commun, ibid., pp. 217-235; T. Milewski, O powstaniu prasłowianskich samogłosek nosowych (Sull'origine delle vocali nasali protoslave), in Rocznik slaw., X (1931), pp. 80-115; L. Tesnière, Les diphones tl, dl en slave, in Rev. ét. slaves, (1933); T. Lehr-(Splawiński), Ze studjów nad akcentem słowiańskim (Studî sull'accento sl.), Cracovia 1907; A. Belić, Akcenatske studije, Belgrado 1914; R. Ekblom, Phisiologie der Akzentuation langer Silben im Slavo-baltischen, Upsala 1922; N. van Wijk, Die baltischen und slavischen Akzent- und Intonationssysteme, Amsterdam 1923; A. Meillet, Les formes nominales en slave, in Rev. ét. sl, III (1923), p. 193 segg.; id., Des innovations du verbe slave, ibid., II (1922), pp. 38-47; J. Kuryłowicz, La genèse des aspects verbaux slaves, in Prace filol., XIV (1929), pp. 644-675; E. Koschmieder, Nauka o aspektach czasownika polskiego w zarysie (Compendio di dottrina sugli aspetti del verbo polacco), Vilna 1934; A. Stender-Petersen, Slavisch-germanische Lehnwortkunde, Göteborg 1927; V. Jagić, Verwandtschaftsverhältnisse innerhalb der slavischen Sprachen, in Arch. f. slav. Phil., XX; N. van Wijk, Remarques sur le groupement des langues slaves, in Rev. ét. sl., IV (1924), pp. 5-15.