Abstract
La voce s’incentra sull’esame dei contenuti del recente Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, soffermandosi in particolare sulle varie categorie di società in esso considerate e sui principali profili disciplinari propri di ciascuna di esse.
La diffusione di società connotate dalla presenza di soggetti pubblici all’interno della compagine sociale ha conosciuto nell’ultimo mezzo secolo diversi momenti di fulgore: il primo, a livello nazionale, a partire dalla seconda metà degli anni ’50, quando si giunse all’istituzione di un apposito Ministero per organizzare e gestire il complesso sistema delle partecipazioni statali, poi soppresso nel 1993 a seguito di referendum abrogativo; il secondo, a livello locale, a partire dalla legge 8.9.1990, n. 142, il cui art. 22, lett. e), fece sì che la forma societaria diventasse quella di gran lunga più utilizzata dagli enti locali per lo svolgimento di numerose attività di produzione di beni e servizi cosiddetti di interesse generale.
Ci si interrogava allora, fondamentalmente, sulla possibilità di affidare senza gara l’espletamento di un determinato servizio pubblico locale a una società partecipata dall’ente locale affidante, nonché sulla necessità o meno di una gara per la scelta dei soci privati. Sullo sfondo restava poi la vecchia discussione sul rapporto fra interesse sociale e interesse pubblico, ovvero fra lo scopo lucrativo tipico degli enti societari e le finalità pubbliche proprie dei soci o di alcuni soci (discussione nella quale s’inserivano alcuni sotto-problemi, fra cui quello della natura, negoziale o provvedimentale, degli atti di nomina e revoca degli amministratori da parte dell’ente pubblico nei casi previsti dagli allora vigenti artt. 2458 ss. c.c.).
È soprattutto negli ultimi venticinque anni, però, che il fenomeno ha avuto un’accelerazione esponenziale, sia a livello statale, perché le privatizzazioni spesso sono state solo formali e perché si sono moltiplicati i provvedimenti legislativi istitutivi di singole società con soci e scopi pubblici; sia localmente, dove si è verificata una vera e propria corsa alla costituzione e all’utilizzo di società a partecipazione pubblica, nel settore dei servizi pubblici come in altri settori di azione delle amministrazioni locali.
Il fenomeno - la cui quantificazione non è univoca, ma certamente va collocata nell’ordine delle svariate migliaia di enti societari partecipati da soggetti pubblici - ha spesso prodotto effetti negativi: incremento dei costi pubblici, alterazione della concorrenza, elusione di controlli e vincoli pubblicistici altrimenti applicabili.
Sul piano normativo, esso ha originato per anni tutta una serie di provvedimenti occasionali, chiamati a risolvere questo o quel problema contingente, ma caratterizzati, oltre che da una pochezza tecnica purtroppo desolante, dall’assoluta mancanza di una visione d’insieme del fenomeno. Ne è derivata una legislazione disordinata e contraddittoria, difficile da coordinare con il sistema del diritto societario e tale da lasciare alla giurisprudenza il compito, davvero ingrato, di dare risposta a numerosi problemi lasciati insoluti, individuando di volta in volta la disciplina - societaria, pubblicistica o “mista” - applicabile nel caso concreto.
Molto appropriatamente, perciò, la l. 7.8.2015, n. 124, ha delegato il Governo ad adottare, fra l‘altro, un decreto legislativo di semplificazione nel settore delle «partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche», fissando negli artt. 16 e 18 i relativi principi e criteri direttivi. A ciò hanno fatto seguito il d.lgs. 19.8.2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica) e - anche a seguito della sentenza della C. Cost. 25.11.2016, n. 251 - il successivo d.lgs. 16.6.2017, n. 100 (contenente “Disposizioni integrative e correttive” del primo).
Le disposizioni di cui si compone il complesso normativo risultante dai due citati decreti legislativi sono in buona parte innovative, in qualche caso semplicemente riproduttive di disposizioni preesistenti. Non sono, in ogni caso, esaustive, inserendosi esse in un ambiente normativo costituito in primo luogo - come si vedrà appresso - dal codice civile e poi da una tuttora nutrita legislazione speciale applicabile alle società a partecipazione pubblica o ad alcune di esse: si pensi, ad esempio, alla disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti (d.lgs. 8.6.2001, n. 231); alla disciplina di contrasto della corruzione (l. 6.11.2012, n. 190, di cui v. l’art. 1, co. 2-bis) ed a quella sugli obblighi di pubblicità e trasparenza delle pubbliche amministrazioni (d.lgs. 14.3.2013, n. 33; e v. l’art. 2bis); o, in specie in materia di affidamenti in house, al codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18.4.2016, n. 50, di cui si veda in particolare l’art. 5).
La centralità del testo unico suggerisce comunque di incentrare su di esso la trattazione che segue (nella quale gli articoli non seguiti da altra indicazione appartengono, appunto, al testo unico).
All’interno del d.lgs. n. 175/2016 si rinvengono da un lato disposizioni volte a regolare (e limitare) le partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, dall’altro disposizioni volte a regolare le società a partecipazione pubblica.
Sotto il primo profilo, l’intento legislativo di circoscrivere l’ammissibilità delle partecipazioni pubbliche è sfociato in primo luogo nell’enunciazione del principio - sia pure non privo di deroghe ed esenzioni (cfr. l’art. 4, co. 3 ss.) - secondo cui le amministrazioni pubbliche non possono costituire società o acquisire o mantenere partecipazioni in società se non là dove queste abbiano ad oggetto attività di produzione di beni o servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali (art. 4, co. 1) e rientranti in una delle tipologie di attività specificamente indicate (art. 4, co. 2); condizioni, queste, che dovranno essere adeguatamente motivate nella delibera in cui la pubblica amministrazione manifesta la volontà di costituire una società o di acquisire una partecipazione sociale (artt. 5, 7, 8).
L’esigenza di arginare l’utilizzo di enti societari da parte delle amministrazioni pubbliche ha poi indotto il legislatore a imporre agli enti pubblici partecipanti di dismettere le partecipazioni che - a seguito di una revisione straordinaria (art. 24) o delle razionalizzazioni periodiche (art. 20), l’una e le altre doverose - risultassero non in regola; pur se non mancano dubbi e perplessità circa l’idoneità della disciplina così dettata a consentire il raggiungimento degli obiettivi avuti di mira.
Va infine segnalata l’istituzione di una struttura ministeriale di “monitoraggio, indirizzo e coordinamento” delle società a partecipazione pubblica, i cui compiti non appaiono peraltro sempre esattamente definiti (art. 15).
«Le amministrazioni pubbliche possono partecipare esclusivamente a società, anche consortili, costituite in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata» ovvero a società cooperative: così dispone l’art. 3, co. 1, che - limitando l’area dei tipi societari utilizzabili - non solo vincola l’autonomia delle amministrazioni pubbliche in ordine all’investimento in partecipazioni ma, altresì, individua le discipline che risulteranno applicabili, circoscrivendole a quelle dei tipi consentiti.
Alla luce di ciò, le norme del testo unico che regolano le società partecipate danno luogo ad un diritto societario speciale, che regola in modo più o meno derogatorio, o anche semplicemente integrativo rispetto a quello comune, alcuni aspetti organizzativi e di gestione o, in senso più ampio, di funzionamento. Ed è questo il profilo sul quale ci si soffermerà nel prosieguo.
In apertura del testo unico è collocata l’enunciazione secondo cui «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali del diritto privato» (art. 1, co. 3; e v. Cass. 1.12.2016, n. 24591); enunciazione finalizzata a porre un freno a preesistenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, secondo i quali la disciplina societaria risulterebbe applicabile solo se compatibile con le discipline pubblicistiche di volta in volta richiamate dagli interessi in gioco, e sulla base della quale deve dirsi all’opposto che, in assenza di norme di legge derogatorie, eventuali discipline “pubblicistiche” o comunque extra-societarie risulteranno applicabili solo se compatibili con quella societaria, ovvero solo se non contrastino con norme societarie imperative.
Questa conclusione trova ulteriore supporto nel «principio di proporzionalità delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica», specificamente dettato dalla legge-delega in materia di disciplina delle società a partecipazione pubblica (art. 18, lett. a, l. n. 124/2015); principio che legittima le sole deroghe al diritto comune necessarie ad assicurare la tutela degli interessi pubblici di volta in volta perseguiti.
La riconduzione al diritto comune è confermata con riferimento alla disciplina della crisi d’impresa, posto che l’art. 14, co. 1 - rimuovendo alcuni dubbi emersi nella giurisprudenza di merito - sancisce la soggezione di tutte le società a partecipazione pubblica (incluse quelle in house: e v. l’art. 14, co. 6; nonché Cass. 7.2.2017, n. 3196), là dove ne ricorrano i presupposti, al fallimento e alle altre procedure concorsuali. Non mancano peraltro disposizioni speciali che, in caso di dissesto della società, pongono limiti al “soccorso finanziario” da parte del socio pubblico (art. 14, co. 5), come pure disposizioni - non ancora rinvenibili in norme scritte di diritto comune - che pongono a carico dell’organo amministrativo precisi doveri nelle situazioni di crisi o pre-crisi (art. 14, co. 2, 3 e 4, peraltro dettati non per tutte le società a partecipazione pubblica ma solo per quelle a controllo pubblico).
La fattispecie delle società a partecipazione pubblica si articola, nella realtà empirica come in quella normativa, in una pluralità di subfattispecie rilevanti ai fini della selezione della disciplina di volta in volta applicabile.
All’interno del testo unico, le principali sotto-categorie risultano già dall’elenco di definizioni contenuto nell’art. 2, ove si rinvengono in particolare le nozioni di società a controllo pubblico (lett. b e m) e di società in house (lett. c, d e o) distinte da quella generale di società a partecipazione pubblica (lett. n).
Ora, assumendo che il controllo sia - come di regola è - una forma qualificata di partecipazione e il controllo analogo una forma qualificata di controllo, la sequenza “società a partecipazione pubblica–società a controllo pubblico–società in house” evidenzia fattispecie connotate da un grado via via crescente di specialità.
Ne discende che, in assenza di norme derogatorie, le disposizioni dettate per la categoria più generale - fra cui quelle enuncianti i principi generali richiamati nel prec. § - risultano applicabili anche alle società rientranti nelle altre due sotto-categorie, le disposizioni dettate per la seconda categoria risultano applicabili anche alle società rientranti nella terza, e non viceversa.
Altri sotto-insiemi rilevanti sotto il profilo disciplinare sono quello delle società a partecipazione mista pubblico-privata e quello delle società quotate; non mancano poi singoli frammenti di disciplina riservati ad altre tipologie societarie, individuate dando rilievo a ulteriori note differenziali.
Gran parte delle disposizioni derogatorie del diritto societario comune, o integrative rispetto allo stesso, hanno come destinatarie le società a controllo pubblico, il cui statuto speciale è fortemente incentrato sulla governance.
Il testo unico si preoccupa in primo luogo di integrare la disciplina contenuta nell’art. 2449 c.c. - per il caso in cui lo statuto attribuisca al socio pubblico la facoltà di nominare o revocare uno o più componenti degli organi sociali - fissando l’efficacia dell’atto di nomina o revoca al momento della ricezione dello stesso da parte della società (art. 9, co. 7) e stabilendo che l’eventuale vizio dell’atto deliberativo interno del socio pubblico rilevi quale causa di invalidità della nomina (o della revoca); previsione, questa (contenuta nell’art. 9, co. 8), che peraltro non pare impedire l’operare della disposizione codicistica che rende inopponibile ai terzi l’invalidità della nomina, una volta che questa sia stata pubblicizzata tramite il registro delle imprese, salvo che si provi che essi ne erano a conoscenza (art. 2383, ult. co., c.c.).
Venendo alla cessazione dalla carica, vanno qui ricordate le disposizioni del d.l. 16.5.1994, n. 293 (artt. 1, 3 e 6), le quali - dopo aver stabilito che gli organi «di amministrazione attiva, consultiva e di controllo» di enti pubblici e persone giuridiche a prevalente partecipazione pubblica alla cui nomina abbia concorso la parte pubblica, se non rinnovati entro il termine di scadenza del mandato, possono operare in regime di prorogatio per non più di quarantacinque giorni e limitatamente agli «atti di ordinaria amministrazione» e agli «atti urgenti e indifferibili» - sanzionano con la nullità sia tutti gli atti posti in essere oltre il quarantacinquesimo giorno, sia quelli compiuti nel termine di prorogatio ma privi dei requisiti indicati; sanzione che è parsa in contrasto con i principi della prima direttiva Ce in materia societaria, volta a proteggere gli interessi dei terzi assicurando la stabilità degli atti compiuti dagli organi sociali (e che è sfociata, fra l’altro, nella previsione di cui all’art. 2383, ult. co., c.c., poc’anzi richiamata), tanto da indurre a prospettare quanto meno un’interpretazione correttiva conforme al diritto comunitario, in virtù della quale il “vizio” consistente nel mancato rispetto della disciplina della prorogatio sia opponibile ai terzi solo previa dimostrazione della sua conoscenza da parte loro.
Sul punto il testo unico afferma che il citato d.l. n. 293/1994 si applica «agli organi di amministrazione e controllo delle società in house» (così l’art. 11, co. 15), lasciando intendere - peraltro sul piano di una mera argomentazione a contrario - che esso non si applichi più, come originariamente, a tutte le società a prevalente partecipazione pubblica.
Venendo alla struttura e alla composizione dell’organo amministrativo delle società a controllo pubblico, la disciplina pare ispirata fondamentalmente da esigenze di contenimento della spesa e dalla necessità di prevenire abusi verificatisi in passato.
In questa prospettiva si segnalano in particolare: a) la previsione secondo cui l’organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, salva la possibilità di optare per un consiglio di amministrazione di tre o cinque membri, ovvero di adottare il sistema dualistico o quello monistico, con delibera motivata da «specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa» - e «tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi» - da inviare alla Corte dei conti (art. 11, co. 2-3); in proposito la prassi pare evidenziare frequentissime deroghe alla regola dell’organo unipersonale, con motivazioni spesso puramente formali e con l’accorgimento della previsione di compensi particolarmente bassi al fine di scongiurare censure da parte della magistratura contabile; b) la previsione (art. 11, co. 9) secondo cui statutariamente: i) è prevista l’attribuzione di deleghe a un solo amministratore, salva la possibilità di attribuire deleghe al presidente previa autorizzazione assembleare; ii) la carica di vicepresidente è esclusa o volta esclusivamente a individuare il sostituto del presidente in caso di assenza o impedimento, senza riconoscimento di compensi aggiuntivi; iii) sono vietati gettoni di presenza, premi di risultato a posteriori e trattamenti di fine mandato; iv) è vietato istituire organi diversi da quelli previsti dal diritto societario comune; c) la previsione che - demandandone la completa definizione a un successivo decreto ministeriale - pone dei limiti ai compensi dei componenti degli organi sociali e dei dirigenti (art. 11, co. 6); d) la previsione che limita la remunerazione dei componenti di comitati con funzioni consultive o di proposta, la cui costituzione è ammessa nei soli casi previsti dalla legge (art. 11, co. 13).
Il quadro che ne risulta evidenzia dei limiti all’autonomia organizzativa forse non sempre giustificati, se si considera che anche nelle società pubbliche è certamente da assicurare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile rispetto alla natura e alle dimensioni dell’impresa (art. 2381, co. 3 e 5, c.c.).
Vanno inoltre ricordate, fra l’altro: i) l’esigenza che i componenti degli organi amministrativi e di controllo - oltre a non ricadere nelle situazioni di inconferibilità o incompatibilità di incarichi previste dall’art, 5, co. 9, d.l. 6.7.2012, n. 95; e dall’art. 12, d.lgs 8.4.2013, n. 39 - posseggano i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia (che dovranno pur essi essere stabiliti con decreto ministeriale: art. 11, co. 1); ii) l’affermazione del principio dell’equilibrio di genere nella scelta degli amministratori, da rispettare sia all’interno del singolo organo collegiale, sia da ciascuna pubblica amministrazione nell’ambito delle nomine effettuate nel corso di un anno (art. 11, co. 4); iii) l’inammissibilità nelle s.r.l. a controllo pubblico dell’adozione dei sistemi di amministrazione disgiuntiva o congiuntiva ex art. 2475, co. 3, c.c. (art. 11, co. 5).
Per quanto riguarda il controllo inteso come attività di vigilanza e/o verifica di conformità - ferme restando «le funzioni degli organi di controllo previsti a norma di legge e di statuto» (come esplicitamente precisa l’incipit dell’art. 6, co. 3) - assumono rilievo principalmente: a) la previsione che nelle s.r.l. (società a responsabilità limitata) impone in ogni caso la nomina dell’organo di controllo o di un revisore e nelle s.p.a. esclude che la revisione legale possa essere affidata al collegio sindacale (art. 3, co. 2); b) le previsioni (contenute nell’art. 6) che impongono o suggeriscono l’adozione di particolari «strumenti di governo societario»; doverosa è, in particolare, la predisposizione di «specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale» (art. 6, co. 2), mentre per ciò che riguarda gli altri strumenti - regolamenti finalizzati al rispetto della disciplina della concorrenza, un ufficio di controllo interno che cooperi con l’organo di controllo statutario, codici di condotta disciplinanti i rapporti con consumatori, utenti, dipendenti e altri soggetti coinvolti dall’azione della società, programmi di responsabilità sociale d’impresa - la scelta di attivarli è rimessa all’organo amministrativo, che dovrà tener conto «delle dimensioni e delle caratteristiche organizzative nonché dell’attività svolta», fermo restando che la loro mancata attivazione dovrà essere motivata nella relazione sul governo societario (art. 6, co. 3 e 5); c) la previsione (contenuta nell’art. 11, co. 1) secondo cui ciascuna amministrazione pubblica socia, a prescindere dall’entità della sua partecipazione, è legittimata a presentare denuncia di gravi irregolarità, potendosi così attivare - anche nelle s.r.l. (come espressamente precisa l’art. 11, co. 2) - la procedura regolata dall’art. 2409 c.c., e ciò anche in alcune ipotesi specificamente tipizzate di grave irregolarità (cfr. gli artt. 14, co. 3; 16, co. 4; 25, co. 6).
Il testo unico stabilisce che, ai fini della realizzazione dell’assetto organizzativo proprio delle società in house (che ammette la partecipazione di privati ove prescritta dalla legge e tale da non influenzare il controllo) e quindi, fondamentalmente, della configurazione del controllo analogo:
i) gli statuti delle s.p.a. possono derogare alla regola, imperativamente fissata nell’art. 2380-bis c.c., secondo cui la gestione dell’impresa sociale compete esclusivamente agli amministratori (art. 16, co. 2, lett. a);
ii) gli statuti delle s.r.l. possono attribuire ai soci pubblici particolari diritti ai sensi dell’art. 2468, co. 3, c.c. (art. 16, co. 2, lett. b);
iii) in ogni caso, i requisiti del controllo analogo possono essere acquisiti anche mediante la conclusione di appositi patti parasociali, la cui durata può essere superiore ai cinque anni di cui all'art. 2341 bis c.c. (potendo essere commisurata, attendibilmente, alla durata dell’affidamento diretto) (art. 16, co. 2, lett. c).
Se la seconda disposizione previsione appare tutto sommato di scarsa rilevanza, ribadendo una possibilità già sussistente sulla base del diritto societario comune, a svariate osservazioni si prestano le altre due.
In primo luogo ci si può chiedere se della deroga consentita dalla lett. a sia consentito avvalersi solamente là dove il controllo analogo non sia raggiungibile sulla base di accordi parasociali, come il principio di proporzionalità (v. sopra, § 3.1) indurrebbe a far ritenere.
È poi dubbio fino a che punto si possano comprimere i poteri degli amministratori e se ci si possa spingere sino ad attribuire competenze gestorie ad organi esterni alla società o se invece - dovendosi comunque rispettare il divieto di istituzione di organi atipici (v. sopra, § 3.2) – la deroga sia funzionale solo ad ammettere spostamenti di competenze fra amministratori e assemblea (sul primo punto, v. Trib. Roma, 2.7.2018, in Dejure).
Per quanto riguarda le società a partecipazione mista pubblico-privata, le disposizioni dell’art. 17 - volte in primo luogo a regolare la così detta gara a doppio oggetto e gli altri meccanismi che rendono legittimo l’affidamento di un servizio pubblico a una società mista (co. 1-3) - si disinteressano dell’entità della partecipazione pubblica e fissano invece la soglia minima del 30% del capitale per la partecipazione del socio privato (co. 1); una soglia nel rispetto della quale, dunque, il privato può essere indifferentemente socio di comando o socio minoritario (ma indagini empiriche rivelano che è quest’ultima, per lo più, la posizione ad esso riservata).
Sul piano organizzativo la definizione dei rapporti fra parte pubblica e parte privata è rimessa - oltre che alla stipula di patti parasociali di durata anche eccedente quella quinquennale, «purché entro i limiti di durata del contratto per la cui esecuzione la società è stata costituita» (art. 17, co. 4, lett. d) - a operazioni di ingegneria statutaria alle quali il testo unico lascia un certo spazio, ammettendo:
i) nelle s.r.l. (oltre che l’attribuzione di particolari diritti a entrambe le parti, peraltro già possibile ai sensi dell’art. 2468, co. 3, c.c.) l’escludibilità o la limitabilità - in linea generale non pacifiche - delle competenze decisionali riconosciute ai soci dall’art. 2479, co. 1., c.c. (art. 17, co. 4, lett. b);
ii) nelle s.p.a. la previsione di speciali categorie di azioni ovvero di azioni con prestazioni accessorie da assegnare al socio privato (art. 17, co. 4, lett. c);
iii) sempre nelle s.p.a., la previsione di clausole in deroga all’esclusività della competenza gestoria degli amministratori, «al fine di consentire il controllo interno del socio pubblico sulla gestione dell’impresa» (art. 17, co. 4, lett. a).
Quest’ultima disposizione non pare esente da critiche sia sul piano pratico, posto che si sarebbe sentita piuttosto l’esigenza di promuovere l’inserimento nello statuto di clausole volte a consentire al privato, che di regola è socio minoritario, la partecipazione alla gestione, sia sul piano strettamente normativo.
Sotto questo profilo la norma, operando solo a vantaggio del socio pubblico e non anche di quello privato, potrebbe risultare non conforme al diritto comunitario, se è vero che la Corte di giustizia in passato ha ritenuto illegittima l’attribuzione agli azionisti pubblici di poteri (nel caso di specie: di nomina degli amministratori) più che proporzionali rispetto alla partecipazione posseduta non riconosciuti, viceversa, agli altri azionisti (C. giust. 6.12.2007, C-463/04).
Va infine tenuto presente che le società miste, oltre a soggiacere alla disciplina dell’art. 17 ad esse propria, confluiscono nella categoria delle società a partecipazione pubblica e spesso, per quanto detto, in quella delle società a controllo pubblico, con tutto quel che ne discende sul piano della disciplina.
Riguardo alle società a partecipazione pubblica quotate (per la cui definizione v. l’art. 2, co. 1, lett. p), si coglie nel testo unico la scelta di fondo consistente nel riservare loro un trattamento differenziato rispetto a quello delle società pubbliche non quotate, escludendole dall’applicazione di gran parte della disciplina prevista per queste ultime. Ciò verosimilmente in considerazione sia del loro inserimento nel mercato, sia del controllo esercitato su di esse dalla Consob (ed eventualmente da altre autorità di vigilanza settoriali); inserimento e controllo che possono far ritenere superfluo, inopportuno e/o scarsamente compatibile con le peculiarità delle società quotate il loro assoggettamento integrale o comunque generalizzato alle disposizioni del testo unico (così anche C. St., parere 21.4.2016, n. 00968).
Questa scelta si è tradotta nell’enunciazione di un criterio interpretativo generale, dettato nell’art. 1, co. 5, secondo cui le norme del testo unico si applicano alle società pubbliche quotate («nonché alle società da esse partecipate, salvo che salvo che queste ultime siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche») «solo se espressamente previsto».
Scorrendo il testo unico, tuttavia, ci si avvede che non sempre il legislatore è stato coerente con quell’enunciazione di principio. Così, ad esempio, la soggezione delle società quotate alle procedure concorsuali dovrebbe essere fuori discussione; eppure l’art. 14, co. 1, che la afferma esplicitamente per le società a partecipazione pubblica, non è dichiarato applicabile alle società quotate. È anche vero, però, che alla loro fallibilità potrebbe giungersi anche a prescindere dall’art. 14, se è vero che questa norma è confermativa, e non derogatoria, di una soluzione che discende già dall’art. 1 l. fall.
Un dubbio interpretativo analogo si pone in materia di responsabilità e sarà trattato nel § seguente. In linea generale può concludersi, sul terreno del metodo interpretativo, che l’enunciazione dell’art. 1, co. 5, è certo da tener presente ma non da applicare meccanicamente, dovendosene saggiare di volta in volta tutte le implicazioni e le eventuali soluzioni alternative.
Qualche parola di più merita il tema della responsabilità degli organi sociali, da circa quindici anni oggetto di un accesissimo dibattito dottrinale e giurisprudenziale e sul quale il testo unico, purtroppo, non si è pronunciato univocamente.
Il dubbio da sciogliere era se le azioni di responsabilità attivabili nei confronti di amministratori e sindaci di società a partecipazione pubblica siano le ordinarie azioni risarcitorie previste dal diritto societario comune ovvero, ed entro quali limiti, l’azione di responsabilità erariale dinanzi alla Corte dei conti.
In proposito l’art. 12 esordisce dichiarando la soggezione alle azioni di responsabilità previste dal diritto societario comune, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti di società in house (co. 1, prima parte); dichiara poi devoluta alla Corte dei conti, ma solo «nei limiti della quota di partecipazione del socio pubblico», la giurisdizione sulle controversie «in materia di danno erariale di cui al comma 2» (co. 1, seconda parte); definisce infine come danno erariale quello «subito dagli enti partecipanti», lasciando il dubbio circa la possibile sussistenza di un danno erariale anche in capo alle società partecipate (co. 2).
Il combinarsi di queste disposizioni, ciascuna delle quali è già in sé di non univoca lettura, fa di questa disciplina la parte più oscura, confusa e contraddittoria dell’intero testo unico, sulla quale i contrasti interpretativi, lungi dal sopirsi, si sono già riaccesi. In particolare è disputato il trattamento sul punto delle società in house, risultando tutt’altro che agevole comprendere come si accordi la soggezione alla giurisdizione contabile che parrebbe discendere dall’art. 12 con la loro soggezione al fallimento, sicuramente disposta dall’art. 14, e con la conseguente legittimazione del curatore all’esercizio delle azioni di responsabilità (sul punto, per la concorrenza di azione civile e azione contabile, l’una per il danno non erariale e l’altra per il danno erariale, v. Cass. S.U., 13.9.2018, n. 22406)
Nell’art. 12 non si fa alcuna menzione delle società quotate. Prestando fede al criterio interpretativo di cui all’art. 1, co. 5, dovremmo dunque escluderle dal campo di applicazione dell’art. 12, col risultato che continuerebbe a trovare applicazione l’assai discusso art. 16-bis d.l. 31.12.2007, n. 248 (secondo cui nelle società quotate con partecipazione pubblica inferiore al 50% «la responsabilità […] è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario»), con conseguente soggezione delle quotate con partecipazione pubblica pari o superiore al 50%, uniche fra tutte le società non in house, alla giurisdizione amministrativa. L’incongruità della soluzione e la sua verosimile illegittimità per difetto di ragionevolezza, oltre che per ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle società pubbliche non quotate (le quali, se non in house, sono sicuramente assoggettate alla giurisdizione civile quale che sia l’entità della partecipazione pubblica e dunque anche se questa superi il 50% del capitale), inducono peraltro a considerare le società quotate, malgrado il silenzio dell’art. 12, ricomprese nel suo campo di applicazione, con conseguente abrogazione implicita dell’art. 16 bis d.l. 248/2007.
Fonti normative
Art. 2449 c.c.; d.lgs. 19.8.2016, n. 175
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