Sociolinguistica
Pur essendo una facoltà che fa parte del bagaglio di capacità innate degli esseri umani, il linguaggio verbale viene tipicamente messo in opera nei rapporti sociali. Appena si consideri il linguaggio nella sua vita concreta, è infatti di constatazione immediata che fra lingua e società vi è un'evidente interrelazione, sia nel senso dell'azione della società e dei fatti sociali sulla lingua sia anche, almeno in parte, nel senso opposto, dell'azione della lingua sulla società e nei fatti sociali. Tale interrelazione, e interazione, per quanto ovvia (e forse almeno in parte appunto perché ovvia), per molto tempo non è stata oggetto di attenzione e riflessione sistematica. Il riconoscimento progressivo dell'importanza dei rapporti fra linguaggio verbale e società, sia per comprendere appieno il funzionamento del linguaggio sia per capire meglio le dinamiche sociali, ha tuttavia portato dall'inizio degli anni sessanta allo sviluppo di una sottodisciplina delle scienze del linguaggio relativamente nuova, appunto la sociolinguistica.
La sociolinguistica si basa dunque sull'assunzione che il linguaggio sia per molti rilevanti aspetti un fenomeno sociale; assunzione peraltro tutt'altro che condivisa dalle più note correnti e direzioni di ricerca teoriche della linguistica contemporanea, che sono anzi piuttosto inclini a ignorare programmaticamente i rapporti fra lingua e società e la natura del linguaggio come fenomeno sociale, e a trattarlo come sistema in sé, astratto dai suoi usi e dai suoi utenti (v. Linguaggio). Pur essendo la sociolinguistica in genere più ritenuta, per lo meno da chi la pratica, un settore della linguistica, la sua posizione all'interno delle odierne scienze del linguaggio è pertanto piuttosto collaterale e di non facile determinazione.
Fra gli aspetti del linguaggio verbale (o della lingua) che più spiccano, se consideriamo il sistema linguistico calato negli usi di una comunità sociale e come parte di una cultura, c'è certamente la variabilità o variazione. E in effetti la sociolinguistica nasce specificamente dalla constatazione che la variazione linguistica ha spesso significato sociale, e che il comportamento linguistico, in cui la variazione si manifesta, ha importanti conseguenze sociali. La sociolinguistica può quindi essere definita in maniera molto generale come il settore della linguistica che si occupa delle dimensioni sociali della lingua e studia i fatti e fenomeni linguistici che, e in quanto, hanno rilevanza o valore o significato sociale; per quanto abbiamo appena detto, l'ambito della sociolinguistica sarà costituito in primo luogo dall'analisi delle correlazioni fra variazione linguistica e fattori sociali.
Così definita, la sociolinguistica copre un ambito di fatti molto vasto, eterogeneo e difficilmente delimitabile. La pronuncia [sj] per [ʃ] nell'italiano del Nord (per esempio, [la'sjare] per [laʃ'ʃare], lasciare), l'uso alternato di francese e italiano da parte di immigrati di origine italiana in Canada, i saluti in yoruba, la doppia negazione in inglese, l'impiego di tedesco e ungherese nella comunità bilingue di Oberwart in Austria, la distribuzione dell'uso del dialetto nel bergamasco, la gestione verbale della compravendita presso i Tuareg, i problemi della comunicazione interetnica, la politica di tutela e promozione di una lingua minoritaria, le chiacchiere durante le visite di estranei a Samoa, il linguaggio giovanile, e via elencando (tutti casi effettivamente studiati nella letteratura), pur essendo evidentemente fenomeni fra loro assai disparati, hanno in effetti tutti in comune di riguardare l'impiego del linguaggio e contemporaneamente di possedere un significato sociale, di essere cioè in qualche correlazione con fattori sociali; e quindi rientrano a buon diritto nell'area disciplinare detta in senso lato 'sociolinguistica'. Per rimediare a un'eccessiva estensione e a una certa ambiguità del termine, derivanti dalla sua attitudine a coprire una gamma di campi così differenti, ha assunto via via importanza la distinzione fra sociolinguistica in senso stretto (o 'sociolinguistica della lingua', sociolinguistics of language, v. Fasold, 1990; o anche, meno appropriatamente e in senso un po' diverso, 'microsociolinguistica') e sociologia del linguaggio (o 'sociolinguistica della società', sociolinguistics of society, v. Fasold, 1984; o anche, meno appropriatamente e in un senso un po' diverso, 'macrosociolinguistica'; o ancora, in un senso lievemente più ristretto e specifico, 'sociologia delle lingue', v. Mioni, 1992).
La sociolinguistica in senso stretto si occupa della variazione interna di un sistema linguistico e della correlazione fra produzioni linguistiche e fatti sociali, mentre la sociologia del linguaggio ha come proprio campo di studio la differenziazione all'interno dei repertori linguistici, la distribuzione sociale di lingue e varietà di lingua e i loro rapporti nell'uso, negli atteggiamenti, nelle norme e nei valori della comunità parlante. Alcuni autori sottolineano, in maniera più forte, una distinzione non solo di aree di ricerca, ma anche di finalità fra questi due settori della sociolinguistica in senso lato, tra loro peraltro in evidente sovrapposizione: per esempio, R. Wardhaugh (v., 1992², p. 13) contrappone la sociolinguistica come "studio delle relazioni fra linguaggio e società con l'obiettivo di comprendere la struttura del linguaggio" alla sociologia del linguaggio come "studio delle relazioni fra linguaggio e società con l'obiettivo di comprendere la struttura della società". L'ampiezza dei potenziali campi di interesse della sociolinguistica pone naturalmente anche problemi di delimitazione rispetto a discipline o aree di studio contermini, anch'esse a cavallo fra la linguistica e le scienze sociali, come l'etnolinguistica o linguistica antropologica, la pragmatica linguistica, ecc., su cui sia consentito in questa sede sorvolare (v. comunque Berruto, 1995, pp. 11-18).
Anche se varie osservazioni sparse circa il riconoscimento dei valori sociali dei fenomeni linguistici non mancano lungo tutta la storia del pensiero linguistico, dal mondo antico sino alla nascita, nell'Ottocento, della linguistica comparativa, e la considerazione dei rapporti fra lingua, cultura e società ha svolto un ruolo non indifferente nella linguistica storica della prima metà del Novecento (per esempio nelle opere di Antoine Meillet, e in particolare in Italia, al punto che per esempio il nome di Benvenuto Terracini è da indicare fra quelli dei più diretti precursori della sociolinguistica), nonché nella nascente linguistica descrittiva (per esempio, in John R. Firth); tuttavia è solo con i lavori dei primi anni sessanta del sociologo dell'educazione Basil Bernstein (v., 1971) sulla connessione fra insuccesso scolastico e differenze linguistiche (spiegata attraverso l'accesso preferenziale della classe media a un "codice elaborato" e della classe operaia a un "codice ristretto"), e con le contemporanee ricerche di William Labov (v., 1966) sulla differenziazione dell'inglese a New York City, che questo settore di studi acquista una sua sistematicità e una sua individualità anche metodologica.
Dagli anni settanta in avanti le ricerche sociolinguistiche hanno conosciuto un rapido sviluppo, non solo nel mondo anglosassone, ma anche nell'Europa continentale, soprattutto in Germania, e nella stessa Italia, dove si sono potute innestare sul tronco della tradizionale ricerca dialettologica. Tale sviluppo è coinciso altresì con il formarsi di una pluralità di approcci e correnti metodologiche, dalla sociolinguistica cosiddetta variazionistica, o correlativa, o quantitativa, rappresentata emblematicamente da William Labov (probabilmente la personalità più nota fra i sociolinguisti) e basata sull'analisi di corpora di parlato autentico mediante raffinati metodi statistici; alla sociolinguistica interazionale e interpretativa, che ha il suo capofila in John Gumperz (v., 1982), ed è volta invece a ricostruire le strategie e i meccanismi mediante i quali i parlanti attribuiscono significato alle produzioni linguistiche, contestualizzandole, e conducono le interazioni verbali; dalla "etnografia del parlare" di Dell Hymes (v., 1974), che inquadra l'attività verbale nella complessa trama delle relazioni sociali proprie di una cultura (v. Saville-Troike, 1982; v. Duranti, 1992) e peraltro risulta già più un approccio di linguistica antropologica che non di sociolinguistica vera e propria; ad altri tipi ancora di accostamento teorico-metodologico meno individuati e meno consolidati. La distinzione fra sociolinguistica/sociologia del linguaggio e linguistica antropologica o etnolinguistica non è sempre del tutto pacifica, e le due aree di ricerca presentano più di un punto di sovrapposizione (v. Cardona, 1987): comunque, si può dire che la seconda si concentra sulle affinità e differenze culturali così come si manifestano nelle particolarità linguistiche (con speciale riguardo al lessico e ai tipi di testi) e sul rapporto tra lingua, cultura e visione del mondo proprio di una determinata società (e in particolare di società prive di scrittura), lasciando sullo sfondo i fatti di variazione linguistica interna alla comunità parlante e i fattori propriamente sociali di cui si occupa invece direttamente la sociolinguistica.
Nel complesso, nella sociolinguistica fra gli anni settanta e novanta vi è stato un progressivo spostamento degli interessi prevalenti e delle aree di indagine da quelle tipiche, fondanti e caratterizzanti della disciplina ai suoi inizi, in un certo senso più 'linguistiche' (come le correlazioni tra fattori sociali e produzioni linguistiche, lo studio quantitativo delle variabili sociolinguistiche - v. sotto, cap. 2 -, la stratificazione sociolinguistica di una comunità, ecc.), ad altre meno 'linguistiche' e più vicine alle scienze sociali (come l'organizzazione dei repertori linguistici, le relazioni fra comportamenti linguistici, atteggiamenti e rappresentazioni sociali dei parlanti, la contestualizzazione dell'interazione verbale, ecc.). Alcuni fra i sociolinguisti più accreditati, come Suzanne Romaine (v., 1994), sostengono anzi che solo nel riconoscimento di fatto del linguaggio come forma di comportamento sociale e dell'importanza della (pur relativa) libertà di azione degli esseri umani in ogni comportamento sociale e dei connessi valori simbolici è possibile cercare una fondazione teorica valida della disciplina; e non certo nel mero ricorso all'analisi empirica, quasi neopositivista, con apparati statistici, dei dati secondo le categorie della linguistica descrittiva e teorica, com'è tipico delle indagini di Labov e della sua scuola.
Proprio a causa dell'eterogeneità del suo ambito e della sua posizione interdisciplinare, alla sociolinguistica mancano, di fronte a una quantità assai rilevante di ricerche empiriche su diverse lingue e sulle più svariate comunità parlanti e alla relativa raffinatezza dei metodi d'analisi impiegati, una riflessione e un approfondimento teorici comparabili con quelli della sua disciplina-madre, la linguistica. Gli studi sociolinguistici hanno tuttavia condotto al riconoscimento di tutta una serie di meccanismi operanti nel rapporto fra linguaggio e società, dei più significativi dei quali si presenterà una sintesi nelle pagine che seguono.
Il punto di partenza della sociolinguistica è rappresentato dai concreti usi della lingua nella vita quotidiana da parte di determinati parlanti membri di una comunità sociale ('come parla la gente'). È di immediata constatazione che tali usi hanno come loro caratteristica preminente di variare (nessun parlante usa la lingua esattamente nella stessa maniera e con le stesse caratteristiche di un altro parlante della medesima comunità linguistica, così come nessun parlante parla nella medesima maniera e con le medesime caratteristiche nelle diverse situazioni in cui si trova a usare la lingua, ecc.). Mentre una certa quantità delle differenze che troviamo nel comportamento linguistico risulta casuale o dovuta a fattori totalmente idiosincratici o di carattere psicologico, una gran parte appare dotata di significato sociale, nel senso che fornisce informazioni o consente di fare inferenze su diversi aspetti socialmente rilevanti relativi alla persona che parla. Molti fatti inerenti alla lingua e al comportamento linguistico funzionano dunque da indicatori sociali, fornendo indicazioni sulla collocazione sociale del parlante, sul suo grado d'istruzione, sulla sua professione, sulle norme e consuetudini in atto in una certa cultura e società, ecc. Ogni volta che interagiamo attraverso il linguaggio, oltre al contenuto referenziale che vogliamo trasmettere noi attiviamo e comunichiamo quindi, per lo più (ma non necessariamente) in maniera inconscia, anche tutta una rete di indicazioni più o meno sottili sulla nostra collocazione nella società e sul nostro disporci nei confronti dell'interlocutore; il comportamento linguistico è insomma estremamente sensibile a fattori sociali, e buona parte della variazione linguistica ha significato sociale.
È dunque uno dei compiti della sociolinguistica scoprire quali fatti di variazione linguistica siano connessi, e in che modo, con determinati fattori sociali. 'Variazione linguistica' è tuttavia una nozione che può coprire fenomeni di estensione assai diversa, dalle minute differenze di pronuncia di un certo suono alla scelta di un certo modo piuttosto che un altro di compiere un atto linguistico alla selezione di una certa varietà di lingua piuttosto che un'altra all'interno di un repertorio. Le ricerche si sono all'inizio concentrate sui fenomeni di variazione all'interno di una lingua e di livello più basso, in particolare la fonetica. Il caposcuola di questo genere di studi è William Labov (v., 1972), che ha introdotto e sviluppato l'importante costrutto della 'struttura sociolinguistica' come rappresentazione di una variabile sociolinguistica. La 'variabile sociolinguistica' - uno dei concetti cardine in sociolinguistica - può essere approssimativamente definita come la gamma di modi diversi di realizzare una certa unità del sistema linguistico (ciascuno dei quali è una 'variante': la variabile è quindi l'insieme delle varianti), correlati, o più tecnicamente in covariazione, con fattori sociali. Una struttura sociolinguistica è la rappresentazione in un diagramma cartesiano della modalità di variazione di una variabile sociolinguistica, ottenuta dall'analisi di un adeguato corpus di materiali linguistici autentici.
Dalla classica ricerca a New York di Labov (v., 1966, p. 163) riportiamo un semplice esempio: la struttura della variabile sociolinguistica (th) riguardante la pronuncia della consonante th- sorda (quella di parole come thing, 'cosa', three, 'tre'), che viene realizzata nelle varianti fricativa interdentale (forma standard, [ɵ]), affricata ([tɵ]) e occlusiva ([t]).
Il diagramma contiene tre entrate: lo strato sociale di appartenenza dei parlanti, rappresentato dalle linee; lo 'stile contestuale', vale a dire il grado di formalità e di controllo verbale proprio di una certa situazione di enunciazione, sull'asse orizzontale; la percentuale di realizzazioni non standard, sull'asse verticale. Come si vede, la quantità relativa di pronunce non standard è in chiara correlazione sia con lo strato sociale che con lo stile contestuale: per ciascuno dei quattro strati sociali in cui sono raggruppati (classe media, classe media inferiore, media classe operaia, classe operaia inferiore, rappresentate rispettivamente in quest'ordine dalle linee dal basso all'alto nel diagramma) i parlanti producono meno realizzazioni non standard passando da uno stile contestuale meno formale e controllato (A, il parlare spontaneo) a stili contestuali via via più formali e controllati (B, la conversazione sorvegliata; C, la lettura).
Inoltre, la differenza di comportamento nei diversi stili contestuali è assai maggiore per i due strati sociali più bassi, mentre gli strati più elevati mostrano minore sensibilità alla variazione di stile (giacché i parlanti di questo strato producono già una quantità relativamente scarsa di realizzazioni non standard anche nello stile più spontaneo, meno controllato). Una distribuzione delle varianti di tal genere rivela evidentemente una notevole sensibilità allo standard: la variante standard è forma di prestigio, a cui avvicinarsi il più possibile, correggendo verso lo standard la propria pronuncia, man mano che la situazione di enunciazione diventa più formale; tale distribuzione viene pertanto chiamata 'distribuzione di prestigio'. Simili configurazioni sono state rintracciate in ogni lingua e società in cui si siano compiute indagini secondo il modello laboviano: in Italia, è per esempio il caso della pronuncia della r doppia (o 'geminata') nell'italiano di Roma, variabile (rr), che spesso viene realizzata come r semplice (['tɛra] invece di ['tɛrra], terra), o della cosiddetta 'gorgia toscana', vale a dire la realizzazione, specie nell'italiano di Firenze, come consonante continua (o anche la cancellazione) delle occlusive sorde intervocaliche [p], [t] e [k], con pronunce come per esempio [a'miho] o addirittura [a'mio] per ['amiko], amico (v. Galli de' Paratesi, 1984).
Non tutte le variabili sociolinguistiche risultano essere correlate contemporaneamente con i due fattori sopra visti: esistono variabili che covariano in maniera significativa solo con lo strato sociale e non con lo stile contestuale, e viceversa. La distribuzione relativa in una lingua e società dei diversi tipi di variabile fornisce importanti informazioni sia sulla struttura sociale, sia sull'atteggiamento nei confronti dello standard, sia infine sulle dinamiche nei rapporti fra lingua e società. Dalle prime indagini basate sulla fonetica, la nozione di variabile sociolinguistica è stata poi estesa anche ai livelli più alti di analisi del sistema linguistico, cioè alla morfologia e, con qualche problema (dato che salendo di livello può diventare opinabile il postulato dell'identità di funzione e di significato referenziale delle diverse varianti, che altrimenti non sarebbero più, a rigore, varianti di una stessa variabile), alla sintassi, al lessico e alla semantica.
Un raggruppamento coerente di varianti solidali, che co-occorrono in concomitanza con certi tratti sociali, costituisce una varietà di (una) lingua. A seconda dei principali fattori sociali con cui sono correlate e che ne costituiscono le dimensioni di variazione, si riconoscono tre classi fondamentali di varietà di lingua: le varietà diatopiche (o geografiche, in cui il criterio di riconoscimento è la distribuzione territoriale, geopolitica, dei parlanti), le varietà diastratiche (o sociali, in cui il criterio di riconoscimento è la posizione sociale, lo strato e il gruppo sociale di appartenenza dei parlanti) e le varietà diafasiche (o situazionali, in cui il criterio di riconoscimento è la diversità delle situazioni comunicative). Ogni parlante membro di una certa comunità parla una determinata varietà diatopica e diastratica di lingua (caratterizzata da certi tratti linguistici), quella propria della sua regione di origine e dello strato e gruppo sociale a cui appartiene, e ha a disposizione alcune varietà diafasiche diverse, adeguate ai caratteri più o meno formali e specialistici delle situazioni comunicative che si trova a vivere (v. sotto, cap. 3); il parlante può peraltro anche adottare, consciamente o inconsciamente, tratti di varietà sociali e (meno frequentemente) geografiche proprie di gruppi con i quali egli voglia di volta in volta e per qualche ragione identificarsi (le produzioni verbali costituiscono da questo punto di vista anche un 'atto di identità', v. Le Page e Tabouret-Keller, 1985).
I comportamenti linguistici e le varianti non sono socialmente neutri, equipollenti, bensì sono sottoposti a una evidente valutazione sociale: le valutazioni sociali - ben riconoscibili anche e specialmente attraverso lo studio degli atteggiamenti linguistici, praticato soprattutto da un'area disciplinare di confine con la sociolinguistica, la psicologia sociale del linguaggio (v. Giles, 1979), e largamente condizionate dalla tradizione culturale e dai rapporti di potere esistenti in una certa società - assegnano in genere valori positivi, di prestigio, alle forme della lingua standard o varietà standard di lingua (i cui parametri di definizione e identificazione possono peraltro variare molto da società a società), e valori negativi alle forme delle varietà non standard. In particolare, vengono stigmatizzate le varietà socialmente basse, cioè proprie di strati sociali inferiori o di gruppi marginali, anche se spesso la situazione non è così lineare, dato che valutazioni positive per certe dimensioni possono accompagnarsi a valutazioni negative per altre dimensioni (per ricerche significative sulla situazione italiana v. Baroni, 1983; v. Volkart-Rey, 1990), e che varietà stigmatizzate a livello dell'intera società possono godere di prestigio per il gruppo che le sente proprie (si tenga conto che la lingua, come si è accennato sopra, è un potente fattore di identificazione di gruppo, e ogni gruppo tende a essere fedele e ad avere atteggiamenti almeno in parte positivi verso la propria varietà di lingua), o possono avere quello che è stato definito "prestigio coperto" - come avviene nei casi in cui ci sia discrepanza fra ciò che i parlanti realmente producono e ciò che credono di produrre, nel senso che essi, interrogati in proposito, affermano di usare le varianti stigmatizzate nettamente più di quanto le usino nel comportamento reale (v. Trudgill, 1972).
La sociolinguistica correlativa lavora dunque essenzialmente con tre livelli di analisi: la variabile sociolinguistica, che è l'unità di analisi minima; la varietà di lingua, che è un insieme coerente di varianti di più variabili sociolinguistiche; il repertorio linguistico, che è l'insieme delle varietà di lingua (della stessa lingua o di lingue diverse) utilizzate presso una certa comunità parlante; quest'ultimo costituisce quindi il quadro di riferimento entro cui operano le distinzioni e le analisi della sociolinguistica. In sede di sociolinguistica correlativa è stata approfondita anche l'individuazione dei tipici fattori sociali suscettibili di correlare con la variazione linguistica (e di cui quindi i fatti di variazione linguistica fungono da indicatori). Oltre alla rilevanza della stratificazione sociale in senso stretto (ove le classi sociali vengono definite e isolate per lo più - si noti che la sociolinguistica si è sinora prevalentemente occupata di società occidentali - in termini di grado di istruzione e di tipo di professione, e solo secondariamente in termini di modelli di vita e di consumo, ecc.), fra i fattori attinenti alla collocazione sociale dei parlanti è stata ovviamente evidenziata la rilevanza del gruppo sociale, del gruppo etnico, della classe generazionale, del sesso in senso socioculturale (chiamato 'genere' per distinguerlo dal sesso naturale, biologico).
Per certi fenomeni e certe manifestazioni del rapporto fra lingua e società, e in particolare per spiegare la diffusione delle innovazioni linguistiche o il mantenimento di forme stigmatizzate o la presenza presso certi parlanti di tratti non congruenti con la varietà sociogeografica tipica del loro strato e del loro gruppo sociale, è risultato di notevole importanza il ricorso a una nozione elaborata in antropologia sociale, quella di 'rete sociale' (social network). Attraverso la ricostruzione della rete sociale in cui sono inseriti si può capire perché parlanti di uno stesso gruppo che hanno la stessa posizione sociale (e per i quali quindi le differenze non siano spiegabili in termini di classe sociale, sesso, età, ecc.) parlino in modo diverso, utilizzando diversamente le varianti di determinate variabili. Da una nota indagine anglosassone (v. Milroy, 1980, pp. 131-134) risulta per esempio che due donne di mezz'età residenti nello stesso quartiere di Belfast e con lo stesso tipo di occupazione, entrambe mogli di operai ed entrambe con la sola scuola dell'obbligo, si comportano in modo significativamente diverso riguardo a tutta una serie di variabili fonologiche: mentre Paula realizza in una proporzione sempre relativamente alta le varianti più locali o 'vernacolari', Hannah presenta una quantità molto inferiore di realizzazioni vernacolari, e in alcuni casi ha categoricamente le varianti standard. Tale differenza, a prima vista sorprendente, si spiega col fatto che Hannah e Paula hanno un grado di integrazione ben diverso nella rete sociale del quartiere: mentre Paula ha una famiglia numerosa, molti rapporti col vicinato, e i suoi compagni di lavoro sono anche vicini di casa (è quindi inserita in un network denso e molteplice), Hannah non ha figli né parenti o compagni di lavoro nel quartiere e ha quindi pochi rapporti nella rete locale.
In generale, reti sociali chiuse, dense e molteplici, territorialmente accentrate, con legami fitti fra relativamente poche persone, hanno l'effetto di rinforzare le norme interne al gruppo, e dunque, dal punto di vista linguistico, favoriscono l'adesione a una norma linguistica locale, non standard, e il suo mantenimento; mentre reti sociali aperte e poco dense, con scarsi legami fra relativamente molte persone e confini non ben delimitati, sono correlate con l'adozione di forme non locali e della norma standard. Trudgill (v., 1996) ha notato inoltre che sembra esserci correlazione fra il grado di complessità dei networks tipici delle comunità parlanti una certa lingua e i tipi di variazione (in sincronia) o di mutamento linguistico (in diacronia) riscontrabili in quella lingua.
A proposito di mutamento linguistico, gli studi di sociolinguistica hanno contribuito significativamente a chiarire il processo di attuazione e diffusione attraverso cui le innovazioni si propagano e si generalizzano, diventando la nuova norma linguistica. Il rapporto preciso fra mutamento linguistico e mutamento sociale è però tutt'altro che pacifico: se molti mutamenti nella lingua appaiono innescati da mutamenti sociali, altri sembrano seguire trafile meramente interne al sistema linguistico. È comunque evidente l'importanza dell'imitazione sociale come fattore della diffusione del mutamento linguistico. In linea di principio, il mutamento (almeno ai livelli sintomatici per il sistema linguistico, la fonetica e la fonologia, la morfologia e la sintassi) è costituito dalla trasformazione di un elemento categorico di un sistema in un altro elemento categorico, che lo sostituisce, attraverso una fase in cui coesistono diverse realizzazioni variabili: l'innovazione nasce in genere come una nuova variante (quindi, con la formazione di una variabile) che si diffonde e stabilizza progressivamente finché la variabile diventa costante.
Il mutamento linguistico presuppone quindi variazione sincronica (anche se non sempre ovviamente la variazione sincronica è sintomo di mutamento diacronico). Se è così, studiando la variazione come si presenta presso le diverse generazioni in un certo momento (nel 'tempo apparente') possiamo avere utili indicazioni sui meccanismi del mutamento linguistico in atto (nel 'tempo reale'): è quanto è stato fatto con particolare approfondimento da Labov e dalla sua scuola. Labov (v., 1994) ha mostrato come un mutamento inizi quando un certo tratto o una certa variante comincia a diffondersi presso un determinato gruppo della comunità parlante (in genere, la nicchia in cui nasce il mutamento è un gruppo che per qualche motivo sente il bisogno di rafforzare la propria identità sociale: questa pare la ragione per cui spesso l'innovazione si origina in gruppi appartenenti alle classi sociali medio-basse, che sembrano essere più 'insicure' nel loro comportamento linguistico) e viene inteso come simbolo di valori di identità sociali propri di quel gruppo; tale tratto diventa tipico del gruppo, e si può trasmettere agli altri gruppi della comunità, fino a diventare contrassegno dell'intera comunità e a far quindi parte della sua norma. Gli studi sul social network hanno fornito importanti precisazioni su quali parlanti siano i veicoli del mutamento; si tratta per lo più dei parlanti che stanno ai margini della rete e che hanno molti legami deboli con molti altri parlanti: essi hanno dunque più rapporti con (parlanti di) altri gruppi e quindi sono particolarmente adatti a far passare le innovazioni da un gruppo all'altro, mentre i parlanti al centro del network e con legami forti e densi sarebbero piuttosto quelli che adottano l'innovazione diffondendola nel loro gruppo (v. Milroy, 1992).
La nozione di rete sociale non va peraltro vista in contrapposizione diretta con quella di classe sociale. Al contrario, nelle società occidentali tende a esservi una certa interdipendenza fra la struttura dei networks e la stratificazione di classe (v. Milroy, 1992; v. Milroy e Milroy, 1992): troviamo tipicamente reti sociali ristrette e con legami molto fitti negli strati inferiori e reti sociali più estese, aperte e con legami allentati e deboli negli strati sociali medi e medio-alti (mentre negli strati sociali alti sembrano di nuovo prevalere reti dense e chiuse). La rilevanza della posizione dell'individuo nella rete sociale per dar conto del comportamento linguistico è stata mostrata anche da indagini italiane: A. Sobrero (v., 1992) ha per es. notato che nel Salento una posizione marginale nella rete favorisce un'alta occorrenza della commutazione di codice fra lingua nazionale e dialetto (fenomeno molto frequente nell'Italia di fine Novecento).
L'orientamento linguistico dei parlanti dipende a volte, peraltro, da fattori sociali difficilmente riconducibili a entità come classi o reti sociali: le ricerche di N. Dittmar dopo la riunificazione della Germania (v. Dittmar, Sistemi..., 1995) mostrano come parlanti di Berlino Est innestino sulle loro caratteristiche dialettali degli impieghi ipercorretti di forme tipiche dell'uso di Berlino Ovest, che godono di prestigio sul 'mercato linguistico'. L'adozione di varianti e forme di un modello di prestigio (che non necessariamente è la lingua standard) indipendentemente e al di fuori della trama di rapporti della rete sociale, a volte anche per così dire paracadutate a distanza, è peraltro largamente attestata anche in Italia già dalla dialettologia di scuola terraciniana: un esempio sono le pronunce e forme torinesi o torinesizzanti (come [bø] in luogo di [be], bue, [maz'le] in luogo di [maz'lat], macellaio, ecc.) che a Biella e nelle parlate biellesi hanno soppiantato le forme locali tradizionali (v. Berruto, 1970).
Fra i fattori sociali suscettibili di influenzare il comportamento linguistico, ha goduto negli ultimi lustri di particolare attenzione il sesso dei parlanti. Il tema 'sesso e lingua' (o, meglio, language and gender, dato che ciò che è in questione per i suoi riflessi linguistici non è tanto il sesso biologico quanto piuttosto il 'genere', come è stato chiamato il sesso in termini di categoria socialmente rilevante) è divenuto di moda anche e soprattutto in seguito al diffondersi negli anni settanta dell'ideologia femminista, che ha reso molto sensibili alla discriminazione sessista radicata sia nel comportamento linguistico maschile che nel sistema linguistico stesso e nel modo in cui la lingua riflette la società. Mentre a livello applicativo e di critica ideologica preoccupazioni del genere hanno condotto a tentativi e proposte di cambiamento delle strutture e parole della lingua che codificherebbero il pregiudizio contro le donne (particolarmente avvertiti nel mondo anglofono e germanofono, ma non assenti nemmeno in Italia: v. Sabatini, 1987; per una valutazione critica dalla parte del linguista, v. Lepschy 1989), sul versante più propriamente sociolinguistico si sono moltiplicate le indagini circa le diversità nel comportamento linguistico degli uomini e delle donne.
La miriade di studi sull'argomento (per un ventaglio aggiornato di indagini italiane, v. Marcato, 1995) non è riuscita a dimostrare, tranne che in comunità extraeuropee in cui l'eventuale 'lingua delle donne' riconoscibile è però piuttosto, in ultima analisi, una lingua rituale legata a tabu non necessariamente discriminanti nei confronti del mondo femminile, l'esistenza di vere e proprie varietà di lingua specifiche dell'uno o dell'altro sesso. Al di là delle differenze meramente anatomo-fisiologiche fra il modo in cui parlano gli uomini e quello in cui parlano le donne (quali la diversa altezza della voce e simili), le indagini su diverse lingue e in diverse aree geografiche concordano nell'individuare due principali caratteristiche che, ceteris paribus, tendono a differenziare linguisticamente i sessi. Da un lato, per quello che riguarda l'atteggiamento sociolinguistico generale, le donne sembrano più sensibili alle varietà di prestigio e alla norma standard, mostrando una minore presenza di varianti substandard e locali; dall'altro lato, nella strategia conversazionale le donne risultano usare maggiormente forme di cortesia, attenuativi, diminutivi, elementi comunque che riducano la forza dell'affermazione e il grado di impegno del parlante nel sostenerla: mentre gli uomini privilegerebbero un modello comunicativo incentrato sull'efficacia referenziale, le donne preferirebbero invece un modello basato sulla cooperazione e sugli aspetti relazionali dell'interazione (l'opposizione fra i due modelli comunicativi può anche portare a incomprensioni e conflitti, quasi come se si trattasse di una comunicazione interculturale o interetnica: v. Tannen, 1990).
A entrambe queste caratteristiche del comportamento linguistico femminile si possono dare spiegazioni almeno in parte congruenti. Sia la maggior propensione delle donne allo standard che la loro tendenza a mantenere la coesione sociale sarebbero - in maniere diverse - un modo per acquisire o assicurarsi attraverso l'impiego di tratti linguistici e stili conversazionali uno status che è di solito negato dalla loro posizione subordinata rispetto agli uomini, raggiungendo in termini di apparenza simbolica (segnalata con mezzi linguistici) il prestigio che manca loro in termini professionali e di mobilità sociale; tale attitudine sarebbe eventualmente rinforzata dal fatto che le donne si occupano normalmente dell'educazione dei bambini, e sono quindi più consce dell'importanza di fornire ai figli come modello le forme di prestigio. Ma il rapporto fra comportamento linguistico e sesso dei parlanti è filtrato da altri fattori sociali, tanto da rendere difficile ogni generalizzazione (v. Fasold, 1990, pp. 89-118; v. Romaine, 1994, pp. 99-133): è stato rilevato infatti che là dove le donne fanno parte di reti sociali molto dense e chiuse, esse usano più degli uomini forme locali e non standard (v. sopra).
Ogni varietà di lingua ha una sua collocazione all'interno del repertorio linguistico della comunità, che ne regola l'impiego nelle diverse situazioni comunicative e ne determina lo status sociale. Una prima distinzione che poggia su criteri fondamentalmente sociali è quella fra 'lingua' e 'dialetto'. Dati sistemi linguistici diversi o varietà sociogeografiche di lingua sufficientemente ben definiti e con una certa distanza strutturale fra loro (ancorché geneticamente imparentati), non è possibile dire se si tratti di lingue o di dialetti se non sulla base della loro distribuzione negli usi dell'intera comunità. È dialetto una determinata varietà di lingua X che sia subordinata a un'altra varietà di lingua Y, nel senso che Y è nota a più gruppi di parlanti di quelli che parlano X, è parlata dalle classi dominanti, è usata nello scritto formale e nelle situazioni che richiedono impegno, mentre X ha un basso grado di standardizzazione, non è insegnata a scuola, non possiede le risorse (in primo luogo, il lessico) atte a soddisfare tutti i bisogni comunicativi di una società avanzata (in particolare, gli usi tecnico-scientifici) ed è impiegata per lo più nella comunicazione orale all'interno del gruppo locale. In tal caso, Y è 'lingua standard'. In un repertorio linguistico, la lingua standard ha sempre una posizione speciale, in quanto varietà di prestigio e, nei termini di H. Kloss (v., 1987), Ausbausprache, "lingua per elaborazione", e può essere definita, socialmente, 'varietà alta' (H, high); corrispondentemente, i dialetti sarebbero 'varietà basse' (L, low).
Una situazione linguistica in cui nel repertorio di una comunità vi siano differenziazione funzionale e compartimentazione d'impiego molto nette fra una varietà H e una (o più) varietà L, tali che la varietà alta viene imparata solo a scuola e non viene mai usata nella conversazione quotidiana ordinaria, e la varietà bassa all'inverso è la lingua della socializzazione primaria ma è esclusa dallo scritto formale, è stata definita "diglossia" da C. Ferguson (v., 1959), riprendendo un termine a volte usato per designare il caso particolare della Grecia (in cui vi è una sorta di bilinguismo fra la lingua classica, katharevousa, varietà H, e la lingua moderna, dhimotikì, varietà L), e in riferimento alle situazioni, oltreché appunto della Grecia moderna, della Svizzera tedesca (H: Hochdeutsch; L: dialetto tedesco svizzero), dei Paesi Arabi (H: arabo classico; L: varietà colloquiali moderne di arabo) e di Haiti (H: francese; L: creolo). Il concetto di diglossia è stato poi esteso a indicare qualunque situazione linguistica in cui vi sia una differenza funzionale fra due sistemi linguistici presenti negli usi di una comunità parlante, anche quando questi siano molto diversi tra loro strutturalmente e non siano geneticamente imparentati e anche quando entrambe le varietà H e L vengano usate nella conversazione ordinaria. I livelli funzionali a cui si pongono le lingue o varietà di lingua in un repertorio sono stati aumentati, introducendo un terzo gradino, M (middle): si parla quindi di triglossia (esempio: il Marocco, con arabo classico H, francese M e arabo colloquiale L) o di poliglossia (la comunità colta di origine cinese in Malesia, dove sono state riconosciute sette varietà di inglese, cinese e malese disposte su quattro diversi gradini gerarchici), o si delineano repertori con 'doppia diglossia' (Tanzania, dove l'inglese è H rispetto al swahili, L, e questo a sua volta è H rispetto alle lingue di etnie locali, L; v. Fasold, 1984, pp. 34-57).
Il dibattito sulla diglossia, in virtù anche delle implicazioni in termini di conflitti etnico-culturali che essa può avere (per esempio in pressoché tutte le situazioni delle minoranze linguistiche), è stato arricchito sia da una grande quantità di indagini su singole situazioni linguistiche che da molti contributi di carattere definitorio. Di fronte all'eccessiva estensione del valore del termine, che può condurre ad ambiguità e vaghezza, si sono evidenziate due tendenze principali. L'una preferirebbe mantenere al concetto il valore assai specifico che aveva in Ferguson, considerando la diglossia uno dei possibili tipi di rapporti che si possono avere in un repertorio linguistico e introducendo altri termini per designare altri tipi di rapporti: per esempio, 'bilinguismo sociale' o 'bilinguismo comunitario', quando nel repertorio vi siano due o più lingue diverse senza una netta compartimentazione funzionale, come in parte del Canada (inglese e francese); 'bidialettismo' o 'dialettìa sociale' (v. Hudson, 1980, p. 70), quando vi siano più varietà di una stessa lingua con lieve divergenza strutturale, usate intercambiabilmente a seconda delle circostanze, come in Inghilterra. La situazione italiana media è ancora diversa, giacché l'italiano, varietà H, è impiegato anche nella conversazione ordinaria, assieme al dialetto, varietà L, che ha di solito una distanza strutturale relativamente alta dall'italiano e che peraltro non è impiegato negli usi scritti (per una situazione del genere è stato proposto il termine 'dilalia': v. Berruto, Lingua..., 1987). L'altra tendenza è quella di considerare invece la nozione di diglossia in termini prototipici, vale a dire come concetto plurifattoriale sovraordinato per indicare tutte le situazioni di squilibrio funzionale fra due o più lingue o varietà di lingua presenti in un repertorio, e di individuare un certo numero di parametri definitori che possono assumere valori diversi in diverse situazioni: a seconda di come questi si presentano nei casi concreti, si avranno situazioni di diglossia più o meno vicine al prototipo (v. Lüdi, 1990).
Da quanto si è detto emerge in primo piano l'importanza della distinzione sociolinguistica fondamentale fra varietà formale, standard - la lingua insegnata a scuola, impiegata negli usi scritti, burocratico-amministrativi, tecnico-scientifici - e la varietà colloquiale, la lingua parlata utilizzata nell'ordinaria conversazione quotidiana, in situazioni informali. Tale distinzione ci riporta alla tipologia delle varietà di lingua (a cui è già stato accennato nel cap. 2), e in particolare alla dimensione diafasica, a cui appartiene tipicamente questo genere di variazione. La differenziazione fra uso formale e uso informale della lingua si ascrive solitamente a variazione di 'registro', che (v. Halliday, 1978) è il termine più accreditato in sociolinguistica per designare i diversi modi in cui una lingua viene utilizzata in relazione ai caratteri della situazione comunicativa e al grado di controllo e di impegno che il parlante pone nella formulazione verbale (per Labov si tratterebbe però di 'stili contestuali', riconosciuti in base alla maggiore o minore accuratezza posta nella pronuncia: v. cap. 2).
Ogni parlante ha in linea di principio a disposizione più registri diversi, adeguati e messi in opera nelle diverse situazioni comunicative e in relazione a diversi interlocutori; nelle lingue che conoscono differenti forme allocutive, il rivolgersi all'interlocutore con forme di rispetto o cortesia (in italiano, il lei e l'uso della terza persona) oppure con forme confidenziali (il tu e l'uso della seconda persona) è un elementare esempio di differenza di registro.
Nei repertori con caratteristiche diglottiche, possono funzionare da registri varietà di lingua appartenenti a sistemi linguistici diversi: in Italia, per esempio, non è infrequente per i parlanti incolti o dei ceti bassi utilizzare il dialetto come varietà colloquiale e il cosiddetto italiano popolare come varietà formale. Con 'italiano popolare' si designa la varietà sociale (diastratica) di italiano imperfettamente acquisita da parlanti dialettofoni con basso grado di istruzione, contrassegnata da una serie di tratti substandard (devianti rispetto alla norma standard) come pronunce marcatamente regionali (per esempio, al Nord [pa'sjensa], pazienza, al Sud [kon'dendë], contento); semplificazioni e ristrutturazioni nella morfosintassi (per esempio, estensioni analogiche di desinenze nominali e di articoli: la mia moglia, nessuni amici, il aeroplano, un sbaglio; ci generalizzato come pronome obliquo di terza persona, in luogo di gli/le; che usato come connettivo polivalente: ci do l'attenti che c'era il mio capitano - da narrazioni scritte: si noti che la grafia dell'italiano popolare può essere anche altamente deviante, specie nei casi in cui la resa grafica è del tutto convenzionale: gniente, cuello, luogho, banbini -; la scatola che ci mettevo il tabacco); coniazioni paretimologiche e formazioni di parola analogiche nel lessico (esempio: febbrite per flebite, tranquillizzanti per tranquillanti; v. in generale Berruto, Sociolinguistica..., 1987, pp. 105-138).
La nozione di registro ha molto in comune con la nozione tradizionale di 'stile', che è stata peraltro ripresa recentemente in chiave sociolinguistica e teorizzata come concetto inteso a unificare la prospettiva correlativa, variazionistica e quella interpretativa, interazionale. N. Dittmar (v., Sociolinguistic..., 1995, p. 113) definisce "stile sociolinguistico" un sistema ordinato di preferenze che l'individuo parlante mette in opera nell'uso della lingua selezionando, attraverso schemi discorsivi, dai vari livelli dello spazio di varietà a sua disposizione forme di espressione contestualizzate e combinandole mediante restrizioni di co-occorrenza in una specifica situazione stilistica; lo stile in tal senso mette dunque insieme nel comportamento del parlante sia le strategie (l'intenzionalità) che gli 'abiti linguistici' al di fuori del controllo del parlante (le varianti a cui egli ha accesso e che fanno parte della sua competenza comunicativa). In tal modo viene data una base unitaria alle classiche variabili sociolinguistiche, in cui la possibilità di scelta del parlante appare minima, e alle funzioni pragmatiche e di interpretazione del discorso, in cui più è visibile la 'libertà' del parlante. L'impiego di tale o talaltra variante sociolinguistica farebbe inferire l'affiliazione con un determinato gruppo sociale e dipenderebbe quindi anch'esso in ultima analisi dall'intenzione conscia o non del parlante (v. Downes, 1984, p. 356): il tutto si basa sull'assunto, largamente condiviso dai sociolinguisti, che la causa sottostante e inconscia delle differenziazioni sociolinguistiche sia l'istinto umano di stabilire, affermare e mantenere l'identità sociale (v. Chambers, 1995, p. 250).
Si può quindi affermare che ogni parlante possiede una varietà basica di lingua, spontanea e non consciamente controllata; restrizioni verbali e non verbali e intenzioni comunicative operano su tale varietà di base, producendo stili che a seconda delle situazioni possono contenere anche elementi di altre varietà.
La sociolinguistica ha altresì mostrato come per la formazione della varietà di base propria di un parlante sia essenziale il periodo della pubertà linguistica, e in particolare come il gruppo dei pari abbia un'influenza maggiore di quella della famiglia: come a New York City "soggetti di seconda generazione, i cui genitori sono nati fuori, sono buoni rappresentanti delle tendenze linguistiche più importanti esattamente come quelli di terza generazione, i cui genitori erano invece membri della comunità linguistica newyorkese" (v. Labov, 1977, p. 23), così a Roma ragazzi della seconda generazione di immigrati da altre regioni mostrano, per esempio, un abbondante accoglimento dei tratti tipici della pronuncia romana dell'italiano, indipendentemente dalla regione d'origine della famiglia, talché le loro realizzazioni fonetiche sono molto vicine a quelle di ragazzi romani di posizione sociale comparabile (addirittura, una diciassettenne udinese da tre soli anni a Roma pronuncia [ad'dʒɛnte], agente, ['djɛʃi], dieci, ['sabbato], sabato; v. Conti e Courtens, 1992). Si noti a questo proposito che le ricerche di sociolinguistica correlativa spesso privilegiano, all'interno del sistema linguistico (v. Linguaggio), i fatti di fonetica e fonologia, in quanto questi, essendo non solo privi di significato denotativo ma anche fondamentalmente automatici e maggiormente suscettibili di variazione rispetto alla prevalente categoricità di molti aspetti della morfologia e della sintassi, risultano particolarmente adatti ad assumere valore simbolico e a fare da indicatori inconsci degli orientamenti sociali.
Sempre nella dimensione diafasica di variazione, dai registri vanno tenuti distinti (pur se la distinzione non sempre trova accoglimento anche presso specialisti: ancora in Biber e Finegan - v., 1994 - 'registro' è usato come termine generale per ogni varietà di una determinata lingua associata a differenti situazioni e scopi) i sottocodici o linguaggi settoriali. Mentre i registri dipendono fondamentalmente dal rapporto fra gli interlocutori esistente in una certa situazione e dal grado di formalità di questa, i sottocodici sono piuttosto in correlazione con le sfere di argomenti e di attività nelle quali la lingua viene usata e sono caratterizzati in particolare da un lessico specialistico, che nei casi più spiccati costituisce una vera e propria terminologia posseduta solo dagli addetti ai lavori. Sono dunque tipicamente sottocodici le varie 'lingue speciali', per esempio la lingua della medicina, la lingua dell'informatica, la lingua della meteorologia, le lingue degli sport, e così via. Registro e sottocodice si pongono pertanto su due piani diversi: ogni volta che usiamo la lingua produciamo per definizione un messaggio in un determinato registro, mentre non tutte le volte che enunciamo qualcosa adoperiamo un sottocodice, anzi la maggior parte delle produzioni verbali in una società non è marcata per sottocodice. Un enunciato come 'formatta il dischetto e poi ci carichi 'sto file' è in registro informale, sottocodice lingua dell'informatica; il corrispondente nello stesso sottocodice ma in registro formale potrebbe essere 'prima di caricare il file in questione è necessario formattare il floppy disk'.
Lo studio dei sottocodici o linguaggi settoriali, e più in generale degli usi della lingua in particolari ambiti dotati di notevole rilevanza sociale (la lingua della politica, la lingua della pubblicità, ecc.), costituisce un settore 'superficiale' (in quanto non tocca il nucleo interno dei rapporti fra l'organizzazione del sistema linguistico, il suo uso e la struttura sociale, bensì piuttosto aspetti di superficie e per così dire di costume, soprattutto il lessico, la fraseologia e i contenuti) ma importante di ricerche lato sensu sociolinguistiche, che si è sviluppato non solo in termini descrittivi ma anche in termini di analisi e critica ideologica, sconfinando quindi nella semiologia e nella sociologia della comunicazione.
4. Strutture e significato sociale nell'interazione verbale
Se ci si pone dalla prospettiva di come parla la gente, la forma più diretta, spontanea, normale e diffusa in cui il linguaggio si manifesta nella società è la conversazione. In effetti, la conversazione quotidiana, l'interazione verbale naturale nella vita di ogni giorno, rappresenta per la sociolinguistica un importante oggetto di studio, affrontabile da diversi punti di vista, al confine con la pragmatica (v. Levinson, 1983). L'analisi della conversazione è nata anch'essa negli anni sessanta, tipicamente nell'area delle scienze sociali, prendendo spunto dai lavori di minuta ricostruzione della vita sociale quotidiana dei cosiddetti etnometodologi, caratterizzati, rispetto al mainstream degli studi sociologici largamente basato su tecniche quantitative e categorie oggettive, dall'assunto che oggetto di studio devono essere le tecniche (i 'metodi') che i membri di una società usano per interagire e fornire un significato all'interazione all'interno del contesto sociale in cui operano. Muovendosi su una base rigorosamente empirica (trascrizioni di concreti eventi comunicativi) e con metodi asceticamente induttivi, a prescindere da ogni assunto teorico preliminare, gli analisti della conversazione hanno mostrato come questa abbia una precisa struttura e l'attività conversazionale sia governata da una serie di regole che conferiscono all'interscambio comunicativo, al di là di un'apparente caoticità e banalità superficiale, una complessa tessitura.
In tutte le interazioni conversazionali (per lo meno, nelle comunità di lingua indoeuropea) compaiono ad esempio coppie di mosse ('mossa' è la minima unità lineare di analisi della conversazione, e coincide con un segmento linguistico - una frase o un frammento di frase - prodotto da un parlante e dotato di una sua microfunzione specifica nell'interazione) strettamente connesse l'una all'altra, dette 'coppie adiacenti' (o 'sequenze complementari'). Esse sono tali che quando viene prodotto da un parlante il primo membro della coppia, deve essere prodotto (di solito in immediata successione; ma non è esclusa, quando vi siano più di tali coppie, o anche altri tipi di sequenze, inserite l'una dentro l'altra, anche una certa distanza) da un altro parlante il secondo membro, o deve essere fornita una giustificazione perché questo non viene prodotto; e sono tipicizzate, nel senso che il primo membro richiede un determinato secondo membro scelto in un insieme relativamente ristretto di possibilità appropriate (v. Schegloff e Sacks, 1973). Esempi prototipici ne sono le coppie domanda/risposta, saluto/saluto, offerta/accettazione, ecc. Nel caso di coppie adiacenti come quella che inizia con una mossa di 'offerta', in realtà, si ha un'organizzazione più complessa, in quanto la seconda mossa rientra in una gerarchia di preferenze, che prevede una possibilità preferita (non marcata), una 'accettazione', e una possibilità alternativa 'dispreferita' (marcata), un 'rifiuto', dando così luogo a due diversi schemi ricorrenti, esemplificabili nel modo seguente:
1. A: Vuoi un caffè? (offerta)
B: Volentieri, grazie. (accettazione)
2. A: Vuoi un caffè? (offerta)
B: No, grazie. (rifiuto)
(Si noti che mentre l'italiano presenta per i due diversi membri della coppia la stessa forma di cortesia, grazie, altre lingue differenziano a seconda del valore pragmatico, come il tedesco, che ha bitte per l'accettazione e danke per il rifiuto). Le coppie adiacenti, al pari di molti altri meccanismi più complessi della conversazione (cui in questa sede non è possibile accennare), presuppongono quindi nei partecipanti un sistema di attese specifiche, in parte basate su schemi preferenziali.
Anche l'alternanza di presa di parola fra i partecipanti obbedisce a principî ben definiti, che rendono fluido e ordinato il concatenarsi dei diversi interventi, a dispetto delle sovrapposizioni che spesso si verificano (v. Sacks e altri, 1978). Il meccanismo di cambiamento di turno nella conversazione prevede un insieme limitato di regole con opzioni prestabilite, che hanno il loro fulcro nel punto di possibile completamento (o 'punto di rilevanza transizionale'), cioè il punto in cui, sulla base di informazioni fornite dalla struttura linguistica dei turni, dall'intonazione, da segnali paralinguistici e non verbali (come la direzione dello sguardo, ecc.; ma che il ruolo del comportamento non verbale in questi meccanismi non sia comunque cruciale è dimostrato dal fatto che funzionano in egual maniera anche le conversazioni telefoniche, in cui esso non è ovviamente operante), un turno può considerarsi terminato e quindi un parlante diverso da quello che ha prodotto tale turno può intervenire e produrre il suo turno.
Il grado di strutturazione e le regolarità soggiacenti già ben rintracciabili nella conversazione ordinaria diventano via via più forti nelle interazioni verbali più rigidamente precostituite, asimmetriche, regolate dalle norme di domini e ambiti di attività determinati (specie in contesti istituzionali) e mirate a scopi specifici, come l'interazione verbale in classe, il dialogo medico/paziente, l'udienza in tribunale, e via discorrendo, in cui sono particolarmente evidenti i rapporti fra i ruoli e le identità sociali dei partecipanti all'interazione, l'organizzazione verbale di questa e la struttura complessiva della società (v. Orletti, 1983 e 1994). L'avvicinamento degli interessi di ricerca fra la sociolinguistica interpretativa e l'analisi dell'interazione verbale ha portato fra l'altro a una ridefinizione della portata del contesto della comunicazione, che viene ora considerato non solo nei termini della sua influenza esterna sul comportamento linguistico, ma anche e soprattutto come creato esso stesso (almeno in parte) dall'attività linguistica e interpretativa dei partecipanti.
Un approccio più astratto, filosofico, all'organizzazione degli scambi conversazionali è quello di H.P. Grice (v., 1975), che vede in opera nella conversazione una logica basata su un essenziale principio generale, il principio di cooperazione. Esso si articolerebbe in quattro 'massime conversazionali', punti di orientamento a cui i parlanti si attengono nell'andamento dell'interazione, dette rispettivamente, in termini kantiani: massima di qualità (fare affermazioni vere e per cui si hanno prove), massima di quantità (fornire informazioni adeguate a quanto richiesto, non dire troppo né troppo poco), massima di relazione (essere pertinenti), massima di modo (essere perspicui). L'aspetto più interessante della teoria di Grice (che a prima vista potrebbe sembrare nulla più che un galateo idealizzato di efficiente passaggio dell'informazione) è che nella conversazione effettiva tali massime vengono volentieri violate, e la loro violazione è interpretata come tale (il che mostra la loro sussistenza nella competenza del parlante) e proprio grazie a ciò veicola precisi significati e permette l'interpretazione corretta di scambi conversazionali apparentemente incoerenti o contraddittori, attraverso il meccanismo della 'implicatura conversazionale' (che crea inferenze basate sul mantenimento del principio generale della cooperazione ). A tale 'logica', che presuppone come scopo centrale e primario dello scambio conversazionale una trasmissione ottimale dei contenuti referenziali, R. Lakoff (v., 1973) ha contrapposto una generalizzazione che mette invece in primo piano, fra i principî della competenza pragmatica con cui il parlante conduce le interazioni, le 'regole della cortesia', volte al mantenimento di un buon rapporto sociale con l'interlocutore. L'autrice delinea in questo senso tre regole fondamentali: 1) 'non t'imporre', 2) 'offri delle alternative', 3) 'metti l'interlocutore a suo agio'; le massime della conversazione di Grice non sarebbero, in quest'ottica, che sottocasi della regola di cortesia 1, dato che uno dei modi per evitare imposizioni al destinatario è di far sì che il messaggio venga trasmesso nel minor tempo e con la minore difficoltà possibile. Sia la teoria di Grice che, ancor più, quella di Lakoff sono, problemi di formulazione e di applicabilità a parte, ampiamente discutibili e, allontanandosi sempre più dall'analisi della casistica empirica documentata, risultano tutto sommato assai poco pertinenti per la sociolinguistica.
Un genere diverso di approccio allo studio delle interazioni verbali è quello rappresentato dall'etnografia della comunicazione o 'etnografia del parlare' (v. cap. 1), che, ispirandosi soprattutto all'antropologia culturale, vede l'attività verbale come parte intrinseca dell'attività sociale: "Linguaggio e contesto socioculturale non sono altro che le due facce di una stessa medaglia, e [...] non si può studiare l'uno senza in qualche modo analizzare anche l'altro" (v. Duranti, 1992, p. 66). L'unità di analisi fondamentale diventa qui l'evento linguistico, vale a dire un fatto tipicamente plurifattoriale, in cui si fondono intimamente numerosi componenti rilevanti, verbali, sociali, culturali e contestuali in senso lato: i partecipanti con i loro ruoli, gli scopi generali e particolari che essi hanno, la situazione ambientale e sociale, la forma e il contenuto del messaggio, la chiave di interpretazione di quanto viene detto o comunicato, il canale e le forme in cui avviene la comunicazione, le norme di interazione e di interpretazione, i generi o tipi di testi consuetudinari. La natura e la struttura dell'interazione verbale non possono essere comprese e spiegate se non tenendo conto contemporaneamente di tutti questi ingredienti: l'analisi linguistica chiama qui in gioco la descrizione e l'interpretazione dell'intera vita sociale e simbolica della comunità indagata.
Un cambiamento in uno dei fattori o componenti che intervengono nell'evento comunicativo può dare luogo, nei parlanti di comunità con repertori bilingui o plurilingui, al passaggio nel corso della conversazione da una lingua a un'altra lingua o varietà di lingua. Il fenomeno, che rappresenta uno degli aspetti più interessanti nello studio sociolinguistico del bilinguismo, va sotto il nome di commutazione di codice (code switching). Un esempio si ha nel seguente scambio di battute, in cui i partecipanti alternano italiano e dialetto tedesco svizzero, Schwyzertütsch (tratto da una ricerca sul comportamento linguistico della seconda generazione di immigrati italiani nella Svizzera tedesca: v. Pizzolotto, 1991, p. 91):
A: Wämer verusse hocke, Giusi? [= Wollen wir draussen sitzen, 'vogliamo sederci fuori']
B: Per me... A: Qui dentro fa caldo. Di andere händ gfrööget, öb mir wänd usse oder inne. [= Die anderen haben gefragt, ob wir innen oder aussen wollen, (letteralmente) 'gli altri hanno chiesto se vogliamo stare dentro o fuori'].
Lungi dall'essere semplicemente il risultato di una casuale e caotica mescolanza di sistemi linguistici, dovuta all'incapacità del parlante bilingue di padroneggiare con sufficiente fluenza i due codici, tale alternanza - molto studiata anche interdisciplinarmente - riveste di solito particolari funzioni comunicative e simboliche, ha significati pragmatici di varia natura e appare governata sia da norme sociali sia anche da restrizioni e principî linguistici; nei repertori di molti gruppi bilingui, la frequente utilizzazione della commutazione di codice si configura come una risorsa ulteriore nella gamma di varietà e modi comunicativi a disposizione del parlante (v. Milroy e Muysken, 1995).
(V. anche Comunicazione; Linguaggio; Semiotica).
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