Sociologia
di Tom B. Bottomore
Sociologia
sommario: 1. Introduzione. 2. Idee e problemi fondamentali della sociologia nel primo Novecento. 3. Sociologia e marxismo nella crisi mondiale. 4. La nascita della teoria funzionalistica. 5. Politiche assistenziali e sviluppo della ricerca sociale. 6. Il nuovo radicalismo e il riorientamento della sociologia. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Sebbene le origini della sociologia siano da rintracciare nel pensiero sociale del Sette e del primo Ottocento nella filosofia della storia, negli scritti degli Enciclopedisti, nelle indagini sulla ‛società civile' compiute dai filosofi e dagli storici scozzesi, nelle opere dei critici romantici dell'illuminismo - la sua formazione ed elaborazione come scienza sociale autonoma appartiene prevalentemente al Novecento. È vero che fu Comte, nell'Ottocento, a inventare il nome della nuova scienza e che sia lo stesso Comte sia Spencer scrissero sull'evoluzione sociale opere ponderose, intese a stabilire i principî fondamentali della sociologia; le loro idee, tuttavia, hanno svolto un ruolo modesto nel pensiero sociologico moderno, e sono oggi scarsamente ricordate. D'altro canto, il pensiero di Karl Marx - sebbene possa essere oggetto di valutazioni diverse - ha avuto, e continua ad avere, un'influenza profonda. Anzitutto, è possibile dire che molti dei punti basilari del marxismo - l'importanza attribuita al sistema di produzione, il ruolo delle classi e dei conflitti di classe nel mutamento sociale, la genesi sociale delle ideologie - sono stati incorporati nello schema generale di pensiero di tutta la sociologia; oppure si può sostenere che esiste una specifica sociologia marxista; oppure, infine, si può affermare che è stato il marxismo, in quanto critica radicale della società capitalistica e in quanto associato a un movimento politico mirante a distruggere questo tipo di società, a promuovere, nella forma di una reazione intellettuale e ideologica, lo sviluppo della sociologia come disciplina accademica.
C'è un'indubbia, stretta relazione tra l'emergere di una seria discussione scientifica della teoria sociale marxiana - nell'ultimo decennio dell'Ottocento - e il sorgere della sociologia. Nella sua ricerca sul ‛riorientamento' del pensiero sociale europeo, Stuart Hughes (v., 1958) ravvisa uno dei principali punti di partenza di questo processo nella critica del marxismo, la quale doveva condurre da un lato, nelle opere di Bernstein e Sorel, a una revisione della teoria socialista della società, e dall'altro, in opposizione al marxismo, all'elaborazione - specialmente ad opera di Pareto e di Max Weber - di nuove teorie e concezioni sociologiche, contrapposte al marxismo.
Nell'ultimo decennio dell'Ottocento, Schmoller (1894), Croce (v., 1899), Stammler (v., 1896) e Masaryk (v., 1899) pubblicarono i primi importanti studi critici sul marxismo come teoria della società. Il medesimo periodo vide nuove esposizioni del ‛materialismo storico' (v. Labriola, 1895-1898) e l'applicazione della teoria allo studio di particolari istituzioni sociali (v. Grosse, 1896). Alcune delle più importanti discussioni del marxismo come scienza sociale generale comparvero sulla rivista ‟Le devenir social" (fondata da Sorel), nella quale Sorel stesso (v., 1895) pubblicò un ampio studio comparativo delle teorie di Marx e Durkheim.
Nel giro di pochi anni, la teoria di Marx, nelle sue relazioni con la sociologia, era diventata il centro di una discussione internazionale. Essa occupò un posto di grande rilievo nel primo congresso internazionale di sociologia, tenuto nel 1894 (cfr. ‟Annales de l'Institut International de Sociologie", 1895, I), e poi di nuovo nel congresso del 1900, in larga misura dedicato all'esame del materialismo storico (ibid., 1902, VIII). Analogamente, le principali riviste di sociologia, che vennero alla luce in quel torno di tempo, si preoccupavano di definire il rapporto tra sociologia e marxismo. Il primo volume dell' ‟Année sociologique", fondata da Durkheim nel 1898, ospitava recensioni di parecchie opere marxiste, e uno dei recensori, con qualche esagerazione, osservava che ‟la concezione materialistica della storia è in voga, come attesta quasi ogni pagina dell' ‟Année sociologique" " (v. Lapie, 1898). La scuola di Durkheim, in realtà, si sviluppò piuttosto in contrapposizione al marxismo, e Durkheim stesso si preoccupò in modo particolare di separare la sociologia dal socialismo (v. Durkheim, 1928).
Di Max Weber è stato detto che ‟divenne sociologo in un lungo e intenso dialogo con lo spirito di Karl Marx" (v. Salomon, 1945), e nell'editoriale dell' ‟Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik" Weber accennava in vari luoghi all'importanza della teoria marxiana nel movimento intellettuale mirante a fondare una scienza generale della società, pur insistendo sul fatto che le ‛leggi' e i modelli di sviluppo marxiani dovevano essere considerati come ‛tipi ideali', forniti unicamente di valore euristico, e non come forze e tendenze reali empiricamente accertabili. ‟La cosiddetta ‛concezione materialistica della storia' dev'essere, in quanto Weltanschauung o in quanto formula per la spiegazione causale della realtà storica, risolutamente rifiutata, ma la promozione dell'‛interpretazione' economica della storia è uno dei più importanti scopi della nostra rivista" (v. Weber, 1904).
Alla fine del secolo, la connessione tra marxismo e sociologia era interpretata in modi diversi dai pensatori interessati all'edificazione di una nuova scienza sociale. Per alcuni la rilevanza del marxismo stava soprattutto nella sua esposizione rigorosa di una teoria evoluzionistica della società umana, teoria che si armonizzava agevolmente con il generale interessamento - rafforzato, sotto certi aspetti, dall'influsso della teoria darwiniana - per le idee di evoluzione e di progresso. Questo aspetto del marxismo si dimostrò però, alla lunga, di importanza non fondamentale, giacché la sociologia novecentesca doveva staccarsi sempre di più dalle concezioni evoluzionistiche. Fu in quanto teoria che spiegava le origini della società moderna, ne delineava i maggiori problemi sociali e ne abbozzava lo sviluppo futuro, che il marxismo esercitò l'influsso più profondo. E l'influsso fu tanto maggiore in quanto il marxismo stesso - diventando, specialmente in Germania, la dottrina prevalente nel movimento operaio - contribuì direttamente a porre i problemi e a promuovere le soluzioni nella sfera della vita pratica. Il pensiero marxiano, infine, formulava nel modo più chiaro la maggior parte delle questioni metodologiche coinvolte in ogni teoria di una scienza sociale generale: la natura del sistema sociale, le cause del mutamento sociale, il rapporto tra individuo e società, il problema dei valori e i nessi fra teoria e prassi.
Non fu affatto, però, unicamente in un confronto con il marxismo che la sociologia moderna pose le proprie fondamenta. Come ha notato Hughes circa il periodo coperto dalla sua ricerca sul pensiero sociale europeo (dalla fin de siècle all'inizio della grande depressione degli anni trenta), esso fu caratterizzato da un ‟senso della morte della vecchia società, congiunto a una dolorosa incertezza su ciò che le forme della nuova società avrebbero potuto essere" (v. Hughes, 1958; tr. it., p. 21). I sistemi sociologici delineati da Max Weber, Durkheim e Pareto erano, al pari del marxismo stesso, direttamente coinvolti in questa situazione; essi erano tentativi di raggiungere una comprensione del come, e attraverso quali attori, la società andava trasformandosi, e di fornire una qualche guida nell'edificazione di un nuovo ordine sociale.
Fu, quest'ultimo, uno dei compiti che, a un livello più immediatamente pratico, la sociologia doveva addossarsi. Man mano che i problemi delle società urbane e industriali si aggravavano, sia per dimensioni che per complessità, e man mano che il sistema capitalistico era più vigorosamente sfidato dai vari movimenti socialisti, andarono sviluppandosi nuovi organi e nuove politiche, miranti a gestire il sistema con maggiore efficacia, ad alleviare i suoi mali più manifesti, a controllare i conflitti interni e a promuovere una maggiore integrazione sociale.
I più eminenti studiosi videro allora nella sociologia la dispensatrice di un sistema di idee all'interno del quale fosse possibile indagare e risolvere i problemi posti dalla vita sociale e culturale in una moderna società industriale e capitalistica. Ma assai diversa si dimostrò l'incidenza del senso della crisi, del bisogno di nuovi modi di pensiero, e di conseguenza assai diseguale fu lo sviluppo della sociologia. Fu soprattutto in Germania e in Francia - la cui situazione interna era il risultato di mutamenti sociali rivoluzionari e di profondi conflitti interni - e in minor misura negli Stati Uniti - caratterizzati dall'accelerarsi dello sviluppo industriale dopo la guerra civile, dall'afflusso di un'immigrazione di massa e dall'emergere di più nette differenze di classe - che la sociologia acquisì la più cospicua rilevanza intellettuale. Interamente diversa era la situazione in Gran Bretagna, la prima società capitalistica moderna, dove l'evoluzione del pensiero sociale avvenne prevalentemente attraverso la graduale modificazione delle idee tradizionali, proprio come l'evoluzione della società aveva luogo attraverso il lento adattamento del vecchio regime alle richieste dei nuovi gruppi sociali. Qui la sociologia trovò un terreno infecondo. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, nella nuova situazione derivante dalla perdita dell'Impero e dal declino della potenza nazionale, si fece strada una sorta di malessere che si dimostrò favorevole a un riorientamento profondo del pensiero sociale.
La rapida trasformazione del mondo intero in seguito alle rivoluzioni sociali, ai formidabili progressi della tecnologia, alle lotte dei paesi agricoli ex coloniali per impiantare un'economia industriale e riformare le loro istituzioni sociali, è stata il principale fattore cui si deve la crescente rilevanza intellettuale della sociologia e la più vasta diffusione di una prospettiva sociologica. Tale prospettiva è però in larga misura ancora modellata sulle idee formulate agli inizi del secolo con l'intento di affrontare problemi che rimangono in massima parte irrisolti, e possono anzi sembrare ancora più lontani da una soluzione di quanto lo fossero allora; nel migliore dei casi, inoltre, la prospettiva sociologica è caratterizzata da un'unità antagonistica, nella quale differenti Weltanschauungen e preferenze metodologiche, differenti presupposti culturali e forme di impegno politico si contrappongono gli uni agli altri.
2. Idee e problemi fondamentali della sociologia nel primo Novecento
Diversi, e tuttavia tra loro connessi, sono stati i tentativi di individuare i temi principali del pensiero sociologico nelle sue fasi iniziali. Nisbet (v., 1966) scopre nella ‛tradizione sociologica' cinque categorie fondamentali - comunità, autorità, status, il sacro e l'alienazione - delle quali possiamo dire che definiscono l'ordine dei problemi costituenti l'oggetto della disciplina. Questi problemi sorsero, nella sfera della vita pratica, dalle trasformazioni subite dalla società europea e nordamericana nell'Ottocento: trasformazione che può essere compendiata nell'avvento, e nel successivo progresso, dell'industrializzazione e della democrazia. Nel corso di questo processo le antiche comunità tradizionali si dissolsero, e gli uomini furono spinti a forza nella strana, disordinata e più impersonale vita sociale delle città in rapida crescita; l'autorità politica costituita veniva minata o rovesciata, e dispute sorgevano circa le possibili basi di una nuova autorità; la gerarchia sociale era gettata nel disordine dall'emergere di classi ed élites nuove e dalla crescente importanza, rispetto ai ‛ceti' e ‛ordini' tradizionali, di ‛classi' la cui base era di natura economica; le dottrine religiose e i costumi morali tradizionali venivano posti in discussione, e diventava oscuro quali nuove nozioni morali, se pur ve n'erano, potessero efficacemente regolare la vita sociale; si dispiegava infine una forma di vita - variamente descritta come sradicata, individualistica, instabile e ‛acquisitiva' - nella quale gli uomini si ritrovavano ‛alienati', non integrati nella loro società né d'altra parte in attiva ribellione contro di essa.
Secondo Nisbet, l'elaborazione delle idee fondamentali della sociologia ebbe luogo nel corso di un periodo creativo che, all'incirca, si estende da Tocqueville a Weber; è l'‛età classica' della sociologia, in cui si formarono le categorie attraverso le quali ancora oggi, oltre un secolo più tardi, tentiamo di comprendere il mondo sociale. L'evoluzione del pensiero sociologico presenta tuttavia altri tratti caratteristici che occorre prendere in considerazione.
In primo luogo - come ho già accennato - la formazione di un corpo teorico specificamente sociologico ebbe luogo principalmente nel periodo che va dall'ultimo decennio dell'Ottocento agli anni venti del nostro secolo, periodo che ha titoli assai migliori per essere considerato quello creativo della sociologia. È vero che in questo periodo l'interesse di alcuni dei maggiori pensatori sociali si accentrava sul tipo di problemi indicati da Nisbet: problemi cioè di integrazione sociale, di classe e di eguaglianza, di base morale della vita sociale. Nell'approccio a questi problemi, però, mancava per lo più qualsiasi convinzione che già sussistessero gli elementi necessari per costituire un tipo nuovo di società stabile. Al contrario, acuta era la consapevolezza di vivere in un'età di transizione, e si attendevano, e talora si paventavano, altri rapidi, e forse radicali, mutamenti sociali.
Nel contempo, molti tra questi pensatori erano afflitti da dubbi metodologici assai più gravi che non i loro predecessori - i costruttori dei grandi sistemi esplicativi - e divennero alquanto scettici circa la possibilità di formulare una qualsiasi interpretazione comprensiva e scientificamente valida delle tendenze della società moderna. Come osserva Hughes, essi si trovavano dinanzi ‟il problema della natura della conoscenza in quelle che Dilthey aveva chiamato le ‛scienze dello spirito' " (v. Hughes, 1958; tr. it., p. 70), e alcuni, come Croce, si convinsero della radicale soggettività della conoscenza sociale e storica; ‟se la conoscenza dei fatti umani poggiava dunque su fondamenti così ipotetici", era impossibile accontentarsi ‟delle facili assicurazioni delle ideologie razionalistiche, ereditate dai centocinquant'anni precedenti" (ibid.).
Una caratteristica della sociologia agli inizi sta dunque nell'aver messo in discussione il positivismo e l'evoluzionismo che avevano improntato i tentativi ottocenteschi di costituire una scienza generale della società. L'atteggiamento critico era evidente soprattutto in Germania e specialmente nell'accento posto da Max Weber sulla necessità di comprendere i fini soggettivi degli agenti sociali individuali e nel suo rifiuto del marxismo in quanto Weltanschauung o in quanto valida teoria causale della totalità della storia umana. L'opposizione al positivismo e all'evoluzionismo, tuttavia, era lungi dall'essere completa. Di Weber si è detto spesso che conduceva una guerra su due fronti: contro le versioni estreme del positivismo da un lato e dell'idealismo dall'altro. Egli non proponeva di eliminare dalla sociologia, a favore di interpretazioni puramente soggettive, tutte le generalizzazioni e tutte le spiegazioni causali, ma tentava di riconciliare una comprensione del significato dell'azione individuale con una spiegazione causale dell'evoluzione dei fenomeni sociali di grandi dimensioni, come attestano le sue ricerche sulle origini del capitalismo o sulla crescita della burocrazia (v. Weber, 1904 e 1923).
Tra i sociologi classici ce ne furono altri ancora più inclini a una concezione positivistica. L'esposizione durkheimiana delle ‛regole del metodo sociologico' (v. Durkheim, 1895) era fortemente positivistica con la sua insistenza sulla necessità di trattare i fatti sociali come ‛cose', con la sua pretesa di fondare la sociologia quale scienza rigorosa, e con la sua affermazione della natura rigorosamente causale della spiegazione sociologica; e ciò sebbene egli preferisse designare la propria concezione come ‛razionalismo scientifico', distinguendola dalla ‛metafisica positivistica' di Comte e Spencer, e sebbene non avanzasse pretese esagerate circa le future conquiste della scienza sociale. Ma nei suoi scritti più tardi, e specialmente nelle sue ricerche sulla religione (v. Durkheim, 1912), il suo interessamento di antica data per la regolazione morale della vita sociale doveva avvicinarlo maggiormente a una concezione idealistica, volta soprattutto alla comprensione degli aspetti morali e simbolici della solidarietà sociale (v. Nisbet, 1966).
Nell'opera di Pareto l'accento è posto con energia ancora maggiore sull'edificazione di una scienza positiva della società. Sebbene criticasse con vigore il razionalismo del Sette e Ottocento e avesse dedicato in gran parte la sua opera maggiore all'analisi degli elementi non razionali (o, com'egli diceva, non logici) della vita sociale, egli si diede a indagare i fenomeni sociali in modo rigorosamente scientifico, adoperando un metodo da lui considerato proprio della ricerca scientifica - il metodo ‛logico-sperimentale' - e dichiarando che la sua ambizione era di creare una scienza sociale sul modello della meccanica.
Queste diverse reazioni al positivismo trovarono il loro parallelo nelle reazioni all'evoluzionismo. Sia Weber che Pareto e Durkheim abbandonarono gli schemi evoluzionistici dei pensatori ottocenteschi, ripudiando in particolare l'idea di progresso, incorporata in quegli schemi; e quest'ultimo fu, anzi, uno degli elementi della loro opposizione al marxismo. Pareto, che era un critico particolarmente aspro delle nozioni di progresso e di umanitarismo - e in verità dell'intero credo liberale - elaborò una teoria ciclica della storia, il cui tratto principale era costituito dalla circolazione delle élites. Nei suoi primi scritti Durkheim era ancora sotto l'influsso delle idee evoluzionistiche, come mostra il contrasto da lui delineato tra la ‛solidarietà meccanica' delle società primitive e la ‛solidarietà organica' prevalente nelle società moderne, e la sua spiegazione della transizione dall'una all'altra in termini di un crescente ampliarsi della divisione del lavoro (v. Durkheim, 1893). Ma nelle sue ricerche più tarde il suo interesse si concentrò maggiormente sugli elementi universali presenti nella vita sociale, e in particolare sul ruolo della religione nelle varie forme di società (v. Durkheim, 1912). Anche Weber, come abbiamo visto, ripudiava ogni concezione della sociologia che pretendesse di fornire una descrizione scientifica dell'intera evoluzione storica della società; egli non escludeva però la possibilità di spiegazioni storico-sociologiche di portata più limitata, riguardanti cioè fenomeni sociali specifici in periodi di tempo definiti. Le sue ricerche sulle origini e sullo sviluppo del capitalismo moderno cadono appunto in questa categoria, pur sembrando nel contempo guidate dalla nozione - di indole più speculativa - di una tendenza generale verso la ‛razionalizzazione' della vita sociale, nozione cui si può contrapporre l'idea marxiana della crescente ‛alienazione' dell'uomo nella società capitalistica (v. Löwith, 1932). Nello sfondo del pensiero weberiano appare quindi, a dispetto del suo ripudio dell'evoluzionismo come teoria generale della storia, una filosofia della storia di intonazione pessimistica.
Negli Stati Uniti, dove il darwinismo sociale di Spencer esercitò un influsso assai maggiore che in Europa (v. Hofstadter, 1955), parecchi tra i primi sociologi, specialmente Sumner e Veblen, adottarono un'impostazione evoluzionistica. Veblen subì però anche l'influsso sia dei movimenti e delle idee radicali dell'ultimo Ottocento sia della teoria marxiana, sebbene il rilievo da lui dato ai fattori puramente tecnologici nell'evoluzione della società si allontanasse considerevolmente dall'interpretazione economica di Marx. In generale, il pensiero sociale americano fu caratterizzato, nel primo decennio del Novecento, da un rinnovato interessamento per l'evoluzione sociale, e subì in misura crescente l'influsso del marxismo, nelle varie forme elaborate dalla scuola storica tedesca di economia e dai ‛socialisti della cattedra' (v. White, 1957).
A partire dagli ultimi anni del secolo, il marxismo stesso cominciò ad assumere - negli scritti di K. Kautsky e di altri marxisti tedeschi - il carattere di una teoria sociologica a orientamento positivistico ed evoluzionistico; e la ‛revisione' bernsteiniana della teoria di Marx fu influenzata sia dall'idea che il marxismo dovesse svilupparsi come una scienza sociale empirica sia dall'evoluzione generale delle scienze sociali, che andavano sempre più interessandosi ai temi centrali dell'opera di Marx, e specialmente al problema delle classi. Il tentativo più sistematico di presentare ed elaborare il marxismo come un sistema sociologico fu compiuto, nel decennio precedente la prima guerra mondiale, dagli austro-marxisti e in particolare da Max Adler, secondo il quale Marx, avendo formulato la concezione dell' ‛umanità socializzata', e avendo elaborato i principi generali di una teoria causale del processo storico, era il vero fondatore della sociologia.
Da quanto abbiamo detto risulta evidente che la sociologia, così come venne costituendosi agli inizi del Novecento, assunse forme assai diverse. Se le considerazioni di Nisbet, che vede nei temi principali della sociologia il riflesso dei problemi sociali della transizione verso una società capitalistica industriale, sono largamente accettabili, questa prospettiva generale non dovrebbe però oscurare le grandissime differenze esistenti tra i singoli pensatori - e in qualche misura tra le scuole nazionali - nelle loro concezioni della natura della sociologia e degli aspetti più significativi del suo oggetto. In Germania la critica e il ripudio del positivismo - di ogni tentativo di fondare la sociologia sul modello delle scienze naturali - furono assai più decisi che in Francia, dove l'influsso di Durkheim incoraggiò un approccio d'intonazione più positivistica, e questa divergenza, almeno in parte, può essere compresa in riferimento al diverso quadro filosofico, derivante nell'un caso da Kant e Hegel e nell'altro da Comte (v. Aron, 1936). Nel contempo, il carattere della sociologia tedesca fu determinato in misura assai maggiore dal confronto con il marxismo, sebbene in una versione alquanto positivistica. In Italia, ad onta dell'opera di Pareto, l'influsso principale sul pensiero sociale fu esercitato da Croce, il quale, dopo un breve periodo in cui contribuì al dibattito sul marxismo, si dedicò, in contrapposizione a ogni scienza sociale generale, a una filosofia della storia sulle orme di Hegel.
Altrettanto disparate furono le reazioni alle teorie dell'evoluzione sociale. Come abbiamo accennato, le idee evoluzionistiche ebbero negli Stati Uniti un riconoscimento più generale che altrove, sebbene anche qui l'interesse fosse soprattutto rivolto all'interpretazione storica dei mutamenti intervenuti nella società americana piuttosto che all'elaborazione o al raffinamento di un qualche schema evoluzionistico generale. Il pragmatismo, inoltre, avanzò dubbi circa la validità dell'applicazione di un unico schema concettuale all'intera storia dell'umanità, e tendeva a dirigere l'attenzione dei teorici sociali sui problemi pratici della società moderna. Nel contempo, come ebbe a notare Durkheim, il pragmatismo formulò alcuni dei problemi della sociologia della conoscenza, sebbene osservava sempre Durkheim (v., 1955) - esso andasse troppo oltre nell'attaccare il razionalismo e nel sostenere una teoria relativistica della conoscenza. Soltanto nella sociologia inglese fu conservata, in una forma più o meno inalterata e associata all'idea di progresso, l'impostazione evoluzionistica, peraltro senza molta influenza sulle più vaste correnti del pensiero sociale (v. Hobhouse, 1924).
In Germania la reazione alle teorie evoluzionistiche rivestì due forme principali. Una è quella di Max Weber, il quale abbandonò il problema dell'evoluzione storica nella sua globalità, pur rimanendo interessato all'interpretazione di mutamenti storici specifici, soprattutto quelli che avevano prodotto il fenomeno unico del capitalismo occidentale moderno. Il secondo orientamento - quello della sociologia ‛formale' o ‛sistematica' - che traeva origine principalmente dall'opera di Simmel e fu sviluppato da von Wiese - si concentrò sull'analisi delle forme universali dei rapporti sociali piuttosto che sull'interpretazione dei processi storici; nelle parole di Simmel: ‟gruppi sociali i più diversi per obiettivi e per importanza generale possono cionondimeno presentare, nei rapporti reciproci tra i loro membri, forme identiche di comportamento. Riscontriamo quindi superiorità e subordinazione, concorrenza, divisione del lavoro, formazione di partiti, rappresentanza, solidarietà interna associata a esclusivismo nei confronti dell'esterno e innumerevoli tratti analoghi tanto nello Stato che in una comunità religiosa, in una banda di cospiratori come in un'associazione economica o in una scuola d'arte o nella famiglia. Per diversi che siano gli interessi che danno origine a queste associazioni, le ‛forme' in cui gli interessi sono realizzati possono tuttavia essere identiche" (v. Simmel, 1917). Simmel non escludeva però interamente le ricerche storiche; uno degli oggetti della sociologia era costituito per lui dalla ‟totalità della vita storica in quanto sia plasmata dalla società", e in una delle sue opere principali analizzò gli elementi sociologici presenti nello sviluppo storico di un'economia monetaria (v. Simmel, 1900). Si può inoltre ritrovare, in uno dei primi lavori di Tönnies (v., 1 887), dedicato ai tipi principali di società umana, una combinazione di interpretazione storica e di analisi formale dei rapporti sociali.
Ma nella successiva elaborazione, ad opera di von Wiese, della sociologia formale, l'interesse per una concezione storica della società fu in larga misura abbandonato a favore della costruzione di un sistema analitico comprensivo delle caratteristiche universali dei rapporti sociali, considerati in termini di interazione e di distanza sociale. Alcuni dei principali concetti della sociologia formale sono sopravvissuti - o sono stati chiamati a nuova vita - in impostazioni più recenti, che descrivono e analizzano l'‛interazione' e lo ‛scambio' sociale.
Con l'abbandono delle concezioni evoluzionistiche, Durkheim inaugurò un altro e diverso stile di pensiero sociologico. La sua preoccupazione per la solidarietà sociale lo indusse a una visione della società in cui la questione centrale era l'analisi dei fattori che promuovono o indeboliscono la solidarietà. Un tale interesse era già evidente nei suoi tentativi di fondare una sociologia positivistica con l'esposizione del ‛metodo sociologico' (v. Durkheim, 1895), dove discuteva le funzioni dell'istituzione sociale in relazione ai bisogni dell'‛organismo sociale' e delineava una distinzione tra funzionamento ‛normale' e funzionamento ‛patologico' delle istituzioni; ma esso permea tutte le sue ricerche - sulla divisione del lavoro, sul suicidio, sulla regolazione del comportamento da parte della religione e della morale - giacché ciò che soprattutto l'inquietava erano l'illimitato individualismo e l'anomia delle società moderne, e l'assenza di un qualsiasi codice morale universale che desse forma e ordine alla vita sociale. Trasse quindi origine in gran parte da Durkheim quella che, con riguardo sia al suo metodo sia ai suoi interessi politici e sociali, doveva in seguito essere chiamata la teoria funzionalistica (v. Radcliffe-Brown, 1952).
Oltre alle differenze profonde in materia di orientamenti teorici e metodologici e di concezioni filosofiche, i fondatori della sociologia agli inizi del secolo divergevano anche largamente nel giudizio su quali fossero i problemi politici e sociali contemporanei di importanza vitale. I marxisti, o coloro che dal marxismo erano fortemente influenzati, attribuivano il rilievo maggiore ai rapporti tra le classi, al progresso del movimento operaio e allo sviluppo di condizioni suscettibili di consentire la transizione verso una società socialista. La fondazione della sociologia americana nel primo decennio del Novecento e il suo graduale abbandono delle idee spenceriane di evoluzione sociale furono in qualche misura il frutto dello shock dovuto al riconoscimento dell'emergenza di classi ben definite in conflitto tra loro e alla crescita di un movimento socialista indigeno (v. Page, 1969). Ma anche all'interno del marxismo si delinearono diverse correnti di pensiero: la controversia revisionista, inaugurata da Bernstein, divideva i fautori della teoria di un progressivo acutizzarsi, nella società capitalistica, della polarizzazione delle classi e del suo sbocco in una trasformazione rivoluzionaria, da coloro secondo i quali la crescita degli strati intermedi - la ‛nuova' classe media - rendeva la struttura di classe più complessa e i conflitti sociali meno netti, e da coloro, infine, che vedevano l'avvento del socialismo come un processo graduale ed evoluzionistico.
Molti sociologi, tuttavia, erano interessati piuttosto all'evoluzione delle nazioni e al loro posto nel sistema internazionale che al problema delle classi e del loro antagonismo, salvo che, e nella misura in cui, tali problemi non incidessero sull'unità nazionale. Durkheim era dominato soprattutto dalla preoccupazione di trovare per la società francese una nuova base morale, che fosse in grado di superare le divisioni prodotte dalla specializzazione professionale, dall'eccessivo individualismo e dalle differenze di classe. Del pari, l'interesse di Weber era rivolto alla prosperità dello Stato tedesco, e in particolare al problema di un'efficace leadership politica nell'era postbismarckiana (v. Giddens, 1972). Non sarebbe troppo fuorviante vedere nel pensiero sociologico di Durkheim e di Weber l'espressione della rivalità - nel contesto del predominio esercitato dall'Impero britannico - tra Francia e Germania per la leadership in Europa e l'influsso su scala mondiale; più tardi Weber, discutendo il ruolo della Germania nella guerra, doveva sostenere l'importanza di difendere e di espandere la cultura tedesca in contrasto con le altre potenze culturali: l'anglosassone e la slava.
Questi problemi irrisolti, riguardanti la formazione delle nazioni moderne e le loro rivalità internazionali, l'evoluzione delle classi e il possibile emergere di nuove - postcapitalistiche - forme di società, come anche le dispute sui concetti e sui metodi peculiari della sociologia stessa, furono trasmessi dai fondatori ai loro successori, e costituiscono tuttora, in gran parte, la sostanza della controversia sociologica. Nel contempo i fondatori trasmisero una prospettiva, o punto di vista, di cui si può ben affermare la natura specificamente sociologica. Da tutti, in un modo o nell'altro, era messa in rilievo l'importanza dei gruppi sociali nel formare e guidare l'azione individuale, e fu severamente giudicato, o addirittura ripudiato, l'individualismo astratto del pensiero settecentesco. Come A. Small ebbe a osservare passando in rassegna l'evoluzione della sociologia americana, una rivoluzione ‟aveva avuto luogo, nell'ultimo venticinquennio, nell'intera sfera di pensiero riguardante l'esperienza umana: l'accento si era cioè spostato da un presunto agente individuale al ‛gruppo', all'interno del quale le persone sono ora riconosciute come elementi subordinati" (v. Small, 1926).
3. Sociologia e marxismo nella crisi mondiale
Il sentimento di una crisi profonda della società, che trovò espressione nel pensiero sociologico del primo Novecento, si fece ancora più acuto nei decenni successivi alla prima guerra mondiale. La guerra stessa, le sollevazioni rivoluzionarie immediatamente successive, la crisi mondiale degli anni trenta, il sorgere del fascismo e la minaccia di un'altra guerra mondiale: tutto ciò determinò uno scontro fra le teorie sociali e un rinnovato tentativo di interpretare le tendenze di sviluppo operanti nelle società industriali capitalistiche. In questa attività di critica e di interpretazione, tuttavia, la sociologia svolse un ruolo assai minore di quanto ci si sarebbe potuto aspettare alla luce delle conquiste intellettuali della generazione prebellica. Il pensiero filosofico entrò in una fase brillante, che produsse la filosofia analitica del Circolo di Vienna, la filosofia linguistica del secondo Wittgenstein e, in una direzione affatto diversa - quella della fenomenologia e dell'esistenzialismo - nuove versioni della filosofia come visione del mondo. Un rinnovamento del pensiero marxista si ebbe con gli scritti di Lukács, Korsch e Gramsci, e in un secondo tempo con la Scuola di Francoforte (v. Jay, 1973), la cui attività assunse in larga misura la forma di una critica della sociologia e delle tendenze sociologiche del marxismo prebellico, riaffermando l'ispirazione hegeliana della teoria marxiana della società (v. Marcuse, 1941).
Le opere di sociologia scritte durante gli anni venti e trenta non si cimentarono, per la maggior parte, con i problemi sollevati dalle nuove correnti del pensiero filosofico o dalle nuove formulazioni della teoria marxista. Con poche eccezioni, i sociologi di questo periodo si interessarono o all'elaborazione e al commento delle idee dei loro predecessori o all'effettuazione di ricerche empiriche su aspetti particolari della vita sociale; in quest'ultima direzione ricerche ragguardevoli furono intraprese dalla Scuola di Chicago (v. Faris, 1967). Ispirata originariamente da A. Small e poi da R. E. Park (che cominciò a insegnare sociologia all'Università di Chicago nel 1913) e assumendo a oggetto di ricerca taluni degli aspetti più drammatici dell'America del Novecento - la rapida crescita dei centri industriali urbani, il vasto afflusso di immigranti, l'emergere di punte estreme di ricchezza e di povertà - la Scuola di Chicago produsse notevoli ricerche sulla vita urbana, tra cui The gang di F. M. Thrasher (1927), The gold coast and the slum di H. W. Zorbaugh (1929) e The ghetto di L. Wirth (1928).
Alcuni - rari - contributi a un'analisi più comprensiva della società americana furono prodotti dalle esperienze della depressione economica. Citiamo la ricerca, curata da W. F. Ogburn e H. W. Odum, Recent social trends (1933), in cui si indagavano le tendenze operanti nella tecnologia, nell'economia, nella struttura demografica, nella famiglia e in altre istituzioni sociali, e la seconda indagine di R. e H. Lynd su una città del Middle West (Middletown in transition, 1937), il cui intento era di osservare i mutamenti prodotti dalla depressione nelle relazioni tra classe operaia e classe imprenditoriale. Più in là negli anni trenta, fu avviata una ricerca su larga scala sulle relazioni tra Bianchi e Negri in America, ma è degno di nota ch'essa fosse diretta da un economista svedese, G. Myrdal (v., 1944), e non da un sociologo americano. Tenue sembra essere stato l'impatto del marxismo sulle scienze sociali in America (anche nel periodo in cui più gravi furono la crisi economica e il conflitto politico), e il suo influsso fu significativo soltanto tra gli intellettuali (v. Bottomore, 1968). In generale, questo fu per la sociologia americana un periodo di ristagno, un aspetto del quale è dato dal fatto che tra il 1932 e il 1937 il numero degli iscritti all'American Sociological Association diminuì di oltre un terzo, sino a un livello non molto più alto di quello del 1919. Solo nei tardi anni trenta ebbe inizio un risveglio - e la sociologia prese allora un indirizzo più conservatore - quando T. Parsons e R. K. Merton cominciarono a gettare le basi di una nuova teoria funzionalistica.
In Francia la scuola sociologica creata da Durkheim attorno all' ‟Année sociologique" decadde dopo la morte del maestro durante la guerra, nella quale morirono anche molti dei suoi più stretti collaboratori; i seguaci superstiti elaborarono principalmente i temi da lui già delineati e discussi, cessando quindi di esercitare un influsso decisivo sul pensiero sociale del periodo postbellico. La giovane generazione di sociologi attivi negli anni trenta (R. Aron, G. Friedmann, G. Gurvitch, ecc.) aveva scarsi legami con la scuola durkheimiana, e la sua prospettiva era stata formata in misura assai larga dalla sociologia e dalla filosofia tedesche, oppure dal marxismo. L'influsso di Durkheim sulle scienze sociali fu più manifesto in antropologia che in sociologia, in particolare attraverso l'interpretazione che delle sue idee diede A. R. Radcliffe-Brown (v., 1952), il quale contribuì, con il suo insegnamento all'Università di Chicago (1931-1937), a fondare una scuola di antropologia sociale basata in notevole misura sulle concezioni durkheimiane. Soltanto nei tardi anni trenta, in particolare dopo la pubblicazione di The structure of social action (1937), in cui Talcott Parsons esponeva diffusamente alcuni dei principali elementi del pensiero durkheimiano, la sua influenza sulla sociologia, soprattutto nel mondo di lingua inglese, ricominciò ad acquistare rilievo.
Una notevole eccezione al generale fallimento della sociologia - durante il ventennio successivo alla prima guerra mondiale - nell'estendere e approfondire gli interessi politici e intellettuali dei suoi fondatori è costituita dall'opera di K. Mannheim. Il pensiero di Mannheim si formò dapprima sotto l'influsso di Simmel, di cui fu allievo a Berlino prima della guerra e che gli trasmise il sentimento dell'acuta crisi della cultura moderna. La guerra e i suoi postumi intensificarono questo sentimento di disordine sociale e intellettuale, mentre l'amicizia con Lukács lo avvicinò al marxismo. Il risultato fu che Mannheim giunse ad accettare in gran parte l'opinione secondo la quale gli sconvolgimenti in Europa erano il segnale della fine dell'epoca borghese e dell'affermazione della classe operaia. Tornato in Germania, egli subì però vari altri influssi, tra gli altri dello storicismo, della sociologia culturale di A. Weber e della fenomenologia husserliana, specialmente nella forma in cui quest'ultima era stata applicata, ad opera di M. Scheler, all'analisi delle basi sociali della conoscenza. La sua opera principale, Ideologie und Utopie (1929), riflette tutti questi influssi disparati.
Il tema principale del libro è costituito dal cozzo di idee e dottrine nell'Europa postbellica e dallo sviluppo, particolarmente nel pensiero tedesco, della teoria dell'ideologia come mezzo per raggiungere una più piena comprensione di questo stato di confusione politica e intellettuale. ‟Solo una situazione culturale socialmente disorganizzata come l'attuale - sosteneva Mannheim - consente di vedere quel che finora non è stato possibile per la generale stabilità della struttura sociale e l'efficacia di certe norme tradizionali, che cioè ogni prospettiva è relativa a una determinata situazione della società" (v. Mannheim, 1936; tr. it., p. 92).
Nella formulazione iniziale di questi problemi Mannheim era fortemente influenzato dal marxismo, cui attribuiva un grande significato intellettuale (specialmente in riferimento agli scritti di Lukács sulla coscienza di classe), e in un primo tempo egli definì in misura notevolissima la ‛situazione sociale' dal punto di vista della posizione di classe. Lo scopo della sua ricerca era tuttavia di procedere dalla teoria dell'ideologia verso una sociologia della conoscenza, nella quale il marxismo avrebbe cessato di essere una prospettiva privilegiata sui problemi dell'epoca e sarebbe stato trattato come una tra altre ideologie parziali, da esaminare - da un qualche punto di vista più distaccato - in relazione alle sue proprie basi sociali ‟Come sociologi, non c'è ragione per la quale non dovremmo applicare al marxismo i concetti da esso stesso elaborati e mettere in luce, caso per caso, il suo carattere ideologico". La divergenza di Mannheim rispetto a una concezione marxista come quella di Lukács si manifestava in due modi. Anzitutto, egli ampliava la nozione di ‛situazione sociale' sino a includere altri gruppi oltre le classi sociali (che perdevano così il predominio in quanto fattori determinanti dello sviluppo storico): per esempio, delineava alcune analogie esistenti tra appartenenti a una classe e appartenenti a una ‛generazione' (v. Mannheim, 1927). In secondo luogo, dopo aver abbozzato una sociologia della conoscenza in cui tutte le Weltanschauungen, le dottrine politiche e le teorie della società si presentavano come ideologie parziali, Mannheim tentava di sfuggire al relativismo inerente a una simile concezione col suggerire che un particolare strato sociale - l'intellighenzia socialmente indipendente - poteva essere in grado di elaborare una concezione più comprensiva e obiettiva della vita sociale. Simile in ciò a Scheler, egli tentava di riconciliare l'idea di una universale determinazione sociale della conoscenza con l'idea di un regno della verità oggettiva e dei valori assoluti.
La nozione del ruolo culturale e sociale degli intellettuali, indagato in Ideologie und Utopie, fu elaborata in una direzione nuova dopo che la presa del potere da parte del nazismo ebbe costretto Mannheim a emigrare in Inghilterra. Egli rivolse allora la sua attenzione al fenomeno della ‛società di massa', considerata come il terreno da cui scaturivano movimenti sociali irrazionali come il fascismo, e ravvisava un mezzo di difesa contro questi movimenti nell'egemonia di un'élite intellettuale, esperta nelle scienze sociali, che promuovesse una società integrata, basata su una nuova morale, attraverso la ‛pianificazione democratica' (inclusa la pianificazione dell'istruzione). L'‛intellighenzia socialmente indipendente' acquistava così un ruolo politico, e la discussione cui Mannheim sottoponeva questi problemi prefigurava le idee sulla rivoluzione dei tecnici e sulla società tecnocratica, che avrebbero fornito la materia alle analisi della sociologia dopo la seconda guerra mondiale.
L'interessamento, sorto negli anni trenta, per le idee di Mannheim, derivava in parte dalla loro attinenza con alcuni dei maggiori temi del pensiero filosofico tedesco (i problemi dello storicismo e della relazione tra scienze naturali e scienze sociali), in parte dalla loro diretta incidenza sui conflitti sociali e culturali nella repubblica di Weimar, e in parte infine dalla loro relazione con il marxismo. In questo periodo si ebbe infatti un vivace sviluppo del pensiero marxista, in sorprendente contrasto con la generale assenza di qualsiasi novità di rilievo in sociologia. Molti pensatori marxisti erano impegnati in una critica sistematica della sociologia, attraverso la quale (sul modello della critica marxiana dell'economia politica) pensavano di poter effettuare un'analisi critica della società borghese del Novecento.
La rinascita del marxismo nelle opere di Lukács, Korsch e Gramsci durante gli anni venti, e dei membri della Scuola di Francoforte negli anni trenta, fu influenzata dalle successive fasi dell'evoluzione politica dell'Europa postbellica, e cioè in primo luogo dalla Rivoluzione russa e dai movimenti rivoluzionari in altri paesi e poi dall'emergere di una nuova ortodossia marxista in seguito all'ascesa di Stalin al potere. In una situazione rivoluzionaria il marxismo, in quanto teoria sociologica dell'evoluzione - determinata da leggi economiche - della società capitalistica, fu ripudiato, e un'importanza maggiore fu attribuita alla coscienza di classe e alla sua incarnazione nei partiti rivoluzionari. Sia Lukács (v., 1925) che Gramsci (v., 1948) criticarono le versioni sociologiche del marxismo nei loro commenti alla Teoria del materialismo storico di Bucharin. Essi proponevano una concezione del marxismo come interpretazione filosofica della storia dal punto di vista del proletariato della società capitalistica, il che significava farne anzitutto una teoria della rivoluzione sociale. In questa prospettiva, la sociologia veniva considerata come la teoria della società borghese, esprimente l'idea dell'immutabilità delle istituzioni sociali borghesi e, come Korsch sostenne in seguito, il suo emergere come fattore importante del pensiero novecentesco poteva essere interpretato come ‟una reazione contro il socialismo moderno" (v. Korsch, 1938). Questa concezione del marxismo come di una filosofia che rinnovava e superava il pensiero di Hegel - concezione esposta da Lukács in Geschichte und Klassenbewusstsein (1923), da Korsch in Marxismus und Philosophie (1923) e da Gramsci nei Quaderni del carcere - derivava anche da quelle correnti del pensiero tedesco e italiano che avevano avversato il positivismo, e sortì l'effetto di spostare l'accento sui problemi della coscienza, della cultura, dell'ideologia e del ruolo degli intellettuali, cioè sul medesimo ordine di problemi che, in una prospettiva diversa, erano stati posti da Scheler e Mannheim. Non mancavano tuttavia divergenze tra questi pensatori marxisti, i più importanti tra i quali erano Lukács e Korsch. Lukács si mostrò più intransigente nel ripudio della sociologia, e giacché, durante il periodo dell'ortodossia stalinista, non poteva elaborare liberamente una sua propria versione della teoria sociale marxista, si ritrovò - lo volesse o no - confinato a una sfera di critica culturale e filosofica. Dal canto suo, Korsch si era sempre interessato al versante empirico del marxismo e più tardi, in un lavoro col quale contribuì a una serie dedicata ai maggiori pensatori sociali (v. Korsch, 1938), sottolineò la derivazione della teoria marxiana dall'economia politica classica piuttosto che dalla filosofia tedesca, presentandola come un prodotto - nella sua forma matura - dell'evoluzione del pensiero di Marx dalla filosofia verso la scienza.
I pensatori della Scuola di Francoforte (specialmente Adorno, Horkheimer e Marcuse) elaborarono le loro idee in una situazione storica diversa, nella quale dovevano affrontare da un lato il sorgere e il trionfo del nazismo e dall'altro il pieno dispiegamento del sistema stalinista. Il loro punto di partenza fu, di nuovo, la filosofia hegeliana e l'opposizione a ogni forma di positivismo e di empirismo, ma, nelle mutate condizioni, la loro critica filosofica introdusse anche alcuni temi nuovi. Se per un verso essi erano impegnati nella difesa della ragione critica contro il nazismo, per un altro conducevano una critica della ragione in quanto scienza e tecnologia, di quella forma della ragione, cioè, che aveva reso possibile il dominio umano sulla natura. Se applicata alla vita sociale - essi pensavano - questa ragione tecnologica agevolava il dominio politico nella società; e la versione tecnologica e deterministica del marxismo, impostasi come ortodossa nell'Unione Sovietica, era un fattore importante nel consolidamento del regime staliniano. Da questa linea di ragionamento discendeva (come per Mannheim e Lukács) il concetto dell'importanza della coscienza e delle forme culturali nell'edificazione o trasformazione della società. Una società liberata presuppone una coscienza liberata e una prassi informata da tale coscienza. Inizialmente, soprattutto negli scritti di Horkheimer, l'idea di una lotta tra concezioni culturali differenti era ancora strettamente associata all'idea di un conflitto di classe emergente direttamente dagli interessi economici (v. Horkheimer, 1968), ma il fallimento della classe operaia nell'opporre una resistenza efficace all'avvento del nazismo in Germania e l'instaurazione del dominio di un'élite politica nell'Unione Sovietica produssero sia una visione più pessimistica dell'evoluzione della società moderna sia uno spostamento d'accento verso l'attribuzione di una maggiore importanza a un'opera di critica intellettuale volta a trasformare l'ambiente culturale.
Le controversie all'interno sia della sociologia che del marxismo, come anche il dibattito tra l'una e l'altro, ebbero fine nel 1933 con il trionfo del nazismo. Korsch e Mannheim continuarono il loro lavoro in esilio, ma i loro interessi mutarono sensibilmente e il loro influsso sugli ambienti intellettuali s'indebolì. I francofortesi mantennero invece una certa continuità nella loro attività intellettuale, con il risultato che la Scuola poté ricostituirsi in Germania dopo la guerra e sperimentare un secondo periodo di lavoro creativo, che ha avuto effetti considerevoli sull'orientamento generale del recente pensiero sociologico.
Fu soprattutto negli Stati Uniti che, nei tardi anni trenta, ebbe inizio il risveglio del pensiero e della ricerca sociologici. Si prefiguravano allora due linee di sviluppo affatto diverse. Una era quella formulata in Knowledge for what? (1939) di R. Lynd, in cui l'autore si cimentava direttamente con la crisi economica e politica degli anni trenta, e impostava una serie di problemi cruciali e di ‛ipotesi irriverenti' - riguardanti la sostituzione del capitalismo con qualche altro sistema di gestione dell'economia, l'esigenza di una pianificazione su larga scala, il ‛fatto onnipresente' della lotta di classe, la decadenza della religione, la possibilità di edificare una cultura in grado di eliminare la guerra - che egli pensava dovessero diventare la preoccupazione centrale degli studiosi della società. Lynd voleva che questi ultimi assumessero una posizione assai più critica e, dinanzi alla crisi, prese almeno in considerazione l'idea che potesse essere necessaria una riedificazione radicale della società: ‟La scienza sociale - egli scrisse - deve assolutamente accettare per se stessa il ruolo di chi porta alla cultura in ritardo non la pace ma la spada". Il libro di Lynd ebbe una vastissima diffusione, ma il programma di ricerca e di critica in esso abbozzato non fu mai accolto dalla sociologia americana. La guerra, e le diversissime condizioni del dopoguerra, lo destinarono a un oblio immeritato, e la prospettiva in esso contenuta doveva essere nscoperta soltanto con lo scoppio, negli anni sessanta, di una nuova crisi sociale.
Verosimilmente, Lynd non si meravigliava che le sue idee non fossero accolte con entusiasmo nelle università, dato che aveva cominciato la sua ricerca sulle scienze sociali in America sottolineando il fatto che esse ‟sono parte della cultura, e accade che siano portate avanti essenzialmente da professori di college e di università, che a loro volta sono assunti da fiduciari di uomini d'affari. Il contributo che questi ultimi danno al mantenimento dello status quo è grande. È per questo che sono fiduciari. Lo scienziato sociale si trova quindi preso tra le opposte richieste, da una parte di un'elaborazione teorica corretta, incisiva e, ove ve ne sia bisogno, radicalmente innovatrice, e dall'altra che il suo pensiero non debba essere sovversivo" (v. Lynd, 1939; tr. it., p. 9). Quest'analisi rinvia allo stesso problema che Veblen aveva discusso vent'anni prima in The higher learning in America (1918), e che doveva ridiventare una questione centrale nei movimenti radicali degli anni sessanta: la sociologia e le altre scienze sociali, che richiedono e pretendono l'indipendenza intellettuale al fine di indagare liberamente i problemi e i bisogni della società, sono d'altro canto, in quanto parte dell'ordine sociale esistente, soggette a ogni sorta di costrizioni, limitazioni e deformazioni, che ostacolano seriamente i loro tentativi di investigare tutte le sfere della vita sociale, di guidare le attività di ricerca verso i problemi cruciali e di proporre soluzioni di compromesso. Il fallimento di Lynd nell'influenzare la sociologia accademica era dovuto alla stessa situazione che, nello stesso periodo, impedì al marxismo di esercitare una qualche influenza considerevole, e ciò a dispetto dell'afflusso negli Stati Uniti di molti studiosi europei (costretti all'esilio dai regimi fascisti), i quali o erano marxisti o dal marxismo erano stati in parte formati.
La seconda forma assunta dal rinnovamento del pensiero sociologico ebbe un successo assai maggiore. T. Parsons pubblicò nel 1937 un'opera sulla teoria sociale, The structure of social action, che ignorava la crisi economica e politica contemporanea, e anzi l'intera evoluzione della società europea e americana nel Novecento, per concentrarsi sulla formulazione di un nuovo schema concettuale derivato dall'opera dei sociologi classici. Questo sforzo di reinterpretazione coincideva all'incirca con la traduzione di parecchi pensatori europei; ed è degno di nota che durante questo periodo, in cui il marxismo era pressoché ignorato nelle università, le opere dei teorici sociali conservatori e antimarxisti cominciassero a essere largamente lette e diffuse. Dal canto suo, Parsons dedicava scarsa attenzione a Marx; il suo principale interesse consisteva nell'enucleare dagli scritti di Durkheim, Weber e Pareto ciò ch'egli chiamava una ‟teoria volontaristica dell'azione", la cui caratteristica fondamentale stava nel porre l'accento sugli elementi normativi dell'azione, in contrasto con la preoccupazione utilitaristica per l'‛azione razionale'. Ma questa teoria volontaristica, che poteva sembrare desse la prevalenza alla libera attività degli individui nel plasmare la loro vita sociale, era in realtà elaborata in modo alquanto deterministico. Parsons concludeva la sua ricerca sostenendo che i sistemi sociali sono caratterizzati dall'integrazione degli individui in riferimento a un comune sistema di valori, e che la sfera della sociologia come scienza è costituita dall'analisi della società sulla base di questo assunto teorico.
Questa concezione della sociologia doveva molto a Durkheim, specialmente nell'importanza attribuita alla solidarietà sociale e ai valori morali e religiosi nell'integrazione della società; nel contempo, Parsons elaborava la nozione di azione sociale a partire da Weber, pur relegando nello sfondo l'interesse di Weber per le epoche e i mutamenti storici. Nettissimo era il contrasto tra l'individuazione lyndiana dei principali problemi della sociologia e lo schema concettuale di Parsons. Lungi dal prendere in considerazione l'esigenza di mutamenti radicali nella cultura e nella società americane, Parsons rispondeva alla crisi economica e politica mettendo l'accento sul problema dell'‛ordine'. Così, ad onta del fatto che il libro non riguardasse direttamente alcun problema politico contemporaneo e si presentasse come un'analisi della struttura concettuale di talune teorie sociali, è relativamente agevole discernere il retroterra politico del pensiero di Parsons (v. Gouldner, 1970).
Il suo libro, in effetti, reca in parte l'impronta dell'orientamento estremo in senso conservatore e antimarxista che caratterizzava il ‛Pareto Circle', un seminario attivo a Harvard negli anni 1932-1934 (v. Heyl, 1968), sebbene l'opposizione di Parsons al marxismo si fosse già nutrita in precedenza dello studio di Weber e di Sombart; la sua analisi delle idee di Weber, Durkheim e Pareto - che all'inizio del secolo avevano, in una prospettiva sociologica, lanciato la prima offensiva contro il marxismo - enucleava dalle loro opere gli elementi di una nuova base intellettuale per il conservatorismo politico: la teoria funzionalistica (v. anche comunismo, marxismo e socialismo).
4. La nascita della teoria funzionalistica
L'influsso di T. Parsons sul pensiero sociologico non acquistò un effettivo rilievo sino a dopo la seconda guerra mondiale. Con la creazione del Department of social relations (di cui Parsons era il presidente) a Harvard nel 1946 si costituiva un nuovo importante centro per lo studio della teoria sociale, nel quale lavoravano sia sociologi che antropologi sociali e psicologi. Abbiamo già notato che una concezione funzionalistica della società, la quale analizzava ogni segmento del comportamento sociale dal punto di vista del suo contributo al mantenimento di un dato ‛organismo' o sistema sociale, aveva già esercitato, attraverso l'insegnamento di Radcliffe-Brown, un influsso considerevole sull'antropologia sociale; ora, una concezione siffatta ben si adattava all'impostazione parsonsiana dei problemi di ‛ordine' e di integrazione sociale.
Nel primo decennio del dopoguerra sia Parsons che vari suoi ex allievi, specialmente R. K. Merton, si dedicarono a raccogliere ed elaborare gli elementi di una teoria funzionalistica più sistematica. Durkheim aveva definito la funzione di un'istituzione sociale come ‟la corrispondenza fra tale istituzione e i bisogni dell'organismo sociale", e aveva avviato un tipo di analisi sociologica in cui le istituzioni venivano indagate anzitutto sotto l'aspetto del grado in cui soddisfacevano tali bisogni: del grado, cioè, in cui assicuravano la durata e la sopravvivenza della società. Questo punto di vista fu adottato da Parsons, che espresse però la stessa nozione con una diversa terminologia, prendendo l'idea di ‛azione sociale' da Max Weber e il concetto di ‛equilibrio' da Pareto; egli avviava nel contempo una più complessa analisi della interdipendenza funzionale delle istituzioni. In The social system (1951) delineava una ‟teoria generale dei sistemi di azione" e procedeva a esaminare la struttura del sistema sociale, che ‟consiste [...] di una pluralità di soggetti individuali interagenti tra loro in una situazione che presenta per lo meno un aspetto fisico e ambientale, i quali sono spinti dalla tendenza all' ‛ottimizzazione della gratificazione' e la cui relazione con le rispettive situazioni, inclusive di ogni altra situazione, è definita e mediata nei termini di un sistema di simboli culturalmente strutturati e condivisi" (v. Parsons, 1951; tr. it., p. 13).
Il passo successivo dell'analisi consisteva nel distinguere le componenti strutturali dei sistemi sociali, il che implicava anzitutto la presa in considerazione dei ‛requisiti funzionali'. Se ‟si tratta di un sistema che costituisce un ordine persistente, o tale comunque da sottoporsi a un processo ordinato di mutamento evolutivo, si richiedono alcuni requisiti funzionali" (ibid., p. 33), in particolare quello secondo cui gli agenti individuali che lo compongono debbono essere adeguatamente motivati ad assolvere le richieste del sistema nonché ad astenersi da un comportamento eccessivamente disgregatore; questa condizione dev'essere soddisfatta dallo sviluppo di meccanismi di controllo (specialmente dal sistema dei valori, nel quale le credenze e i riti svolgono un ruolo importante), che garantiscano la stabilità o l'equilibrio del sistema. Parsons, infine, contrapponeva le conoscenze che, nella sua concezione, è possibile ottenere sui sistemi sociali - conoscenze che rendono possibile la costruzione di un paradigma basato sull'assunto che ‟un processo interattivo stabilmente costituito, cioè un processo in equilibrio, tende a permanere immutato" - alla carenza di conoscenze sui processi di mutamento sociale, carenza che rende impossibile la formulazione di qualsiasi teoria generale in questo campo. L'accento, dunque, era energicamente posto sul come i sistemi stabili funzionano e sul come è possibile conservarli attraverso il controllo degli elementi devianti o disgregativi.
Come abbiamo accennato, le condizioni economiche e politiche del secondo dopoguerra erano particolarmente favorevoli all'elaborazione di questo orientamento funzionalistico-strutturale. Grazie all'economia di guerra, i paesi occidentali avevano superato la depressione economica; non c'erano sollevazioni rivoluzionarie né in Europa né nel Nordamerica; con l'aiuto americano, la ricostruzione nell'Europa occidentale progrediva rapidamente; un certo grado di pianificazione economica e sociale veniva introdotto nell'intento di mantenere la piena occupazione e di estendere i servizi di sicurezza sociale. In realtà, ebbe inizio un periodo di rapida crescita economica, ed è questo uno dei fattori predominanti nella situazione sociale postbellica. L'altro fattore principale era costituito dalla divisione del mondo tra le democrazie capitalistiche occidentali e le società sovietiche dell'Europa orientale: divisione che, negli anni cinquanta, assunse la forma di un confronto globale (la ‛guerra fredda').
In tali circostanze, una teoria sociologica che concentrava l'attenzione sul funzionamento delle ‛democrazie stabili' del mondo occidentale, analizzava il declino della coscienza di classe e dei conflitti di classe, illustrava la fine delle sfide ideologiche all'interno della società e sottolineava come la crescita del consenso - accompagnata da un grado maggiore di integrazione sociale - fosse il risultato delle politiche di sicurezza sociale e del ruolo grandemente accresciuto dello Stato nella vita sociale, non poteva che esercitare un richiamo considerevole. All'opposto, la sociologia radicale abbozzata da Lynd sembrava appartenere - o almeno come tale poteva essere rappresentata - a un'epoca ormai trascorsa, e specialmente negli Stati Uniti il marxismo - o l'influsso marxista - in sociologia poteva essere screditato o attivamente perseguito (per es., durante il maccartismo) col pretesto dei suoi legami con le società sovietiche. In qualche misura il confronto politico tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica fu interpretato, nel campo della teoria sociale, come una contrapposizione tra sociologia e marxismo. Nell'Unione Sovietica alla sociologia, presentata in larga misura come un'‛ideologia borghese', veniva contrapposto il marxismo come scienza della società, mentre negli Stati Uniti la scuola funzionalistico-strutturalistica sosteneva di star progredendo verso l'edificazione di una sociologia scientifica in grado di opporsi all'‛ideologia bolscevica' come anche ad altre ideologie radicali.
La nuova teoria funzionalistica non doveva tuttavia diventare il modello dominante e incontestato del pensiero sociologico nel mondo occidentale. Persino negli Stati Uniti, dove il suo influsso era considerevole, fiorirono parecchi altri indirizzi, tra i quali il neopositivismo di G. A. Lundberg e la sociologia, di orientamento più filosofico e storico, di P. A. Sorokin, e lo sviluppo della sociologia come disciplina accademica si realizzò anzitutto sul terreno della ricerca empirica, descrittiva, mirante a scoprire fatti, senza la guida di un qualsiasi schema teorico ben definito. Inoltre, le pretese della teoria funzionalistica andarono gradualmente modificandosi e R. K. Merton, uno dei principali funzionalisti, finì col presentare il funzionalismo come ‛uno' dei possibili approcci allo studio del comportamento umano (v. Merton, 19572). Nel contempo egli evitava di presupporre necessariamente l'esistenza di un sistema stabile e durevole, definendo l'orientamento funzionalistico come ‟l'abitudine a interpretare i dati determinando le conseguenze ch'essi hanno sulle più ampie strutture in cui sono implicati", e criticava in qualche modo le versioni estreme del funzionalismo osservando che la nozione di esigenze o bisogni funzionali del sistema sociale ‟rimane uno dei concetti più nebulosi ed empiricamente più discutibili della teoria funzionale".
Tra i sociologi europei l'influsso della teoria funzionalistica rimase assai limitato. Nei primi anni cinquanta, l'influsso marxista era in Francia ancora assai forte e persino in aumento, sebbene andasse assumendo forme nuove per effetto delle controversie tra esistenzialisti e marxisti. Un campo in cui si delinearono nuove impostazioni fu quello della sociologia della conoscenza, e più particolarmente della sociologia della letteratura, cui diede un importante contributo L. Goldmann (v., 1952 e 1955), che lavorava prevalentemente all'interno di uno schema di pensiero marxista, ricorrendo a concetti e metodi elaborati da Lukács. Al di fuori della sfera marxista, acquistò un notevole rilievo il pensiero di Max Weber, specialmente attraverso l'opera di R. Aron. La sociologia americana sembra aver avuto il maggior impatto, piuttosto che nel campo della teoria, in quello dello sviluppo della ricerca, dove contribuì a stimolare e a promuovere ricerche empiriche più estensive.
Analoga era la situazione tedesca. In qualche misura le tradizioni prebelliche furono resuscitate (per es. con la ri costituzione della Scuola di Francoforte) e molti dei sociologi più giovani, o per il loro impegno in una sociologia storica o per l'influsso del marxismo, si dimostrarono critici verso la teoria funzionalistica. Per esempio, R. Dahrendorf pubblicò una ricerca sui conflitti di classe nella quale, diversamente dai funzionalisti, che mettevano l'accento sull'integrazione sociale e sull'equilibrio, sottolineava l'importanza del conflitto sociale e, in riferimento a quelle ch'egli chiamava le società occidentali ‛postcapitalistiche', tentava di formulare una nuova teoria del conflitto partendo dal marxismo. In seguito, Dahrendorf criticò direttamente il carattere ‛utopico' della teoria funzionalistica, specialmente nella sua versione parsonsiana, la quale, postulando un sistema sociale basato sul consenso universale, rendeva impossibili il riconoscimento e l'analisi sia dei conflitti a genesi strutturale sia dei mutamenti storici. Come in Francia, la caratteristica più notevole della sociologia postbellica tedesca fu lo sviluppo delle ricerche empiriche e, più generalmente, la diffusione di una prospettiva empiristica di cui parleremo con maggiori particolari in seguito.
Sebbene non si sia costituita come paradigma universale degli studi sociologici, la teoria funzionalistico-strutturale ha esercitato un forte influsso sul modo di impostare i problemi in taluni importanti campi di ricerca, particolarmente sull'analisi della stratificazione sociale e dei sistemi politici. Una delle formulazioni più note della teoria - che ha dato origine a un'importante, benché non conclusiva, controversia teorica - è contenuta in un saggio di K. Davis e W. E. Moore, Some principles of stratification (1945). Gli autori delineano in modo assai preciso lo schema della ricerca: ‟Partendo dall'asserzione che nessuna società è ‛senza classi' o non stratificata, ci sforziamo di spiegare, in termini funzionali, la necessità universale che promuove la stratificazione in ogni sistema sociale [...]. La principale necessità funzionale che spiega la presenza universale della stratificazione è [...] l'esigenza, cui ogni società si trova di fronte, di situare e motivare gli individui nella struttura sociale [...]. La diseguaglianza sociale è quindi un meccanismo, elaborato inconsapevolmente, mediante il quale le società si assicurano che le posizioni più importanti siano coscienziosamente occupate dalle persone più qualificate".
Il dibattito su questa teoria della stratificazione durò per più di due decenni; le critiche vennero da M. Tumin (v., 1953 e 1963), W. Buckley (v., 1958) e D. Wrong (v., 1959) e le repliche da Davjs e Moore (v., 1953) e da Moore (v., 1963). La critica della teoria assunse varie forme. Alcuni tra i critici accettarono in qualche misura le idee e le preoccupazioni principali dei funzionalisti, sostenendo però che la stabilità sociale non implicava necessariamente un alto grado di diseguaglianza istituzionalizzata. Altri additavano la difficoltà di spiegare, in base a questa teoria, la perpetuazione della diseguaglianza attraverso l'eredità, o criticavano la negligenza di tipi specifici di diseguaglianza e di stratificazione, e dei fattori determinanti di tali tipi. Naturalmente, lo svolgimento di questa critica poteva estendersi sino all'obiezione che la teoria funzionalistica non affrontava affatto l'importante fenomeno storico del mutamento da un tipo di stratificazione a un altro (v. stratificazioni sociali).
Nello stesso periodo in cui si avanzavano queste critiche, in larga misura interne alla prospettiva generale del funzionalismo, altre critiche furono formulate da un punto di vista interamente diverso, derivante anzitutto dal marxismo. Secondo queste critiche, le deficienze della teoria funzionalistica consistevano principalmente nel fatto di concepire la stratificazione in termini di collocazione di individui singoli nella gerarchia sociale, evitando di affrontare la posizione dei gruppi stratificati e i loro rapporti; la teoria trascurava cioè gli elementi di forza e di conflitto presenti nel sistema di stratificazione, dipingendolo principalmente come un assetto armonico, che è essenziale alla stabilità sociale ed è in qualche modo approvato dalla società nel suo insieme; la teoria, infine, non aveva nulla da dire circa l'evoluzione storica dei rapporti tra i gruppi dominanti e i gruppi subordinati nella società. Una disamina sistematica di alcune delle svariate concezioni della stratificazione fu intrapresa da S. Ossowski (v., 1963), mentre Ch. Page (v., 1969) ha passato brevemente in rassegna lo sviluppo delle idee e teorie; la controversia circa la teoria funzionalistica in se stessa cessò nel corso degli anni sessanta, quando emersero nuovi movimenti politici e risorse l'interesse per i fenomeni del potere e per il ruolo delle élites e delle classi dominanti (v. Mills, 1956; v. Bottomore, 1964).
Nel campo della sociologia politica la teoria funzionalistica ebbe un influsso analogo - e strettamente connesso - a quello che aveva avuto nello studio della stratificazione. Possiamo dire che il dibattito teorico fu dominato da due idee principali: una fu la nozione di ‛democrazia stabile', che costituiva uno dei temi principali degli scritti di S. M. Lipset; l'altra fu la concezione della ‛fine dell'ideologia', come fu esposta in modo particolare da D. Bell (v., 1960). Gli elementi basilari di questa concezione dell'universo politico sono i seguenti: le democrazie occidentali hanno raggiunto una condizione di stabilità o di equilibrio; le differenze e i conflitti di classe si sono attenuati; lo scontro tra le ideologie associate agli antagonismi di classe si è mitigato, mentre un vasto consenso si è stabilito sulle basi e sulle procedure del sistema politico. Questa prospettiva generale fu formulata in modo assai chiaro da Lipset nel suo Political man: ‟La democrazia non è soltanto, e neppure fondamentalmente, un mezzo attraverso il quale gruppi diversi possono conseguire i loro fini o cercare la buona società; essa è la buona società stessa nel suo funzionamento [...]. Il mutamento nella vita politica occidentale riflette il fatto che i problemi politici fondamentali della rivoluzione industriale sono stati risolti: i lavoratori hanno raggiunto la cittadinanza industriale e politica, i conservatori hanno accettato lo Stato assistenziale e la sinistra democratica ha riconosciuto che un incremento del potere globale dello Stato reca con sé più pericoli per la libertà che non soluzioni per i problemi dell'economia. Questo autentico trionfo della rivoluzione sociale democratica segna la fine della politica per quegli intellettuali che hanno bisogno di ideologie e utopie per essere motivati all'azione politica" (v. Lipset, 1959, pp. 403 e 406). In queste società, come la teoria funzionalistica le dipinge, non c'è ovviamente alcuna ragione di attendersi grossi conflitti sociali o l'avvio di mutamenti radicali nella struttura sociale.
Ma la teoria si dimostrò capace di dare un ritratto analogo anche di altri tipi di società. Le società comuniste dell'Europa orientale potrebbero essere considerate come società ‛stabili' - di tipo totalitario piuttosto che democratico - nelle quali parimenti scarse sono le prospettive di un qualsiasi mutamento radicale. Nello stesso tempo si potrebbe sostenere che un processo evoluzionistico è in corso in tutte le società industriali, e che a lunga scadenza si verificherà una convergenza delle forme orientali e di quelle occidentali di società industriale, convergenza che vedrebbe l'emergere di strutture assai simili nelle professioni, nella stratificazione sociale, nell'organizzazione economica, e persino di prospettive simili sul terreno culturale (v. Aron, 1962).
Anche i paesi in via di sviluppo potrebbero per certi versi rientrare nell'ambito di una concezione funzionalistica della società. Naturalmente, in questo caso si deve riconoscere l'esigenza di mutamenti significativi nella struttura sociale; tali mutamenti possono però essere considerati come frutto di un'evoluzione, non implicante conflitti gravi nella società e risultante dal processo - assistito dai paesi già industrializzati - del progresso tecnologico e dello sviluppo economico. Da questo punto di vista si potrebbe anzi sostenere che un'importante condizione preliminare per lo sviluppo o la ‛modernizzazione' è l'instaurazione dell'‛ordine' e della ‛stabilità' sul piano politico (v. Huntington, 1968).
La teoria funzionalistica ha così dato un rilevante contributo a una particolare concezione della situazione del mondo verso la metà del nostro secolo, una concezione che, almeno in modo implicito, distingueva fra tre tipi principali di società: le società industriali democratiche, le società industriali totalitarie e i paesi in via di sviluppo. Da questo punto di vista, i processi di mutamento sociale non erano più visti in una prospettiva storica a lungo termine; erano visti invece in relazione alla storia recente e al futuro immediato, come una possibile convergenza dei due tipi principali di società industriale e come una transizione più o meno rapida dei paesi in via di sviluppo dall'età preindustriale all'industrializzazione. La causa soggiacente di questi mutamenti - si presumeva - stava anzitutto nei considerevoli progressi scientifici e tecnologici e nella conseguente sostenuta crescita economica.
Questo complesso di idee è assai diverso da quello dei primi sociologi, che erano maggiormente interessati alle origini e allo sviluppo del capitalismo, alle classi sociali e ai loro conflitti e ai movimenti sociali miranti a sostituire il capitalismo con una società socialista. In un certo senso si potrebbe sostenere, come ha fatto R. Nisbet, che le rivoluzioni politiche e industriali che diedero origine alla sociologia hanno raggiunto il loro compimento negli anni cinquanta e che da quando (almeno in Occidente) ‟noi siamo urbani, democratici, industriali, burocratici, razionalizzati, formali, secolari e tecnologici" (v. Nisbet, 1966; tr. it., p. 438), l'impulso creativo della sociologia si è esaurito ed essa è divenuta la descrizione, entro il quadro di alcune categorie generalmente accettate, di un mondo compiuto e privo di problemi. Naturalmente, una concezione siffatta non è andata esente da contestazioni e nell'ultimo decennio sono state elaborate prospettive sociologiche affatto diverse; ma, almeno per un certo periodo, essa ha fornito un autorevole schema di pensiero che ha guidato gran parte della ricerca sociologica.
5. Politiche assistenziali e sviluppo della ricerca sociale
Dopo la seconda guerra mondiale si è verificata, nelle università e altrove, una rilevantissima espansione della sociologia (sia nell'insegnamento che nella ricerca). In qualche misura ciò era semplicemente l'effetto del generale incremento dell'istruzione superiore; la crescita della sociologia è stata però eccezionalmente rapida e, in molti paesi, è stato proprio nel dopoguerra che essa ha acquisito per la prima volta cittadinanza accademica. Anche negli Stati Uniti, dove aveva già una posizione riconosciuta nelle università, l'espansione fu notevole (per es., l'American Sociological Association vide aumentare i suoi iscritti da meno di un migliaio nel 1939 a più di 14.000 nel 1972); un analogo processo di sviluppo divenne tosto evidente in altri paesi, e non soltanto nelle società industriali occidentali ma nei paesi del Terzo Mondo e anche, a partire dalla metà degli anni cinquanta, nell'Unione Sovietica e nelle altre società dell'Europa orientale, dove la sociologia era stata considerata in precedenza come un'ideologia borghese già superata dalla teoria marxiana della società.
Vari sono i mutamenti sociali sopravvenuti nel dopoguerra che hanno favorito questa così considerevole espansione. Nelle società occidentali, uno dei più importanti è stato lo sviluppo della programmazione, con la quale si mirava a mantenere la piena occupazione, a promuovere la crescita economica e a estendere e migliorare i servizi sociali. Questo movimento verso lo Stato assistenziale (Welfare State) implicava l'allargamento della ricerca sociologica come base per l'elaborazione di misure politiche, e l'espansione dell'insegnamento della sociologia come parte della formazione degli amministratori. Inoltre, nella misura in cui era propugnato o intrapreso da movimenti riformisti e radicali, lo sviluppo dello Stato assistenziale includeva anche l'idea di una maggiore eguaglianza economica e sociale e questa finalità stimolava nuove discussioni teoriche sulle classi sociali e sulle élites (v. Bottomore, 1964) come anche ricerche sull'estensione delle disuguaglianze sociali e sugli effetti dei servizi sociali nell'attenuarle (v. Titmuss, 1962), sul reclutamento delle élites, sull'estensione e sulla natura della mobilità sociale (v. Glass, 1954; v. Blau e Duncan, 1967), sul ruolo del sistema educativo nel facilitare od ostacolare la mobilità, e così via.
Nei paesi in via di sviluppo si è manifestato un interesse analogo per la programmazione economica e sociale, ma con un'accentuazione alquanto diversa. Quivi l'interesse principale si è rivolto ai fattori sociali che influenzano la crescita economica, sotto il profilo dell'industrializzazione come sotto quello del miglioramento dell'agricoltura, il quale ultimo implica anche ricerche sulla proprietà agraria, sulla riforma agraria e sulle innovazioni nei metodi produttivi. Nel contempo era però attivo l'interesse per taluni fenomeni quali venivano studiati nei paesi industriali, in particolare la natura del sistema tradizionale delle classi e gli ostacoli da esso opposti alla crescita economica e allo sviluppo in senso lato - che implica l'estensione dell'assistenza sociale e l'innalzamento del tenore di vita nei settori più poveri della società -, nonché il ruolo delle cosiddette ‛élites modernizzanti' nell'avviare, stimolare e dirigere il processo di sviluppo. Nei paesi in via di sviluppo la ricerca sociologica è stata in gran parte patrocinata o intrapresa in un primo tempo da sociologi e antropologi occidentali, e condotta in base a concezioni occidentali (in parte influenzate dalla teoria funzionalistica) del processo di sviluppo. In seguito, questa situazione ha suscitato critiche, anche sotto l'influsso di un orientamento emergente nella sociologia occidentale, secondo il quale lo sviluppo così concepito (cioè anzitutto come introduzione della tecnologia, degli atteggiamenti, dei metodi amministrativi ecc. dell'Occidente) non teneva sufficientemente conto della struttura delle società indigene e degli interessi in conflitto dei diversi gruppi esistenti in queste società, e trascurava inoltre il problema dell'impatto delle attuali società industriali (prevalentemente capitalistiche) sui paesi in via di sviluppo attraverso gli investimenti, la ricerca di materie prime e di mercati e l'influenza politica e militare (v. Frank, 1967).
Non è stato però unicamente come supporto di specifiche politiche di crescita economica o di sicurezza sociale che la sociologia (sia sul piano dell'insegnamento che su quello dell'attività di ricerca) si è sviluppata con tanto vigore in questo periodo. Questo sviluppo era stimolato anche dall'emergere di nuovi problemi e dall'acutizzarsi di problemi vecchi, in un ambiente in cui era alquanto diffusa la fiducia nella capacità della scienza di risolvere i problemi. Le scienze sociali beneficiarono in considerevole misura dell'impressione suscitata dalle conquiste delle scienze naturali e della tecnologia durante e dopo la guerra, e della più generale accettazione dell'idea di una programmazione sociale. In questo clima, l'idea di una razionale regolazione della vita sociale da parte dell'uomo - idea che aveva sempre accompagnato l'evoluzione del pensiero sociologico - veniva sostenuta con maggior energia, e c'era una crescente fiducia nella capacità della ricerca sociologica di svelare le fonti dei problemi sociali e di prescrivere - o almeno indicare - le soluzioni, stabilendo così le basi per un controllo razionale.
Parecchi problemi, inoltre, erano di tipo diverso rispetto a quelli del periodo prebellico; erano cioè di indole più sociale e meno economica in senso stretto. Nelle società occidentali non si trattava più di trovare rimedi per la disoccupazione di massa o di affrontare il crollo del sistema capitalistico di produzione nel suo insieme, ma piuttosto di cercare soluzioni ai problemi generati dalla crescente prosperità, dal crescente liberalismo o ‛permissività' in talune aree della vita sociale, dalla secolarizzazione e da altri mutamenti sociali e culturali. La ricerca sociologica, quindi, venne occupandosi sempre di più dei problemi della famiglia, della malattia mentale, della tossicomania e dell'alcolismo, della criminalità, della popolazione, dei rapporti razziali e così via; sebbene fosse in un primo tempo incline a limitarsi a certi problemi tradizionali e a indagini su piccola scala, questa specie di ricerche si è successivamente ampliata sino a includere una gamma vastissima di problemi, alcuni dei quali estremamente complessi. Un'importante rassegna di ricerche sociologiche sui problemi sociali (v. Merton e Nisbet, 1966) prende in esame, tra altri campi di ricerca, quelli riguardanti i disturbi mentali, la criminalità, la tossicomania e l'alcolismo, le crisi demografiche, i rapporti razziali ed etnici, la disorganizzazione della famiglia, la guerra e il disarmo.
La ricerca sociologica lungo queste linee - sia come supporto per l'elaborazione di misure politiche che come modo di affrontare i più importanti problemi sociali - si conquistò negli anni cinquanta e sessanta una salda posizione in molti paesi in tutto il mondo, ma le forme che infine assunse cominciarono a suscitare critiche dall'interno della disciplina stessa. Queste critiche sollevavano due questioni principali. Anzitutto, si sosteneva che si stesse creando un'indesiderabile divisione fra teoria sociologica e ricerca sociologica. I problemi della ricerca, per lo più, non derivavano da un qualche interesse teorico, ma erano posti in larga misura da dipartimenti od organi statali o da corporations - come problemi pratici bisognosi di una soluzione: per es., come programmare nuove città, o nuove autostrade o il riassetto urbano; come accrescere l'efficacia dei servizi sociali; come affrontare la criminalità; come ridurre i conflitti industriali, aumentare la produttività e migliorare le tecniche di management.
Un simile modo, prevalentemente descrittivo, di condurre la ricerca sociologica difficilmente poteva evitare di adottare il quadro politico e ideologico all'interno del quale le agenzie che patrocinavano e finanziavano le ricerche concepivano i loro problemi. Esso offriva quindi il fianco all'ulteriore critica che la ricerca sociologica servisse così principalmente a facilitare il funzionamento del sistema sociale esistente (qualunque fosse) e contribuisse a una più efficace regolazione della vita sociale nell'interesse dei poteri costituiti. La critica nei confronti di quest'orientamento raggiunse l'apice in dichiarazioni come quelle degli studenti estremisti dell'Università di Nanterre, i quali spiegavano la nascita della sociologia come una risposta alla ‟domanda sociale di una prassi razionalizzata al servizio di finalità borghesi" (v. Cockburn e Blackburn, 1969, pp. 373-378), o nel saggio di M. Nicolaus (v., 1972) nel quale l'organizzazione professionale della sociologia veniva rappresentata come una delle armi di oppressione politica, da cui l'umanità deve essere ‛liberata'.
Ma molti di coloro che, in questo periodo, tentavano di costituire le scienze sociali come ‛policy sciences' avevano una concezione assai diversa del rapporto tra teoria e ricerca. Secondo tale concezione era possibile elaborare modelli teorici suscettibili, col supporto di un'adeguata ricerca empirica, di essere applicati in modo oggettivo alla soluzione dei problemi sociali, all incirca come la fisica è applicata alla soluzione di problemi di costruzione. Questa concezione ‛tecnologica', che vedeva nell'applicazione della sociologia una forma di social engineering, pretendeva quindi di offrire uno strumento, razionale e oggettivo nonché indipendente da influssi ideologici e da scelte politiche, per affrontare i problemi sociali. Divenne però presto evidente che una concezione siffatta si prestava a molte obiezioni. Essa presupponeva l'esistenza di uno schema teorico fornito di grande generalità, dal quale fosse possibile dedurre leggi più specifiche dotate di un reale potere esplicativo: ora, in sociologia un tale schema non esiste. Si assumeva poi che ci fosse un unico schema di tal fatta e che godesse di largo riconoscimento, mentre la sociologia è sempre stata caratterizzata dalla presenza di impostazioni e interpretazioni teoriche tra loro in conflitto. Si assimilava la sociologia a una scienza naturale, e arbitrariamente si escludeva - nella formulazione della natura di un problema sociale, come anche nell'elaborazione di una particolare maniera di analizzarlo e di interpretarlo - l'influsso di ideologie e di interessi politici. Naturalmente, la stessa concezione ‛tecnologica' poteva, come infatti accadde, essere trattata come un'ennesima ideologia, corrispondente alle esigenze dei gruppi sociali dominanti nel capitalismo delle società occidentali e nel socialismo autoritario dei paesi dell'Europa orientale.
Lo sviluppo della ricerca sociologica, e del quadro di idee e di ipotesi all'interno del quale essa procede, può quindi essere considerato da prospettive differenti, esse stesse fortemente influenzate dalle diverse predilezioni o dal diverso impegno sul terreno politico e culturale. Certi settori della ricerca e del pensiero sociologico negli ‛Stati assistenziali' del dopoguerra si sono evidentemente ispirati a idee liberali o socialiste: l'obiettivo era di svelare l'estensione delle diseguaglianze economiche e sociali, di indagare gli ostacoli che si frappongono a una maggiore eguaglianza e di indicare mezzi positivi atti a conseguirla. Ma giacché alcuni dei peggiori mali sociali del periodo prebellico (specialmente la disoccupazione di massa e la povertà diffusa) erano superati e più intenso era divenuto l'interessamento per le innovazioni tecnologiche e per la crescita economica, gli aspetti più critici e radicali della sociologia ne risultarono indeboliti. La ricerca sociologica si venne, in gran parte, strettamente associando all'efficiente funzionamento e allo sviluppo della società costituita, e furono pochissimi i sociologi che sollevarono problemi di fondo sulla struttura sociale esistente e sul bisogno o la possibilità di una sua radicale trasformazione. I problemi del potere, del dominio (sia ‛nella' società che ‛tra' le società), degli interessi di classe e del conflitto sociale arretrarono sullo sfondo o furono deliberatamente messi da parte in quanto ormai privi di un significato centrale per la comprensione della vita sociale. L'immagine che il sociologo aveva di se stesso come esperto consulente, e magari riformatore, ma non critico radicale o rivoluzionario, fu confermata dalla prospettiva generale funzionalistico-strutturale con la sua accentuazione della ‛stabilità' e dell' ‛ordine', mentre d'altra parte, come accennavamo sopra, questa stessa prospettiva rispecchiava le condizioni sociali e politiche di un periodo particolare. Quando tali condizioni, sul finire degli anni cinquanta, presero a mutare, una prospettiva più critica si fece nuovamente strada.
6. Il nuovo radicalismo e il riorientamento della sociologia
Lo svilupparsi di un atteggiamento critico accompagnò la formazione di un nuovo radicalismo o ‛nuova sinistra' (New Left). I movimenti politici radicali, sorti in molti paesi durante gli anni sessanta, da un lato attinsero alle idee e teorie critiche già presenti nel pensiero sociologico, e dall'altro, con la loro attività, contribuirono a una loro più ampia diffusione. In Europa la teoria marxista aveva conservato in sociologia una posizione importante: per esempio a Francoforte, dove Adorno e Horkheimer, e studiosi più giovani come Habermas, continuarono la loro critica della cultura del capitalismo occidentale moderno; o a Parigi, dove Gurvitch, Lefebvre e la generazione più giovane dei Goldmann e dei Touraine attingevano in vario modo al marxismo nell'elaborazione delle loro concezioni sociologiche generali o nel progettare le loro ricerche sulle classi sociali, sulla cultura e sui movimenti politici. Negli Stati Uniti, Ch. Wright Mills da un punto di vista più radicale e largamente influenzato dal marxismo - avviava ricerche sulle classi e sulle élites e presentava in seguito sia una valutazione critica delle correnti dominanti nella sociologia americana sia una formulazione dei compiti dell'‛immaginazione sociologica', che deve fornire una più chiara comprensione delle strutture sociali storiche e aiutare quindi gli uomini a fronteggiare con maggiore efficacia i problemi urgenti delle loro società (v. Mills, 1956).
Lo sforzo per costruire una sociologia ‛critica' o ‛radicale' assunse diverse forme. L'elemento comune era dato dal desiderio di sostituire un modello sociologico centrato sulla nozione di ‛equilibrio sociale' con un modello che tenesse conto del conflitto e del mutamento, e di allontanare la ricerca sociologica dal suo ruolo di sostegno dello status quo per farne uno strumento di rilevazione e di illustrazione dei bisogni dei gruppi sociali diseredati e oppressi. Mancava però l'accordo sull'interpretazione della natura generale delle società del Novecento e delle principali tendenze dell'evoluzione sociale. Il problema non era certo quello di sostituire semplicemente la teoria funzionalista con una teoria marxista, giacché, se era possibile parlare di una ‛crisi della sociologia occidentale' (v. Gouldner, 1970), era egualmente possibile analizzare la ‛crisi nella sociologia marxista' (v. Birnbaum, 1971).
I problemi teorici che la sociologia critica degli anni sessanta si trovava dinanzi riguardavano in primo luogo la natura delle principali forme di società esistenti verso la metà del nostro secolo. Sono le società occidentali ancora capitalistiche, e qual è il significato sociale e politico della loro organizzazione capitalistica (in ogni caso assai diversa da quella ottocentesca) in relazione alla loro caratteristica di ‛Stati assistenziali' e di democrazie politiche? E sono le società dell'Europa orientale socialiste, specialmente nella natura delle loro istituzioni sociali in quanto distinte dall'organizzazione economica, e in qual misura i loro regimi politici, descritti come totalitari o autocratici, possono essere considerati come una conseguenza necessaria della pianificazione economica centralizzata o come il prodotto delle loro origini storiche? O deve invece dirsi che tutte queste società posseggono una caratteristica più importante, cioè quella di essere industrialmente sviluppate e vicine alla condizione qualificata da alcuni autori come ‛post-industriale', in cui i progressi scientifici e tecnologici rendono possibili alti livelli di produzione e di consumo, creano società costituite in prevalenza dalle classi medie (in cui compare nondimeno una nuova élite o classe dominante di esperti e di managers), e forniscono mezzi di controllo burocratico e di persuasione politica della massa della popolazione più efficaci di quanti mai ebbero le società del passato? E inoltre, il principale contrasto tra le strutture sociali nel mondo deve oggi essere ravvisato in quello che oppone paesi industriali e paesi in via di sviluppo, e il maggior problema sociale del nostro tempo è quello dell'industrializzazione e della modernizzazione delle aree sottosviluppate? Ovvero i paesi in via di sviluppo, molti dei quali solo di recente si sono liberati dal dominio coloniale diretto, sono da considerare ancora vittime del neoimperialismo, cioè dell'egemonia economica e politica delle principali potenze capitalistiche?
Questi interrogativi, di ordine molto generale, hanno delimitato, nella sociologia dell'ultimo decennio, l'orizzonte delle ricerche di portata più specifica sul ruolo di gruppi sociali particolari, sulla natura di date istituzioni e sulle forze operanti nei mutamenti - attuali e potenziali - della struttura sociale. Come abbiamo già accennato, c'è stato un notevolissimo risveglio dell'interesse per lo studio delle classi sociali. Le questioni poste riguardano il carattere mutevole sia dei gruppi sociali dominanti sia di quelli subordinati in forme diverse di società. Ci si chiede anzitutto se sia ancora giustificabile parlare di una ‛classe dominante' nelle società capitalistiche e, in caso positivo, se tale classe dominante sia ancora la borghesia, ovvero se debba essere concepita come un' ‛élite del potere', comprendente svariati elementi distinti - capi militari, uomini d'affari, leaders politici - che non derivano essenzialmente il loro potere dalla proprietà. E, ancora, se è emersa una nuova classe dominante di burocrati e tecnocrati, che governano la società grazie alle loro conoscenze e al controllo esercitato sul sistema di produzione. Alcuni autori hanno sottolineato il pluralismo delle democrazie capitalistiche, la diffusione del potere, l'assenza di una classe superiore omogenea, il declino di nette distinzioni di classe e di un'operante coscienza di classe (v. Aron, 1968; v. Dahrendorf 1964; v. Lipset, 1964). Altri, specialmente dopo lo scoppio di nuovi conflitti sociali nei tardi anni sessanta con la nascita dei movimenti studenteschi estremisti e una rinnovata e più impegnata attività sindacale, hanno sostenuto che stiamo assistendo all'instaurazione di una nuova classe dominante e alle sfide a questa lanciate dai vari movimenti sociali (v. Touraine, 1969); d'altro lato, marxisti più ortodossi continuano ad asserire il predominio della borghesia nella società tardo-capitalistica (v. Poulantzas, 1968). Disaccordi analoghi si manifestano nell'analisi delle società socialiste. Esiste in queste società una nuova classe dominante costituita dagli alti funzionari di partito e dai burocrati, come Gilas (v., 1957) sosteneva, o è più preciso parlare di un'‛élite del potere', nel solco tracciato da Wright Mills in una breve comparazione dei tratti della società di massa negli Stati Uniti e nell'Unione Sovietica (v. Mills, 1956)? D'altra parte, c'è una qualche verità nell'immagine che queste società forniscono di se stesse, secondo la quale in esse non esistono nè classi nè élites, ma soltanto una varietà di differenti strati sociali che si distinguono per il livello di reddito e di cultura ma non formano una gerarchia sociale rigida e non incidono sulla distribuzione del potere politico? In ogni modo, se in queste società esiste una gerarchia sociale, caratterizzata dall'esistenza di classi e di élites, essa nasce in gran parte, ovviamente, dal sistema politico stesso e non dalla proprietà; è questa una caratteristica - si è sostenuto in uno studio sull'evoluzione delle classi sociali moderne - che sta diventando generale in tutte le società industriali: ‟Là dove il potere politico può apertamente ed efficacemente cambiare la struttura di classe, là dove i privilegi decisivi per la posizione sociale, tra cui una maggior partecipazione al reddito sociale, vengono conferiti per decisione del potere politico, là dove una notevole, o addirittura la maggior parte della popolazione è inquadrata in una stratificazione del tipo delle gerarchie burocratiche, il concetto ottocentesco di classe diventa in misura più o meno grande un anacronismo, e gli antagonismi di classe possono cedere il posto ad altre forme di antagonismi sociali" (v. Ossowski, 1963; tr. it., p. 204).
Le controversie sull'esistenza e sulla natura delle classi dominanti sono strettamente connesse ai dibattiti sui mutamenti nella posizione delle classi subordinate. Molti sociologi sono giunti a concludere che la struttura di classe delle società capitalistiche occidentali ha subito mutamenti sostanziali come effetto della crescente prosperità, della maggiore mobilità sociale, dell'estensione dei servizi assistenziali e di altri fattori, e che la classe operaia, in seguito a questi mutamenti, sta cessando di essere una forza radicale distinta nella società. Nonostante la grande diversità dei punti di partenza, c'è la tendenza a concordare sul fatto che per lo meno una parte sostanziale della classe operaia è in via di assorbimento nella classe media, ovvero che è in via di integrazione nella società nel suo insieme (v. Lipset, 1964; v. Mills, 1951; v. Marcuse, 1964). Una ricerca sugli operai benestanti in Gran Bretagna ha tuttavia concluso che questo gruppo, del quale sembrerebbe assai plausibile ipotizzare la disponibilità all'adozione della mentalità e dello stile di vita propri della classe media, è invece rimasto socialmente e culturalmente affatto distinto, nè ha modificato in misura rilevante le proprie scelte politiche (v. Goldthorpe e altri, 1968-1969), e i rinnovati conflitti sociali dei tardi anni sessanta suggeriscono che il movimento sindacale, almeno nell'Europa occidentale, sta ridiventando più attivo e forse più radicale.
Altri aspetti della stratificazione sociale che hanno attirato una maggiore attenzione da parte dei sociologi sono il ruolo delle cosiddette ‛élites modernizzanti' nei paesi in via di sviluppo - inclusi numerosi leaders nazionalisti o rivoluzionari, intellettuali e capi militari - e lo sviluppo sociale e politico dei ceti contadini. I contadini sono stati in genere considerati, da marxisti e altri sociologi, come una forza conservatrice nella società, ma i movimenti contadini hanno svolto - e stanno svolgendo - un grosso ruolo nelle rivoluzioni del nostro secolo, e si è reso necessario riconsiderare la loro importanza nell'evoluzione della società (v. anche rivoluzione e terzo mondo).
Il rinnovato interesse per le classi sociali e la struttura di classe è intimamente connesso con i tentativi di comprendere le forze orientate verso il mutamento sociale, in una situazione dove - in tutto il mondo - le società sembra stiano passando da una fase di relativo ordine e relativa stabilità a una fase di movimento e di agitazione. Un importante contributo alla comprensione di questi processi di mutamento è stato dato da B. Moore in una ricerca che adotta un'impostazione marxista, in quanto attribuisce un'importanza centrale ai rapporti tra le classi, ma che diverge grandemente dal marxismo nel trattare l'evoluzione storica degli ultimi due secoli in termini di ‛modernizzazione' piuttosto che di crescita e declino del capitalismo e nel delineare svariate strade alternative al mondo moderno: rivoluzioni borghesi, rivoluzioni dall'alto (fascismo), rivoluzioni contadine e forse, in certi casi, evoluzione pacifica, non rivoluzionaria, del socialismo democratico (v. Moore, 1965). Comunque, i conflitti sociali degli anni sessanta non hanno coinvolto soltanto le classi sociali; hanno messo gli uni contro gli altri gruppi generazionali e gruppi etnici e, secondo alcuni sociologi, hanno incarnato anche uno scontro tra due diverse culture: l'una, in cui hanno un posto preminente la scienza, la tecnologia e l'organizzazione razionale, e l'altra, più romantica, centrata sui rapporti personali, sulla spontaneità e sulla comunità.
La confusione culturale e politica degli anni sessanta ha indotto taluni sociologi a parlare di una ‛crisi della società industriale', in cui i mutamenti nei rapporti di classe, i movimenti politici estremisti di varia natura e le tendenze culturali iconoclastiche (spesso viste come elementi di una controcultura') sembrano contrassegnare il declino di una forma stabilita della società, senza peraltro fornire una qualsivoglia chiara indicazione delle basi sulle quali poter costruire una nuova società (v. Birnbaum, 1969). Nei loro sforzi di comprendere l'inquietudine prevalente e di analizzare i nuovi problemi nascenti dalla crescita demografica, dall'industrializzazione, dalle organizzazioni su larga scala, dall'impatto della scienza e della tecnologia sull'ambiente - tutti fattori che sembrano trasformare le conquiste umane sul terreno del dominio della natura nel dominio dell'uomo stesso da parte di forze incontrollabili e impersonali - i sociologi sono essi stessi condizionati dalla diversità e frantumazione della vita culturale. Giacché se la sociologia, come talvolta è stato detto, è una ‛scienza della crisi sociale', è poi - in quanto parte della cultura - essa stessa plasmata dalla crisi. Difficilmente potrà sorprendere, allora, che in un periodo di mutamenti e di conflitti estremamente complessi emerga una considerevole varietà di teorie sociologiche e che si verifichi nel contempo un risveglio dell'interesse per i problemi della sociologia della conoscenza, inclusa la sociologia della sociologia. Come ha osservato R. K. Merton: ‟Specialmente in tempi di grandi mutamenti sociali, accelerati da acuti conflitti e accompagnati da una vasta disorganizzazione e riorganizzazione culturale, le prospettive fornite dai vari sociologi della conoscenza incidono in modo diretto sui problemi che agitano la società. Col polarizzarsi della società, si polarizzano anche le contrastanti pretese alla verità" (v. Merton, 1972, p. 9). In condizioni siffatte, analoghe a quelle che negli anni venti avevano indotto K. Mannheim alla sistematica elaborazione di una sociologia della conoscenza, le prospettive intellettuali dei vari gruppi divergono in misura tale da far apparire non più fruttuosa l'indagine sulla loro verità; l'attenzione si concentra invece sulle fonti sociali o psicologiche delle diverse dottrine o prospettive.
Ma quando la sociologia della conoscenza dirige l'attenzione sulla sociologia stessa, emergono problemi difficili, sul tipo di quelli che si trovò dinanzi Mannheim nel suo tentativo di trovare una prospettiva, che non fosse anch'essa socialmente determinata, da cui analizzare il condizionamento sociale delle altre prospettive; il sociologo che cerchi di svelare le influenze sociali sulle scuole di pensiero sociologico deve in qualche misura supporre che il suo proprio pensiero sia al di sopra della società, cioè non sia soltanto un'altra prospettiva limitata e prevenuta. In realtà, le diverse teorie sociologiche hanno ciascuna la loro propria sociologia della conoscenza. Caratteristica della sociologia recente - caratteristica certamente connessa con l'attuale diversità culturale, anche se tale connessione non possa essere formulata con precisione - è la grande varietà di teorie alternative. Non si tratta, evidentemente, di tracciare una qualche elementare distinzione tra una teoria ‛marxista' della società e la sociologia ‛borghese'. Il marxismo stesso ha generato una molteplicità di scuole di pensiero, che vanno dalle impostazioni positivistiche (nel senso di tentativi di stabilire connessioni causali e un corpo di leggi sociali generali) sino a interpretazioni della storia in chiave dialettica hegeliana o alla tentata fusione di marxismo ed esistenzialismo, ad opera di Sartre e altri (v. Sartre, 1960), ed è possibile, e di fatto accade, che pensatori marxisti arrivino a formulare giudizi assai diversi sulla natura delle società odierne e sulle principali tendenze sociali e politiche.
Nel contempo, la teoria sociologica ha assunto forme diverse e tra loro in conflitto, anche prescindendo dall'interazione col marxismo, nel corso della quale molte concezioni marxiste sono state assorbite nella sociologia, mentre idee e ricerche sociologiche hanno influenzato il pensiero marxista. Ci sono ancora forti elementi positivistici in sociologia, nel comportamentismo, e più recentemente nello strutturalismo (ma la teoria e i metodi strutturalistici non si sono così saldamente impiantati in sociologia come è accaduto in linguistica e antropologia); c'è stata però - contro il positivismo - un'opposizione sempre più forte, sotto la forma di una sociologia fenomenologica, ispirata in gran parte all'opera di A. Schutz (v., 1962), dell'etnometodologia, che sembra proporsi una descrizione fenomenologica della vita quotidiana, e della ‛teoria critica della società' elaborata dalla nuova generazione della Scuola di Francoforte (v. Habermas, 1968; v. Wellmer, 1971). E anche nella sfera della stessa teoria sociologica non mancano singoli autori che raggiungono conclusioni assai divergenti circa le forme esistenti di struttura sociale, circa i problemi vitali del nostro tempo e le principali tendenze dell'evoluzione sociale.
La grande diversità delle teorie e degli schemi concettuali, la formulazione esitante e per così dire ‛sperimentale' di molte impostazioni, il crescente interessamento per la ‛sociologia della sociologia' (che solleva problemi sulla funzione sociale della sociologia o della scienza sociale in generale, e s'interroga sulla collocazione del sociologo, in quanto persona, nella sua società) ricordano da vicino le incertezze culturali della fin de siècle, analizzate da Stuart Hughes (v., 1958, capp. 1 e 2). Tali incertezze, che sono forse ancora più profonde nel tardo Novecento di quanto non fossero nei decenni precedenti la prima guerra mondiale, producono un risultato analogo, e cioè la diffusione di un soggettivismo radicale. L'idea crociana secondo la quale, avendo abbandonato tante credenze delle età trascorse, ciò che solo ci resta è la coscienza di noi stessi, e il bisogno di rendercela sempre più chiara ed evidente, sembra potersi applicare in modo assai pertinente ad alcune delle tendenze più influenti della sociologia recente; un'idea analoga è espressa da R. Bendix in uno studio sul declino della fede nell' ‛obiettività' scientifica, quando osserva che ‟un approccio che considera ogni prospettiva intellettuale come un tentativo destinato a essere sostituito da altri si mescola con la ricerca di un'esperienza autentica" e che ‟entrambi gli approcci interpretano l'impossibilità di soluzioni definitive come l'autorizzazione a un soggettivismo radicale" (v. Bendix, 1970, p. 81).
Nella misura in cui può ritenersi che la filosofia abbia trasmesso alla sociologia, nell'Ottocento, il compito di una comprensione concettuale della propria epoca (ambizione che, in modo implicito o esplicito, sembra presente nell'opera di Marx, Weber e Durkheim), è possibile dire che la diversità delle concezioni sociologiche nel tardo Novecento riflette, in qualche modo, la diversità e frammentazione, la mancanza di una chiara direzione nella vita sociale e culturale. Una tale condizione del pensiero sociologico incide anche sulla ricerca; sempre più si mettono in questione la scelta dei problemi, l'adeguatezza di approcci e metodi, il patrocinio e il finanziamento della ricerca e gli usi dei suoi risultati (v. Horowitz, 1971). Il pensiero e la ricerca sociologici, che sono nel contempo una parte della cultura e una riflessione su di essa, non possono da soli portare l'ordine nel caos. Il loro contributo può consistere in una più chiara formulazione dei problemi, nella valutazione critica delle forme esistenti di vita sociale e nelle escursioni dell'immaginazione nel campo dei futuri possibili.
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