SOLONE (Σόλων, Solo)
Legislatore ateniese, figlio di Execestide, di famiglia nobile e sufficientemente agiata, sebbene non tra le più ricche, S. nacque in Atene probabilmente fra il 640 e il 630 a. C. Alla sua giovinezza si riferisce l'elegia per Salamina in cui stimolava gli Ateniesi a non lasciare vergognosamente in mano dei Megaresi quell'isola. Favola è che fosse vietato sotto pena di morte di parlare del ricupero di Salamina e che perciò S. recitasse la sua elegia fingendosi pazzo. Altra favola è che gli Ateniesi, ripresa per effetto di quell'elegia la guerra, ricuperassero sotto la sua guida l'isola. In realtà Salamina non fu riconquistata che assai più tardi per opera di Pisístrato, e i tentativi degli antichi per combinare l'impresa di S. con quella di Pisistrato sono palesi autoschediasmi di cui già Aristotele vide l'insostenibilità cronologica. Acquistatasi la fiducia e il favore del popolo con la propaganda politica che faceva per mezzo delle sue elegie, S. fu eletto arconte per l'anno 594-3 (la data precisa fondata svlla lista degli arconti ateniesi è fornita da Sosicrate e non c'è nessuna seria ragione per metterla in dubbio) con l'incarico di dare ad Atene un codice di leggi. Questo è il primo fatto precisamente databile della storia greca, anzi di tutta la storia europea. Che le sue leggi non ponessero fine alle discordie civili appare dagli stessi frammenti dei suoi carmi. Forse fu questo uno dei motivi per cui si diede a far viaggi fuori della Grecia. Che si recasse a Cipro e in Egitto risulta dagli stessi suoi frammenti. Ma i frammenti non permettono di datare questi viaggi. Non c'è però ragione di negar fede agli antichi, che leggevano integre le sue poesie quando li riferiscono concordemente dopo l'arcontato, se pure accennano altresì a viaggi da lui fatti in gioventù; e anche di questi ultimi non c'è ragione di dubitare. Che in Egitto S. s'ispirasse alle tradizioni conservate dai sacerdoti, era opinione corrente almeno dal sec. IV; ma essa non ha dalle poesie e dalle notizie autentiche sulla sua legislazione il benché minimo appoggio. Ciò non toglie che le esperienze da lui raccolte nei viaggi giovanili potessero avere grande efficacia nella sua formazione spirituale. Alla leggenda spetta anche il suo incontro con Creso, argomento della nota novella erodotea, che difficilmente è conciliabile con la cronologia. Tornato in Atene, S. fu testimone delle turbolenze civili fra cui sorse la tirannide. Dopo avere messo invano in guardia i concittadini contro il pericolo, li rimproverò poi quando troppo tardi se ne avvidero. Ciò risulta da alcuni suoi versi che gli antichi, collegandovi qualche abbellimento aneddotico, riferivano al principio della tirannide di Pisistrato, probabilmente a ragione, sebbene quello di Pisistrato non fosse il solo tentativo di tal fatta in quegli anni (si conosce infatti l'altro di Damasia).
Ritenendo, probabilmente in base alle sue poesie, che S. sopravvivesse ma non di molto all'inizio della tirannide di Pisistrato, qualche cronografo antico riferiva la sua morte all'anno dell'arconte Egestrato (probabilmente 560-59), il successore dell'arconte Comea sotto cui si riteneva che Pisistrato avesse assunto il potere supremo.
Le sofferenze del popolo ateniese cui S. era chiamato a porre rimedio dipendevano dall'avidità e dalla prepotenza dell'aristocrazia dominante e dall'indebitamento dei piccoli proprietarî che, per sostentarsi negli anni di carestia o quando i nemici devastassero il territorio, si facevano prestare granaglie dai più ricchi ipotecando la persona e i beni. Così, mentre le famiglie nobili allargavano i loro possessi fondiarî, i piccoli proprietarî indebitati rischiavano di ridursi a servi della gleba o, peggio, d'essere venduti schiavi fuori dell'Attica. Perciò la richiesta dei popolari era una nuova divisione delle terre. S. vi si rifiutò ritenendola contraria alle "sacre basi della giustizia" e si limitò ad abolire come "ingiuste ed immorali" le ipoteche prese sulla persona e sui beni, con che naturalmente, secondo i concetti giuridici d'allora decadevano i debiti che quelle ipoteche garantivano; per tal via egli poteva vantarsi d'avere reso libera la terra prima serva strappandone i cippi (ipotecarî) in molte parti confitti. Ma per rendere permanenti gli effetti di questo provvedimento che fu chiamato seisachtheia, cioè scotimento dei pesi, S. si studiò d'introdurre ordinamenti statali che meglio proporzionassero i carichi e nello stesso tempo i diritti alla capacità finanziaria dei cittadini; sostituì cioè a un governo aristocratico un governo, come allora si diceva, timocratico. Si distinguevano in Atene, come in generale in Grecia, tre classi sociali: i ricchi proprietarî, tutti o in gran parte nobili che potevano allevare cavalli e perciò erano detti cavalieri (ἱππεις o altrove ιπποβόται); i medî proprietarî che disponevano di tanta terra da dover adoperare un paio di buoi per ararla, detti zeugiti (ζευγῖται), infine quelli che per sostentarsi dovevano lavorare a mercede (ϑῆτες). Essendo poco sviluppata l'industria e scarsa la moneta, mancava ancora o si veniva appena costituendo una classe di ricchi che non fossero proprietarî terrieri, ma industriali banchieri o mercanti. S. fissò precisamente per legge il censo minimo (τίμημα) delle due classi più abbienti, obbligandole al servizio militare con armi proprie e limitando ad esse il diritto elettorale passivo per le maggiori magistrature e quindi per l'Areopago che si componeva di quelli che erano stati arconti. Nello stesso tempo esentò dal tributo (εἰσϕορά) che si pagava straordinariamente allo stato in caso di bisogno i teti e tassò per un'aliquota del loro timema i cavalieri e gli zeugiti; ma perché i maggiori proprietarî, cioè i più ricchi tra i cavalieri, non si trovassero in condizione privilegiata di fronte ai meno ricchi della stessa classe e agli zeugiti, istituì per essi un'altra classe, la sola artificiale e nuova tra le quattro classi del suo ordinamento (i τέλη, come furono dette dal loro carattere fiscale), quella dei pentacosiomedimni (πεντακοσιομέδιμνοι, sottinteso ἱππεῖς), cioè coloro che raccoglievano dai loro beni rustici non meno di 500 medimni (di l. 52) di grano (orzo), o 500 misure (μετρηταί di l. 39) di olio o di vino. Corrispondentemente il censo dei cavalieri fu fissato a 300 medimni o metreti, quello degli zeugiti a 200. Ciò che è degno di nota in questo ordinamento, è il censo relativamente alto che si doveva possedere per essere obbligati al tributo e al servizio militare, onde era alleviato assai il carico dei meno abbienti, ma in compenso era tenuta anche in limiti ristretti la loro effettiva autorità politica. Infatti, calcolando un prodotto medio di 12 hl. per ettaro (più certo in terreno poco fertile come quello dell'Attica e in condizioni agricole primitive non si può presupporre) gli zeugiti dovevano coltivare annualmente a grano almeno ettari 8,7, e poiché il terreno si lasciava di regola un anno in riposo, dovevano possedere almeno ettari 17,4 di terreno coltivabile a grano. Tra le classi superiori, come s'è detto, si distribuivano le magistrature. La maggiore magistratura finanziaria, i tesorieri di Atena, anche assai più tardi non poteva essere rivestita che dai pentacosiomedimni. Ma questo pare fosse il solo loro privilegio che aveva la contropartita nella guarentia che davano con i loro beni della buona amministrazione. L'ufficio dei nove arconti rimase fino al 457 accessibile alle due sole prime classi e non è probabile che S. lo limitasse ai soli pentacosiomedimni. Delle altre magistrature non sappiamo con precisione, ma è probabile che fossero almeno in parte accessibili anche agli zeugiti; e ad essi è da ritenere fosse accessibile anche il consiglio (βουλή) dei Quattrocento, se però S. ha realmente istituito accanto al consiglio dell'Areopago che era l'erede dell'antica gerusia del re un nuovo consiglio popolare come la tradizione afferma e come qualche analogia potrebbe forse confermare; ma l'esistenza di questo nuovo consiglio è messa in dubbio non senza buone ragioni da varî critici. Ai teti rimaneva il diritto, che sembra non avessero mai perduto, di partecipare all'assemblea popolare (ἐλλκεσία), comprese le assemblee elettorali (ἀρχαιρεσίαι), e poiché in mancanza di un ufficio dello stato civile allora ne tenevano le veci le fratrie, giudicando intorno alla legittima ammissione dei giovani nella cittadinanza, per evitare abusive esclusioni S. stabilì per legge che i frateri fossero obbligati a ricevere non soltanto gli omogalatti, cioè i membri delle genti nobili, ma anche gli orgeoni, cioè i non nobili che s'erano costituiti liberamente in associazioni di carattere sacro.
Inoltre tutta la tradizione è concorde nell'attribuire a S. l'origine dell'istituzione più caratteristica d'Atene nell'età classica, i tribunali popolari (la cosiddetta eliea, ἡλιαία). Ma se ciò non si può mettere in dubbio, difficile è determinare la competenza e la composizione di quei tribunali secondo le sue leggi. È probabile che essi fossero in diritto accessibili a tutti i cittadini; ma la mancanza d'una paga eliastica, che non si introdusse se non nel sec. V, ne escludeva di fatto i teti, sicché S. era lontano dal prevedere il carattere democratico che questa istituzione avrebbe preso in progresso di tempo. Per il resto S. accrebbe in larghis. sima misura le competenze giudiziarie dello stato. Prima di lui lo stato in diritto criminale non si occupava se non dei delitti che lo danneggiavaro direttamente o ne mettevano in pericolo l'esistenza (diserzione, tradimento, sedizione, ecc.) ovvero per assicurare la pace interna sostituiva la sua alla vendetta dell'interessato o della sua famiglia, specie nei reati di sangue. S. riconoscendo il dovere dello stato di farsi tutore dell'ordine e della sicurezza dei cittadini permise l'accusa pubblica (γραϕή) contro ogni reato a danno di privati e diede poi anche in campo civile larghissimo sviluppo alla giurisdizione contenziosa (δίκαι κατά τινος). Ai tribunali popolari sotto la presidenza dei tesmoteti dovettero di regola spettare tutti questi nuovi processi civili e criminali. In tutta questa materia processuale, del resto, molto, per ciò che riguarda i testimoni, il valore delle prove, come pure le pene o le norme per il risarcimento dei danni, S. dovette attingere sia agli usi vigenti e non ancora fissati per scritto in Atene, sia a quelli già codificati delle più progredite città ioniche, come Mileto. In diritto criminale egli lasciò intatte le leggi di Dracone sui reati di sangue, essendo questa materia troppo attinente al diritto sacro e troppo consacrata dalla prassi degli areopagiti. In materia civile come in materia criminale il suo codice continuò ad essere la base del diritto attico fino all'età degli oratori e probabilmente importanti innovazioni formali e sostanziali non vi furono introdotte se non sullo scorcio del sec. IV da Demetrio di Falero. In diritto civile la riforma più importante di S. è, secondo le nostre fonti, l'introduzione della facoltà di testare liberamente. Anche qui probabilmente egli non fece se non seguire l'esempio delle legislazioni ioniche; ma la gravità della riforma a prescindere dalla conservatrice Sparta appare da questo, che il codice di Gortina ancora nel sec. V ignorava il testamento. È assai probabile che introducendolo S. intendesse provvedere al caso di chi non ha figli e cioè mirasse soprattutto a istituire l'adozione testamentaria; ma era naturale che la facoltà di testare una volta introdotta si dilatasse assai oltre i limiti preveduti dal legislatore. Per il resto S. si studiò d'assicurare la protezione statale agli orfani e ai pupilli, impose ai padri di curare l'educazione dei figli; ai figli di sostentare i genitori in vecchiaia purché avessero adempiuto il loro dovere sancito dalla legge. Limitò il lusso nei funerali e nelle vesti. Punì la disoccupazione volontaria (νόμος ἀργίας). In sostanza egli avvertì l'ufficio etico dello stato anche se i tentativi da lui fatti perché tale ufficio avesse una qualche attuazione, in mancanza di organi adeguati e soprattutto di organi incaricati di cercare e perseguire d'autorità i colpevoli, dessero incentivo al sorgere della classe odiatissima dei delatori o, come si dissero, sicofanti, che di proprio arbitrio per lucro o per ambizione cercavano e denunziavano le altrui vere o pretese magagne o ricattavano minacciando denunzie i cittadini colpevoli o non colpevoli.
La legislazione di S., nonostante questi ed altri inconvenienti cui col tempo diede luogo, per la maggior parte non preveduti e forse neppure prevedibili dal legislatore, rappresenta un tentativo per assicurare allo stato ordine e pace senza scuoterne le basi tradizionali, accettando tutte quelle innovazioni che la coscienza progredita e la crescente complessità delle relazioni sociali suggeriva. Ma i difetti fondamentali del suo ordinamento costituzionale per effetto dei quali, mentre le sue leggi civili e criminali perduravano, la costituzione da lui data ad Atene fu profondamente modificata dalla tirannide prima, dalla democrazia poi, erano due. In primo luogo lo stato mancava ancora, come fin dalla caduta della monarchia, di un vero potere centrale che ne riunisse in fascio le energie. Questo potere non era costituito né dai magistrati, autonomi nell'esercizio delle loro attribuzioni, non vincolati, come era invece in Roma, in un rigoroso ordine gerarchico; né dall'Areopago che sempre presieduto da uno degli arconti e non il più potente, l'arconte re, non poteva agire che indirettamente e saltuariamente sugli altri magistrati e sull'assemblea, ed era rimasto in sostanza un tribunale preoccupato soprattutto di reprimere i reati di sangue; non dall'assemblea dove la popolazione, non concentrata allora se non in piccola parte in Atene e mancante d'altronde in gran parte d'indipendenza economica e d'educazione politica, non poteva intervenire che a lunghi intervalli; e non finalmente dalla bulè dei Quattrocento, che, se pure esisteva, non riuscì mai ad affermarsi, fosse il modo della nomina, fosse altra ragione. Il secondo inconveniente è che S. metteva il potere effettivo nelle mani dei ricchi e medî proprietari e non teneva conto né della classe che appunto allora veniva formandosi e che la sua stessa legislazione del resto con l'equità delle sue norme favorì, la classe dei trafficanti, degli armatori, degli industriali, né dell'altra composta di artigiani e lavoratori, che si trovava con quella in più strette relazioni sia di consenso sia di contrasto. Ma per rimediare a questi inconvenienti sarebbe occorso un rivolgimento radicale a cui i poteri assegnati a S. dal consenso dei cittadini non bastavano; egli avrebbe cioè dovuto assumere con un colpo di forza pienezza di poteri o, come allora si diceva, autorità di tiranno e probabilmente i mezzi per operare questo colpo di forza non gli mancavano, come non mancò chi glielo suggerisse o lo rimproverasse per non averlo attuato. Ciò che mancò a S. fu la volontà di effettuarlo, ritenendolo egli in contrasto con quelle norme a cui aveva ispirato la sua vita di cittadino e la sua opera di legislatore.
S. scrisse poesie in distici elegiaci, in trimetri giambici e in tetrametri trocaici riuscendo sempre chiaro ed efficace e dimostrando padronanza del verso. Per il metro, per lo stile e per la lingua egli dipende dai poeti ionici seppure qualche volta adopera forme e vocaboli attinti al parlare attico. Da un punto di vista rigorosamente estetico si potrebbe dire che i suoi versi spettano in massima più all'oratoria che alla vera poesia, ma spunti e figurazioni poetiche qua e là non vi mancano; per es., dove con efficace paragone dipinge lo scoppio improvviso dell'ira di Zeus sdegnato per le colpe degli uomini e il ritorno della pace dopo la divina vendetta. A noi le sue poesie sono preziose come documento storico e come documento umano. Vi spira sempre un'aria di sincerità e di convinzione profonda che conquide il lettore. Non solo esse ci dànno un'idea adeguata del groviglio di interessi, di fazioni, di passioni, tra cui S. esercitò la sua onesta e saggia opera di mediatore, ma rispecchiano chiaramente i fini e gl'ideali cui quest'opera fu ispirata; sicché S. si può dire la prima personalità politica greca, anzi la prima personalità politica europea di cui ci sia dato conoscere i lineamenti. Egli è fermamente risoluto a fare opera di giustizia impedendo alle fazioni di soverchiarsi, dando a ciascuno ciò che secondo la sua opinione gli spetta, e sdegnando di trarre per sé dall'opera spesa per il pubblico bene qualsiasi vantaggio di ricchezza o di potere. Nel finale trionfo della giustizia egli ha piena fiducia; anima profondamente religiosa, vede negli dei essenzialmente i tutori della giustizia: l'ingiustizia non ha che vittorie apparenti, la vendetta divina finirà sempre con colpirla. Ma, mente chiara e illuminata, egli non concepisce di regola questa giustizia sotto l'aspetto miracolistico. L'ingiustizia eccita le passioni, crea il disordine e per questa via trae a rovina gl'individui e gli stati. S. ha nettissimo il senso della responsabilità umana. Prendendo lo spunto da un noto luogo del proemio dell'Odissea egli avverte che Atene non perirà per fatto degli dei - tale protettrice essa ha in Pallade - ma potrebbero trarla a rovina con le loro violenze gli uomini. Perciò si sforza di richiamare i cittadini sulla via retta. Alle molte espressioni in questo senso che sono nei suoi frammenti, contrasta qualche spunto più pessimistico, in cui riconosce che anche operando il meglio che si può non si riesce a schivare i malanni, mentre è fortunato qualche volta chi opera meno saggiamente. Spunti isolati i quali attestano soltanto il momentaneo scoramento di chi con sorte varia combatte per la giustizia una dura incessante battaglia. Per il resto, S., a differenza dei suoi predecessori ionici, salvo forse Callino, subordina la sua vita e la sua poesia agl'interessi della polis, ma non sommerge per questo nella vita della polis la personalità propria. Egli è anzi un esempio mirabile di quel contemperamento tra il libero sviluppo dell'individualità e la subordinazione di essa agli interessi collettivi che è caratteristico dell'Atene classica. Sulla formazione spirituale dei suoi concittadini egli riuscì ad avere un'immensa efficacia educativa, anche più che con le sue leggi, con le sue poesie, che rimasero sempre popolari in Atene e che il demo si compiaceva di sentire citate dagli oratori nei dibattiti giudiziarî e politici. Come nella politica, del resto, così S. portò in tutto un mirabile senso di misura e di equilibrio. La profonda serietà delle sue concezioni morali, del suo patriottismo, della sua opera di legislatore non turbò il suo sereno affetto alla vita, la sua disposizione a godere con misura (la misura, s'intende, data dalla morale corrente) dei conviti e degli amori e la sua prontezza a far sempre tesoro delle esperienze nuove che gli si offrivano. Sicché ben a ragione fu annoverato concordemente tra i sette sapienti e simpaticamente celebrato per la sua saggezza dalla leggenda popolare.
Fonti. Oltre ai frammenti delle leggi di S., tramandate dagli oratori, cfr. i frammenti delle sue poesie, raccolti da E. Diehl, Anthologia Lyrica Graeca, Lipsia 1922, p. 17 segg. [trad. it. con introduzione e commento di E. Romagnoli, I poeti lirici, IV, Bologna 1935, p. 99 segg.). Inoltre la Repubblica degli Ateniesi di Aristotele (5-12) e le vite di S. di Plutarco e di Diogene Laerzio. Molto, sia in Aristotele sia in Plutarco, deriva dalla tradizione attidografica cioè in ultima analisi da Clidemo che certo però Plutarco non ha usato direttamente e forse neppure Aristotele.
Bibl.: Degli scritti che trattano in generale di antichità ateniesi e greche, basti qui citare: G. De Sanctis, 'Ατϑίς, Storia della Repubblica ateniese, 2ª ed., Torino 1912, p. 193 segg.; A. Sede, Studien zur älteren athenischen Verfassungsgeschichte, Heidelberg 1914; G. Busolt-N. Swoboda, Griechische Staatskunde, Monaco 1926, p. 828 segg. e passim; B. Niese, Zur Geschichte Solons und seiner Zeit, in Histor. Untersuchungen für A. Schäfen, Berlino 1882; B. Keil, Die solonische Verfassung in Aristoteles Verfassungsgeschichte Athens, ivi 1892; G. Adler, Solon und die Bauernbefreiung von Attika, in Vierteljahrsschrift für Staats- und Volkswirtscahft, IV (1896), p. 107 segg.; Ch. Gilliard, Quelques réformes de Solon, Losanna 1907; C. F. Lehman-Haupt, Solon of Athens, Liverpool 1912; J. M. Linforth, Solon the Athenian, in Class. Philology, VI (1919); K. Ziegler, Solon als Mensch und Dichter, in Neue Jahrb. für das klassische Altertum, XXV (1922), p. 193 segg.; L. Weber, Solon und die Kämpfe von Salamis, in Klio, XX (1926), p. 385 segg.; W. Jaeger, Solons Eunomie, in Sitzungsb. berlin. Akad., 1926, p. 69 segg.; id., Paideia, I, Berlino 1934, pp. 89 segg., 125 segg., 160 segg., 251 segg.; per l'iconografia di S., J. J. Bernoulli, Griechische Ikonographie, I, Monaco 1901, p. 37 segg.